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MARZO-APRILE 2014 – NUMERO TRE
RIVISTA GRATUITA DI LETTERATURA Disponibile anche online su www.facebook.com/bestemmiaonline
Prefazione - di Stefano Curreli [www.facebook.com/StefanoCurreliOfficial] Bentrovati dopo parecchi mesi. Le prefazioni – si sa – sono sempre noiose, dunque cercherò di rubare poco tempo della vostra vita. Voglio soltanto informarvi che il prossimo numero uscirà intorno a maggio-giugno, e, per chi ci leggesse per la prima volta, ci teniamo a ricordare che la nostra è una rivista totalmente indipendente, ideata e realizzata da me e da alcuni amici, e che il nome Bestemmia, sebbene provocatorio, non rimanda ad alcuna ingiuria a nessuna divinità, ma è una citazione pasoliniana che i più ferrati capiranno sicuramente senza troppe spiegazioni. Spenderei inoltre due parole su una novità che partirà dal prossimo numero, ovvero l’entrata in scena di un tema ben definito ad ogni numero. Convinti che questa nuova decisione potrebbe conferire al nostro prodotto un’aura ancora più interessante, vi lascio subito al primo articolo. Buona lettura. E, se volete vedere i vostri racconti pubblicati, potete mandarli all’email che trovate in fondo a questa pagina. Tante belle cose. Occhi aperti su Federigo Tozzi Fra gli scrittori italiani del primo novecento aleggia la figura del senese Federigo Tozzi (1883-1920). La mia curiosità nei confronti di Tozzi è nata dopo aver letto di lui nella rivista Pulp Libri (che ha chiuso lo scorso luglio 2013). Renzo Paris, autore dell'articolo dedicato allo scrittore senese*, sostiene che Tozzi abbia avuto un ruolo rilevante nella letteratura italiana del primo novecento. Eppure nei manuali scolastici, fra i romanzieri, spuntano solo i nomi di Pirandello e Svevo. Paris lamenta il fatto che Tozzi non riceva ancora la giusta considerazione, e che i giovani lettori di oggi non lo apprezzerebbero in quanto appartenente alla letteratura dialettale. Credo invece che le ragioni della poca considerazione siano d'altra natura. Il romanzo più conosciuto di Tozzi è Con gli occhi chiusi (1919). La prosa di questo romanzo presenta caratteristiche singolari che lo tennero ai margini nel periodo in cui uscì, ma che per un lettore odierno lo rendono più apprezzabile rispetto ad altri suoi contemporanei. Il romanzo conta poco più di centocinquanta pagine ed è composto di capitoli brevi: la sintassi è asciutta, i periodi sono brevi e poco articolati. Oltre alla brevità, colpisce la vividezza delle immagini, sia che si tratti di descrizioni pastorali, sia (soprattutto) delle descrizioni dell'interiorità. I “toscanismi” in questo romanzo sono sporadici e comprensibili (sono inoltre esplicati nelle note a pie' di pagina), e non rappresentano un reale ostacolo: è evidente dalle prime pagine che questi non hanno una funzione mimetica. L'infanzia e la giovinezza di Tozzi sono segnate dal rapporto conflittuale col padre (la madre morì quando aveva dodici anni), da una carriera scolastica turbolenta e da un amore infelice. Emerge presto la sua personalità controversa, dallo spirito inquieto e solitario. Tozzi è mosso inizialmente da un'inclinazione verso la militanza socialista, che viene presto abbandonata per la religione e il misticismo, campi che più si prestavano all'introspezione psicologica, oggetto basilare della sua opera. Le sue fonti sulla psicologia sono prefreudiane, tant'è vero che la sua concezione dell’inconscio e la sua resa nei romanzi si differenziano nettamente da Svevo. Scrisse prosa lirica, novelle, romanzi, drammi teatrali e si dedicò alla critica letteraria. La storia di Con gli occhi chiusi, autobiografica, ha il suo fulcro nel legame fra Pietro, figlio di un possidente e padrone di un'osteria, e la
di Enrico Mariani
@89Enrico
contadina Ghìsola. Pietro è un bambino ingenuo e tremendamente sensibile: carattere che presto si scontrerà con quello dispotico del padre, che lo vorrebbe scaltro e dedito al lavoro, in modo da potergli affidare l'attività in futuro. Pietro invece cresce come un inetto, e vorrebbe dedicarsi ad attività intellettuali. Trova però difficoltà nell'integrarsi fra i suoi coetanei, e in generale in ogni ambiente in cui cerca di inserirsi, che sia a Siena o a Firenze, dove si reca per gli studi. «Si trovava sempre a disagio: ed era come una cosa che non riusciva a spiegarsi. Non si affidava agli amici, e ne sentiva la mancanza. […] Tra i compagni, si sentiva un giovane che aveva già troppo vissuto più di loro. Ecco perché, con simpatia e volentieri, li chiamava ragazzi. Il loro modo di comportarsi verso gli insegnanti gli dava un senso di compatimento. Ma non riesciva a ridere di quel che li divertiva; e, molte volte, se ne mostrava seccato e li rimproverava. Stava bene sul letto, con gli occhi chiusi.»**
La sua asocialità e l'irrequietezza interiore sfoceranno in comportamenti ossessivi, che gli faranno perdere di vista i sentimenti e le azioni di Ghìsola, che, invece, fa presto i conti con la realtà. Un romanzo crudo e a tratti violento, che mette a nudo un personaggio sopraffatto dalla realtà che gli viene difficile accettare. Lo stesso Tozzi visse periodi che sfiorarono la nevrosi patologica. A circa venticinque anni Tozzi patì una malattia agli occhi che lo costrinse a stare chiuso per mesi in una stanza buia. Anche dopo la guarigione preferì rimanere isolato per un lungo periodo, studiando a suo piacimento e non incontrando quasi nes-
suno. Tornando alla polemica accennata da Renzo Paris, non credo che l'ostacolo alla lettura diffusa di Tozzi siano la lingua o lo stile, quanto piuttosto il poco rilievo datogli nei luoghi in cui dovrebbe essere considerato (ricerche accademiche, programmi scolastici, iniziative culturali ecc.). Ma in una società che vive di input effimeri e immediati, e dà molto peso alla risonanza mediatica, la causa è forse anche attribuibile al fatto che Tozzi non venga nominato (o twittato) da nessuno scrittore popolare, e non venga citato in nessun film, serie o programma televisivo. *Renzo Paris, Pulp Libri, edizioni Apache, numero 97, maggio/giugno 2012, Pavia, pp.72-75 ** Federigo Tozzi, Con gli occhi chiusi, Garzanti, Milano 2008, p. 95
