Bestemmia - numero 1 [ottobre novembre 2012]

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BESTEMMIA OTTOBRE-­‐NOVEMBRE 2012 – NUMERO UNO

Rivista Gratuita di Letteratura Disponibile anche online su www.facebook.com/bestemmiaonline

Prefazione Quando decisi di sentire un po’ d’amici per inaugurare un discorso giornalistico-letterario, mi accertai di avere in serbo un’idea fresca, non banale e un nome che potesse rendere merito al tutto. Bestemmia, un nome provocatore, mi balenò in testa istantaneamente, e da subito fui convinto che per questo progetto era forse il più azzeccato. Un po’ perché con la letteratura ha già avuto a che fare, visto che così si sarebbe dovuta chiamare un’opera pasoliniana che poi – per sua volontà – andò a dare il titolo alla sua raccolta di poesie; un po’ perché in quest’epoca di estrema superficialità culturale – e non è una frase fatta, ma una riflessione sulla realtà – la cultura sembra essere proprio una vera e propria ingiuria ai tanti che vivono in quel loro mondo di ignoranza e di pochezza, da cui non vogliono allontanarsi, coi loro programmi tv, coi loro film trasmessi da tutti quei canali che un tempo, invece, vedevano la cultura – quella dell’alta letteratura e dell’arte nobile – primeggiare. Non è un caso se mio padre è solito raccontarmi che quando era un ragazzino – dunque parliamo degli anni ’60 – iniziò a conoscere opere d’alta letteratura grazie agli sceneggiati Rai, tra cui spiccava David Copperfield, di Anton Giulio Majano, fino ad arrivare a I fratelli Karamazov, I miserabili, I promessi sposi, e chi più ne ha più ne metta, di Sandro Bolchi. Non mancava ovviamente l’Odissea, in prima serata, introdotta da un Giuseppe Ungaretti ormai già decrepito. Ma questi sono solo pochi accenni a quel passato culturale italiano che sembra aver lasciato poco – se non nulla – a questo nostro presente, in cui si sente spesso parlare di inutilità della cultura, e in cui sembra che soltanto la tecnologia – che, ahimè, chi dice che non sia utile? – servirà alla nostra vita. Convinto che sia inutile continuare a esporre in questa sede il mio punto di vista riguardo a questo argomento, confido nel lavoro che questo giornale svolgerà, augurandogli seguito e vita lunga. Ma prima di cedere la parola al cuore di questo

progetto, vorrei sottolineare che ciò che io e i miei colleghi ci proponiamo di fare è quello di dare il nostro contributo alla divulgazione della letteratura, che ormai si sente nominare quasi soltanto in ambito scolastico, con tanto di facce storte da parte degli studenti a cui è stata inculcata – il più delle volte – senza la minima passione. La nostra redazione – se così si può chiamare – è composta da ragazzi giovanissimi, che neanche arrivano all’età in cui Cristo è morto, e che sono studenti universitari o semplici appassionati di letteratura; una letteratura che non è quella che sentite con disgusto nel palato quando vi fanno odiare un Leopardi o un Foscolo, perché – così voi siete convinti – colpevoli di un brutto voto. Loro, in realtà, non avevano nulla a che fare con la scuola. Ci son confluiti, nei vostri programmi scolastici, perché ritenuti artisti impareggiabili e pensatori importantissimi per il nostro paese. In realtà Leopardi non era così giù di morale come lo immaginate, e Foscolo – se questo può servire a rendervelo un po’ più simpatico e meno austero – non era un poeta che voleva che i suoi versi si imparassero a memoria, ma era un ragazzo che tra le tante cose che fece in vita lanciò dei sassi alla polizia. Per non parlare di Marino, autore secentesco che venne sparato da un altro poeta per via di una contesa poetica, esattamente come accade tra i rappers americani. Se tutti questi poeti e letterati li vedete come degli anziani noiosi, e non come degli amici che vi possono divertire, stare accanto nei momenti difficili e farvi compagnia per tutta la vita, prendetevela con chi non ve li ha fatti apprezzare. In caso contrario significa che siete stati fortunati, e che avete avuto degli insegnanti o degli amici in gamba. A qualunque di questi due gruppi voi apparteniate, vi garantiamo che questa rivista farà per voi. La sua cadenza sarà per ora bimensile. Ringraziandovi per l’attenzione dataci finora, vi auguro buona lettura. Stefano Curreli

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INDICE

INDICE - Prefazione [Stefano Curreli]

