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Prima edizione: Francis Ponge, Nioque de l’avant-printemps, Gallimard, Paris 1983 Benway Series, 4 Progetto grafico e impaginazione: Michele Zaffarano Traduzione: Michele Zaffarano © éditions Gallimard, Paris, 1983 © Michele Zaffarano (per la traduzione) ISBN 978-88-98222-07-0 Stampa digitale: Tipografia La Colornese Sas Edito da: Tielleci editrice via San Rocco, 98 Colorno (PR)
Francis Ponge
nioque de l’avant-printemps
ovvero cognizione dEL PERIODO CHE ANNUNCIA la primavera Introduzione di
Jean-Marie Gleize A cura di
Michele Zaffarano
Benway Series
Indice
Introduzione Per una poesia critica, di Jean-Marie Gleize, p. 9.
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nioque de l’avant-printemps ovvero cognizione del periodo che annuncia la primavera
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Al lettore
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Parte I
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Parte II, Proemio dello stesso giorno
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Parte III
Pioggia fredda d’inverno o del periodo che annuncia la primavera, p. 32 – Inizio della poesia del periodo che annuncia la primavera, p. 34 – Proemio, p. 38.
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Parte IV, Proemio capitale
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Note del curatore
I peri, p. 45 – L’uovo, p. 48 – Confermazione dei «peri», p. 50 – Dichiarazione, condizione e destino dell’artista, p. 54 – Spiegazione a chi importa a me, p. 58 – Cognizione del periodo che annuncia la primavera, p. 59 – Una nota per la «gnoque», p. 59 – Cognizione del periodo che annuncia la primavera, p. 60.
Introduzione
Per una poesia critica «Io sono un suscitatore» Francis Ponge
Come intendere la “lezione” di Francis Ponge? In effetti, è evidente che la sua opera non rappresenta una semplice proposta poetica ma anche, simultaneamente, un intervento decisivo nel campo della scrittura, della teoria delle pratiche di scrittura, una presa di posizione strategica, in rapporto alla quale non è ormai più possibile evitare di indicare una propria collocazione. È in questo senso che si può parlare di “lezione”. Visto che di Partito preso delle cose si tratta (è il titolo dell’opera che lo farà conoscere nel 1942), questa “lezione” la si può, per esempio, intendere come una delle possibili risposte all’aspirazione di Rimbaud verso una «poesia oggettiva». E come uno dei possibili prolungamenti del gesto con cui quest’ultimo cerca nei fatti di sostituire una certa idea di prosa alle diverse modalità di sperimentazione metrica e prosodica. O anche come uno dei modi possibili per riformulare la critica che lo stesso Rimbaud aveva condotto non soltanto nei confronti delle modalità del linguaggio poetico, ma della “poesia” in quanto tale, della “poesia” nella sua specificità e autonomia di genere. Quella di Ponge sarebbe dunque, sotto parecchi punti di vista, un’opera esemplare, un’opera che si fa progressivamente sempre più radicale, un’opera che si
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colloca su una linea critica che dalla poesia prosastica in versi e in prosa arriva fino alla pratica di una scrittura oggettiva, addirittura oggettivista, al di là del principio che regola la distinzione formale tra verso e prosa; fino all’esercizio, dunque, di una scrittura non soltanto post-poetica ma post-generica. A questo modello critico, che implica da parte del lettore una sospensione di tutti i presupposti, addirittura di tutti i pregiudizi sulla cosa «poesia», appartiene il volume oggi offerto al lettore italiano. Accade così che nel 1983 esce, per le edizioni Gallimard, questo librettino verde (è la copertina che è verde, come l’erba dei prati): Nioque de l’avant-printemps. È uno di quei “librettini” che, nella fase conclusiva dell’opera di questo autore, si ricollegano a quanto di discretamente “sovversivo” poteva esserci in un altro esile volumetto pubblicato proprio a inizio carriera: i Douze petits écrits. Un testo breve, ma molto convincente, assai libero e stimolante. Del resto, è stato proprio per questa ragione che nel 1990, in un momento in cui l’ambiente poetico e il contesto francese non erano (più) tantissimo orientati alla trasgressione dei codici ecc., che con il nome di Nioques è stata chiamata una rivista che intendeva perpetuare la vena critica pongiana dei vari quaderni, tentativi e “fabbriche” e di tutti gli altri appunti pubblicati: per rispondere in maniera offensiva a quel contesto deprimente, per mettere l’accento sulla questione della perdita di identità del genere poesia, sulla questione dello spostamento dell’oggetto-poesia al rango di modalità espressiva in mezzo a tante altre, in posizione relativa, allo stesso titolo (come, per esempio, succede in questo libro) del “proemio”, oppure della
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“nota”, oppure della “dichiarazione”, non necessariamente portati a termine (nel libro Nioque c’è una pagina e quattro righe intitolate «Inizio della poesia del periodo che annuncia la primavera»). È evidente che il termine «nioque» va decisamente a sostituire il termine «poesia». Esattamente come di fronte a quell’inibizione che, nella Fabrique du pré (libro pubblicato nel 1971), Francis Ponge sostiene di provare nel «portare a termine» il proprio «saggio sul prato». Al termine «saggio», aggiunge una nota: «Termine scelto con cognizione di causa, contro quello di poesia». Si tratta, se vogliamo, di una mutazione terminologica che ha lo scopo di strappare le scritture di ricerca al quadro generico istituito. Quel librettino verde appartiene all’esercizio e all’esperienza dell’«uscire» da quel campo, da quelle che Ponge, sempre nella Fabrique du pré, chiama «le imposture della poesia». Dato che non esiste alcuna definizione formale della cosa «nioque», neppure in forma minimale, la parola che funge da titolo la si potrebbe a buon diritto scrivere persino al plurale. Si tratta di un vocabolo vuoto, assente dal dizionario, un vocabolo che funziona soltanto a partire dall’esempio di Ponge, a partire da quanto ci suggerisce un libro in cui il o la «nioque» proposto (proposta) si presenta come un dispositivo eterogeneo a entrate multiple. Per coloro che vorranno qui intendere la “lezione” di Ponge, ci sono, ci saranno una pluralità di possibili “nioque”, cantieri aperti di esperienze polimorfe. A proposito di Nioque de l’avant-printemps ovvero Cognizione del periodo che annuncia la primavera, ho appena parlato di un dispositivo eterogeneo. È una delle caratteristiche più sorprendenti di questo libro, il quale comincia proponendo un
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nioque de l’avant-printemps
ovvero cognizione Del periodo che annuncia LA PRIMAVERA
Al lettore
Parte di Nioque de l ’avant-printemps è stata pubblicata con questo stesso titolo sul secondo numero della rivista «L’Éphémère» (aprile 1967, pp. 49-59), e parte sul n. 33 della rivista «Tel quel» (primavera 1968, pp. 3-17), con il titolo L’Avant-printemps. nioque è scrittura fonetica (come se scrivessimo «iniorante») per gnoque, parola che ho forgiato partendo dalla radice greca di «conoscenza» per evitare di riprendere la gnossienne di Satie o la connaissance (de l’Est) di Claudel. La prima pubblicazione di questo testo, peraltro già composto da parecchi anni, ha curiosamente preceduto di pochissimo gli «eventi» del 1967 e del 1968 a Berkeley, Berlino e Parigi, eventi che alcuni considerano come primavere, a imitazione di esempi contemporanei sul genere della «primavera di Praga».
