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Stangata assicurata Vittorio Malagutti 52 Giustizia, la toga si è ristretta Simone Alliva
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by BFCMedia
organizzare il bando di due concorsi all’anno per il reclutamento di nuovi magistrati. La pandemia è entrata in scena e ha messo in fermo il tutto.
«La prima cosa da fare è coprire le piante organiche. La situazione è questa: qualche anno fa il ministro Bonafede ha fatto un significativo ampliamento della pianta organica. Un fatto indubbiamente positivo, anche se alcuni uffici sono stati dimezzati e altri no, eppure dal punto di vista astratto il numero dei giudici previsto è senza dubbio aumentato. A questo però non ha fatto seguito l’assunzione di giovani colleghi. I fattori sono vari, pensiamo al fallimento dell’ultimo concorso per i 310 posti di magistrato ordinario, bandito nel 2019 e slittato per due anni a causa del Covid-19: non sono stati coperti tutti. Ora c’è un nuovo concorso a 500 posti, i candidati sono 6524 e a loro è arrivato l’augurio della ministra Cartabia. Ma i tempi per far entrare in servizio i nuovi colleghi sono lunghi, ci vogliono due anni. Non è problema di facile soluzione ma certamente le procedure vanno accelerate perché senza i magistrati presenti i processi non si fanno, a prescindere dalle regole», riflette Maurizio De Lucia, Procuratore della Repubblica di Messina.
Il surreale cortocircuito di questo sistema giudiziario sguarnito dagli addetti ai lavori va a ricercarsi, come spesso accade, in una mancata visione politica a lungo termine, ricorda De Lucia: «Tutto viene sempre fatto senza una programmazione completa. Trovo sia giusto mandare in pensione i settantenni, come ha fatto il governo Renzi. Però questo va fatto tenendo conto delle conseguenze. Aver mandato in pensione in una sola volta molti magistrati ha creato diversi effetti. Uno di questi, ad esempio, è che in realtà molti magistrati non vanno più in pensione a 70 anni ma a 66. Un tempo si entrava in magistratura relativamente giovani e va detto, oggi quelli che si rendono conto di non poter aspirare a incarichi direttivi, rinunciano agli ultimi quattro anni di carriera e se ne vanno in pensione. La scopertura viene quindi anticipata rispetto ai tempi previsti. Molti escono e pochi entrano per riempire il vuoto. Non c’è programmazione. Non siamo in grado di sapere né quanti colleghi se ne vanno e neanche quando verranno sostituiti dai nuovi. Si parla tanto di aziendalismo ma la prima cosa è saper gestire le piante organiche e integrarle. I tempi dei nostri concorsi non sono compatibili con le esigenze che sono quelle di avere presto un giudice in servizio».
Eppure qualcosa si muove, la riforma Cartabia ha ripristinato il concorso di primo grado che concede l’accesso libero a tutti i neolaureati in Giurisprudenza che possono tentare subito l’ingresso in magistratura. Un modo per accorciare tempi biblici che prevedevano, dopo la laurea quinquennale, dei corsi che duravano altri due anni, più i tempi della selezione. Ma, specifica De Lucia: «L’intera carriera andrebbe pensata non in maniera estemporanea a seconda degli umori del governo».
Anche Raffaele Cantone, oggi procuratore capo a Perugia, in passato alla guida dell’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione vede con favore il ripristino del concorso di primo grado: «Non servono meccanismi di ingresso straordinario. La magistratura ha bisogno sicuramente che questi posti siano coperti ma con qualità. Interventi straordinari rischiano di abbassare il livello qualitativo che è l’ultima co-
PROCURA
Raffaele Cantone, ex capo dell’Autorità anti-corruzione, dirige la procura della Repubblica di Perugia. In alto, il pm di Roma Eugenio Albamonte, segretario della corrente Area. A destra, il Csm
sa che ci possiamo permettere. Sono tanti i giovani che aspirano a fare i magistrati: si possono aumentare i numeri dei posti messi a concorso e credo sia proprio questa la soluzione, sperando che nel giro di due o tre sessioni la situazione migliori». Sui vuoti delle corti d’Appello pesa l’appetibilità degli incarichi. «Soprattutto nel penale, c’è una parte tutta cartolare, poco attraente dal punto di vista processuale. Bisognerebbe creare meccanismi di incentivazione affinché i magistrati ci vadano», aggiunge Cantone.
