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Così ho scoperto la libertà Tim Parks

in stivali e redingote, va a Londra con Virginia Woolf e a Venezia con Sophie Calle, e poi a Tokyo, a Parigi e di nuovo nella Grande Mela, dove l’autrice si perde. È sospeso tra due mondi anche Romeo, che atterra a New York dall’Italia, il protagonista di “Empire State”, secondo e conclusivo volume del graphic novel “Il viaggiatore distante” (Coconino Press) di Otto Gabos, che trasporta il lettore in un thriller intorno al mistero di Sal Bagatta, l’architetto morto in strane circostanze mentre progettava un nuovo luna park a Coney Island. Ora New York ridiventa prossima, le distanze si accorciano sulla spinta della memoria. Altre mete invece restano imperscrutabili, come il fiume Amur sembrano minacciose, “La notte sopra di me risplende di stelle; nell’immenso cielo della Mongolia, la Via Lattea scorre in un gelido torrente di luce. Poi l’alba diffonde un chiarore flebile”

sulla scia del conflitto in Ucraina. Per scrivere “Tra Russia e Cina” (Ponte alle Grazie) Colin Thubron, uno degli ultimi grandi viaggiatori del Novecento, a ottant’anni ha seguito per tremila miglia il corso d’acqua che segna il confine tra i due Paesi. Un avvincente resoconto di viaggio che mescola geografia, sociologia, antropologia. «La notte sopra di me risplende di stelle; nell’immenso cielo della Mongolia, la Via Lattea scorre in un gelido torrente di luce. Poi l’alba diffonde un chiarore flebile, quasi alieno», scrive lo scrittore londinese, alimentando il fascino di quei luoghi remoti. Lo stesso enigma avvolge gli agglomerati urbani di fantasia de “Le città invisibili” di Italo Calvino. «Sul meccanismo della non riconoscibilità, l’invenzione dell’altrove, si basa la serie di relazioni di viaggio che Marco Polo fa a Kublai Khan per descrivere le città visitate nelle sue ambascerie. Città immaginarie, fuori dallo spazio e dal tempo, ciascuna chiamata con un nome di donna», sottolinea Antonio Politano, direttore artistico del Festival della letteratura di viaggio (Roma, 29 settembre-2 ottobre), che in occasione dei 50 anni dalla pubblicazione del

chiamate a casa per l’onomastico della nonna. La pandemia ci ha uniti e divisi in molti modi. Soprattutto ha diviso chi aveva paura da chi non l’aveva. Chi non voleva saperne della mascherina all’aria aperta da chi la portava pure nella più sperduta campagna. La paura è il grande nemico della libertà. Nell’estate del 2020, con il primo allentamento delle regole, abbiamo provato a fare un bis garibaldino con una marcia dal Lago Maggiore al Lago di Garda, il percorso dei Cacciatori delle Alpi del 1859. Ma già a Como abbiamo mollato. Era troppo triste. Nessuno si salutava più sui sentieri. Gente che si girava dall’altra parte per paura del contagio. Musei ancora chiusi. Negozianti guardinghi. Ma è stato in Sicilia nel giugno del ’21 che abbiamo sentito la massima tensione tra chi voleva ripartire e chi no. Prendendo un traghetto dall’isola di Favignana a Marsala, per arrivare, come i garibaldini, dal mare, ci siamo ritrovati assillati da un capitano con la barba nera che minacciava di sanzionare chiunque abbassasse la mascherina anche un millimetro sotto il naso. Ed eravamo quattro gatti. Come non pensare all’uomo sul ponte del vapore Lombardo che urlava: «Sono Nino Bixio! Dovete obbedirmi tutti; guai chi osasse una alzata di spalla». Ma loro andavano in guerra. Al castello di Salemi, il vecchio custode ci ha negato l’entrata perché il termometro a pistola non voleva misurarci la febbre. Eravamo gli unici visitatori. C’erano 40 gradi. Forse troppi per il termometro, posizionato su un cavalletto al sole. Non è che a fine pandemia viaggiare cambierà per tutti nello stesso modo. Chi ha faticato ad accettare le restrizioni magari insisterà a fare vacanze più avventurose, deciso a tutti i costi a vivere intensamente. Che potrebbe voler dire movida sfrenata, immersioni ardite, foreste amazzoniche. In molti hanno addirittura lasciato il lavoro per essere più liberi e fare viaggi più lunghi, senza chiedersi quando torneranno. Ma c’è chi si è sentito protetto durante il lockdown e, ricominciando a viaggiare, cercherà ogni possibile garanzia, prenotando con largo anticipo, studiando le mete meno frequentate. Conosco chi ha trovato alloggio nella montagna più remota per limitare al massimo i contatti. E chi ha dovuto irrompere in casa della sorella e tirarla fuori di forza da un’incarcerazione autoimposta. Tornare a viaggiare è un atto di fede. Ad agosto noi faremo un’altra passeggiata, questa volta sulle orme di D.H. Lawrence nel 1913, da Costanza a Milano passando per il San Gottardo. Grande viaggiatore, per quanto di salute cagionevole, Lawrence odiava la paura. «Ti viene addosso», scrisse, «l’assoluta necessità di muoverti». So esattamente cosa voleva dire. Q

