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BESTEMMIA !
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RIVISTA GRATUITA DI LETTERATURA Disponibile anche online su www.facebook.com/bestemmiaonline Prefazione –
di Stefano Curreli
A novembre 2012 siamo usciti col primo numero. Nell’introduzione, scritta da me, della prima tiratura – corretta successivamente – annunciai che la rivista sarebbe sicuramente uscita bimensilmente, sbagliando, e confondendomi con bimestralmente. Dunque, lasciandomi passare la confusione tra bimestrale e bimensile, saremmo dovuti uscire nuovamente nel mese di gennaio; questo tuttavia non è successo, allungando i tempi fino ad ora, maggio inoltrato, e uscendo con parecchi mesi di ritardo. Meglio tardi che mai, dice il popolo. Premettendo che non amo chi, quando non mantiene le promesse, cerca alibi assurde pur di uscirne assolto, vorrei in due righe raccontarvi i semplici ed umani motivi – che mi auguro riteniate legittimi – dovuti a questo ritardo. La nostra redazione – come abbiamo scritto qualche settimana fa nella nostra pagina Facebook – è composta da studenti universitari, che vivono a contatto diretto con pressioni dovute ai periodi di appelli e vivendo in una condizione di claustrofobia temporale. Ciò comporta talvolta un allungarsi dei tempi non previsto, il quale fa sì che i nostri progetti subiscano ritardi più o meno lunghi. Detto questo, vorremmo per ora – in maniera da non incorrere nuovamente nell’errore – non stabilire nessuna data per l’uscita del terzo numero, che potrebbe uscire tra due mesi come tra quattro o cinque (si augura non di più). Vi invitiamo comunque a iscrivervi nella nostra pagina Facebook, in maniera da venire informati tempestivamente e di stare in contatto con noi anche quando non si è in vista di un nuovo numero. Promettiamo comunque di non abbandonare i nostri lettori, che ringraziamo, e che per il primo numero ammontano a più di un migliaio (risultato che ci rende davvero felici). Ritengo precisare, prima di abbandonarvi, che il primo articolo di questo numero è dedicato a Pablo Picasso – basterà abbassare lo sguardo di pochissimo per scoprirlo. Qualcuno – anche se spero di no – si chiederà perché appare un pittore in una rivista di letteratura. Bene, credo che non sia il caso di stare qui a spiegare che la letteratura, la pittura, il cinema, il fumetto e tanti altri mezzi espressivi sono in realtà lo stesso essere che indossa maschere diverse a seconda della necessità, e che anche quel grande uomo che fu Picasso ha qualcosa da dire alla letteratura. Vi auguro una buona lettura. ! ! Risposte picassiane di Virginia Chessa "#$%&'(!)*++$,-!! !!!!!!!!!! In molti hanno indagato sulla figura enigmatica di Pablo Picasso, !!!!! ma la domanda che produco è: chi è Picasso? Forse non lo !!!!! comprenderò mai pienamente, non troverò mai una risposta, ma !!!!! vale la pena fare un tentativo. Comincerò quindi con un breve ed obbligatorio excursus attraverso ciò che egli stesso ci ha lasciato, e mi muoverò sulla scia della sua lunga e travagliata eredità ar!!!!!!!!!! tistica. !!!!!!!!!! Come tutti gli!!!!!innovatori, questo artista ha avuto il coraggio e il grande merito di !!!!! l’arte stessa e il modo di percepire e riflettere su andare oltre, di !!!!! superare quest’ultima, fino ad allora. !! !!!!! Ha certamente stravolto le regole della pittura tradizionale, ha violentato le sue ! leggi ed è riuscito a!!!!! disorientare e sconvolgere l’opinione pubblica, e tutto ciò allo scopo di non tradire !!!!!mai una realtà umana, che non sempre è candida e pulita, ma spesso è invece mostruosa e delirante, in virtù della necessità di disvelare la vera !! natura dell’uomo, portando il pittore, sempre più spesso a creare un’attività umana che non è più solo visiva, ma diventa una vera e propria denuncia sociale, etica e ! culturale, una verità espressiva quindi, a cui non poteva rinunciare. L'epoca in cui è vissuto Pablo Picasso è caratterizzata da una ricerca assidua e inquieta sul tempo, che ha interessato non solo l’arte ma anche la filosofia e la scienza, come anche la letteratura. Tale sforzo si evidenzia in modo particolare nelle attività di Marcel Proust, il quale teorizza un tempo eterno, descrive personaggi impalpabili, evanescenti, proprio come le note figure appartenenti alla belle époque parigina, tutti temi non lontani da quelli ontologici, che si palesano nelle opere picassiane. È evidente che come nel pittore, così come nel letterato, si assiste costantemente all’esperienza del tempo in continuo divenire, dove i personaggi mutano continuamente e appaiono sempre discordanti. Sovente si è parlato di Picasso, senza preoccuparsi del pensiero dello stesso. Negli anni si è assistito a delle esigenze artisti-
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./012/!3! che, storiche, culturali e filosofiche che per spiegare il fenomeno Picasso, hanno tentato di trovare etichette e periodi per riconoscere, scandire e descrivere il suo lavoro, però sono convinta che abbiano discusso su di esso, senza preoccuparsi di cercare in lui, all’interno delle sue opere. Ma come si può parlare di categorie ed etichette, quando si parla di una personalità che non crede in nessuna forma precostituita e cerca sempre di superare i canoni tradizionali, rivalutandoli e talvolta plasmandoli tanto da renderli non più identificabili? Com’è possibile criticare Picasso, perché creava arte non realistica e non figurativa? Credo che nessuno meglio di Pablo Picasso stesso, possa rispondere a tutti i nostri interrogativi. Un uomo criticò Picasso perché creava arte troppo poco realistica. Picasso gli chiese: «Mi può mostrare dell'arte realistica?» L'uomo gli mostrò la foto della moglie. Picasso osservò: «Quindi sua moglie è alta cinque centimetri, bidimensionale, senza braccia né gambe, e senza colori tranne sfumature di grigio?». L’arte non è l’applicazione di un canone di bellezza, ma ciò che l’istinto e il cervello possono concepire indipendentemente da ogni canone.