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Dai il meglio facendo il peggio I pi ù corrotti - di Andrea Fenu Con il presente articolo non intendo assolutamente inserirmi nello spinoso dibattito in cui si discute per decidere se i testi delle canzoni, in particolare quelli della musica rap, abbiano o no un valore letterario. Tuttavia ascoltando e poi leggendo alcune produzioni testuali penso sia lecito poter fare alcune considerazioni di tipo letterario anche se queste non entreranno mai a far parte del canone della letteratura classica. D’altronde non sarebbe nemmeno così sorprendente se guardiamo ad un passato con così tanti autori bistrattati nella loro epoca e rivalutati solo tanti anni dopo la loro morte. Negli Stati Uniti è stato più volte richiesto che le poesie scritte del defunto rapper 2Pac venissero studiate nei college, e recentemente una docente della middle school in Florida è stata sospesa per avere assegnato come compito quello di individuare le figure retoriche all’interno del testo del brano musicale 6 foot 7 foot del rapper Lil Wayne. Trovo che quando ci si approcci a produzioni testuali di questo tipo, mi riferisco soprattutto al caso 2Pac, ci si trovi sempre all’interno di un discorso elevato con ambizioni dichiaratamente poetiche. Ritengo invece interessante andare a confrontarsi con autori meno mitigati da velleità poetiche che affrontino un percorso artistico in maniera quasi inconsapevole, con risultati sicuramente meno poetici, ma non per questo meno degni di riflessione. La letteratura occidentale, soprattutto dall’800 in poi, ha prodotto tanti romanzi in cui i protagonisti appartengono ad umili classi, e, gli sforzi narrativi per poter rendere realistici il parlato della loro condizione, sono stati enormi. Tanto hanno tribolato Manzoni, Verga e Pasolini per poter riuscire a rendere credibile il parlato dei loro personaggi più umili, al fine di poter scrivere i capolavori oggi tanto studiati e ammirati. Ma, per quanto si siano sforzati di dar rilievo alla lingua viva di personaggi e situazioni – mi riferisco in particolar modo al Verga dei Malavoglia –, non è stato possibile annullare completamente la loro presenza di autori colti e dotati di grandi sensibilità. Quello che mi interessa dire, dunque, è questo: se ‘Ntoni Malavoglia oppure Riccetto di Ragazzi di vita avessero la possibilità di esprimersi in versi sulla loro condizione, non mitigata da una presenza superiore e inevitabilmente estranea al loro microcosmo degradato, cosa direbbero? A me è parso di trovare una risposta a questa domanda ascoltando e poi leggendo i testi de I più corrotti, album dei rappers Gel e Metal Carter, pubblicato dalla Vibra Records nel 2006. I due rapper all’epoca orbitavano all’interno della crew romana Truceklan, collettivo artistico che si distingue per un corpus musicale variegato, ricco di contaminazioni punk e metal, e spesso dominato da un immaginario gore, ricco di numerosi ammiccamenti al cinema italiano horror anni Settanta. Nella produzione del collettivo sono presenti tanti risultati di qualità indubbia. Segnalo per chi fosse interessato: Guilty di Noyz Narcos; In the Panchine: disco omonimo del gruppo formato da Chicoria, Gemello, Benassa e Cole; Jagermasterz: di Mystic One con Benetti Dc. Ma nell’ambito del gruppo I più corrotti, pur risultando forse per certi aspetti inferiore ai lavori citati, spicca per il profondo senso di disagio che lo permea, per la spinta nichilista autodistruttiva, e per il linguaggio e lo stile con cui è composto, che risulta spesso molto grezzo, e a volte anche goffo e stentato, ma proprio per questo interessante e funzionale alla situazione narrata. In fondo ‘Ntoni e Ricetto non possono competere nel campo della narrazione con Verga e Pasolini, ma tuttavia un loro tentativo di espressione artistica risulta estremamente interessante e ricco di spunti di riflessione. I più corrotti non è Ragazzi di vita, e giustamente non tenta neppure di esserlo, ma è una produzione tanto vera quanto drammatica, nella sua ruvidità e nella sua imperfezione, tanto che spesso le sbavature di questo disco sono quasi un valore aggiunto che rende il tutto più vivido. Gel e Metal Carter vengono da vite estremamente problematiche, che nei loro testi narrano senza remore, ma con grande dolore; ed è proprio il dolore declinato nelle sue varietà, il nucleo centrale del disco: dolore di chi affronta una vita in condizioni pessime ed è conscio di essere un emarginato. E i segni, le ferite, il degrado che marcano i loro lineamenti sono mostrati con ironico cinismo, quasi che l’intento sia quello di sbattere in faccia agli ascoltatori la misera sorte che tocca a chi viene travolto dalla «fiumana del progresso». Quello di Gel e Metal Carter è un racconto dal punto di vista dei perdenti che scelgono di mortificarsi e autodistruggersi consapevolmente ma paradossalmente senza alcuno scopo; numerosi e costanti i riferimenti a droghe e alcol, ma, diversamente da come spesso avviene, non vengono elogiate come sostanze capaci di ampliare doti creative, ma come semplici strumenti di autodistruzione, quasi come un torto fatto all’esistenza: «senza senso bevo e ribevo/ io credevo nella vita, ti giuro, io ci credevo». Un racconto al margine raccontato da chi ne fa parte, con tutte la crudità, l’imperfezione e la durezza, che esso comporta, sia in termini di tematica che di stile.
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Ritorno al presente. Sguardo al mondo nuovo di Huxley- di Mersault Se la tua famiglia ti battezzasse quasi affettuosamente col nome di Aldous e con questo ereditassi anche quell’Huxley che ha dato i natali al secondo fautore della teoria evoluzionista, subito dopo il suo teorico Darwin, ma anche a un cofondatore del WWF e primo direttore dell’UNESCO, e infine ad un vincitore del premio Nobel per la medicina nel 1963, allora di fronte a te avresti due strade, entrambe a marce ridotte: quella di brindare tutte le notti in compagnia della sola vodka ai fasti irraggiungibili dei tuoi antenati illustri, o quella di tentare di ripercorrere miseramente le loro orme, ottenendo spianati e mediocri risultati. Oppure potresti superare tutti come nemmeno loro, menti eccelse, avrebbero mai potuto immaginare. Quella di Aldous Huxley non è una storia, una biografia, che possa esaurirsi in un compendio e forse nemmeno in un tomo. Questo perché del celebre intellettuale, controverso, anticonformista, saggista di incontestabile autorevolezza, sperimentatore dichiarato di droghe psicotrope, si può sapere tutto e tutto è stato saputo. Ma dell’Huxley veggente, quello che con il side-project, si direbbe oggi, narrativo, ha timbrato una delle pagine più discusse e discutibili, non soltanto del genere letterario, ma dell’intero sistema di pensiero dicotomico utopia-distopia, si dirà e si parlerà ancora per molto, moltissimo tempo. Questo perché nel suo più famoso lavoro Brave New World, datato 1931, sinteticamente e impropriamente tradotto nell’italiano Mondo nuovo, emergono i tratti di una finzione più vivida che immaginaria, più presente che futura eppure