Asterios Polyp …1

Il primo articolo su Bestemmia… Di cosa potrei parlare? Di poesia? Questa sembra tramortita in questa era tecnocratica ed è - Asterios Polyp [Andrea Fenu] …2 restia a sfornare qualcosa di veramente interessante. Di prosa? Il solito romanzo dunque. Ma il romanzo come genere non sta ini- Aneddoti americani [Enrico Mariani] …3 ziando e diventare un po’ stantio? Sarà che il modernismo l’ha - Racconti di quartiere [Gianmarco Cossu] …4 sperimentato brutalmente a suon di Joyce, Woolf e Gadda, sarà che ogni epoca ha il suo genere, sarà che mi sbaglio ma mi pare Racconti Inediti che il romanzo stia lentamente entrando in crisi. O tempora o - Il ritorno del viandante, di Andrea Murru …5 mores! Che sarà dunque del futuro della letteratura? Ai posteri - La gatta, di Stefano Curreli …5 l’ardua sentenza. - Il market del turco, di Dario Torabi …5 Ma io in attesa dei posteri vorrei dire la mia. Un nuovo spettro si aggira per l’Europa, la Graphic Novel (o - L’addio, di Samantha Haller …6 per chi non si vergogna di chiamarlo con il suo nome, il fumet- Verde, di Valentino Cocco …7 to). - Immaginate un operaio, di Riccardo Scano …8 Ovviamente le immagini con testo o il testo con l’illustrazione non sono una novità di questo secolo (San Clemente docet), ma Poesie Inedite le potenzialità e la maturità del fumetto sono emerse soprattutto - Libero ma in galera, di Bon Zo …8 nel ‘900. Tuttavia il pregiudizio verso il genere fumetto rimane - Ultra-Spazio nel culo, di Bon Zo …8 nella maggior parte delle persone che continuano a vederlo come un genere infantile o popolare; certo, alcune opere ormai sono riconosciute quasi unanimemente come capolavori, adatte anche ad un pubblico colto (vedi Blankets, Persepolis, Maus e affini) a patto che però vengano chiamate col nome di “romanzo grafico”, termine che serve a mascherare la loro semplice, ma ancora per molti imbarazzante, essenza di fumetto autoconclusivo. Perciò arriviamo finalmente all’opera che ho scelto: Asterios Polyp, di David Mazzuchelli. Ho voluto parlare di questa graphic novel perché questa avverte particolarmente le problematiche legate al mezzo espressivo usato. Mazzuchelli viene da una lunga carriera legata al fumetto supereroistico e ha affermato di essere stanco di “golem incredibilmente forti e di fulmini saettanti”, tanto che in questa sua ultima opera (edita nel 2009) sembra che voglia dimostrare, ossessivamente, pagina per pagina, la maturità del mezzo che sta adoperando. Questo intento viene realizzato attraverso una continua e pirotecnica sperimentazione nella realizzazione grafica dove l’autore non inventa, ma esplora metodicamente tutte le possibilità che il fumetto offre, ed il tutto sempre in perfetta simbiosi con la narrazione. Anche il volume inteso come oggetto fisico è curato nei dettagli tanto che la narrazione inizia dalla prima di copertina e finisce alla quarta, per non parlare delle scelta legata alla stampa dove le più semplici combinazione dei colori primari sostituiscono il bianco e il nero; il nero non sarà mai presente nel libro, scelta anche questa legata alla volontà di distacco dal fumetto canonico. Il fatto che siano i tre colori primari a prevalere su bianco e nero richiama uno dei grandi nuclei dell’opera: il dualismo e il suo supe ramento. È la storia di un architetto teorico di successo, accademico rinomato con una visione del mondo sostanzialmente fatta di opposti; l’incontro ed il successivo innamoramento con una scultrice sua collega farà lentamente vacillare le sue credenze e la sua concezione manichea del mondo. Asterios Polyp è effettivamente un bildungsroman dove il nostro eroe eponimo dovrà affrontare un percorso di crescita interiore dove saranno presenti tutti i topoi del genere con un occhio di riguardo a quelli di provenienza classica. Il percorso verso la costruzione dell’io diviso a metà di Asterios non sarà pacifica ma complessa e piena di sofferenze e il protagonista nonostante errori e umiliazioni riuscirà a indirizzarsi verso una via di ricongiungimento interiore. La tecnica di narrazione risente di questa centralità del dualismo, infatti i capitoli saranno a turno uno sul passato del protagonista e uno sul suo presente, con degli intermezzi narrativi affidati al doppleganger di Asterios, il suo defunto gemello. Quest’opera insomma è uno dei più interessanti connubi tra maestria nell’illustrazione e capacità di narrazione, in questo volume sono l’una funzionale all’altra e troviamo perciò il contenuto che detta la forma ma anche la forma che crea il contenuto. L’opera perfetta per interrogarsi sulla possibilità di vedere il fumetto come nuovo genere letterario nei nostri anni.

Articoli Letterari

Andrea Fenu


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Aneddoti Americani Ci troviamo davanti ad un vero e proprio "triangolo letterario", qualcosa di simile al triangolo amoroso, nel senso che ognuno dei tre membri ha dato e ricevuto reciprocamente. John Martin ha aperto una strada editoriale a Bukowski, rendendolo famoso e diffondendo le sue opere. Bukowski e Martin hanno contribuito alla riscoperta di John Fante, rendendolo più noto di quanto non fosse prima. John Martin infine, da parte di entrambe, ha ricevuto soddisfazione personale e una maggiore fama per la sua casa editrice, la Black Sparrow Press. Charles Henry “Hank” Bukowski (Adernach, 16 agosto 1920- San Pedro, 9 marzo 1994) , come narra nei suoi romanzi e nei suoi racconti, per lo più autobiografici, fra i