In conclusione, rimango persuasa dal fatto che, bisogna senza alcun dubbio riconoscere a Picasso un grande valore, tra tanti: ha certamente restituito all’uomo la sua natura più autentica, mostrando inoltre all’umanità intera cosa alberga all’interno di un essere umano, e andando ancora oltre: ci ha insegnato ad essere consapevoli di noi stessi e dell’alterità che ci circonda, della contingenza, che nessuno può negare, ma ne siamo tutti inevitabilmente immersi e sommersi. Insomma, ci ha palesato cosa e chi siamo, ontologicamente e fondatamente. !
Lo scapigliato degli Abbasidi – «-Salve,» disse il Diavolo scendendo giù in picchiata, «Saluto un penitente la cui penitenza è mera illusione!». Con questo verso comincia una poesia nella quale il poeta Abu Nuwas, il cui soprannome significa quello dai riccioli, ormai divenuto anziano rifiuta l’offerta di Shaytan (il diavolo tentatore della tradizione islamica), malgrado questo sia stato suo compagno di vita. Dei “poeti maledetti” che vissero nella Baghdad dell’ VIII-IX secolo, Abu Nuwas può essere a diritto ritenuto il caposcuola e il principale rappresentante. Non solo per la sua vita dissoluta, ma anche per il suo essersi posto in to!tale rottura con la tradizione poetica precedente. Nacque nel 766 d.C. da madre persiana e padre arabo. Sedici anni prima la rivoluzione degli abbasidi aveva imposto una nuova dinastia califfale sul trono di un impero che andava dall’attuale Marocco fino all’India. Abu Nuwas visse nel periodo in cui, nel rispetto della concezione universalistica dell’Islam, i non-arabi convertiti cominciarono a godere degli stessi diritti degli arabi musulmani e a rivendicare l’importanza del loro ruolo all’interno dello stato islamico. Il riccioluto poeta venne educato in un ambiente in cui circolavano idee manichee ed erano esaltati i rapporti omosessuali. Entrò in contatto con le grandi tradizioni ellenistica e persiana e venne introdotto alla corrente islamica della mu’tazila, dottrina islamica alla quale appartennero alcuni dei più grandi intellettuali del periodo. Pur essendo divenuto un profondo conoscitore della lingua e della poesia araba, Abu Nuwas ne prese le distanze in maniera decisa. Malgrado continuasse ad avvalersi di strutture e temi tipici della tradizione araba, li reinterpretò alla luce di una visione nella quale l’uomo e il mondo materiale erano al centro del fare poesia. Prese posizione contro un modo di fare poesia, quello dei “beduini”, che non riteneva adatto ormai alla raffinata cultura urbana che andava affermandosi. Attraverso le sue poesie abbiamo modo di osservare una società urbana, quella della Baghdad dell’VIII secolo, appartenente a una civiltà che si riteneva erede dell’impero dei cesari e di quello dei cosroe. La capitale dei califfi era il centro pulsante della civiltà islamica e luogo nel quale si
di Giorgio Ennas
!!!!! conduceva una vita all’insegna dell’eccesso, ai limiti !!!!!dell’ortodossia religiosa. Le poesie di Abu Nuwas ci portano !!!!!con impeto nel cuore di quella che è stata la vera città de Le Mille e una Notte: vino, donne, giovani «simili alla luna», oro e !!!!!pietre preziose si univano in un’atmosfera capace di forgiare !!!!!l’immagine di sfarzo e lussuria che l’occidente attribuirà per secoli all’oriente. !!!!! Se il poeta scrisse i panegirici per i suoi protettori in arabo !!!!!classico, secondo gli schemi tradizionali, fece uso anche di volgari e popolari per dare vita e realismo alle sue !! espressioni poesie, che trattano soprattutto dell’amore verso entrambi i sessi e il vino. Quest‘ultimo, proibito dalla religione islamica, assurge a simbolo di questi poeti e della loro “ribellione” artistica contro una letteratura che li voleva stretti nelle maglie del conformismo esasperato: «Tre cose sole fan la vita gaia: vin vecchio, cantatrice, buon compagno». Ciò che colpisce il lettore moderno è soprattutto il gusto per lo scandalo e l’esibizione dell’eccesso, che costò al poeta l’esclusione dal circolo letterario del califfo Harun ar-Rashid fino alla sua morte: «Anima nuda di stoffe imperfette così avanza al mattino, schiavo vestito di sola seduzione. Solitaria bellezza, la sua, sembra dire: di questa sostanza è la Terra, da questa delizia procedo. Dio demiurgo di lune creò te allorché il primo quarto fu fatto, ha limitato nel taglio il profilo di falce. Ora trema, la luna, al confronto. E trema la falce, diviene virgulto contro turgida duna eretta dal vento.» Malgrado la sua raccolta di poesie (diwan) sia quasi del tutto sconosciuta in occidente, egli è immortalato nelle novelle de Le Mille e una Notte, caratterizzato dal suo spirito caustico che nella realtà gli costò la prigionia e forse la vita, ma che lo rese una delle grandi personalità della poesia araba. Quest’ultima, che secondo la tradizione è scaturita dalla possessione degli spiriti del deserto, sembra essere capace di tutto tranne che di creare conformità e immobilità creativa.