futuribile come nessuna utopia, e forse nemmeno distopia, ha saputo essere. Passando da chi del concetto di status sociale, economico e politico ideale, immaginifico e ordinato, ha fatto l’istituzione, dalla Repubblica di Platone, al Thomas More umanista e coniatore ufficiale del termine utopia, si giunge come fosse nato un bisogno tardivo alla sua più interessante antitesi “distopia”, partorita dalla mente del filosofo John Stuart Mill soltanto nel 1868. Gli addetti ai lavori sanno deviare bene i problemi etimologici e la scorciatoia più rapida l’ha tracciata George Orwell nel 1948, manco a dirlo anagrammando di poco la data: 1984. Questo è il nome universale della distopia, ed è anche il tunnel dove udire prepotentemente l’eco di insospettata eleganza della voce di Huxley. Brave new world è la vera distopia, l’incubo per eccellenza, ed è così ben patinato, così rassicurante, ordinato, plausibile, praticamente a portata di mano, da non reggere il marasma infernale del posteriore ma più fortunato 1984. E l’autore lo sapeva, quando ritornò al Mondo nuovo nell’edizione del 1958, completandolo con quella lucida analisi comparativa, guarda caso, con il capolavoro di Orwell. Ebbene, cos’ha di così speciale un mondo nel quale guerre, disordini, disastri, fame, lavoro, politica, malattie e sentimenti sono diventati spettri rarefatti e ricordi vaghi ed innocui del passato? Dove le persone vengono condizionate geneticamente alla nascita, rigorosamente in vitro, per mantenere una solida e rassicurante gerarchia sociale, in cui gli ultimi sono felici del suolo in cui strisciano ed i primi si fregiano di non soffrire di vertigini, senza il minimo rimorso di coscienza? Dove per nascondere psicosi e depressioni striscianti e manifeste si ricorre ad una droga senza effetti collaterali apparenti, il Soma, che agisce come una droga e si comporta da medicina? Ecco cosa: non ricorda forse l’ideale progressista, evolutivo, conservatore e falsamente umanitario che aleggia, come quel famoso spettro di altre sembianze, nell’Europa e nel mondo unipolare? Non suggerisce la gioia di acquistare il prodotto più commercializzato e martellante, convinti della sua reale necessità? Non sussurra rassicurante che non esistono guerre nel mondo, a quanto pare, e che al di sotto dell’Equatore tutto dorme tranquillo? E anche questo, lasciate che sia Aldous Huxley a sussurrarlo, o scriverlo su un pezzo di carta, perché troppo moribondo per parlare, come fece la sua ultima mattina, quando lo passò all’amata e degna compagna, Laura Archera, che eseguì in barba a tutti gli scongiuri medici «LSD - provalo - intramuscolare, 100 mmg».
Manlio Massole : Quando la letteratura incontra il sociale -
di Maurizio Liscia
La poesia per gli scrittori è quasi sempre un’esigenza. Le emozioni personali vengono narrate in pochi versi, catapultandoci all’interno di un dato autore, fra le sue intime confessioni e affetti riservati. È innegabile che, seguendo questa prassi, la poesia tenda a diventare sfera individuale di ciascun lettore che si ricerca singolarmente all’interno dei versi poetici. Ma può la poesia essere sociale, tesa non più all’individualità ma alla socialità? Noi di Bestemmia ne abbiamo parlato con il poeta Manlio Massole, Classe 1930, Originario di Buggerru ma residente ad Iglesias, quindici anni come professore di lettere e successivamente altri venti da minatore; all’attivo due raccolte di poesie (Risacca; Bethger), un romanzo (Stefanino nacque ricco) e un riconoscimento di grande prestigio quale il “Premio Italia Diritti Umani”, conferitogli nel 2007 a Roma dalla fondazione europea “Freelance International Press”. Manlio inizia ad appassionarsi di letteratura (specialmente di poesia) in terza media, quando la sua docente di lettere commenta in classe la poesia di Carducci “Jauffrè Rudel”. I versi legati al senso della vita (“la vita è il sogno di un’ombra fuggente”) colpiscono a fondo Massole, che da una sua personale visione di Poesia: “Essa è la forza della sintesi, il mondo racchiuso in pochi versi ordinati” ci spiega. Così, dal giorno, non ha più smesso di leggere poesie e inizia qualche anno più tardi a scriverne delle sue, diventando intanto professore di Lettere presso la scuola media di Buggerru, finché le nuove leggi sull’idoneità di insegnamento gli impediscono di continuare a lavorare come professore ed egli è costretto ad abbandonare le cattedre, per trovare occupazione forzata in miniera. Oltre al citato Carducci, possiamo annoverare fra i suoi maggiori ispiratori anche Montale, Quasimodo e Ungaretti. Proprio con quest’ultimo possiamo trovare un’analogia singolare: i due autori in questione, seppur lontani nelle tematiche e nello stile, si potrebbero ac-
PAGINA 4 comunare dalla presenza, all’interno delle loro composizioni, di una condizione vissuta dai due poeti all’interno di un contesto di sopravvivenza; mentre Ungaretti ci racconta la pericolosa e precaria vita del soldato, allo stesso modo Massole ci presenta una miniera sfruttante, frustrante e misantropa. La poesia di Massole è una poesia che strazia, denigra, affronta il paragone fra religione e civiltà: le figure sacre, specie quella di Cristo, vengono a identificarsi con i minatori, senza essere mai profanate, anzi, assumendo un martirio più ampio, nel quale trasuda sofferenza e sfruttamento. Ho preso la croce della mia gente in croce. Ora anch’io ho lo sguardo del mulo imbrigliato. Possiamo suddividere il lavoro di Manlio Massole in due filoni principali: come preferisce definirli lui, i “prima-miniera”, sono caratterizzati da una forte lirica personale; il tema del mare, del paese, della propria terra che si intrecciano a descrivere le emozioni personali
del poeta, il quale, in questa prima fase, non rimarca differenze notevoli con altri autori sardi. È con il “dopo-miniera” che il poeta prende strade differenti rispetto ai poeti tradizionali, inaugurando una sensazionale svolta nella sua carriera letteraria: da poeta individuale egli diviene, a seguito della sua dura esperienza in miniera, un poeta collettivo; la miniera diventa “luogo di cura” da cui guarire dalla lirica, e la terapia risulta essere per l’autore la “poesia sociale”. Essa si differenzia da tutte le altre forme di poesie in quanto, ad una prima descrizione delle sofferenze e dei dolori, segue un invito alla rivoluzione individuale. Non è più un crogiolarsi su se stessi, ma un’angoscia condivisa da tutti che apre al cambiamento, il quale avviene attraverso la ribellione. MINATORI Abbiamo cuori aperti ad ogni croce. Sui nostri corpi venduti, sulle anime nostre ribelli ad uno ad uno hanno piantato tutti i dolori del mondo.