venti e i quarant'anni non faceva altro che saltare da un lavoro all'altro e scrivere, scrivere, scrivere, con una grande dedizione all’alcool, oltre che alla letteratura. Scriveva poesie e racconti, che inviava a case editrici e riviste, le quali spesso glieli rispedivano indietro. Nonostante le negazioni e il giudizio avverso della critica letteraria, Bukowski riuscì pian piano a crearsi un pubblico, che divenne sempre maggiore. Nutriva una sorta di amore-odio per i reading di poesie, nei quali talvolta andava solo a patto che ci fossero alcolici sul palco, da bere mentre leggeva in pubblico. In tali occasioni veniva ammirato per la sua inconscia capacità di intrattenitore. Sul palco si divertiva come un matto e, senza peli sulla lingua, a volte insultava la folla, e dagli insulti spesso passava a ringraziamenti ed encomi (“Perdonatemi, vi ho dato la mia anima e voi a me i vostri soldi”). Dopo i suoi primi esperimenti letterari, risalenti al 1944 (aveva ventiquattro anni), non scrisse per quasi un decennio, nel quale svolse tantissimi lavori e visse alla giornata. Negli anni '50 e '60, continuò a scrivere senza ancora essere riconosciuto appieno. Nel ’62 arrivò la prima svolta, con la pubblicazione delle sue poesie, di cui si occuparono John e “Gipsy Lou” Webb, una coppia di editori amici di Bukowski. In quell’anno vennero pubblicate alcune sue poesie nell’ Outsider, rivista undergruond di un certo spessore. Un anno dopo, la coppia di editori pubblicò per la prima volta una sua raccolta di poesie, intitolata It Catches My Heart in its Hands. Questo fu il primo avvio per la fama mondiale. Dal '67 collaborò con la rivista Open City di Los Angeles, tenendo una rubrica a puntate chiamata Notes of A Dirty Old Man (Taccuino di un vecchio sporcaccione, in seguito pubblicata in un volume unico), ma dopo due anni la rivista chiuse, e i suoi racconti continuarono ad essere pubblicati da altre parti. Siamo alla fine degli anni ’60, Bukowski lavorava all'ufficio postale da quasi undici anni e John Martin aveva puntato gli occhi si di lui. Fondatore della casa editrice

Black Sparrow Press e collezionista di autori e poeti americani, era molto interessato a quelli emergenti. Così un giorno si presentò da Bukowski dicendo che "voleva pubblicare le sue cose". Bukowski gli offrì una birra ma l’ironia della sorte volle che John Martin fosse astemio. Così, seduti attorno ad un tavolino, con carta e penna annotarono tutte le spese mensili che servivano a Bukowski per mantenersi. Stilarono una lista: "3,50$ al mese per le sigarette, 19 per il cibo, 85 per l'affitto, 15 per gli alimenti della figlia". Il totale ammontava a circa 100$. John Martin gli chiese se gli sarebbero bastati per vivere, e avanzò la sua proposta: "io ti do il 25% delle mie entrate (100$) per tutta la vita, sia che i tuoi libri vendano o no, ma tu devi lasciare il lavoro alle poste". Una proposta avventata, lo ammise l'editore stesso, quanto avventata fu l'approvazione dello scrittore. Ma la fiducia reciproca, e la speranza sterminata di entrambi evitò qualsiasi tipo di esitazione. John Martin gli disse che avrebbe pubblicato le sue poesie, ma gli spiegò che i romanzi vendevano di più, e non sarebbe stata una cattiva idea se lui ne scrivesse uno. Bukowski iniziò a lavorare al romanzo il 2 gennaio del 1970. Il 25 gennaio chiamò Martin dicendo: "Vieni a prendertelo". "Che cosa?". "Il romanzo che mi hai commissionato". In quattro settimane Bukowski aveva scritto Post Office, per la Black Sparrow Press, il suo pirmo romanzo, con il quale riscosse un enorme successo. Da quell'esordio, per la stessa casa editrice pubblicò altri romanzi, tra cui Factotum, Donne e Panino al Prosciutto. La collaborazione fra questi due personaggi, ora, ci serve per riallacciarci al terzo. John Fante (Denver, 8 aprile 1909 – Woodland Hills, 8 maggio 1983), autore italoamericano, inizia la carriera di scrittore ben prima di Bukowski. I due hanno molte cose in comune, non per niente Bukowski lo considera un maestro e lo andrà perfino a trovare negli ultimi anni di vita. I tratti principali in comune sono due: entrambi

nell'adolescenza svolgono uno svariato numero di lavori per mantenersi, coltivando intanto il seme della scrittura; entrambi, figli di immigrati, hanno vissuto e sono stati ispirati dalla stessa città, che li lega nello spirito: Los Angeles. Negli anni '30 Fante conobbe uno scrittore e critico letterario di spicco, Henry Louis Mencken, il quale lo spronò e gli pubblicò i primi racconti nella prestigiosa rivista American Mercury. Intanto Fante, per mantenersi, trova lavoro come sceneggiatore cinematografico per l’industria di Hollywood. Gli anni più produttivi di Fante furono dal '38 al '40, in cui pubblica Aspetta primavera,