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celebre volume ospiterà un incontro-confronto tra circoli di lettura sui “libri di viaggio” di Calvino e Giorgio Manganelli.

Per alcuni editori, inoltre, la pandemia è stata l’occasione per spingere l’acceleratore sui viaggi “impossibili”, nel momento in cui spostarsi era proibito o quasi, sollecitando riflessioni su temi cruciali come ambiente e cambiamenti climatici. La natura, un’isola deserta circondata dalla barriera corallina, fa da sfondo potente al romanzo di Daniele Pasquini “Un naufragio” (Sem), i cui protagonisti, Valentina e Tommaso, sposi novelli già in crisi, sopravvivono a un disastro aereo dopo il viaggio di nozze alle Seychelles, finiscono su un atollo e lì trovano finalmente il coraggio di guardarsi dentro. Mentre nella collana The Passenger, Iperborea ha pubblicato “Spazio”, “Nigeria” e ora “Oceano”, titoli interessanti svincolati dai flussi turistici. «Viaggi impossibili se non sei Elon Musk», ironizza Pietro Biancardi, alla guida della casa editrice che alla crisi ha reagito puntando su Italia e mete estreme. «A settembre uscirà il volume dedicato a Barcellona. Abbiamo scelto una destinazione del turismo di massa: perché con la pandemia è cambiato, forse per sempre, il rapporto tra gli abitanti e le città in cui vivono. A Barcellona, Parigi o Venezia non vogliono più essere sfruttati dall’industria dei viaggi», aggiunge l’editore.

Per cambiare prospettiva occorre rallentare il passo, assaporare la lentezza, entrare in sintonia con la natura. Guardare il mondo dalle due ruote, come Enrico Brizzi nel monumentale “Il fantasma in bicicletta” (Solferino), quasi 750 pagine all’inseguimento di Giovannino Guareschi e del suo “giretto” del 1941, un anello di oltre 1.200 chilometri da Milano alla Riviera romagnola e ritorno via Ferrara, Verona, Lago di Garda. Un percorso fisico estenuante e uno letterario altrettanto impegnativo sulle orme di uno scrittore popolare e controverso. Oppure bisogna salire in montagna come Caterina Soffici, che si ritrova quasi per caso a 1.700 metri in un borgo sotto il ghiacciaio del Monte Rosa. Il suo libro “Lontano dalla vetta” (Ponte alle Grazie) narra il piacere di una vita più semplice, grazie a un gregge di caprette, un branco di lupi, un’aquila e alcuni personaggi usciti da una favola. «Nella nostra collana Passi, con il Cai, la montagna è protagonista in tutte le sue declinazioni. Ma è una montagna non agonistica né competitiva», sottolinea Cristina Palomba, responsabile editoriale, insieme a Vincenzo Ostuni, di Ponte alle Grazie: «È una tendenza visibile: in questo periodo si moltiplicano i libri che parlano di viaggi a piedi, nella natura e all’aria aperta. Un turismo di prossimità lento e poco costoso. Microavventure in un altrove vicino». Q

Dall’alto: la città di Torbole, in Trentino, sulle rive del lago di Garda; Firenze