Intanto, nei giorni scorsi, è partita la complessa macchina organizzativa che deve portare nuova linfa nelle fila della magistratura italiana, grazie al concorso per 500 nuove assunzioni. Un appuntamento delicato, al quale il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia guarda con speranza per risolvere la questione dei posti vacanti in magistratura: «Abbiamo fatto pressing sulla ministra perché indicesse questi concorsi. Nonostante questi dati siano davvero preoccupanti, aggravati anche dalla questione Covid-19, possiamo essere speranzosi. Certo, i concorsi non hanno tempi rapidissimi».
Non celeri, in effetti. Le prove di concorso che cominceranno questo mese si trascineranno per un anno e mezzo. Un altro anno e mezzo passerà per via del tirocinio. I 500 magistrati, dunque, entreranno in servizio soltanto fra tre anni e sei mesi. Dentro questo tempo un continuum di pensionamenti e posti che si svuotano.
«Il combinato disposto degli spaventosi vuoti di organico in magistratura e della disciplina di improcedibilità porterà al macero il settore penale», è la fosca previsione di Giovanni Zaccaro, presidente della terza commissione del Csm che si occupa dell’accesso in magistratura e anche dei concorsi delle nuove toghe.
Zaccaro è stato giudice a Bari, fa parte di Area: «In questo momento a Bologna mancano 13 sostituti ma a Modena ne mancano sette e a Parma 14. I vuoti non li copriremmo automaticamente tutti se adesso facessimo il concorso. Perché accade anche che la gran parte dei magistrati opti per le sedi considerate più appetibili come Roma, Milano, Napoli e Bologna. Per converso, rischierebbe di svuotarsi la Calabria, dove si va solo come prima nomina, al pari di Sardegna, Friuli, Piemonte settentrionale e da dove si va via alla prima opportunità. Bisogna stare attenti quando si fanno queste riforme che sembrano a costo zero. Tutti gli uffici giudiziari sono scoperti, non solo quelli delle capitali: Crotone, Locri, Castrovillari, Enna, Caltanissetta».
Come in un gigantesco domino, ogni variazione delle tessere pregiudica le altre. E così al blocco dei concorsi, al prepensionamento, a due anni di fermo da pandemia, all’aumento delle piante organiche mai riempite, si aggiungono gli effetti dell’improcedibilità. È quello che Zaccaro chiama «combinato disposto»: «Segnaliamo da tempo la disaffezione per i posti di secondo grado, cioè le corti d’Appello. Non ci vuole andare nessuno e non da ora. Adesso saranno sempre più vacanti per colpa di questa nuova riforma che impone la cessazione dei procedimenti in due anni. I giudici sono disincentivati perché hanno questa tagliola che pende. Non è bello dire che un processo è improcedibile se non si riesce a fare in due anni». Q
MINISTRA
Marta Cartabia, ex giudice e presidente della Corte Costituzionale, guida il ministero della Giustizia del governo Draghi dal febbraio del 2021
IL CONTROLLO DA PARTE DI STATI E BIG TECH AVVIENE ACCUMULANDO DATI CHE NOI STESSI CONCEDIAMO. UNA TENDENZA ACCELERATA DA GUERRA E PANDEMIA. PARLA UN ESPERTO
COLLOQUIO CON DAVID LYON DI SIMONE PIERANNI
Foto: Getty Images l concetto di sorveglianza si è evo-I luto nel tempo, passando da un atto compiuto da un’autorità - ad esempio attraverso le telecamere per la strada - a uno strumento per ottenere altri risultati. Questo cambiamento è avvenuto principalmente a causa dello sviluppo tecnologico, dell’arrivo di sistemi di tracciamento molto più evoluti che hanno finito per comportare una responsabilità anche nostra, dei cittadini. La sorveglianza oggi è diffusa e si basa principalmente sui dati che vengono raccolti, ovunque e in ogni momento, in modo talvolta subdolo, sempre più spesso “volontario” da parte nostra. La sorveglianza oggi è un processo di raccolta di dati di ogni persona, affinché con quei dati si possano produrre altri comportamenti: elettorali, su acquisti, gusti, o come reazione rispetto a una guerra ad esempio. E i sistemi basati sull’accumulo dei dati finiscono per essere convertiti in modo decisamente rapido per altre evenienze, come accaduto per la pandemia. È una delle tesi presenti nell’ultimo libro di David Lyon “Gli occhi del virus, pandemia e sorveglianza” (Luiss University Press, 2022, 16 euro). Lyon è un veterano nello studio dei sistemi di sorveglianza e ha modificato il suo sguardo a seconda di come sono cambiati i modi attraverso i quali le nostre vite sono finite al setaccio di aziende e Stati. Ma nel libro precedente - “La cultura della sorveglianza” (Luiss University Press, 2020) - Lyon aveva già