PAGINA 4 Bandini e Chiedi alla polvere e i racconti di Dago Red (La stra per Los Angeles, primo romanzo scritto, gli venne rifiuda tato), iniziando così la famosa saga di Artuto Bandini, alter-ego dell' autore. Bisognerà aspettare fino al '52 (circa dieci anni di pausa, come Bukowski), perché pubblichi Full of life, seguito dal ciclo di Henry Molise e altri romanzi isolati. E ancora al '77, in cui pubblica La confraternita dell' uva, interamente dedicato alla figura del padre. Quest'opera lo riportò in auge ma, fra gli anni '60-'70, le sue produzioni furono scarse e la notorietà che aveva acquistato andava pian piano scemando. In quel periodo era ormai vecchio e costretto all'ospedale, cieco e mutilo degli arti inferiori, a causa di una grave conseguenza del diabete. A questo punto entra in gioco Bukowski. Un giorno, a cavallo fra gli anni ’30 e ’40, in una biblioteca, gli capitò fra le mani Chiedi alla polvere di John Fante e ne fu totalmente rapito, non solo perché si rispecchiò in lui, ma per il suo stile letterario scarno e scorrevole: "Aprii una pagina aspettandomi il solito, e invece le parole, sì, le parole, mi saltarono addosso, proprio così.[...] Le parole erano semplici, concise, e si riferivano a qualcosa che stava succedendo proprio allora![...] Ogni pagina aveva forza". Così, dopo averlo letto per tanto tempo, chiamò il suo amico editore John Martin. Quest'ultimo non conosceva Fante (chiese persino a Bukowski se fosse un nome inventato), ma dopo aver letto alcuni suoi romanzi ne fu colpito anche lui. Bukowski, dopo aver inserito un omaggio allo scrittore nel suo romanzo Donne (uscito nel '78), scrisse la prefazione di Chiedi alla polvere (pubblicato dalla Black Sparrow Press nel 1980), che portò alla fama internazionale tutta l'opera di Fante. Durante il corso degli anni '80 infatti, verranno pubblicate molte opere di Fante dalla casa editrice Black Sparrow Press, facendo in tal modo riscoprire al pubblico e alla critica l'opera dell'autore italoamericano, restituendogli un ruolo fondamentale che non poteva passare inosservato. Qualche anno prima della sua morte, Bukowksi incontrò l'autore all'ospedale, ormai mutilato dalla malattia. E non trovo modo migliore per descrivere l'incontro, se non quello di citare Bukowski in Azzeccare i cavalli vincenti- Incontro il maestro, lasciando inalterati gli pseudonimi che lo scrittore ha utilizzato nel racconto. Hank Chinaski è Charles Bukowski e John Bante è ovviamente John Fante, nella sala ospedaliera sono presenti anche la moglie di John, Mary e il figlio Harry con la moglie Nana: "Berrò un bicchiere con te, Chinaski," disse John. "Sono onorato..." Sollevammo i bicchieri. "Ti piace il sapore, Chinaski?" "E' proprio buono, Bante." "Harry e Nana stanno leggendo i tuoi libri. Li hai catturati." "Mi ha insegnato tutto il maestro, un certo John Bante." "Ce l'avresti fatta comunque." "Ho preso in prestito un po' del tuo stile. Ma, accidenti, come contenuti siamo diversi, John. Tu scrivi come scrive un'anima buona, io dentro sono più bastardo." "Hai ragione. Prendi ancora un po’ di vino. Mary, assicurati che Hank beva un altro po’ di vino." Enrico Mariani

Racconti di quartiere Da sempre la scrittura rappresenta una necessità primaria dell'uomo, un'immancabile esigenza di accompagnare la nostra vita alla cultura e conservare le nostre passioni nella memoria. Tuttavia accade spesso che il piacere della scrittura e della conseguente rilettura dei nostri pensieri e delle nostre emozioni venga abbandonato e trascurato a causa di una "incompatibilità" con la nostra vita quotidiana e le sue faccende. Sono i giovani , ormai di frequente, a tralasciare la lettura di un buon libro, i commenti di un testo poetico, ad abbandonare la penna nell'astuccio o nel cassetto e ad accantonare lo studio della nostra letteratura italiana con grande superficialità, con la complicità di un'impostazione sbagliata da parte della nostra Scuola che ci presenta i tanti autori nostrani in maniera apatica e piatta. La nostra rivista "Bestemmia" nasce da questo mondo di "letteratura incenerita" e "lettura - scrittura abbandonata", con ovvie conseguenze. La volontà di tutti noi è promuovere la lettura intelligente dei libri e una presentazione meno "noiosa" della nostra letteratura, soprattutto attraverso la voce degli scrittori esordienti, sempre più numerosi e audaci. Tanto per andare ai fatti, è il caso di parlare di Carmen Salis, giornalista cagliaritana, "castellana DOC", dallo spirito poliedrico e capace di coniugare la famiglia e la "penna". I suoi Racconti di Carmè , pubblicati dalla casa editrice La Riflessione - Davide Zedda, sono uno squisito spaccato della vecchia vita, semplice e pulita, di Castello, noto quartiere storico del capoluogo sardo, in cui trovano spazio gli amori, le ipocrisie, i beni materiali e temi toccanti come il decadimento fisico e la morte; il tutto è raccontato in dodici episodi di diversa lunghezza ed intensità ma tutti latori di messaggi concreti, con un sofisticato "effetto a sorpresa". Scelte soggettive, dite? Si direbbe proprio di no. Carmen Salis non è certo una scrittrice alle prime armi e pur essendo esordiente vanta diverse pubblicazioni intelligenti e vivaci, come Ti regalo il mio cuore, Ex - Eros, Cose da condominio e diversi riconoscimenti. Una scelta, amici lettori, del tutto motivata. I racconti di Carmen Salis, con le loro macchiette,

con il gusto per la satira e per il passato, offrono a tutti i "casteddai" la possibilità di rivivere le emozioni del tempo che fu. E dunque, Carmen ci dimostra come la lettura e la scrittura siano in grado di custodire i nostri ricordi e, soprattutto, farceli rivivere. Nessuna ulteriore spiegazione vale più della lettura del libro e noi vi "esortiamo" a farlo, naturalmente invitandovi a seguirci sempre e scoprire come la letteratura possa diventare una passione infinita. Gianmarco Cossu