Taumante: il titano che tentò di salvare l'uomo - di Andrea Atzei Spesso, durante gli anni passati dapprima al liceo, poi all’università, e durante il tempo che tutt’ora scorre, come molte altre persone mi sono domandato sul perché della filosofia. Perché è nata la filosofia? Cos’è la filosofia? Perché noi oggi studiamo filosofia? Se avessi avuto delle risposte di un certo tipo, che tenterò di esporre in questo breve articolo, probabilmente, tutta quella sfilza di 2 non avrebbe ostacolato il mio percorso da liceale. Ci troviamo davanti allo studio delle idee di Platone, dell’essere di Aristotele, fino ai giudizi di Kant e la quadruplice radice del principio di ragion sufficiente di Schopenhauer, senza capire bene il perché, senza capire realmente di cosa si sta parlando e anche un po’ spaventati da quel nuovo strano mostro che si esprime in modo astruso e criptico. Quante volte abbiamo pensato «Ma questo qui non poteva mettersi a fare altro?» Un aspetto che molti tralasciano, ma che a parer mio è fondamentale, è il concetto di thaumazein. Thaumazein è il verbo che deriva dalla parola thauma, dal greco “meraviglia”. Presso i Greci, l’atto del filosofare è nato proprio dalla meraviglia, dal meravigliarsi delle cose del mondo. È difficile capire questo concetto, oggi che abbiamo a portata di mano una spiegazione di quasi tutte le cose. Eppure, se pensiamo ad un tramonto, ad una bella musica o ad un bel racconto, e questi suscitano in noi un sentimento di meraviglia, ci viene spontaneo porci delle domande: «Chissà perché oggi il sole era così rosso», «Chissà perché il musicista ha usato quelle note, chissà come gli sono venute in mente, chissà perché quelle e non altre». Anche davanti a racconti, poesie e libri può capitare di meravigliarci. Insomma, la meraviglia spinge l’uomo al sapere, alla ricerca dei come e soprattutto dei perché. Allo stesso tempo però, thauma, oltre che “meraviglia”, significa anche “terrore”, “paura”. Ma terrore di cosa? Terrore del dolore, della morte, dell’infelicità.
La parola “filosofia” non è semplicemente “amore per il sapere”. La parola “sophia” deriva da “saphes” che significa “ciò che è chiaro”. E sempre da questa parola deriva “phaos” ovvero “luce”. La filosofia è quindi il prendersi cura di ciò che è chiaro, di ciò che si manifesta; è in sostanza la ricerca della verità. «Pantes antropoi tou eidenai oregontai phusei», ovvero «tutti gli uomini tendono per natura al sapere» è la prima frase che troviamo nel primo libro della Metafisica di Aristotele. L’uomo non può rinunciare alla sua voglia di sapere. Questa meraviglia, che ci porta immancabilmente a porci delle domande, è da collegare sempre e necessariamente al tempo e allo spazio. Se non capiamo perché mai un individuo, che evidentemente non aveva nient’altro di meglio da fare, una mattina si alza e inizia a inventare termini mai sentiti, e ad elaborare teorie astratte, ricordiamoci sempre che ogni domanda è strettamente legata al contesto storico ed immancabilmente ai predecessori di questo individuo. Le cause ci sono sempre! Eppure, se da un lato la filosofia appare fine a se stessa, e di conseguenza per alcuni inutile, come di una disciplina che vive semplicemente di domande senza effettivamente ricercare qualcosa, in realtà ha degli obbiettivi ben precisi. Essa non ci fornisce la soluzione pronta, su un piatto d’argento, ma ci pone davanti ad una grande quantità di strade. D’altronde, non sono proprio le scelte che ci fanno crescere e che ci rendono liberi? Come quando sentiamo l’irrefrenabile bisogno di assumere dolci in grandi quantità, essendo consapevoli del dolore che probabilmente provocheranno alla nostra povera pancia, ma imperterriti ci godiamo quel momento e non lo rimpiangiamo, così è la filosofia, come la letteratura, la poesia. Esse, pur ponendoci davanti a dubbi e problemi, ci spronano sempre verso un fine, mai compiuto, sempre rivedibile. Ci tengono sempre all’erta, mai dormienti, ma soddisfatti, col sorriso sulle labbra e nell’anima.
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L’Attimo - di Andrea Murru
Candela sul tavolo semi-consumata. Spenta. Stoppino nero, bruciato, avvoltolato su se stesso. Finestra aperta, tende rosa a semicerchio sui lati a falciare il paesaggio. Letto sfatto, valigia aperta sul letto sfatto. Maglia di lana, camicia da notte bianca di cotone ruvido, maglione bordeaux, maglione verde, beige, giallo. Gonna blu, verde, marrone, pied de poule, bianca,nera. Valigia chiusa, mano chiusa anch’essa sul manico della valigia, seconda mano sulla maniglia della porta scura. Porta che si apre, ombra lunga a uscire dalla stanza. Un corpo esile di donna si volta lentamente a un mezzo passo dalla porta ora chiusa. La mano, esile anch’essa – armoniosamente esile e candida e fredda nel primo mattino d’inverno – lascia andare la maniglia, Piano, quasi a voler imprimere in quelle dita gracili e affusolate il gelido ruvido di quel rame ossidato e verdognolo. È un attimo, ma lento e immenso come tutta una vita. Smarrito l’appoggio sicuro e solido di una maniglia scappano, quelle dita, e dall’incerto vuoto di un salto si tuffano a ritrovare nel calore momentaneo di una tasca una vecchia chiave rugginosa che a loro si dona e con loro s’innalza a trafiggere il traballante legno di quella porta. Gira, la chiave. Una, due, tre volte come se sempre fosse stata là in attesa di quell’istante, nel caldo buio di una tasca da sempre per adagiarsi un giorno, quel giorno, su una mano candida e fredda e gracile e in essa e con essa volteggiare, leggera. Una, due, tre volte in un mattino d’inverno a completare, in un gesto ultimo e preciso per quanto pur semplice, se si vuole, l’esatto moto dell’abbandono. Candela sul tavolo, semi-consumata, spenta. Stoppino nero, bruciato, avvoltolato su se stesso. Letto sfatto, lame di luce a trafiggere le fenditure del legno putrido delle finestre ora chiuse a estinguere il paesaggio. Dentro la casa il vuoto silenzio dell’abbandono, all’esterno una donna. Immobile nel suo cappotto marrone a un passo dalla porta verde, attende. Immobile nell’immutabile certezza della risoluzione, attende. Il vento gelido, franando dai monti circostanti effonde gli odori dalla terra ancora umida dopo il notturno acquazzone. La donna alza gli occhi, piano. Le montagne d’attorno avvolgono la valle in un cerchio imperfetto che pare inabissarla. Respira a fatica, la donna, il freddo pungente brucia ad ogni immissione d’aria gola e polmoni. Il petto scarno, celato dal pesante cappotto, si dilata quasi impercettibilmente per poi ridimensionarsi nel ritmico affannare di ogni sospiro. È un attimo, ma lento e immenso come tutta una vita. Il capo si volta, gli occhi abbracciano il brandello di cielo e monti antistanti alla casa, le mani ancora stringono chiave e valigia, il cuore pare per un momento arrestarsi per poi riprendere il suo battere, più rapido, più rapido ancora a spingere il sangue addensato dal freddo per ogni fibra di quell’esile corpo. Rapido, scorre. Per mani e braccia e spalle e zigomi e fronte e gambe rapido, scorre. Per cosce e polpacci e piedi e dita che piano, quasi sospinti da quell’inatteso vigore di scarlatta linfa, ora, si muovono. Gracili e deboli e traballanti, inconcepibilmente, si muovono a Sfidare il vento che a rapide successioni flagella la valle. Stivaletti in pelle nera consunta, fango sulla suola e sul tacco basso, in lontananza una veduta a sfumare. Piange, Francine, ed ogni lacrima è un passo e un altro e un altro ancora a trascinarla via, lontano, sempre più distante da quell’uomo, quell’amore, quella casa, quella vita. La sua vita. Piange Francine e corre, ora. Lontano da ogni parvenza di casa, lontano, verso tutti gli altrove presumibili corre, Francine, senza mai voltarsi. Non respirare - di Donato Cherchi