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Scenario – Enrico Mariani Una voluta di fumo si leva dal posacenere. E poi un'altra, di una forma diversa. E così via. La sigaretta pian piano si consuma, e la cenere, rimasta attaccata, si fa sempre più lunga. Il posacenere torreggia nel comodino affollato, accanto alla sveglia e al generico romanzo di Perec. Il cavo riccioluto parte della base del telefono, scende dal comodino e tocca la fredda mattonella del pavimento, per poi tornare su e riallacciarsi alla cornetta. La polvere è minima, sottile, lascia però le sue tracce nelle calze, che fuoriescono dagli scarponi, posti accanto al letto, come fossero talpe che fanno capolino dal terreno. Il vasistas, aperto e inclinato, permette all'acqua piovana di scorrere e gocciolare dentro la stanza, precisamente sull'ultima rivista della pila di Rolling Stone che parte dal pavimento. La goccia cade seguendo un ritmo cadenzato (prima), come un valzer, per poi trasformarsi in un ritmo scomposto, (dopo), come un jazz. Cade sempre nello stesso punto, sempre nell'occhio di Lou Reed, che sta in copertina. Attraverso il suo occhio si intravvedono le pagine interne, e i colori tutti intorno sono sbiaditi, in un alone umidiccio. La lampadina dell'abat-jour lampeggia sulla scrivania, a intervalli irregolari, come una luce stroboscopica. In quei lampi illumina un foglio scritto fitto fitto a matita, macchiato nei margini da dita sporche di grafite. Accanto al foglio macchiato e fitto fitto, una pila di fogli, tutti bianchi. Sparsa per la scrivania c'è la tempera dalla matita, talmente tanta da sembrare trucioli, talmente chiara da far sembrare la scrivania un tavolo da falegname. Sul bordo della scrivania, la matita, corta corta, ancora infilata nel temperamatite. La sedia è il tipico girello da ufficio, con le sue cinque zampe a rotelle, lo schienale reclinabile ormai spanato dal troppo peso subìto: come un guscio di ostrica spalancato a forza, aperto a 120° da un subacqueo interessato solo alla perla, e impossibilitato a richiudersi,. Ai piedi del letto sta la cuccia del cane, in stoffa e gommapiuma, con la forma di un anfiteatro, piena zeppa di peli canini e sporca di fango asciutto. La maniglia della porta, in ferro levigato, è unta e deteriorata dal tempo. La serratura scatta, la maniglia gira, la porta si apre. Un uomo entra nella stanza.
Amnesie – Andrea Murru Era ottobre inoltrato fuori dalla finestra della camera al terzo piano. La luce della sera affievoliva nel rituale solito del tramonto mentre il sole piano si liquefaceva, deformandosi, sulla superficie rossastra dell’oceano. All’orizzonte danze crepuscolari di nubi volteggianti in purpuree vesti fasciate arabescavano l’idea di ciò che vi è al di là. Se una qualche imbarcazione avesse in quell’istante tagliato la porzione di mare antistante la locanda… Se un nostalgico giovane marinaio gomiti sul parapetto arrugginito del ponte e sguardo alla costa avesse anche solo per un istante osservato e imprigionato nel limpido azzurro dei suoi occhi-oceano l’incanto di una luce danzante nel chiaroscuro del tramonto… Delimitati dalla cornice legno scuro di una finestra al terzo piano volteggi di luce di fiamma, inchini e salti di danzatrice luminescente aggrappata al sottile filo strinato dello stoppino di una candela accesa troppo presto a contendersi la creazione dell’ombre nel violaceo primo buio dell’incombente notte con gli ultimi rantoli della morente luce solare. Se solo avesse guardato… se di là fosse passata quella nave, ciò che avrebbe visto sarebbe stata un’ombra. L’ombra malinconica di un uomo ricurvo sul suo scrittoio a ricomporre i pezzi di ciò che ignora.
Della notte che culla i sonni non vi è traccia. Dallo specchio sulla parete dirimpetto al letto un viso mi guarda, con indifferenza mi fissa, mi scruta, mi studia ora, alla luce del sole che lo illumina e ne schiarisce i contorni. Il sonno, con tutti i sogni di cui è portatore mi ha abbandonato. Da notti oramai. Non conto più le ore. Ogni alba è un'altra faccia di un inesistente e labile traguardo. Lascio che scorrano. Sulla mia schiena magra e sulle occhiaie scavate e brune del mio volto riflesso sullo specchio spietato. Corrono i giorni e consumandosi consumano l’umanità del mio volto. Come fiume in piena trascinano via tutto ciò che ancora potrebbe suggerire l’essere riguardo al mio esser stato. Mi rapinano, spietati mi rapinano di tutto ciò che ancora ha un senso. Giorni e notti: frammenti di secondi e minuti e ore sul quadrante immoto di un orologio ormai guasto, inosservati e imperscrutabili, scorrono. Cosa può dunque definirsi vita? Pensò. Respirare e nutrirsi e cercare il sonno e piangere e sforzarsi a tal punto di ricordare da non ricordarsi di essere, ora e in questo luogo, uomo e coscienza in quanto tale; in quanto essere pensante; in quanto cosciente del tuo stesso non esser più ciò che fosti o di averne rimosso in qualche modo e per qualche ragione esterna, o peggio, da te stesso indotta il ricordo. Quale orribile bestia ripugnerebbe perfino se stessa al punto di celare nell’abisso inarrivabile dell’intimo la benché minima immagine della propria rievocazione? Da tempo ormai questa camera-tana mi nasconde. Se solo avesse guardato … ma nessuno, nessuno guardò … se di là fosse passata quella nave ma … nulla, nulla macchiò con il suo passaggio se pur lento o rapido o immaginario o inutile, senza meta precisa o con scopo o alla deriva in quel brandello di straccio di mare immoto, ammansito nell’assenza del vento solito che fende le sue immense superfici.