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Il ri t o r n o d el vi a n d a n t e – An dr ea M urr u L’ultima ora fu vento di tempesta a flagellare il bosco. I campi di grano d’attorno, sospinti da impercettibili flussi, concepivano, in insensati disegni, strane onde. Silenti e monocromatiche, nella loro aurea colorazione, incapaci di generare alcun tipo di schiume o fiotti ma egualmente vive e terrificanti nel loro contorcersi ad ogni soffio furioso. Mr Owen, chiazza nera a perdersi nell’infinito verde – oro di quell’oceano di campagna, pensò che sì, ce la poteva ancora fare. Sollevò il capo a guardare il cielo gonfio e grigio d’autunno inoltrato, annusò l’aria fredda, la sentì penetrare come folata di vento dalla bocca alla gola, quasi graffiante nel suo spingersi a gonfiargli il petto di gelido ossigeno. Fu un istante. L’occhio lucido si volse a lottare con vento e polvere per contemplare, una volta ancora, l’ultima, la strada percorsa e quella, ancora poca, da percorrere. Si strinse il bavero della giacca, occhi al suolo e passo dopo passo si lasciò ingoiare dal bosco a risalire la china dell’ultimo maroso, dopodiché sarebbe stato discesa e pianura, terra nota e già calcata e agognata per anni. Sarebbe stato semplicemente casa. La gatta – Stefano Curreli [Altri racconti su: issuu.com/stefanocurreli] Fu in un’insolita notte ormai quasi giunta al termine che la incontrai, al margine di un’anonima strada senza nome, quella fulgida pervasione d’altri mondi. Premevo sull’acceleratore della mia auto scassata, per la suddetta via, tra i fumi dell’alcol acquisiti durante un’onirica notte atipica, quando la vidi, spaurita, timorosa e nel contempo seducente, quella esile gatta; animale di perdizione. Quasi la misi sotto. Frenai bruscamente. Mi fissava, impaurita, bramosa di quel nonsoché, dimora di fustighi e passioni. La luce dei lampioni era la sola che mi permetteva di fendere il buio e di poterci vedere attraverso. Mi fermai, dopo la brusca frenata, e mi guardò. Quasi fuggì, fece uno scatto – felino – come d’istinto, e senza darmi il tempo neanche di ripartire si fermò a fissarmi, con quegli occhi maliziosi, immobile, eccitante oggetto delle mie passioni. Mi spiazzò, poiché nulla mi era successo di simile prima di allora, e mi accinsi così ad aprir la portiera della mia macchina, così, con un gesto che fu quasi un’automazione. I fumi dell’alcol continuavano a inebriare le mie mosse, rendendoli di una lentezza dolce e macchinosa. Non si fece di certo pregare per salire a bordo, ed entrò, timida e sensuale, accomodandosi al mio fianco, nel sedile passeggeri. Come se fossimo già vecchi conoscenti chiusi la portiera e diedi benzina al motore, partendo e acquisendo velocità. Percorremmo quella via, e poi un’altra, e un’altra ancora, perdendo il conto del numero delle viuzze ormai andate. Mi girai verso lei, e con uno sguardo mi fece capire che era il caso di trovarci un posticino intimo. Percorsi una strada di campagna, fuori dagli sguardi indiscreti della gente – non che a quell’ora ci fossero molte probabilità di incontrarne – e mi fermai in un piazzale. Spensi il motore e rimasi immobile, quasi intimidito dalla situazione. Passati una manciata di secondi, mi sentii strusciare sul braccio il suo docile corpicino. Allungai la mano verso lei e iniziai a sentirla: il suo calore, la sua intimità. Mi si mise sopra, leggera e sinuosa, nei movimenti quanto negli sguardi; fuoco di passioni. Sto per possedere una gatta, pensai, e a primo impatto mi allarmai, ma poi le sue fusa provocanti subito mi tranquillizzarono. Le sfiorai l’addome, e scesi nella sua intimità, mostrandole quanto di più eccitante potessi offrirle. Il suo ansimare misto al miagolio facevano crescere in me passione e peccato, e quando il suo fervido palmo iniziò a sollecitare le mie voglie, ci svestimmo di riserbo, accingendoci ad unirci in un tutt’uno. Io non so ben dire come quelle magnificenze carnali si intrecciarono quel dì tra noi, ma il ricordo offuscato e delizioso che ancora custodisco in quelle stanze focose della mia memoria, tuttora non smette di ossessionarmi, e se mai dovessi rincontrarla, in anonime vie di periferia, quella gatta meretrice, son sicuro che altre nuove e gravide passioni intercorrerebbero tra noi. O Infimo felino, mio peccato, anima mia. Il market del turco – Dario Torabi C. si era appena svegliato e, come di consueto, si era attaccato alla finestra che dava su Mathilden Strasse. Erano già le 2, e la via era piena di gente; un uomo sulla quarantina si affrettava a tornare a casa per la pausa pranzo, non sapendo che sua moglie Ana dalla Russia si stava rifacendo il trucco dopo essersi divertita con un suo connazionale boxeur professionista; una donna portava del pollo arrosto alla madre ricoverata alla clinica privata; dei ragazzini correvano verso le rispettive case affamati. Ma C. non era al corrente di tutte queste storie, guardava semplicemente le vite degli altri, osservava, per affrettare il decorso del sonno violento di un ubriaco. Non lavorava da due mesi ormai, e passava le sue giornate sbevacchiando e accettando la migliore offerta che il dì gli proponeva. Aspettava. Aspettava. Aspettava che qualcosa succedesse. E intanto be-