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Qui sopra, da sinistra a destra: Maria Teresa Horta, Maria Velho Da Costa e Maria Isabel Barreno all’uscita del tribunale di Lisbona nel 1973 Un libro scritto da tre donne parla di sessualità e ridicolizza l’idea del maschio. Nel 1972, nel Portogallo della dittatura. Che ritira il volume e processa le autrici Èun Paese conservatore e immobile, da più di quarant’anni intrappolato in una dittatura colonialista, il Portogallo in cui nel 1972 esce “As novas cartas Le Novas Cartas ricalcano, stravolgendolo, il modello di un’opera epistolare amorosa del Seicento, in cui una monaca portoghese, Mariana Alcoforado, languisce d’amore per un soldato francese con cui aveva una relazioportuguesas”, “Le nuove lettere porto- ne clandestina. Le Tre Marie riprendoghesi”. Un libro scritto da tre donne in no la storia e le sofferenze di Mariana, un Paese dominato dagli uomini, che riscattandola dalla sua posizione suparla di sessualità e piacere femminile, bordinata. Nelle Novas Cartas comparidicolizza l’idea del maschio, ne sma- iono voci di donne che si intrecciano, schera vizi e presunzioni. E infatti il re- dialogano, raccontano, si ribellano e gime portoghese, che cadrà solo due ridono di un sistema che le penalizza anni dopo, il 25 aprile 1974, reagisce al e ne perpetua l’oppressione. È un’opelibro scandaloso di Maria Isabel Barre- ra arguta e ironica, che indica, precisa no, Maria Teresa Horta e Maria Velho e dissacrante, tutte le contraddizioni da Costa ritirando il volume tre giorni sociali e politiche della società portodopo la pubblicazione e incriminando ghese, dalla guerra coloniale alla sie processando le autrici. Loro, da quel tuazione delle donne. momento conosciute come le Tre Ma- «La scrittura a sei mani fu un gesto di rie, avevano già pubblicato, ognuna per solidarietà meraviglioso, sorprendenproprio conto, altre opere ritenute im- te», racconta Maria Teresa Horta a L’Emorali dal regime. spresso: «Un giorno, dopo la mia ag-

L’ultima a farlo, Maria Teresa Horta, gressione, Isabel tirò fuori dalla borsa l’unica delle tre ancora oggi in vita, ave- tre fogli di carta e ci disse: “Ecco, prenva subito, per il suo libro di poesie dete, questo è il primo testo. Volevate “Minha Senhora de mim”, “Mia signora scrivere un’opera epistolare? Ecco di me,” persecuzioni personali, telefo- qua”. L’unica cosa che ci dicemmo nate notturne e un pestaggio per stra- sempre fu: la prima lettera è di Isabel, il da. Horta, giornalista del quotidiano A resto nessuno saprà chi lo ha scritto. Fu Capital, in quel periodo aveva intervi- un processo molto interessante, una stato Maria Isabel Barreno, a sua volta delle cose più belle della mia vita». amica di Maria Velho da Costa. Ne era Dopo l’uscita del libro le tre autrici nata un’amicizia e le tre avevano inizia- furono sottoposte a interrogatori sepato a incontrarsi ogni settimana per rati, ma non rivelarono mai chi avesse pranzo al ristorante Treze, ritrovo di scritto cosa, nonostante l’insistenza giornalisti e intellettuali nel quartiere della polizia che chiedeva chi di loro Bairro Alto di Lisbona. Fu proprio du- fosse l’autrice dei testi considerati più rante un pranzo al Treze che nacque scabrosi. Si rifiutarono di rivelarlo anl’idea delle Novas Cartas. L’arrivo di che successivamente. Gli interrogatori Horta piena di lividi dopo l’aggressione furono condotti dall’equivalente della scosse le compagne che reagirono con buoncostume italiana, e non dalla Pila frase che diede inizio all’opera: «Se de, la polizia politica, nel tentativo di un libro scritto da una donna sola ha sminuire e strappare all’opera il suo veprovocato tanto scalpore, immagina- ro portato, non riconoscendone la protevi che succederebbe se a scriverlo fonda dimensione politica. fossimo in tre». Un libro non concepito come fem-