Questa volta ci riesco, pensa Anne immergendosi completamente nell’acqua della sua vasca da bagno. Basta imporsi di non respirare, e il resto vien da sé. Così inizia a trattenere il respiro, gli occhi chiusi. Li apre, e il mondo ondula sopra di lei, come fosse immerso nell’acqua, e non il contrario. Quel lampadario non le è mai piaciuto, e il soffitto ha delle macchie di muffa enormi, un camo bianco e verdastro. Non le è mai piaciuto il lavandino, con quella sbeccatura su cui è facile tagliarsi, pure lavandosi i denti. Non le son mai piaciute le tende, che non ha mai cambiato, le finestre con gli infissi troppo vecchi, in legno consumato, tinti di un bianco ingiallito e scorticato. Non le è mai piaciuto nulla, di quella casa. I muri della cucina, con quel giallo canarino che non sa di nulla, insieme al piano cottura con il fornello che accende di fortuna, quando si può permettere una bombola del gas. Il tavolo con una gamba più corta delle altre, il frigo che si guasta ogni mese, i rubinetti che perdono, le tubature vecchie che buttano acqua marrone ogni volta che gira il vento sbagliato. Per non parlare della camera da letto, con la rete del materasso che cigola e non ti fa dormire silenziosamente. Nulla, di quella casa, le è mai piaciuto. E suo padre avrebbe pure scommesso su di lei, che prima di crepare d’infarto sul cesso, diceva che la sua figliola avrebbe avuto dalla vita tutto quel che si meritava. Una famiglia, un uomo, una vita lunga e prosperosa. Non come la madre, morta due settimane dopo la sua nascita, per un’infezione presa durante il parto. Famiglia: mai avuta. L’uomo che ha avuto non ha fatto altro che rovinarle la vita. E se avere un uomo significa dormire con le ossa rotte, e comprare chili di fondotinta per nascondere i lividi, allora hai sbagliato di grosso, padre. Il mondo continua ad ondulare, ma è più sfocato e scuro di prima. Come se la lampadina a risparmio energetico stia tramontando. Il cuore batte forte, quando smetti di respirare. E nel silenzio, immersa nell’acqua, Anne sente il cuore scoppiarle nelle orecchie. Coraggio, si dice, non respirare. Il problema è che ad un certo punto, il panico si impossessa di lei, e allora tira su la testa e viene accecata dalla luce del lampadario. E non è manco colpa del lampadario rosso anni sessanta, no. Ha provato di giorno, di notte, al buio, con le candele, con una molletta nel naso, ma niente. Il panico ti salva la vita molte volte: la paura di morire. Ma è proprio la paura di morire che non deve avere. Il cervello chiede ossigeno, il corpo si irrigidisce e quasi si dimena contro la sua volontà. Cerca di rimanere tranquilla, ma ormai sa come andrà a finire. Come le altre centinaia di volte che ci ha provato, ormai da due anni. Ogni volta pensa di farcela, si immerge con la più totale determinazione, ma puntualmente tira su la testa. Ed è in una serie di movimenti convulsi che la tira su senza manco accorgersene. Un attimo ed era sotto, pronta a scappare via, un attimo dopo è ancora viva. Fradicia, nuda ed agitata. Si stringe le braccia al seno e sente il cuore tamburellare incazzato contro il suo petto. Tremando, si accende una sigaretta, che si spegne ogni dieci secondi, fradicia. Poggia la testa sul bordo, e chiude gli occhi. Sente la televisione in lontananza, che da sotto l’acqua non riusciva a sentire. Al telegiornale parlano di Nicole Kidman che ha rotto col suo ultimo compagno, mostrandola in passerella sul red carpet degli Oscar. Affogassero tutti quanti insieme, e riuscissi a farlo io, maledizione, pensa buttando fuori il fumo. Non respirare, si dice ogni volta, non respirare. Ma ogni volta tira su la testa.
PAGINA 6 Passaggi - di Maurizio Liscia [Altri racconti dello stesso autore su www.issuu.com/MaurizioLiscia]
Un aereo romba fra i cieli di questa città: oggi tutto sembra così monotono, così spento. Solitamente mi viene da vivere il giovedì pomeriggio, ma non questo pomeriggio: una serie di disgraziati avvenimenti hanno reso queste ore del tutto spente e banali. Nessun cane, nessun passante che mi dia qualche impulso positivo; nessuna capacità di reazione. Questa città oggi mi dà sui nervi, decido di fare le valige e tornarmene in paese. Almeno lì, chiuso fra le quattro mura, potrò dare libero sfogo alla mia rassegnazione. Finalmente esco di casa, quattro passi e sono arrivato in stazione. Salgo sul treno, aspetto cinque minuti e il treno viaggia per i suoi binari. Io vi risiedo all’interno, ove scorgo all’improvviso tutta la bellezza di queste terre rurali, sentendo il nulla annullarsi sotto le volontà visive di questo paesaggio. D’un tratto capisco tutto e m’incupisco, mi sento lontano da quel sole che vedo dall’alto accompagnarmi lungo tutto il tragitto. Un aereo taglia la visuale del finestrino, passando veloce sotto i campi, mentre prendo celermente un taccuino in cui annoto le seguenti considerazioni: Un aereo plana dritto sul palmo della mia mano mentre noi rallentiamo assieme al ritmo costante della vita. Scappano i monti lungo la visuale e un passaggio a livello triste e desolato saluta i passeggeri che attendono il suo inchino. Quello strano vecchio amico - di Stefano Curreli [Altri racconti dello stesso autore su www.issuu.com/StefanoCurreli]