./012/!5! ! Se solo nel creato tutto vi fosse stato un volto, un viso, uno sguardo rivolto se pur distrattamente se pur inavvedutamente a quel momento. Se. Nulla razziò a quegli occhi, quando rapidi si tuffarono oltre il vetro gelido della finestra in un soffocato avrei giurato di vedere, un istante d’attenzione. Restarono là, aggrappati alla cornice di quel quadro mal dipinto e vuoto in un gesto contenuto e vano ma salvifico e immenso come un respiro. Tutto il resto è solitudine. Il ladro di vini – Stefano Curreli [Altri racconti su www.issuu.com/stefanocurreli] Edoardo Ingravallo, il commissario più illustre della città, mai un caso irrisolto, si ritrovò per la prima volta nella sua vita davanti a un caso di difficile soluzione. Da ormai due mesi, a Gemini, un ladro colpiva ogni venerdì notte della settimana, tra le 23:00 e le 23:30, rubando vini da collezione del valore di migliaia di euro. Il criminale, soprannominato ormai da tutti Dioniso – qualcuno si chiese perché non chiamarlo direttamente Bacco – non lasciava alcun indizio. Ingravallo, che taluni all’appellativo commissario preferivano quello di matematico – per via della sua indubbia capacità logica nel risolvere i casi come si trattasse di veri e propri rompicapi – stava stavolta rischiando di mettere in discussione la sua fama, la sua preparazione, e di perdere la sua autostima. Era un venerdì sera d’ottobre, media temperatura, cielo stellato, vento leggero, e Ingravallo aveva fatto circondare dai suoi uomini il quartiere in cui abitava l’unico collezionista di vini della città che ancora non era stato colpito, Alfonso Mariani, che allo scoccare delle 23:00 stava sul divano del salone in compagnia di un agente in borghese. Ingravallo, in compagnia di un altro poliziotto, stava intanto nascosto nella stanza a fianco, da una posizione che gli permetteva di avere totale visuale sull’espositore dei vini pregiati. La mezz’ora passò senza che nulla avvenisse, e allo scoccare delle 23:30 Mariani si sentì come sollevato. Ingravallo intanto era sicuro che ormai il colpo non ci sarebbe stato. Dioniso era troppo preciso per arrivare in ritardo. Passò un attimo e sentì qualcuno correre verso la sua direzione. Era Mariani. «Il ladro ci ha rubato sotto gli occhi la mia bottiglia più preziosa, un vino veneto che mi ero tenuto vicino, e l’ha fatto davanti a noi. Allo scoccare delle 23:30 abbiamo visto la tenda muoversi. Il tempo di alzarci per controllare e la bottiglia non c’era più.» Lo aveva detto tutto di fila. Era terrorizzato, affannava e non credeva a ciò che era appena successo. Non passarono una manciata di secondi che Ingravallo si catapultò in strada. Fu appena girato l’angolo che vide un uomo, a una cinquantina di metri da lui, che correva con una bottiglia di vino in mano. Non credeva ai suoi occhi, era Dioniso. Non doveva farselo sfuggire. Ingravallo si era dimenticato la pistola a casa di Mariani, ma l’avrebbe acciuffato comunque. Dopo parecchi minuti di inseguimento il ladro entrò in un caseggiato. Ingravallo lo seguì, entrò e si ritrovò in un salone di lusso. Una musica si propagava in aria. «È la quinta di Mahler. La ritoccò per tutta la vita perché non riuscì mai a esserne totalmente soddisfatto.» Ingravallo si girò di scatto. Dioniso stava seduto su una poltrona barocca. Finalmente lo vedeva in volto. «Non agitatevi, Ingravallo, sedetevi. Non vedevo l’ora di incontrarvi.» Ingravallo si sentì confuso ma inspiegabilmente rilassato. Si sedette, come drogato, affascinato da quei modi eleganti e da quel luogo lussuoso. L’uomo gli disse che ammirava la sua genialità nel risolvere i casi, e spiegò che alla propria collezione mancava un vino difficile da rubare. «Solo voi» disse il ladro «sareste in grado con la vostra genialità di aiutarmi.» Poi gli porse un bicchiere di vino. «Ho stappato questa bottiglia solo per voi, è quello di Mariani.» Dal fondo della sala intanto un cameriere portava una tavola imbandita di cibo. «So che non mi deluderete,» disse il ladro, «voi siete lo stratega più in gamba che conosca.» Ingravallo si sentì lusingato. Per un attimo pensò che stesse venendo meno ai suoi doveri e alla sua onestà, ma poi, penetrando con lo sguardo negli occhi dell’uomo che gli stava di fronte e godendo dell’incommensurabile raffinatezza di quel luogo, si convinse che in fondo si era sempre sentito più matematico che sbirro, e prendendo in mano il bicchiere disse: «Ai vostri ordini, signore. Non esiste rompicapo che non riesca a risolvere.» E buttò giù il sorso di vino più buono della sua vita, tra i violini di Mahler e l’aroma delle cibarie appena giunte.