A lato: le Tre Marie. Sotto: donne che protestano davanti all’ambasciata portoghese all’Aja, in Olanda, il 25 ottobre 1973

minista, ma che finì inevitabilmente per diventarne un manifesto, grazie anche alla lettura che ne fecero le femministe francesi e inglesi. Se in Portogallo infatti il regime lo censurò quasi immediatamente, il libro ottenne successo e notorietà all’estero. «Un amico di Maria Isabel Barreno portò il nostro libro in Francia. Non potemmo parlarne al telefono, né per posta. Ci incontrammo di persona e lui partì con due o tre copie», racconta ancora Horta.

L’opera arrivò a Marguerite Duras, Simone de Beauvoir, Doris Lessing e Iris Murdoch e soprattutto in Francia divenne un simbolo della ribellione femminile contro il potere oppressore. Fu lanciata una petizione di mobilitazione internazionale per chiedere il rinvio del processo e organizzate manifestazioni di solidarietà. Al Congresso della National Organization for Women (Now), nel giugno del 1973 a Boston, si parlò delle Tre Marie e furono distribuiti volantini con il resoconto delle udienze.

L’eco internazionale non arrivò però in Portogallo, ancora colpito da una pervasiva censura di regime. Antonio de Oliveira Salazar era morto nel 1970, due anni dopo una caduta da una sedia che lo aveva costretto a lasciare il governo a Marcelo Caetano. Nonostante la promessa di apertura del regime, Caetano aveva proseguito la politica dittatoriale, mentre cresceva nel Paese il malcontento per la decennale guerra coloniale in Africa.

Arrivò solo, quasi nascosta e su pochissimi giornali, la notizia del processo che le tre scrittrici subirono nell’ottobre del ‘73. Qualche giornale ne parlò, dando conto della decisione del giudice di evacuare l’aula del tribunale dove si erano date appuntamento intellettuali straniere e portoghesi, giornalisti e osservatrici dei movimenti femministi.

Fu solo dopo il 25 aprile del 1974, con la fine della dittatura, che le tre Marie vennero definitivamente assolte. Un mese dopo la ritrovata democrazia il giudice Acácio Lopes Cardoso lesse la sentenza: «Il libro non è pornografico né immorale. Al contrario: è un’opera d’arte, di alto livello, come gli altri che le stesse autrici avevano scritto in precedenza».

“È un’opera senza eguali - spiega Manuela Tavares, attivista femminista e fondatrice dell’UMAR, storica associazione di donne - perché ha fatto entrare per la prima volta nella sfera pubblica portoghese le questioni intime e private delle donne. Durante la dittatura lottare per i diritti delle donne e definirsi femminista significava esporsi pericolosamente”. Tavares racconta che “per l’Estado Novo il femminismo era un nemico ideologico perché andava contro tutto quello che la dittatura pretendeva dalle donne: una vita di sottomissione, casa, figli, marito”. Se da un lato, dopo il 25 aprile 1974, l’uguaglianza di genere si è fatta strada nella politica e nel dibattito pubblico portoghese, i temi “scandalosi” delle Novas Cartas rimangono centrali per la lotta femminista anche molto dopo la fine della dittatura. “In un paese che ha depenalizzato l’aborto solo nel 2007 - sostiene Tavares - il termine femminismo continua a essere una parola poco amata ben dopo il 25 aprile”. Per questo e per la loro valenza letteraria, conclude, le Novas Cartas rimangono un testo fondamentale: “Quando entrai in contatto con il libro, molto tempo dopo la fine del regime, sentii che era imprescindibile che le donne portoghesi lo leggessero e ci riflettessero sopra. E continua ad essere rilevante ancora oggi, a cinquant’anni di distanza, e non solo per ragioni di memoria storica, ma perché è un’opera ancora in grado di scandalizzare e sorprendere”. Q