evidenziaSimone to come ormai non ci siaPieranni no solo controllori istituGiornalista zionali: noi stessi siamo ormai diventati, a nostra volta, controllori. La pandemia ha “esploso” questa prassi attraverso un evento “emergenziale” nel quale sono emerse tutte le caratteristiche dell’attuale mondo della sorveglianza. Un’emergenza che ha finito per planare anche su un’altra emergenza, come ad esempio la guerra in Ucraina. Il sistema di sorveglianza messo in piedi dallo Stato russo ha permesso una immediata repressione delle voci dissonanti rispetto all’“operazione speciale” voluta da Putin. Ma la guerra ha finito per creare anche altri cortocircuiti. Aziende spregiudicate nella raccolta di dati come Clearview hanno provato a ripulire la propria immagine fornendo i propri servizi allo Stato ucraino. Clearview è una società di sorveglianza che «raccoglie tutte le foto che trova su Internet pubblico - come riportato dalla ong Privacy International - e le archivia nel suo database. Quindi vende l’accesso al suo database a vari clienti, in particolare alle forze dell’ordine, che possono eseguire ricerche nel database caricando foto di soggetti di interesse e trovare volti corrispondenti. Questa raccolta indiscriminata di foto e altre informazioni personali, all’insaputa o al consenso delle persone, minaccia i diritti e le libertà di tutti online e offline e l’uso del database di Clearview da parte delle autorità rappresenta una notevole espansione del regno della sorveglianza, con un potenziale reale di abuso».
Nel sottobosco di queste “emergenze” lavora sempre in modo incessante la raccolta dei dati, il vero petrolio della nostra epoca. «A cambiare le cose rispetto al passato», dice all’Espresso David Lyon, «sono stati i social media e le app e principalmente lo smartphone come estensione dei no-
stri corpi». Nel libro Lyon sostiene che spesso si interpreta la sorveglianza come «la condizione di essere osservati da qualcuno», ma oggi l’osservazione «non è più principalmente letterale, si esercita soprattutto attraverso i dati» e il connettore principale tra persone e sorveglianti è lo smartphone che Lyon definisce “Personal Tracking Device”.
Le nostre reazioni ai fatti, come ad esempio una guerra, attraverso like, condivisioni di contenuti, commenti, sono immagazzinate e poi potenzialmente utilizzate anche per modificare la nostra percezione di quanto accade intorno a noi. Ogni evento, anche avverso, costituisce un’occasione per raccogliere dati. Nel suo ultimo libro David Lyon ricorda il tentativo di Alphabet, cioè Google, di creare un’utopia tech, una smart city a Toronto. Progetto poi rifiutato da residenti e istituzioni e infine abbandonato. Ma rimane un sintomo, secondo Lyon, del costante tentativo da parte delle corporations (e degli Stati) di mettere mano ai nostri dati. E quando capita una pandemia i dati sanitari di milioni di persone sono un bottino ambito. Da questo contesto, durante l’epidemia di Covid, è nata una sorta di ideologia, quella del “tecno-soluzionismo”, ovvero credere che la tecnologia possa essere una risposta a tutto anche quando le soluzioni non sembrano funzionare, per niente. L’esempio degli esempi, secondo Lyon, è il contact tracing, diventato, o meglio “venduto”, come “ la soluzione”. «La parola fuorviante “soluzione” – spiega Lyon - iniziò a essere usata nella pubblicità verso gli anni ’90 e si basava sulla presunzione che un’azienda potesse risolvere qualsiasi problema. La malattia del “soluzionismo” ha poi preso definitivamente piede dopo l’11 settembre, quando il “problema” è stato definito come terrorismo e scoprire terroristi e complotti terroristici era diventata la priorità. Telecamere di sorveglianza, biometria, sistemi di rilevamento di ogni tipo sono diventati popolari tra le agenzie di “sicurezza” e sono state numerose le iniziative per indebolire le “minacce terroristiche” basate sull’ottenimento e l’analisi dei dati. E dato che in molti paesi la pandemia è stata definita tanto un problema di “sicurezza” quanto un problema di “salute pubblica”, sono stati adottati gli stessi tipi di approcci “soluzionisti”. Ma spesso mancavano di un’analisi attenta del problema, venivano testati in modo inadeguato e, ovviamente, dipendevano ancora una volta dall’adozione e dal loro utilizzo da parte delle persone. La stessa Organizzazione mondiale della sanità ha visto il tracciamento dei contatti come un dispositivo possibilmente utile, ma ha messo in guardia contro l’eccessivo affidamento su di essi, in parte per questo motivo».