PAGINA 6 veva. Prese dal frigo una mezza Tuborg, la aprì e le diede un sorsetto. Subito dopo si accese una Marlboro con un cerino di quelli che regalano in certi club. Accese la tv. Spense la tv. Meglio un po’ di musica, ma a volume basso, pensò. Si buttò sul divano bianco in mutande e canotta a costine e stette a poltrite, senza mai chiudere gli occhi, per qualche ora. Quando suonò il telefono erano le 17 di un caldo e afoso venerdì di luglio. C. rispose dopo quattro squilli muovendosi lento, con la calma che lo contraddistingueva. Era Toni. Toni era un ispanico ( C. Non aveva mai capito da dove venisse di preciso) che viveva alla giornata di piccoli furti, lavoretti sporchi e vendita di droga a ragazzini delle superiori. Aveva chiamato C. per avvisarlo che avrebbe comprato qualcosa da bere e si sarebbe recato a casa sua. Ok, disse lui, alles klaar! Dopo tre sveglie da 15 minuti Toni era in Mathilden Strasse. L l l l l l l l Stavano lì seduti intorno al tavolo a parlare di avventure con donne, risse e pornodive che accompagnavano momenti intimi; il tutto intermezzato da brevi slanci filosofici su chiesa fede e clericarate simili. C'è da dire che Toni era un piccolo delinquente, C. Solo un grande alcolizzato. "Spazzoliamo il turco sotto casa tua" disse Toni ormai più che alticcio "sempre belle idee del cazzo ti vengono" rispose C. Ubriaco. La discussione andò avanti su questi toni circa mezz'ora, finché anche C. si fece convinto che fosse una buona idea." Massì dai, alla fine sono due anni che compro un sacco di merda da lui e mai uno sconto, fanculo, è l'ora di avere qualcosa indietro!" Decisero che col ricavato sarebbero andati a farsi una scopata in un bordello. Decisero inoltre fosse una buona idea andare a comprare un po’ di vodka dal turco in questione, così da poter dare un’occhiata sulla situazione. Sarebbe stato spiacevole trovarsi in mezzo a una decina di musulmani incazzati. Inoltre decisero di effettuare il colpo intorno alle 22, l' orario di chiusura. Fino a quell'ora avrebbero bevuto per caricarsi. Intorno alle 20 scesero le scale di casa urlando e facendo versi simili alle scimmie e si recarono al piccolo market del turco. La situazione era ottimale: erano presenti solo lui e la mogliettina, indaffarati a parlottare nella loro lingua. I due figli del disagio presero 2 bottiglie della vodka più economica, 4,95 cent. Quando si avvicinarono alla cassa l'uomo era rimasto solo. Toni si fece avanti con aria da leader e pagò. Alle 21 e 45 erano ubriachi come scommettitori russi: era ora di agire. L l l l l l Toni era solito girare con un coltello a scatto con il manico in madre perla: un vero gioiellino. A C. Questo non piaceva, poiché Toni era pazzo, e quando beveva lo maneggiava come se fosse un pirata che incoraggiava la sua ciurma a saccheggiare il mercantile inglese di turno. D d d d d d d d Scesero in strada, stavolta in silenzio, con un briciolo di tensione negli occhi. Erano dentro. Il turco era solo e il market vuoto. Ottimo. Avevano sul viso dei passamontagna verdoni stile militare e, nonostante fosse già buio, degli occhiali scuri per coprire gli occhi. Toni entrò nel locale come un pazzo, lasciando C. un po’ spiazzato. "Avanti turco di merda tira fuori la cassa! Muoviti figlio di puttana!" aveva gli occhi infuocati ed ogni parola che pronunciava era come un innaffiatoio di saliva. Diede uno schiaffo al pover uomo, che ancora non aveva detto una parola. Allo scoccare del sonante manrovescio la vittima disse:" cazzo non ho niente la cassa è vuota lo giuro su Dio! Mia moglie ritira tutto ogni sera prima di prendere i bambini da casa dei nonni! Non ho niente, davvero!" Gli occhi di Toni erano carboni ardenti, le vene della fronte sembravano lì lì per scoppiare e teneva i pugni chiusi come una pressa; C. osservava zitto, dando rapide e nervose occhiate verso la porta del market. Era spaventato dal fare di Toni che iniziò ad urlare" Madre de dios dammi i fottuti soldi uomo di merda!" Il turco non faceva altro che piagnucolare ripetendo di non avere nulla. Ad un tratto Toni si zittì. Per circa dieci secondi i tre protagonisti di questa faccenda ambigua e pulp si scambiarono sguardi silenziosi e sembrava che nessuno sapesse cosa fare. A smorzare il silenzio fu, com’era scontato, Toni che con un grido innaturale tirò fuori il coltello pugnalando il gestore del market sul lato del collo, dal quale uscì uno sprizzo di sangue simile agli effetti speciali usati da Tom Savini nei film di zombie. Dopo qualche secondo l' uomo era riverso a terra, immobile in una pozza di sangue. Toni agguantò la scatola in metallo grigia, che aveva la funzione di cassa "fiscale" e corse verso l' uscita. C. era immobile. Nella sua testa mille immagini si accavallavano tra loro "L’hai ammazzato, fottuto psicopatico!" " Muovi il tuo culo flaccido frocio di merda o vuoi rimanere a controllare se respira?!" scapparono come pazzi a piedi fino a casa di Toni, a circa 20 minuti di distanza. Durante quella corsa silenziosa C. attraversava un percorso di pentimento interiore intriso di "lo sapevo" e "non avrei dovuto ascoltarlo", il tutto reso terribilmente confuso dall' alcol. Arrivati da Toni aprirono la cassa. Toni tirò fuori da essa un biglietto da 10 stropicciato. Silenzio. Toni prese una bottiglia di scotch da uno scaffale e versò da bere "bè mi sa che oggi ti tocca succhiarmi il cazzo! Ahahah" C. era zitto e serio. Diede un lungo sorso. " Toni... Quanto hai pagato la vodka?"