f. p.
I
Les Fleurys, domenica 2 aprile 1950. Casa di campagna, con un pianterreno unico e allungato, rivolta a sud. Protetta da alcuni edifici annessi che formano sulla destra un’ala perpendicolare. È da ovest, vale a dire da destra, che arrivano i pensieri freddi, i rabbrunamenti bluastri, a raffiche, da raso terra fino a molto in alto nell’aria, spesso in rovesci di grandine. Umori selvaggi e impetuosi che, verso le dieci di mattina, sono tenuti alla luce d’un sole come collocato sotto un altissimo faro smerigliato a sinistra, che mette in risalto i festoni delle nuvole e bruscamente poi si scopre, mettendosi allora a ridere sopra le facciate. E piegano la vegetazione, lasciando gocce sull’erba e sui rami. Abbiamo qui uno di quei paesaggi del settentrione d’Occidente, spazzati tutti con l’acqua, sempre sotto lo straccio polare, lo strofinaccio atlantico. … Questi temporali che sono un po’ più freddi che tiepidi. Qui gli alberi crescono benissimo e, al pianterreno delle case, per avere un po’ di fuoco nei camini, bisogna tagliarne e farne
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seccare i ceppi, che allora diventano rosa. Un po’ del calore di queste braci proviene dalla legna che la solerzia dell’uomo accende per cercare di compensare i reumatismi e le infreddature. Là sotto, però, il corpo allungato, nutriente, della terra bruna. * Dobbiamo ridire novembre come aprendo un cassetto (troppo pieno di perle e di vecchie sciarpe), che si rovescia (e che rovescia fuori il suo troppo pieno). Qui marzo è come scuotere un’ultima volta questi stracci, come passare un’ultima volta lo strofinaccio. I ricami però si riformano in fretta – i canovacci si riempiono con grande rapidità. Partendo dal canovaccio vecchio, i ricami che escono da terra, i fili che escono da terra e si annodano e (circolano) (avanzano) (si fanno strada) si srotolano e sfilano, e s’intessono, si lavorano a maglia, formano frange, nappe, fiocchi, filetti. Sempre di troppo (ciliegi in fiore), perché il vento li strappa e li disperde. E ne devono rimanere abbastanza da formare i semi, i chicchi, i piccoli fusi che scendono sotto terra per essere svuotati la primavera successiva. Tutto questo però forma anche delle bacchettine per il nuovo canovaccio. *
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Gli animali sono alcuni di questi nodi staccati, sparsi, vagabondi (uccelli, insetti, roditori mammiferi e altri). Il corpo delle variazioni del carbonio, il nostro corpo, dal nero al bruno, al verde, a tutti i colori fino ai fiori bianchi, questi diamanti. Fiori che imitano anche i cristalli di altre rocce (imitazione di tutti i colori delle pietre preziose), e le tonalità della carne (degli animali), e il sangue. * Nel frattempo, le (dolci) donne trafficano in mezzo all’acqua tiepida, alle minestre e alle stoviglie lavate, in mezzo al bucato; lavano; scaldano la minestra per nutrire i corpi caldi che sono stati loro affidati. Strizzano. Asciugano. E poi c’è la musica delle stoviglie. I timpani delle bacinelle e delle casseruole, i triangoli degli utensili da cucina. * E verso mezzogiorno la grande scodella di faenza blu e bianca del cielo si ritrova tutta lavata, tutta strizzata, tutta pulita e gli sguardi si colorano di blu, si rischiarano. Ci si sorride.
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Mentre la pendola o l’orologio battono la misura del cuore e del tempo (del grave, dello sconfortante fuggire del tempo). * Tutto scorre (e noi invecchiamo), i bambini però salgono i gradini (dell’ingresso) del tempo per venire ridendo in sala da pranzo. La musica dei baci. Il canto degli uccelli. Il ripopolarsi. La musica del bollitore, delle fritture. La musica del fuoco. Il crepitare dei ceppi e delle braci. I soffietti, gli sbuffi di fumo. * Gli specchi e i vetri puliti, strofinati. Ci si sorride.
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