In un modo o nell’altro, nei paesi democratici come in quelli autoritari, il sistema di tracciamento ha mostrato limiti e in molti casi non ha funzionato per niente. E in diverse occasioni ha dimostrato di poter essere un ulteriore sistema di controllo. In alcuni paesi i dati sanitari sono finiti alle polizie locali; in altri paesi autoritari, come la Cina, il sistema di tracciamento (a sua volta adattato sul sistema di sorveglianza già preesistente) è diventato in poco tempo uno strumento nelle mani dello Stato per gestire l’ordine pubblico. Alla base di tutto, come sostiene Lyon, c’è la raccolta dei dati, come se fosse un’attività ingorda e costante a prescindere dall’esito immediato di tale raccolta. I dati vengono raccolti, ogni occasione è buona e poi si vedrà: a qualcosa prima o poi serviranno.
Sui Big Data Lyon spiega che la problematica principale riguarda «gli attuali accordi di dipendenza del governo dalle piattaforme e l’ossessione delle piattaforme o di ottenere contratti governativi o di assumere effettivamente funzioni governative, attraverso le smart city, ad esempio». La gestione dei dati, poi, «è diventata essenziale per ogni sfera della vita in molti paesi e quindi la politica dei dati è diventata una delle aree più importanti per il dibattito politico. Uno dei motivi principali per cui ciò è problematico è che le disposizioni
PRIMA LA LOTTA AL TERRORISMO POI LA POLITICA SANITARIA HANNO GIUSTIFICATO QUESTE PRATICHE. MA IL TRACCIAMENTO HA MOSTRATO DI NON FUNZIONARE
STUDIOSO
David Lyon studia da tempo i problemi della sorveglianza digitale. Il suo libro più recente è “Gli occhi del virus. Pandemia e sorveglianza” (Luiss University Press, 176 pagine, 16 euro)
LA QUESTIONE RIGUARDA I PAESI AUTORITARI COME LE DEMOCRAZIE. TUTTI DOVREMMO ESSERE COINVOLTI POLITICAMENTE PER SCRIVERE NUOVE REGOLE
attuali tendono alla riproduzione e all’esacerbazione delle disuguaglianze già esistenti nella popolazione di qualsiasi paese». È una questione che ormai non riguarda più solo il concetto di privacy : «La sorveglianza produce effetti non solo individuali, ma anche profondamente sociali. La sorveglianza ci rende visibili ad altri sconosciuti in modi che non hanno precedenti, e attraverso l’analisi dei dati da parte degli algoritmi ci rappresenta anche in modi particolari, e da questo dipende anche il modo in cui veniamo trattati da aziende o istituzioni. Questa è una questione sociale e politica, motivo per cui, sebbene la privacy sia importante, dobbiamo andare oltre la privacy per cercare di ottenere più diritti nella gestione dei dati. Credo che abbiamo bisogno di un nuovo contratto sociale digitale, appropriato per i tempi in cui viviamo, e arrivare ad accordi veri e consapevoli su come vengono utilizzati i dati, dove e quando. Cosa è lecito nel mondo e cosa dovrebbe essere bandito? Qualcosa del genere potrebbe essere davvero molto utile quando affronteremo la prossima pandemia globale».
Già ma cosa fare nel frattempo? Secondo Lyon, «siamo in un momento di opportunità poiché la pandemia è diventata meno grave e stiamo imparando a conviverci. Molti hanno parlato in termini “apocalittici” della pandemia, sottolineandone gli effetti disastrosi. Ma “apocalisse” nella sua origine greca non riguarda solo una catastrofe ma anche la possibilità di svelare, di mettere a nudo. E la pandemia ha messo a nudo, sì, ha rivelato ancora di più: il rapido tasso di crescita di nuove forme di sorveglianza. E questo ha fatto sì che la sorveglianza sia diventata una questione pubblica importante che richiede attenzione ai nuovi danni che essa comporta. E poiché siamo tutti coinvolti nell’uso delle tecnologie, dovremmo essere tutti coinvolti, politicamente, nel superare i problemi causati da Big Data, AI, Machine Learning eccetera. Questo compito non può e non deve essere lasciato solo alla politica». Q
In alto: una dimostrazione di Intelligenza artificiale applicata al riconoscimento facciale in una folla di persone
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