Era solito mordersi gli angoli delle dita, appena contigui alle unghie, e recidere quella microscopica soffice polpa epidermica che chi si mangia le unghie divora abitualmente senza troppi complimenti, come un’automazione: mentre attende il bus, mentre è sotto colloquio o interrogazione – che in questi casi sarebbe un gesto assolutamente da evitare –, mentre guarda la tv e via dicendo, ma mai mentre si sta a tavola e si mangia; no, quello no; quando si sta a tavola non si mangiano le unghie, e nemmeno a letto, nel sonno; automatismo quanto vuoi ma non ci arrivi a farlo mentre dormi. M. era però un caso estremo di questa pratica, nel senso che lo faceva fino a farsi del male, fino a far fuoriuscire del sangue, tant’è che aveva sempre dei cerotti che gli cingevano alcune dita. «Almeno tre-quattro cerotti non gli mancano mai», diceva chi lo conosceva. Aveva degli occhi spiritati, M., affossati e col bianco decisamente troppo invadente, che lasciava poco spazio alla pupilla, la quale risultava essere molto più ridotta di quanto non sia nelle persone normali. Ciò lo rendeva, per l’appunto, una persona non del tutto normale, già a prima vista. Frequentava il secondo anno della facoltà di medicina, e… direi che nessun altro dato è indispensabile ai fini della storia. Fu due giorni prima della vigilia di Natale che M. si ritrovò ad invitare a cena Ludovico Catinari, nell’appartamento in affitto che condivideva da due anni a quella parte con altri tre studenti fuori sede, i quali già avevano abbandonato l’abitazione per passare le vacanze con le rispettive famiglie. Ludovico gli aveva prestato tutte le dispense necessarie per passare l’esame di anatomia, e M. provò – forse per la prima volta nella sua vita – riconoscenza. Un sentimento mai provato, anche perché nessuno gli aveva mai fatto un vero e proprio piacere. Al massimo lo si gabbava allegramente, quel facile zimbello. Succedeva da quando era alle elementari. Lo si prendeva d’occhio, gli si faceva credere che stava nascendo un’amicizia, e poi lo si bersagliava. I genitori (persone molto strane, bigotte e introverse), il primo anno di liceo, querelarono metà classe per bullismo nei confronti del proprio figlio. Alcuni dei suoi ex compagni si ricordano ancora con quale voracità si mangiava le unghie e la parte di pelle contigua, per poi mettersi le mani in tasca, quasi come se le conservasse, e con quali occhi strani e spiritati continuava a guardarli impassibili, mentre la madre lo teneva per un braccio e lo portava via da quella classe che tanto aveva riso di lui. Inutile dire che gli anni della scuola, soprattutto delle medie e dei primi anni di superiori (classi in cui i ragazzi sono più immaturi e dunque anche più vivaci e facili a comportamenti malvagi nei confronti dei più deboli), furono per M. un vero e proprio inferno, che tuttavia lo rinforzarono al punto da renderlo estremamente cinico. La sua intelligenza era fuori discussione, ma il suo modo di comportarsi, il suo aspetto… erano tutti aspetti che ad alcuni, ora che non era più un ragazzetto, lasciavano parecchio diffidenti. Quando quel giorno prese in mano le dispense, a vedere quel sorriso di sincero favore sul viso di Ludovico, a M. venne quasi automatico pronunciare quella frase: «Stasera vieni a cena da me, mi farebbe piacere, sei stato gentile.» Il ragazzo inizialmente cercò di trovare qualche scusa, perché come proposta gli sembrò eccessiva, dal momento in cui si conoscevano poco e nulla, ma M. insistette talmente tanto che rifiutare gli sembrò disdicevole. La cena fu piacevole, non soltanto per il cibo cucinato, ma anche per l’inaspettata gradevole compagnia di M. Ludovico pensò che quella vicenda avrebbe dovuto fargli capire ancora di più la veridicità di quel detto, il quale recita che le apparenze ingannano. M. era un buon amico, era simpatico e – a Ludovico venne in mente con l’acquolina in bocca – condisce gli spaghetti con un ragù che fa accapponare la pelle da quanto è gustoso. Mai assaggiato nulla di più delizioso. La storia sarebbe finita qui, caro lettore, con una specie di e vissero felici, amici e contenti, non fosse che c’è un particolare che devi sapere, il quale riguarda proprio la ricetta del ragù, che ha un retroscena che sì, fa davvero accapponare la pelle, ma dal disgusto. Poco prima di scolare la pasta, mentre il suo nuovo amico faceva zapping alla tv, M. non ebbe nessun dubbio: «voglio usarli per lui», pensò, «se lo merita, è un buon amico.» Dato un fugace sguardo al divano dove Ludovico era seduto, in maniera da accertarsi che non potesse vederlo, aprì il pensile in cui teneva le busta con le pellicine contigue alle unghie, che si conservava, e, individuatone una in particolare si disse: ecco una bella busta, ne userò almeno metà. «Tra le tante cose di cui è affetto, ha anche questa sorta di cannibalismo soft», disse uno dei dottori, quando dieci anni dopo M. andò in cura per una serie di disturbi che ormai non erano più dominabili, «si conserva le pellicine vicine alle unghie, poi le cucina e se le mangia». L’equipe medica scoppiò a ridere di gusto, e, soltanto uno di loro, il dottor Ludovico Catinari, il quale si ricordò di quella cena della sua giovinezza e di quel buonissimo ragù – fine quasi quanto polvere –, rimase impassibile, e, anzi, assunse un’espressione di terrore. E fuggì nell’andito dell’ospedale, dirigendosi verso il bagno, col conato di vomito che gli saliva su per la gola e che aveva aspettato un decennio per fuoriuscire.
PAGINA 7 L’intraprendenza di E. [Moquette] - di Mersault
Il desiderio di frantumare con violenza la propria testa contro qualcosa di più solido della realtà lo attirava come un’astinenza insopportabile. L'idea che tutto sarebbe finito, che tutto sarebbe schizzato fuori come vapore da una caldaia era indicibilmente allettante. Digrignava i denti metodicamente come a darsi piccole scariche di morfina che non facevano altro che allungare il conto alla rovescia ormai perso dei battiti del cuore. Alcuni pezzi di vita in frammenti di mercurio galleggiavano danzando intorno sé, distraendolo mentre agognava soltanto di perdere la memoria per sempre, e non riconoscersi più allo specchio. Dimenticare. E invece era ancora lucidissimo, nessun colpo, nessun cedimento, nessuna reazione. Respirava. Era sano. Le gambe disegnavano un angolo retto tra lui, il letto ed il pavimento, ed alzandole nessuno schiocco. - Perfetto , non impazzisco nemmeno quando serve - . Fissava il soffitto ignoto sdraiato ad angelo in una camera d’albergo che aveva odiato fin dal primo istante per la sua rassicurante dozzinalità. Le macchie di vissuto e di passaggi umani più o meno distratti nella tappezzeria bordeaux, colore che avrebbe volentieri amato se non fosse così banalmente insudiciato, e la carta da parati con trame rigate, non aiutavano a migliorare la situazione. Ancora un’ora e avrebbe avuto un colloquio di lavoro con una ditta di cui non gli poteva importare nulla, in una città nella quale era certo di essersi recato per sbaglio, e per una posizione che lo interessava quanto la disposizione delle forchette a tavola. E che non lo avrebbe assunto. Ma anche questo non poteva importargli. Soprattutto perché era composta da esseri la cui unica specialità era credere nella propria ragione di vita. Che non c’era. La pressione diventava sempre più intensa, e visioni mitologiche di deflagrazioni del proprio corpo cominciavano a tempestare