L’addio – Samantha Haller Simone si svegliò di soprassalto al rumore incessante della sveglia sul suo comodino. Aprì di scatto gli occhi e sussultando si mise a sedere sul letto. Quella sveglia non smetteva di suonare, e quella mattina avrebbe giurato che quel rumore fosse più fastidioso del solito, un martello pneumatico che non smetteva di trapanargli il cervello. Con un colpo secco la spense, si guardò attorno un po’ intontito, la stanza era delicatamente illuminata dalla luce filtrata dalle tende rosse, i soliti vestiti lasciati a terra dalla notte prima, i soliti occhiali sul comodino e il solito disordine, la solita e bellissima Gloria che ancora gli dormiva accanto, rannicchiata su di un fianco e coperta sino al mento. Ma quella sensazione di familiarità rasserenante cessò alla vista della valigia azzurra, che sembrava fargli la guardia ai piedi di quell’enorme letto, facendolo ritornare alla realtà in un istante, nello stesso modo brusco nel quale si era svegliato. Quell’odioso suono destò anche Gloria, che delicatamente aprì gli occhi per godersi quei pochi istanti di serena felicità che precedono la presa di coscienza dopo il sonno, prima di ricordarsi che quel mattino la sua vita sarebbe irrimediabilmente cambiata per sempre. Una sensazione di soffocamento la pervase e la costrinse ad alzarsi frettolosamente dal letto.


PAGINA 7 - Amore, tutto bene? Dove stai andando? - Sì, sì, sto bene, devo andare in bagno, amore. Buongiorno. Si diresse verso l’ingresso, dove su un mobile aveva lasciato la borsa che aveva usato per uscire la sera prima con Simone, vi infilò la mano dentro, cercando in modo convulso il pacchetto di sigarette e l’accendino. Subito ne accese una e fece una lunga tirata, convinta che quel maledetto bastoncino l’avrebbe aiutata ad alleviare il dolore che sentiva al pensiero di ciò che sarebbe successo quella mattina. Simone intanto si era alzato e la raggiunse nel salotto, che con l’ingresso e la cucina costituivano uno spazio unico. Due grandi divani in pelle nera posti ad angolo retto delimitavano un piccolo spazio, alla destra del quale si trovava un camino rialzato da terra da pochi centimetri di muratura, mentre al centro stava un grande schermo piatto, che tante sere di quell’autunno stranamente gelido li aveva intrattenuti con quella calda luce bianca, mentre, abbracciati sul sofà, si godevano il tepore del fuoco. Gloria era seduta sul divano più piccolo, con le spalle e la schiena buttati in avanti pesantemente, mentre con una mano si teneva la testa e con l’altra la sigaretta. Il giovane si sedette a fianco a lei, le mise un braccio intorno al collo e la strinse a sé, facendo fatica a trattenere le lacrime. I due si legarono fortemente in un abbraccio che né il tempo né la distanza avrebbero sciolto mai. - Dobbiamo essere lì tra mezz’ora, dobbiamo prepararci - Fece lui. - Va bene. Andiamo. Senza nemmeno fare colazione, i due si vestirono ed uscirono di casa. Simone caricò la valigia nel bagagliaio, salì sulla macchina e partirono. Tra i due vigeva uno strano silenzio, il silenzio dell’imbarazzo, quello in cui non si sa cosa diavolo dire, per timidezza inutile. Quello di quando le parole stanno per uscire dalla bocca, per istinto, per liberazione, e vengono fermate dal raziocinio, per evitare di passare per stupidi, o di rovinare qualcosa in modo irreparabile. Fiori che, senz’aria, appassiscono dentro l’anima, puzzando. “ Ti prego non te ne andare, ti prego rimani con me, ti prego!” continuava a pensare lei, lo voleva urlare, voleva piangere e implorarlo di restare, ma non poteva. Troppo sarebbe stato l’egoismo per poter ancora definire il sentimento che provava “amore”. Entrambi avrebbero voluto che quel viaggio non avesse avuto destinazione, che fosse durato per sempre, ma non fu così. Arrivarono prima di quanto volessero. Un enorme pullman color verde militare stava parcheggiato dall’altra parte della strada, una presenza oscura e imponente che metteva i brividi li stava aspettando. Simone prese la valigia, fece per attraversare la strada, quando si accorse di non essere seguito: Gloria era in piedi, ferma dietro di lui, come paralizzata, con gli occhi lucidi puntati verso quel mostro che stava per portagli via una delle poche cose della sua vita che gli recavano gioia. - Amore… amore! - Scusami, arrivo… Il portellone del portabagagli del pullman era spalancato, un gruppo di ragazzi in tuta si accalcavano l’uno sull’altro per riuscire a mettere la propria valigia là dentro, mentre delle coppie dall’altra parte si salutavano con baci appassionati e lacrime. Era una gelida mattina di Dicembre quella, gelida come il dolore nel cuore di chi, come lei, sarebbe rimasto ad aspettare un ritorno, e, nonostante la neve la facesse tornare bambina, nemmeno i fiocchi che scendevano delicatamente stavolta sarebbero stati d’aiuto. Simone andò a sistemare la propria valigia nel portabagagli, poi ritornò da Gloria, che a fatica riusciva a trattenersi dal piangere e l’abbracciò. - Ti amo. Tornerò presto. A Natale tesoro mio. - Ti aspetterò. Ti amo anche io. - Ci sentiremo per messaggi, ti chiamerò, te lo prometto Lei sorrise. Si diedero un bacio e lui salì assieme ai suoi futuri commilitoni per prendere posto sul pullman. Dal finestrino riusciva a vedere il viso della ragazza segnato dalle lacrime, le labbra erano serrate, ma i suoi occhi lo imploravano a gran voce di restare. L’autista mise in moto il mezzo e partì, mentre Gloria si faceva sempre più piccola, fino a sparire in lontananza.