La fortuna non bussa mai tre volte – Luca Fois Mi sento un po' il contrario della tecnologia, reagisco in maniera imprecisa ed analogica all'istinto, mi sento un po' il contrario di un ingresso usb, che va a segno, molto spesso, sempre e solo al terzo tentativo. Oggi camminavo per la strada principale del paese, che sarebbe normalmente un corridoio, ed il jazz dei musicisti da baretto dava ormai gli ultimi cenni di jam session sui tre quarti. Il batterista caricava una rullata di chiusura immensa, quasi come a rallentare un po' l'avvio verso la fine, quasi come faccio io da qualche anno a questa parte. Mi sedevo al bar, quello più brutto e sospettoso della vietta, ma un motivo in fondo c'era. O meglio, ci sarebbe stato, se lei fosse rimasta ancora un'altra sera. Due giorni fa passavo per la stessa via, sorpassavo in modo blando il bar socchiuso, e là fuori su una sedia un angelo caduto si frugava in tasca per cercare le istruzioni di decollo, ma trovava solamente un accendino ed un pacchetto stropicciato di sigarette bionde. Mi sarei voluto avvicinare a lei e dirle "non ho idea di come si decolli, ma se vuoi posso insegnarti ad atterrare". Non l'ho fatto. Ieri ripassavo per la via, sorpassavo lentamente i tavolini, e quell'angelo era lì seduto accanto a una mortale, discutendo di qual-
./012/!6! cosa o di qualcuno, rifrugava nella tasca per cercare il suo manuale. Mi avvicinavo per chiederle di offrirmi una sigaretta, e lei mi offriva anche una fiamma per accenderla. Con la sigaretta in mano le mostravo l'accendino, rifiutavo la sua fiamma, le chiedevo il ! calore. Per sfortuna lo chiedevo a voce bassa, così bassa che le labbra neanche si staccavano tra loro e le parole non uscivano. suo Oggi camminavo per la strada principale del paese, ma lei era chissà dove, non più lì. Siedo al tavolo, uno a caso tra i due vuoti che ho davanti, ordino un caffè, per quanta poca voglia ne abbia. - Ecco il caffè, scusa il ritardo. - Si figuri, la ringrazio. Potrei chiederle un'informazione? - Non so bene che mi passi per la testa. - Certo, dimmi. - C'è per caso la ragazza che era qua ieri, seduta qua davanti? Devo renderle una sigaretta, è importante. - Non è più qua, ieri era il suo ultimo giorno di lavoro, ha ripreso a lavorare a casa. Chiedo dove potrei riuscire a trovarla, ma l'uomo mi risponde che lei abita in un paese ancora più piccolo di quello in cui mi trovo adesso, mentre mi lascia da solo, in compagnia di una tazzina di caffè indesiderata e meno calda. - Spero almeno che il caffè sia fatto bene. Neanche quello. Quando la fortuna suona al campanello devi avere già i capelli pettinati, e i denti puliti, perché non puoi farla aspettare, dopo aver suonato bussa, e alla terza volta torna a casa, chissà dove. Forse in un paesino ancora più piccolo di quello in cui mi trovo adesso. Mi alzo bruscamente dalla sedia, come preso da un flashback di polaroid desaturate. Mi trovavo dove i treni son puntuali, il caffè sembra acqua sporca e la pizza è gommapiuma. Attendevo la mia birra fredda al tavolo, mi levavo di dosso la sciarpa a quadri, dentro si stava molto meglio. Osservavo i tavoli e la gente, i boccali vuoti e le facce spensierate. Tra le facce, un viso, ad un tratto. Lei era senz'altro una turista qua sul Mondo, e studiava con charme e discrezione le persone nella loro sfacciataggine. Stavo per alzarmi dalla sedia e fare non so bene cosa, che all'istante arrivava la mia birra al tavolo, a spezzare quell'istante di coraggio provvisorio. Provvisorio, appunto, da lì in poi non avrei mai rovinato quel momento di perfetta distinzione tra le lampadine e il sole. Il giorno dopo tornavo al locale, stessa birra da mezzo litro, stesso tavolo numero sette, e stesso quadro affascinante, era lì a farsi guardare. Quella sera, il coraggio, non tentò nemmeno di proporsi, ma l'avrei sicuramente ringraziata il giorno dopo, le avrei chiesto di sicuro di confidarmi il nome del suo pianeta originario. Il terzo giorno ritornavo al locale, il coraggio risorgeva come Cristo, stessa pinta di rossa doppio malto, stesso tavolo numero sette, ma lei, lì, non c'era più. Ingoiai la birra e la tristezza in quattro o cinque sorsi, lunghi quanto la mia attesa: troppo. Sono una persona che non crede al destino, che ama le coincidenze fino a che non se le spiega, che non crede quasi mai alla fortuna, e che ritarda quasi sempre agli appuntamenti per finire di prepararsi. Maledizione ai capelli, maledizione ai denti, maledizione a me che son puntuale sempre e solo col mio vizio di tardare. Quando la fortuna suona al campanello devi avere già i capelli pettinati, e i denti puliti, perché non puoi farla aspettare, dopo aver suonato bussa, e alla terza volta torna a casa, chissà dove. Forse in un paesino ancora più piccolo di quello in cui mi trovo adesso, dove i denti ed i capelli sono tutto il giorno a posto.