la sua mente in rappresentazioni caleidoscopiche, magnifiche, memorabili. La pace giungeva sottesa e fugace in quei brevi flash, che accarezzava lentamente, come ha visto fare molte volte con i gatti nella speranza di trattenerli il più possibile, sapendo bene che sarebbero scivolati via alla prima occasione utile. Credeva di non essere nemmeno presente. Forse non esisteva, era la concentrazione spirituale di tutti i distacchi, il simulacro del disagio, l'incarnazione dell'annullamento totale dell'esistenza. Carne. Si toccò. Voleva soltanto cedere. E lasciarsi esplodere, senza controllo, autodistruggersi portando con sé tutto l'esistente. Immaginava le sue carni usualmente magre e immacolate espandersi a dismisura, colpire ogni cosa indiscriminatamente, senza scampo, senza preavviso. I brandelli del suo corpo, pezzi di pelle, muscoli e viscere intrise di sangue caldo, fluido, abbondante, avrebbero colpito in pieno volto ogni essere umano sulla terra, e dopo una breve ed inutile resistenza, tutti li avrebbero amati e custoditi gelosamente come simulacri spalmando voluttuosamente quei resti di macelleria sulla propria pelle, raggiungendo con stupore il sesso e l’orgasmo finale. E chi anche fosse riuscito a liberare gli occhi dalle sue appendici macilente avrebbe soltanto avuto il piacere di scorgere con colpevole ritardo l’epicentro della deflagrazione, lui, che dilatandosi arrivava a prenderli e restituirli tutti, anima e brandelli, al mittente che preferivano, con ricevuta di consegna. L'universo si sarebbe liberato del peso di tutti i buchi neri morendo con lui, in un orgiastico istante. Si guardò allo specchio senza cornice alzando lo sguardo laconico. Il suo viso era una sfinge e sembrava rivolgersi a se stesso come ad uno sconosciuto. Una leggera flessione ironica delle labbra aderenti sembrava smentire ogni equivoco. - Non so se vorrei stare semplicemente così, in silenzio, o essere accoltellato e lasciato dissanguare in pace -. Fuori dalla finestra la vita si disponeva a morire come di consueto, beffandosi del fatto che fosse osservata attentamente, da lui. Poco prima di uscire dalla stanza diede uno sguardo senza peso al complesso spoglio e comunque claustrofobico della stanza, semi-insonorizzata per via di quelle dannate moquette, e si diresse verso il tram. L’automatismo con il quale sapeva di doverlo fare lo riempiva di una strana mescolanza di premura e disattenzione, sicché agli occhi di tutti i non consapevoli presenti lui pareva un concentrato di farmaci antirigetto disorientati da un nuovo sconosciuto organo. Inutilmente gentile fu l’accoglienza nel luogo predestinato al colloquio, un complesso di uffici il cui scopo più logico doveva essere quello di esistere, per fare in modo che qualcuno potesse usare la parola “ufficio” e trovarla serenamente in un vocabolario prima di andare a dormire. Insieme ai salamelecchi fecero capolino nel suo campo visivo volti sconosciuti che non avrebbe mai voluto conoscere, e frasi di circostanza che gli procuravano la stessa reazione di curiosità e disgusto generata dalla visione di una ferita in suppurazione, traboccante di vermi frenetici. La procedura era stata stabilita con largo anticipo, via fax, telefono, raccomandazioni, ave Maria, al fine di evitare il solito ripetersi da parte degli aspiranti privi di ispirazione, di domande spurie da ogni qualità dialettica e logica. Come prima delle lunghe e, si prometteva impegnative, prove per essere assunti in questa onorata, pregevole, premiata, intraprendente, serenissima, lodata ditta, ognuno avrebbe dovuto presentarsi brevemente, in un minuto, alzandosi in piedi di fronte a tutti. Forse il tributo di una dirigenza in preda ad un esaurimento nervoso in cura con scarsi risultati a qualche istituto psichiatrico benefattore. Descriversi. In un minuto. Forse due. Descriversi. Riusciva a trattenere a stento una risata che sarebbe parsa sospetta, mentre pensava al paradosso di auto-descriversi per piacere, e unendo in un funambolico ultimo gesto eroico, autopiacersi. Attese di essere chiamato osservando con naturale concentrazione gli interstizi tra gli armadi e i muri, dove luce e uomini non potevano passare. Soltanto ragni. Lì dentro era nascosta certamente qualche verità, e loro ne erano i degni custodi. Sentì declamare il proprio nome in un misto di raccapriccio e torpore, dal quale si destò come se non fosse altro che il muscolo della zampa mozzata di un rospo, stimolata elettricamente, e nell’attenzione generale, evidenziata da sussurri certamente relativi al proprio aspetto fisico o alla curiosità di ciò che mai avrebbe potuto dire di diverso dagli altri, in una simile occasione, lasciò uscire la propria voce, che come al solito non sapeva riconoscere. - Alla fine i fiori, stanchi, si solleveranno trasportati dal vento e come in un rito liberatorio si abbatteranno vendicativi sulle api distratte, stuprandole in un solo definitivo momento - . Silenzio, luce, ombra, ragni, porta, uscita. Amava ognuna di queste cose in modo differente e particolare. Natura - di Andrea Atzei
La natura ci rivela verità che l’uomo raramente riesce a cogliere. Parla costantemente nell’eterno silenzio dei suoi spazi, e senza mezzi termini, svela ogni segreto, ogni soluzione. Ma l’uomo preferisce il caldo del letto e l’illusione della felicità. Così come l’uomo si è costruito la casa di cemento e mattoni, così ha fatto coi pensieri. Flussi e flussi di pensieri senza sosta, continui ma irregolari, alti ma effimeri, grandi ma deboli. L’uomo è la costruzione di se stesso, è la sua stessa illusione. Millenni di storia, di epoche, di eventi, di persone, di luoghi, di storie, di volti, di emozioni, di virtù, di arte. Millenni di vita, di morte, di amore, di verità, di ipocrisia, di giustizia, di arroganza. E ancora, di destino, di sogni, di viaggi, di popoli, di culture, di uomini, di illusioni. Millenni, racchiusi in un secondo, un attimo, uno sguardo di ciò che più ancestrale possa esistere: la natura. La terra, così soffice, così friabile, così secca, così fredda, così calda, così scura o così limpida. Non è forse la storia dell’uomo? E i tronchi, così vivi e longevi, così radicati in profondità e così tendenti verso l’alto. Non sono forse lo spirito dell’uomo? E le foglie, sottili e sinuose, alcune finissime, altre grosse e succose; alcune ingialliscono, altre sempreverdi. Foglie profumate, foglie cadute, foglie plananti, foglie che resistono al mal tempo, altre che cedono; foglie pungenti, foglie soffici, foglie in gruppi, foglie singole. Non sono forse l’uomo stesso? Eppure l’uomo è felice nella campana di vetro, è soddisfatto del suo regno, ed è succube di esso. Noi siamo un Uno col Tutto. Pan, il dio del Tutto, il panico, la manifestazione del tutto interiore, l’esplosione dell’umanità, ormai troppo vecchia per controllarsi, ormai ancora trop-