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Marras

a un album colorato, tira fuori la foto di un bambino con indosso un abitino pied de poule, giacca e pantalone. Ha un uovo di Pasqua in mano, ma sta piangendo disperatamente. «Quel bambino sono io», dice Antonio Marras: «E questa foto esprime al meglio il mio stato d’animo. Sono così: un mix d’inquietudine e di malinconia, mi salva il mio spirito sarcastico e autoironico, a tratti divertente, direi, per pochi intimi. Mi piace cazzeggiare. Ho la capacità di complicare tutto e faccio diventare ostico ciò che non lo è. Ho la propensione al martirio, mi piace crogiolarmi nel dolore e nel tormento, non mi rendo conto degli altri interlocutori, ma li rispetto e mi piace pensare che, anche se a pochi, i miei messaggi e le cose che faccio prima o poi arrivino». Uno, (mai) nessuno e centomila. È così lo stilista algherese e milanese d’adozione. Osserva, si alza, si siede di nuovo e inizia a disegnare, «perché aiuta la concentrazione». Usa come colore base il caffè raffermo che ha in ciotole e tazzine. Unito al blu e al rosso, dà forma ai personaggi simbolo del marchio di moda che porta il suo nome, una storia di vita e di vite intrecciate, splendide quanto complicate, la storia di una passione e di un sapere misto a improvvisazione, professionalità ed esperienza che lo hanno reso il grande artista - perché Marras non è solo uno stilista - che è oggi. Nella sua casa-studio ad Alghero con vista su Capo Caccia – «il nostro gigante che ci protegge, custodisce e abbraccia da lontano»- tutto parla della sua storia, un susseguirsi di giorni e di stagioni mai uguali, in cui la regola non scritta è “non fermarsi”. «Ho fatto del movimento perpetuo una ragione di vita. Non ho un posto dove andare, dice la mia amica Fam, la critica d’arte Francesca Alfano Miglietti, e ha ragione. Sono

D CAOS SARDO Stilista e artista, intreccia poesia e materia, ricerca e tradizione. Senza fermarsi mai. “Sono un nomade, un transumante. La cosa che mi spaventa di più? La noia” di Giuseppe Fantasia un errabondo, un nomade, un transu- re, mettere sopra, poi sotto e poi ancora mante nell’animo e nel corpo. La desti- sopra, aggiungere e togliere, tagliare e nazione non è mai l’obiettivo per me, rattoppare, imbrattare. Alcune mie coll’arrivo non è il punto finale. Preferisco lezioni si chiamano non a caso Laborail “durante”. Mi devo sempre spostare in torio, perché nascono con scampoli e un caos che poi riordino. Vivo e creo in pezzi di stoffa recuperati qua e là che un caos ordinato di cui solo io conosco diventano poi magici. Le mie carte, i le regole. La cosa che mi ha sempre spa- miei disegni e gli oggetti che mi circonventato di più è la noia ed è anche per dano mi ispirano, ma poi mi chiedono questo che faccio tante cose insieme. pietà ed è a quel punto che capisco che Quando le elenco, non ci credo nean- sono finiti. Non ho mai un progetto che io e penso spesso che non ce la farò scritto ma tutto è frutto di circostanze e mai, ma in realtà, trovano la loro strada della mia follia». Che merita sempre i in un mix di tempi, luoghi e spazi ben suoi applausi, diceva Alda Merini, e nel annotati su un calendario che è la mia caso di Marras sono davvero tanti conmappa concettuale, altrimenti non ri- siderato quello che ha fatto e che conticorderei nulla». Nel frattempo, conti- nua a fare. nua a disegnare, poi smette, si alza, Dalla sua prima collezione a Roma, prende altri fogli che non sono quasi nel 1987, «in un palazzone parallelepimai bianchi, risponde a un messaggio, pedo sulla Tibbburtina», come dice lui abbraccia i suoi cani («i miei ragazzi») imitando un accento romano - che con Tore, Gilla e Jacopo Urtis - l’ultimo arri- sua moglie Patrizia chiamarono Piano vato ma già padrone - torna a sedersi e Piano Dolce Carlotta, in omaggio all’oa parlare gesticolando, per poi disegna- monimo film di Robert Aldrich e al loro re e ricominciare. «C’è sempre in me il idolo, Bette Davis, è stato un susseguirsi bisogno e il tentativo di fare delle cose. di eventi. L’Alta Moda, grazie a DomiNasco minimalista, ma poi nel proces- nella che lo fece sfilare per la prima volso sporco tutto. Mi piace toccare, rica- ta con il suo nome, fino alla sfilata al mare, disegnare, cucire, scarabocchia- Petrovsky Passage di Mosca prima della