A passo d’uomo – Alessio Gessa Notte dopo notte i miei passi verso casa si facevano sempre più lenti. Lasciavo gli occhi a smarrirsi negli abbracci della gente e negli affetti sfoggiati in giro per le strade. Sentivo il mio corpo come una macchina fredda, che camminava contro un volere interno che a malapena percepivo. Perdevo tempo, mi guardavo intorno. Tutto avrebbe potuto distrarmi dal mio camminare senza meta. Alla mia destra il frastuono del mare m’induceva in passi ancor più fiacchi, costringendomi ad assisterlo nel suo perenne agitarsi. Sospiravo. Lo facevo in silenzio, quasi a nascondere a me stesso che infondo non era tutto ok, ma era proprio tutto uguale a qualche settimana prima, in quella città che avevo lasciato. Pensai che una di quelle notti avrei ceduto al desiderio irrequieto del mare di prendermi con sé, nonostante lui al mio fianco spumeggiasse gioia e vita. Dentro di me, invece, celavo un mare di uguale portata, fatto di catene, che ancor più si agitava. Ne pativo lo schianto contro le pareti dei miei muscoli, proprio come facevano le auto, i bus e i metro che pestavano in velocità sulle lastre di pietra in quella vecchia città. E come loro mi sentivo: calpestato, spezzato e consumato. Ritratti di città che non volevo mi appartenessero più, ma che in qualche modo avevano contaminato ciò di cui ero forgiato. Forse la vista di quei mezzi puzzolenti e asfissianti un po’ mi mancava, ma non sarei tornato indietro per egoismo. Sapevo che il mare di questo paese sarebbe servito a riempire di gioia un cuore, sebbene non fosse il mio. Mi mancava forse la fretta della gente, con i loro passi frenetici e i volti così poco pieni d’amore. Perennemente foderati di sospetto e inimicizia. Rapidi sguardi mai dritti agli occhi - per non mostrarsi inopportuni, per paura, per continuare la propria vita lontano dai guai e dalla mia. No, niente avrebbe fatto si che la rimpiangessi, neanche quel profumo di pane caldo la mattina sotto casa. Un odore che custodiva un antico ricordo, l’unico legame a quel passato che già mi vedeva qui, bambino, a spasso con la nonna in questo lungomare. Cominciavo a sentire un leggero sfrigolio al petto. Qualcosa di dolce e frizzante, simile a una prima cotta adolescenziale. Ogni cosa sembrava avere un tocco d’amore e di gioia interna pronta a esplodere. Non era più una gioia di cortesia, come io la chiamavo. Prima le cose stavano lì - gonfie di una passione ignota e disposte a cedermi il loro misterioso fascino - ma poi, una volta viste da vicino, nessuna magia faceva sciogliere del tutto il mio cuore. La semplicità di questo luogo, invece, imponeva un esistere così diverso dal mio vissuto che a momenti mi sentivo leggero. Legato alle nuvole da un filo di fantasia, come un bambino che inizia a crescere e conoscere cose nuove. Era vero, il carico d’impotenza che a volte la vita ci vomita addosso non può nulla contro le leggi del cuore. In città c’era un porto, dunque non ho mai sentito la mancanza del mare. Avevo solo coperto i ricordi con la necessità di vive-
./012/!7! re. Non avevo più memoria di questo mare, così come non ne avevo delle carezze di mia nonna. Tutto era nascosto dentro un sonno maledetto, ma è bastata una brezza dal profumo di riva e di scoglio a regalarmi un risveglio fatto di dolci ricordi. ! L’odore del porto invece era più simile a un puzzo ostile. Uno stagno di barche e navi che marciscono davanti agli occhi fieri della gente. Quell’odore per me era morte. Qui invece era di nuovo profumo, solo per me. Un profumo intenso che affollava il paese riempiendolo e colorandolo. D’un tratto, mentre camminavo, mi resi conto di quanto i colori mi fossero mancati. I raggi del sole, il cielo e i tramonti. Perfino l’aria ora avrebbe avuto un suo colore. Pensando questo mi accorsi che la notte era calata e in quel momento compresi che anche lei aveva il suo colore. Che non è il nero dell’oblio, ma quello della nuova speranza che scaturisce quando si ha voglia di perdersi nell’incanto del mondo. E niente mi faceva più così paura. Da quel momento tirai su la testa, imponendo al mio corpo passi più decisi, e strinsi forte le manopole della sedia a rotelle che spingevo. Quello stringere i pugni, infondo, mi fece sorridere. È stato un gesto quasi inconscio che mi aveva fatto capire quanto in realtà ero ancora fragile e terribilmente impaurito. Ma ero pronto ad accettarmi completamente anche così, perché quello ero io. Ero capace di curare le mie ferite da solo, con una forza sovrumana che per vanto posso dire di avere avuto. Due passi ancora e il cuore gonfio. Trascinavo quel fardello d’amore ed ero consapevole che una volta a casa nessuno sarebbe stato lì ad aspettarci. Sarebbe stato esattamente come in quella città: solo io che vegliavo un silenzio esanime. Una manciata di mura che relegavano due vite tristi ad un’esistenza quasi negata. Una circostanza irreale, che in ogni instante insinuava la morte nel mio cuore. Un cuore di cui ho imparato ad attenuarne i battiti poiché non trasparisse quell’orribile sentimento che lo possedeva. Mi fermai di colpo e piansi le mie ultime lacrime di dolore. La sua testa fece un debole gesto in avanti per poi riportarsi contro lo schienale, rivolgendo il viso verso il mare. Mi chinai e posando entrambe le mani sulle sue ginocchia ossute vidi che sorrideva. Sorrideva e non fu mai più notte. Il mare aveva inondato il suo cuore di gioia, l’aveva portata via dalla città e aveva ceduto al suo fortissimo desiderio di prenderla con sé.
Mem or i a l e d i u n o s b r o n z o – Ma ur izi o Li sci a Scusami, ma pensandoti ora, immobile davanti alle tue gesta, ricordo solo latrati di un vecchio cane ormai troppo stanco per ululare alla vita. Penso a te un’altra volta, e ancora un’altra volta, finché non arriverà il primo conato di vomito. La mente apre le sue porte ad un eden in preda alla paranoia; continua a viaggiare vacillando fra gli interstizi dell’irrealtà. Intanto dei cani, con i loro guaiti notturni, si appropriano del sottofondo musicale ormai distorto che rumoreggia per il paese… Ora i cani sembrano che stiano suonando della musica, entrando in simbiosi con essa e facendone parte. La musica è soave, dal profumo mortale. La spiaggia è deserta, ma non ci voglio stare. Tu sei nuda, ma non esisti. Gli altri si sentono un po’ poeti, un po’ maledetti, adesso un po’ snob. Non li odio. Ora invece divento improvvisamente sobrio e misantropo: inizio ad odiarli. C’è qualcosa che ora muove le mie viscere e ruota vorticosamente come una giostra. Ho una strana giostra dentro di me che muove e ribalta tutti i pensieri che vi ci hanno preso posto: Mi sento a disagio allo stesso modo di quando cerco di sentirmi a mio agio. Fatemi scendere! Poi, d’improvviso, le stelle diffondono il loro calore sopra la mia testa. Palpito, mi agito. Riesco ad intravederne la loro luce esterna, ma non reggo più e vomito; ora vomito. Mi accascio, perdo le forze e vado a terra. Sentendo il peso delle scale di questa spiaggia sulla mia testa mi rialzo, scorgendo un mondo del tutto monotono e stupido. Cosa ho fatto? L’ho fatto veramente? Eppure credevo di esserci riuscito e invece sei qui, fra la mia mente. Non sei sparita affatto, mia cara speranza… Il ricordo è umido, si attacca alle ossa e raffredda un corpo ormai straziato. Forse non dovrei comportarmi così. Forse dovrei ricordarti e gioire del tuo ricordo allo stesso tempo. Il ricordo è l’impegno di preservare qualcuno nel cuore; ed io ti ricorderò, proteggendoti dagli annebbiamenti e dagli inebriamenti che spesso troverò lungo la mia strada.