PAGINA 8 po giovane per capire di poterlo ancora scoprire. Ci sveglieremo, una mattina, e ricorderemo tutto questo. Ricorderemo che siamo freddi come il gelido Buran, ferenti come rovi intricati, vuoti e scuri come sperdute grotte, assassini come la cicuta e la belladonna. Ma ricorderemo anche che siamo forti come alberi chiomosi, profondi come radici, dolci come frutti, caldi come il sole. Ricorderemo che crediamo nei valori e nei sogni, come piante sulla roccia, come piccoli steli che spaccano l’asfalto. Ricorderemo che amiamo, come il soffice muschio che abbraccia ogni cosa. L’aeroporto - di Matteo Muscas [Altro materiale dell’autore su www.facebook.com/ScriverePerIlPiacereDiScrivere]
Ho sempre trovato l'aeroporto un luogo molto affascinante. Tutto quel via vai di persone con addosso le proprie storie. Chi vorrebbe scrollarsela di dosso, la propria storia, una volte per tutte; e chi, invece, se la tiene stretta, aggrappandosi forte ad essa. Chi parte per realizzare un sogno, chi vuole allontanarsi dagli incubi. L'aeroporto, il luogo di nessuno. Gigantesco bivio in cui le persone attendono e sperano, partono e tornano. Ecco, proprio lì, tempo fa, in quel crocevia di storie, di speranze, incontrai una ragazza, poco prima di imbarcarmi per uno dei miei frequenti viaggi di lavoro. Ellie non era bellissima, sia chiaro, ma era, ecco, una di quelle ragazze che quando le incroci non puoi non guardarle negli occhi. Sai solo che devi farlo perché trasportano qualcosa, con sé, e tu devi cercare di afferrarlo. Mentre si avvicinava all'area d'imbarco, Ellie aveva il passo lento ma sicuro, quello che hanno solo le persone che vogliono andare avanti, soffrendo, per stare meglio. Dove vai? Mosca, Russia. Doveva aver notato il mio sguardo interrogativo, perché poi aggiunse Vado in Russia a ghiacciare il mio cuore per sempre. Disse proprio così - ghiacciare. Sapete, mi vennero i brividi. Perché guardandola, pensai che quella ragazza stesse andando all'assalto del proprio dolore per sconfiggerlo. Sembrava pronta a lasciarsi cadere a terra, con la consapevolezza che nessuno l'avrebbe sostenuta per impedirglielo. C'era un qualcosa di commovente, in questo. Qualcosa che porta a stringere i denti. Mi disse anche che aveva scelto appositamente il volo delle diciassette, l'unico diurno, perché alla luce del sole la nuova vita che l'aspettava le sarebbe sembrata ancora più luminosa, più infinita. Guarda, mi disse, e nel mentre mi mostrava l’unico zaino che aveva con sé: all'interno solo un piccolo libro, alcune vecchie lettere d'amore, cioccolato fondente, caramelle. In fondo, disse, basta poco per riniziare. Basta/poco/per/riniziare/. Queste ultime parole me le disse con un sorriso. Ma era un sorriso strano. Il sorriso che certe persone usano quando spogliano se stesse di fronte ad altri; quel sorriso come uno scudo insicuro che pare dica: ti prego, non farmi parlare ancora, o parlerò per sempre. Forse più che un sorriso una sorta di ferita data in pasto agli sguardi altrui come unico schermo di difesa. Immagino avrei dovuto chiudere la conversazione, cambiare posto, allontanarmi da lei. Tuttavia io sapevo, non chiedetemi perché o come, ma sapevo che, nonostante tutto, quella ragazza aveva bisogno di parlare con qualcuno. Dunque rimasi con lei. Ad ascoltarla. Mi disse che Dan aveva visitato il mondo. Sapete, di quelle persone che non si fermano mai, di volo in volo. Barcellona, Boston, Berlino, Budapest. Un mese qui, tre mesi là, e via. Però, quella volta, le aveva promesso che sarebbe rimasto lì, con lei. Magari l'avrebbe presa per mano, l'avrebbe portata a vedere il mondo, lei che non era mai stata oltre la propria città. E voleva crederci, Ellie, a quelle parole. Eppure, sentiva che non sarebbe andata così. Una mattina si svegliò, ma, al suo fianco, Dan non c’era. Lo sostituiva, sul letto, una lettera. Tre sole parole: Devo andare. Scusa. Scoprì che lui prese un volo per Copenaghen alle ore ventuno. Viaggiava sempre di notte, come i vigliacchi, lui che diceva di aver girato il mondo senza aver mai camminato in strada. E allora Ellie capì perché Dan viaggiava tanto. Quel ragazzo aveva paura del mondo, e delle sue persone, e delle sue emozioni. Si rifugiava negli aerei, a distanza da tutto il resto, evitando di affacciarsi dal cielo e guardare sotto. Così, raccontò Ellie concludendo la sua storia, dopo la fuga di Dan ho deciso di partire, di cambiare vita. Perché in realtà lo sapevo, l'avevo sempre saputo, che sarebbe accaduto. E non c'è niente di più scoraggiante del prevedere le proprie delusioni. Sono lieto di dire che Ellie quel giorno non partì per la Russia. E il suo cuore non fu disperso nel ghiaccio di Mosca. Quel giorno venne a Lisbona, con me. Io le impedii di lasciarsi cadere a terra. Oggi siamo felicemente sposati da quasi sette anni. Dan le scrisse, qualche anno fa. Le chiese un incontro. Ho capito che ho bisogno di te. Scrisse proprio così, lui che diceva di conoscere il mondo senza aver mai guardato una ragazza negli occhi. Lei non gli rispose. Questa storia mi ha insegnato che a ognuno di noi, durante la nostra vita, piace sfiorare e farsi sfiorare. Come un breve assaggio che magari dura solo un attimo. Attraverso gli occhi. Con leggerezza. Da lontano. In silenzio. Sfiorarsi. Ma in definitiva, aspettiamo il momento in cui qualcuno verrà da noi, ci guarderà con decisione e dirà: Buon pomeriggio, mi perdoni, ho compiuto un viaggio durato tutta una vita per arrivare qui, da Lei, e portarla via per sempre. E quando per ognuno di noi arriverà quel momento, l'unica cosa che importerà sarà la forza contenuta in quelle parole e la voglia di lasciarsi, di colpo, cadere a terra, sapendo che, finalmente, qualcuno ce lo impedirà. E se una sera in treno - di Stefano Curreli Un uomo sulla quarantina, di bella presenza, elegante, con un lungo cappotto nero e una borsa sotto braccio, raggiunse il binario e salì sul treno. Una volta dentro, le porte gli si chiusero alle spalle. Ce l’ho fatta per un pelo, pensò. I posti erano quasi tutti occupati, e le chiacchiere della gente si intrecciavano in un fastidioso mormorio. A giudicare dalla sua espressione doveva essere reduce da una giornata stressante. Attraversò alcuni vagoni e finalmente ne trovò uno meno caotico degli altri. Si guardò intorno. Nei sedili in fondo c’erano due ragazzetti sui quindici anni; una donna anziana sedeva invece dalla parte opposta, e al suo fianco, appena dopo la corsia, sedeva una ragazza mora. L’uomo decise, tra tutti i posti, di sedersi in quello di fronte a lei. «Sì può?» chiese. «Certo» rispose lei, con tono impersonale e senza guardarlo, ma ritraendosi, come per lasciare un po’ più di spazio, che in realtà già era sufficiente affinché lui... [CONTINUA A LEGGERE SU WWW.ISSUU.COM/STEFANOCURRELI]