Il fashion designer Antonio Marras, 61 anni, insieme alla sua famiglia guerra, il cortometraggio “Aspetta” girato nel borgo fantasma di Rebeccu e la sfilata tra i boschi bruciati di Santu Lussurgiu danneggiati dagli incendi, la mostra al museo Archeologico di Sassari e l’ultima a Villa Carlotta, sul Lago di Como. Prima c’è stata l’enorme retrospettiva a lui dedicata alla Triennale di Milano e nel mezzo, gli 8 anni a Parigi da direttore creativo di Kenzo, «ci trattavano come divinità, ma ci siamo, mi sono salvato». Il merito? «Va alla mia famiglia. A mia moglie Patrizia, in primis, che mi è stata e mi è sempre vicina. Quello che sono lo devo a lei. Mi ha esortato e spinto a fare ogni cosa, soprattutto quelle che non avrei mai fatto. Ha una sensibilità speciale nel cogliere ciò che non riesco a vedere e percepire. È la mia più grande sostenitrice nonché la critica più feroce e spietata che ho e, purtroppo - devo ammetterlo con una certa incazzatura - ha sempre ragione lei». «Patrizia sa» è una frase che Marras – che lei invece chiama sempre per nome e cognome in qualunque contesto si trovi - ripete spesso. Patrizia sa dove sta una foto, un vestito o un oggetto che lui vuole in quell’istante; Patrizia sa le date esatte di ogni cosa o evento, il nome di un autore o un musicista da chiamare, cosa si mangia, chi saranno gli ospiti del weekend. Patrizia sa, punto. Con lei ha due figli: Efisio, anche lui nella moda e da poco tornato sui banchi universitari, e Leo, che lavora nell’azienda di famiglia. «Fondamentali sono stati i miei suoceri Tonina e Ninì», precisa l’artista che crea abiti, ma anche tappeti, lampade e ceramiche speciali: «Ci hanno permesso di fare quello che abbiamo fatto. Li abbiamo sempre coinvolti in tutto facendoli però vivere, o tornare, ad Alghero, la loro e la nostra comfort zone. Tonina accompagnava i nostri figli a scuola quando non c’eravamo. Una volta, un professore chiese ad Efisio se fosse figlio di un finanziere di Fertilia e lui disse di sì. Un giorno si presenta Patrizia a scuola vestita come si veste sempre lei, come per la prima alla Scala, e a quel punto si capì che era uno scherzo. Patrizia ama vestire con le nostre creazioni in ogni circostanza. Delle volte mi fa: ma dove lo indosso questo abito? E io: Ma è ovvio: per andare al supermercato». Milano è l’altra base, che li ha accolti da anni in uno degli spazi più belli: Nonostante Marras, in via Cola di Rienzo, zona Solari, esperienza multisensoriale che conquista, uno di quei posti che sanno di casa (Casa Marras), dove il disordine è l’ordine e dove la meraviglia è una continua sorpresa. Il mare sardo sarà pure lontano dai sensi, ma non dal cuore o nell’accento che vagheggia in tutta la struttura. Marras porta in superficie le emozioni, ce le fa conoscere lentamente o in un sol colpo, spiazzando con personaggi di una terra desolata e splendida, portatrici e portatori di un pensiero che viene da lontano, dalle Janas, dalle zone nuragiche, dalle migrazioni, dalle transumanze che non finiscono mai. Come nell’arte di Maria Lai, sua grande maestra e amica. Trama doppia, tra giochi di tessuti e di acqua, lenzuoli e letti, altra passione di Marras. Ne ha diversi nel bel giardino di casa sua, splendidi nel loro essere arrugginiti. «Il letto attrae chiunque: è il posto dove uno nasce, dove fa l’amore e dove si muore, quello in cui si passa quasi la metà della vita. Purtroppo, dopo i 40 anni il tempo corre veloce e dopo i 50 scappa», ricorda, citando Lea Vergine: «A me, invece, non basta mai». Q

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