Moo nc h i l d – F r an c e s c o Maz ze i Credo che quando un uomo si rende conto di quanto misero sia il periodo della propria vita che sta attraversando, quasi come indegno di essere vissuto, egli rivolge il proprio sguardo a ciò che è stato. Egli non ha più occhi, per guardare dinanzi a sé, ad un futuro. Il triste presente che vive non lascia sperare nuovi giorni assolati. Io divenni un uomo, e mi vidi mancare all'improvviso tutte le speranza e le utopie del fanciullo che ero. Avevo visto svanire d'un tratto i miei sogni, la speranza di poter cambiare qualcosa nella mia vita ed in quella degli altri. Non avevo altra protezione dal mondo esterno, quindi, che il mio passato. Fu come disegnare sulla sabbia un circolo impreciso utilizzando un rametto colto lì vicino, e fingere di aver alzato uno schermo invisibile contro ogni minaccia dell'esterno.
./012/!8! Ripensare ai momenti felici, per me, è come viverli più volte; godo intensamente di un gusto che spesso lo scorrere del tempo non fa assaporare a dovere, poiché troppo impegnato a guardare ad un futuro che spesso somiglia troppo a un'illusione. ! A volte però, ci si ricorda solo di un lato più dolce del proprio passato. Magari si era tristi, anche allora; ma sembra tutto più dolce, anche la sofferenza, confrontata alla sofferenza ora provata. Ed io ero triste. Anche allora. Quando ero bambino vivevo assieme ai miei genitori, senza alcun fratello, in una piccola baita di legno costruita alle pendici di un'alta montagna, su una grande valle montana. Proprio la mia cara valle, era per noi una specie di "mondo a parte", ben diverso da tutto ciò che esisteva al di fuori di essa. Un universo proibito, interdetto a chiunque. Come è ora il mio animo tormentato. I nostri contatti con altre persone erano ridotti al minimo, limitandosi a quelle poche domeniche in cui si scendeva al paese per la messa, o quando si andava a far compere al mercato cittadino. Non andavo nemmeno a scuola. Il maestro più vicino era a due ore di viaggio, e poi era ben troppo costoso per la mia famiglia a quei tempi. Insomma, ero solo. Non vi erano altri bambini, nella valle. Solo io, i miei genitori, ed i tanti animali che popolavano le foreste e il lago che si estendeva al centro della grande vallata, colorando di azzurro un paesaggio altrimenti in prevalenza verde. Non starò a raccontarvi tutte le mie lunghe e solitarie passeggiate nel fitto bosco, cacciando piccoli animaletti o cogliendo le dolci bacche selvatiche. Soltanto un episodio, è quel che voglio raccontarvi. Godevo del fresco abbraccio dell'arietta pungente tipica delle sere estive di montagna. Ad ogni passo riempivo i miei polmoni di grosse boccate d'aria freschissima dal dolce retrogusto degli aghi di pino umidi. I miei piedi scalzi erano immersi nel terriccio freddo come delle piccole radici di un albero semovente. I versi delle civette, i quartetti d'archi dei grilli, e le belle sinfonie del vento tra le fronde, l'unica musica che fino ad allora aveva dato piacere ai miei sensi, anche quella sera accompagnava la mia solinga marcia sotto il cielo limpido e stellato. Sembravo anch'io un figlio della terra, come gli alberi e gli animali, nei momenti di quel fantastico connubio con ciò che mi circondava. Ma non era una marcia senza meta, la mia; non uno sterile girovagare. Tutt'altro, ero diretto nel luogo in cui già sapevo che lo splendido miracolo si sarebbe ripetuto come ogni sera, dinanzi ai miei occhi increduli. Dopo una lunga camminata, finalmente giunsi al mio traguardo: il grande lago di cui ho parlato prima, quello situato proprio al centro della mia valle. Esso era di forma più o meno circolare, tutt'intorno circondato da un tappeto di erbetta verde smeraldo lungo pochi metri, prima di lasciar spazio alla solita foresta. Guardandomi dietro, riuscivo ad intravedere la baita di legno, riconoscibile dal comignolo fumante, che sembrava una macchia marrone su un vestito fatto di pini e betulle. Il lago immoto rifletteva la luce argentata della grande luna che spiccava nel cielo come un'enorme sfera luminosa, donando al lago una particolare sfumatura d'argento nella monotonia dell'azzurro chiaro dell'acqua. Fu proprio dalla luna, proprio in quel momento, che scaturì il tanto atteso miracolo. All'improvviso, proprio nel centro del lago sul quale ancora regnava la quiete più assoluta, discesa da un raggio di luna, una bambina vestita d'argento danzava sulle sue piccole punte, sul pelo dell'acqua. La luna non era più la sola, adesso, ad illuminare la vallata. La veste brillante della misteriosa ballerina e le sue scarpette da ballo sembravano brillare di luce propria sullo specchio dell'acqua, mentre la bambina ora roteava su se stessa, ora alzava la gamba, ora mostrava sempre nuovi passi di danza. Io non potevo far altro che rimanere immobile, esterrefatto dal superbo spettacolo che mi si parava davanti. Solo io potevo vederlo: ero stato scelto, ero un predestinato. Nonostante andassi ogni sera a trovare la bambina della luna, vederla volteggiare sinuosamente nel bel mezzo dell'acqua del