Verde – Valentino Cocco Se è vero che inconsciamente attribuiamo al colore verde il simbolo della speranza, chi progettò l’ospedale non doveva essere un grandissimo esperto in comunicazione. L l l l l l l l l La speranza dev’essere ultima a morire, non a illuderti. Che senso aveva colorare tutta la stanza di verde? Lenzuola, tavolo, sedie e perfino il cestino della pattumiera. Dottore, notai gli occhi del vecchio mentre stringeva la mano alla moglie, mentre le accarezzava i capelli, mentre le domandava senza ricevere risposta, perché non mangi? Perché, amore, ti rifiuti di capire che prima guarirai e prima potrai tornare a casa con me? Non lo vedi che mi fa male vederti cosi? Ci credeva davvero il povero vecchio. Era seriamente convinto di ritornare a casa insieme alla moglie e di potersi prendere cura di lei. Perché nascondere al vecchio che sarebbe tornato a casa da solo, invece? Dottore, la prego, guardi fuori: piove! Ma lei crede davvero che il cielo stia piangendo per lui? Non cerchi di illudere anche me. Il tempo non si è mai curato dei sentimenti. La povera donna su quel letto sta per andarsene. E la cosa peggiore è che quel povero vecchio... il povero vecchio si ritroverà solo in questa stanza dipinta di verde. Qualcuno con un camice verde butterà nel cestino un succo di frutta appena iniziato in un cestino verde. Qualcun altro cercherà di sollevare il povero anziano che, a peso morto, abbraccerà per l’ultima volta la sua amata avvolta da un lenzuolo verde. Qualcun altro ancora, dottore, dovrà aprire le ante verdi di quell’armadietto e fare spazio a nuove speranze o nuove illusioni. Ogni giorno in questo ospedale, dottore, muoiono delle persone. E mentre certi di loro se ne vanno portando con sé delle risposte, altri ritornano a casa propria, straziati da delle domande. Chi si prenderà cura di quest’ultimi, dottore?


PAGINA 8 Immaginate un operaio – Riccardo Scano [www.kissaqani.com] Immaginate un operaio sardo, uno di quei tanti dipendenti Alcoa che oggi rischiano il posto di lavoro. Anzi no, immaginate una persona normale che – solidarizzando con gli operai – decide di manifestare accanto a loro. Lo chiameremo, uhm, Mario Bianchi. Immaginate però che questa persona non sia sola, ma siano almeno in trecento mila come lui. Nessuno di loro rischia di perdere il posto di lavoro, ma decidono di mettersi elmetto e bandiera con i quattro mori sul viso e, così mascherati, di protestare davanti al Ministero dello Sviluppo Economico, a Roma. Protestano per chi perde i posti di lavoro a causa della delocalizzazione delle multinazionali, protestano contro il deturpamento del territorio, contro i diritti che gli vengono tolti. Giusto? Immaginate per un attimo che negli scontri di oggi – mentre un gruppo di operai isolati tirano sassi contro, che so, la sede romana dell’Alcoa – la polizia carica con manganelli e fumogeni il resto degli operai che, pacificamente, battono per terra e suonano qualche trombetta. Esattamente come è successo, o no? Adesso, immaginate che Mario Bianchi – la persona normale di prima, quella accanto agli operai – nel vedere tutti questi abusi decida di rispondere alla loro violenza tirando, ad esempio, un bidone della spazzatura pieno addosso ad un poliziotto. In quanti di voi avrebbero il coraggio di condannarlo? La violenza è sempre da condannare, vero? Anche quando è diretta verso quei poliziotti sottopagati per difendere a suon di botte il palazzo del potere, la classe politica tanto odiata. O no? Ho paura che, in quella occasione, il moralista italiano medio di turno – invece – griderebbe “ben fatto”. Immaginate, ancor peggio, se un poliziotto – magari uno dei pochi che ha cercato fino a quel momento di mantenere la mente lucida, senza abusare del fatto di star dietro lo scudo, anche se voi non lo sapete – messo alle strette decida di impugnare la pistola e sparare un colpo contro, che so, Mario Bianchi. Uccidendolo. Immaginate, giustamente, lo sdegno dell’opinione pubblica. Mario Bianchi, quello che senza motivo alcuno aveva deciso di protestare accanto agli operai sardi contro la globalizzazione economica messa in atto dalle imprese multinazionali e che, a causa di questa, la nostra terra stupenda resta senza lavoro e con i rifiuti da ripulire. Tutto in nome del profitto, il nuovo Dio. Mario Bianchi è morto. Ora, immaginate di non essere a Roma, di non essere nel 2012. Immaginate di essere a, che so, Genova. Nel 2001. Immaginate che Mario Bianchi non si chiami Mario Bianchi. Immaginate per un attimo si chiami Carlo Giuliani.

! Libero ma in galera E sconto la mia pena ho solo chiesto una penna non mi è bastato l'occhiolino al magistrato non passa il tempo ma di questo me ne fotto. La mia razione razziata da una razza diversa in terrazza ovviamente spalle al muro e non m'inchino dietro a nessuno. Certo Pietro che l'hai fatta grossa ora che nel tuo glorioso tempio dove prima si chiedevano monetine ora si offrono mentine e dove prima si mangiava in modo sacro ora ci si fruga il vestiario dei peccatori che meritano il perdono mentre voi meritate l'ergastolo. Tutto sommato vi assolvo ma controvoglia. Amen!

Ultra-Spazio dal culo Rim Bal Zo Bon voyage anche se appena arrivati non si ospita nessuno nessun vitto e nessun alloggio Spazio libero nel metro quadro atmosferico nella mia libido atomizzato da un pescivendolo vista la mancanza di neuroni nell'intero covo. Solo un buco, un buco di culo solo un nero, che mi rifila un accendino. No ai fazzoletti ad un velo e sì alla futura congiura cinese. O yeah.

Bon Zo


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