lago e della vallata non poteva mai essere noioso e privo di interesse. Anzi, la contemplavo con sempre più curiosità, ogni volta sempre di più. Lei si spostava, si muoveva ancor più vorticosamente, e la luce da lei emanata la seguiva prontamente, irradiando ciò che le si trovava accanto. Continuava per qualche minuto, ogni volta. Poi se ne andava all'improvviso, e con lei la luce abbagliante sul lago. Risaliva lungo il raggio di luna, pensava il mio cervello di bambino, per incontrare di nuovo le sue amichette, le altre bambine della luna, in modo da poter danzare e volteggiare tutte insieme sull'astro luminoso finché esso avesse avuto luce, prima di lasciar posto al sole. Di lì a poco, credevo, sarebbe finito come tutte le altre volte. Ma non fu così. Non quella sera. Senza che me ne accorgessi, il suo volteggiare l'aveva portata sempre più vicina al bordo del lago su cui io stazionavo ogni sera con gli occhi avidi della sua luce. Quando lei fu abbastanza vicina, smise di ballare, e per la prima volta da quando l'avevo conosciuta, si fermo di punto in bianco. Mi guardò d'improvviso dritto in volto, sorridendomi gentilmente. Era solo ad un paio di metri distante da me. Contemplai il suo viso luminoso, il suo tenero sorriso, il suo corpo snello e minuto... Fui come pietrificato da tutta questa eterea bellezza, ed al contempo ebbi una sensazione unica di divina beatitudine mai provata fino ad allora, e mai più provata ancora. Stava proprio davanti a me, quella bambina. Scoprii che era di poco più piccola di me. Lei fece un piccolo passo, poi un altro, e un altro ancora dietro al precedente. Si fermò. Mi prese la mano sinistra con entrambe le sue, e si alzò sulle punte dei piedini. Mi baciò sulla guancia, un breve istante, e mi sorrise ancora quand'ebbe finito. Non ero più solo, adesso.
./012/!9! ! Il punto chiave [Bon Zo] Tratto da La galleria Ubriaca Innumerevoli sedute dallo psichiatra. Viaggi di sola andata Emanavano terrore. Uno strano tipo, un gigolò, mi si attaccò ad una gamba, mentre sagome sinuose mi sfioravano soltanto. Due nobili, madre e figlia, passeggiavano allegramente con i loro due cani. Ragazzi di strada esercitavano le loro voci per l’avvento delle telefonate erotiche. A volte superavano la durata di tre ore. Ad un tratto le nobili Cominciarono a mangiare. I cani a scodinzolare. L’operaio fece finta di non vedere. La principessa troverà la sua anima gemella? Ha i già i suoi gioielli Mancano solo i corteggiatori. Costruiti completamente con sostanze stupefacenti. Cresciuti grazie alle interminabili onde radio. Senza trucchi. Certo bisogna considerare L’importanza del lavoro. Di sicuro non si può Elemosinare sempre. Ma i costi sono pari alle offerte? Vale la pena insistere sullo sforzo? Voti contro il diritto d’autore Solo perché hai esaurito le idee. E se mai dovessimo contrastarli, riusciremo mai a non raccontarci menzogne, a portarci avanti, senza nessun pudore, liberi di essere, riusciremo mai? Mandare a quel paese l’aristocratico, senza mai concordare con le idee del filosofo, piangendo sul proprio letto di morte, mordendo quelle coperte che tanto ci avevano scaldato. Abbiamo date caterve di risposte inutili. Le parole esposte sono svanite In nuvole di fumo. Come può essere tutto sacro? Ci siamo aiutati con sostanze, che sostanze rimangono. Ci siamo arrampicati Sino a scoprire il segreto, ma siamo rovinosamente precipitati appena l’abbiamo afferrato. Chi di noi ha il coraggio Di compiere il sacrificio? E quando la più banale stella griderà: “ Solo io ho vissuto, io vi ho dato la strada! ” Allora ci guarderemo negli occhi
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E pronunceremo cento mea-culpa Senza però trarne risultato. Le lacrime saranno eterne E il mondo somiglierà sempre più all'inferno.
I pensieri hanno bisogno di schiaffi [Francesca Pittau] Voglio scrivere Come si fa quando si è stanchi e, per distendersi, ci si lascia scorrere forte l'acqua sulla testa. Scende, sul viso, avvolgendo delicatamente tutto il corpo; picchiando solo lì, dove i pensieri a volte hanno bisogno di schiaffi.
Sulla necessità ontologica di scrivere [Stefano Curreli] - Mamma, voglio fare lo scrittore. - Va bene, ma che lavoro vuoi fare? - Lo scrittore. - Sì, ma per vivere poi cosa fai? - Lo scrittore. - E se non ti daranno da mangiare, poi, cosa farai? - Mi consolerò pensando di essere uno scrittore. - Ti serve un lavoro vero. Le parole non puoi mangiarle. - Inizierò a renderle commestibili. - Ho paura per la tua vita. - Anche io ho paura, per la vita degli altri.
Abbracciato alla letteratura [Jack di fiori] Temperare gustose matite diverte Quanto spaziare con la mente Inventare e creare, io inerte Trasportato da figure soavemente Intrappolate, libero esse attente Parole accorte immagini aperte Al mondo che aspetta ignorante Il cambiamento attraverso carte Giocate per mano di chirurghi Armati di penna tenuta con cura Ed inciso il loro nome come profughi Per non perdersi nel dolore della tortura Palloncini in un cumolo di aghi Non esplodono abbracciati alla letteratura