Alias de il manifesto 15 gennaio 2012

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SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO»

GIONO • BOVE • ROBINSON • COLLINS • OZICK NIETZSCHE • JUNG • LEVINAS • GREEN • WOOLF LEONARDO A LONDRA • QUIROGA A BUENOS AIRES

DOMENICA

15 GENNAIO 2 012 ANNO II, NO° 2

di VIOLA PAPETTI

●●●Nel 1759 il Candide di Voltaire affacciò il suo volto bianco sulla scena letteraria francese, e fu subito smascherato. Dietro quel volto, in cui chiunque poteva identificarsi, si era combattuta una dura battiglia contro l’ottimismo, la fiducia nella bontà dell’uomo, della Provvidenza divina e della chiesa cattolica. Chi si riconobbe in quel Candide, desolato infine ma mai vinto, accettò l’educato pessimismo di questo conte philosophique, un gelido soffio che veniva dal futuro. Ma ci fu chi lo proibì proprio per la sobrietà di quella rivolta, ostinata e cavillosa, ma senza violenze, accuse, grida. Su due fatti storici inconfutabili si sosteneva la tesi manicheista di Voltaire: il terremoto di Lisbona che aveva causato migliaia di vittime e l’operato iniquo dell’Inquisizione. Candide, l’amata Cunegonda, l’euforico Pangloss e lo scettico Martin, il loro disgraziato seguito, come ectoplasmi non personaggi, trascorrono tra avventure e disavventure dal Vecchio al Nuovo Mondo, fanno una puntata nel felice Eldorado dove non riescono a vivere, muoiono ma risorgono per arrivare a quel finale emblematico, a quel giardino che, ormai rassegnati, dovranno coltivare col duro lavoro delle braccia. Ma quel giardino non sarà copia di quello edenico, in cui si incontrano malintenzionati serpenti, e mele avvelenate? Voltaire tace. Toccherà ai Candide del Nuovo Mondo, ripetere quel percorso e ritornare in quel giardino. Negli anni ’50, per i creativi e gli accademici inglesi e americani, il secolo di riferimento è stato il 700, libertario e libertino, brutale e lezioso, ma razionale. Un gusto che sollecitava contaminazioni, citazioni, riscritture, un certo esotismo, un garbato erotismo. C’erano anche importanti coincidenze storiche: le vittime del terremoto di Lisbona e quelle della seconda guerra mondiale, l’odiosa persecutorietà dell’Inquisizione e gli interrogatori della Huac, il comitato che indagava per le attività anti-americane, di cui era a capo J. Edgar Hoover. La caccia a possibili eversori comunisti o semplici simpatizzanti era aperta, soprattutto tra scrittori e registi. Si chiedeva di dichiarare le proprie idee politiche e di nominare colleghi e amici sospetti di connivenza col comunismo o di devianze comunque pericolose. Hollywood fu passato al setaccio: la metà circa degli interrogati divennero di fatto spie, chi si rifiutò pagò di persona con qualche mese di prigione e la messa al bando da teatri e studios.

Lillian Hellman che era stata convocata dalla Huac nel maggio del ‘52, rispose con una lettera rimasta famosa, in cui si disse pronta a parlare di sé, ma non di altri. E aggiunse: «Sono stata educata alla vecchia maniera americana e mi sono state insegnate certe semplici regole: cercare di dire la verità, non danneggiare il prossimo, essere leale al mio paese, e così via. Voglio credere che sarete d’accordo con me su queste semplici regole di umana decenza e non vi aspetterete ch’io violi quella buona tradizione americana da cui esse derivano». Quanta ironia! Hellman non poteva ignorare che da tempo la sua posta era sorvegliata e le sue valigie aperte. I sospetti erano cresciuti quando il suo compagno, Dashiell Hammett, fu arrestato per essersi rifiutato di collaborare con la Huac. Hoover in persona, nel ‘43, aveva però avvertito di usare ogni cautela con la scrittrice, che già godeva di una reputazione nazionale. Secondo un amico (o un nemico?) Hellman «era donna che stappava la bottiglia con i denti», e meditò vendetta. Propose a Bernstein, anche lui ebreo e politicamente affine, di adattare per il teatro il Candide di Voltaire – probabilmente sul modello dell’Opera da tre Soldi. Libretto di lei carico di allusioni politiche e musica di lui, eccitata e straripante. L’accordo necessario fra la rocciosa Hellman e il vorticoso Bernestein si rivelò difficile. Ci si mise anche il sistema Broadway, per cui Candide divenne un work in progress lungo una trentina d’anni. Dopo il debutto a Boston come operetta comica nel 1956, si aggiunsero le canzoni del poeta Richard Wilbur, oltre a quelle di John La Touche, Dorothy Parker, dello stesso Bernstein. Fu un fiasco leggendario. Era evidente che il libretto raccontava del peggiore dei mondi possibili, mentre la musica celebrava il migliore dei mondi possili. Hellman, sdegnata, ritirò la sua collaborazione. Nell’edizione Chelsea del 1973, Hugh Wheeler ridisegnò il libretto direttamente su Voltaire, e dopo tormentose revisioni, Candide sembrò finalmente approdato alla versione definitiva del 1989 (Deutsche Gramophone). Finalmente i nostri modesti eroi sono arrivati in quel giardino americano che è il Far West, spaccano legna e coltivano terra. Di Hellman rimane, ironicamente, la ballata dell’Eldorado, il sogno veterocomunista di «una terra di gente felice, giusta e buona e coraggiosa e libera».

DA VOLTAIRE A MOZART VIA-BRECHT: BERNSTEIN INVENTA UN NUOVO LINGUAGGIO PER IL TEATRO MUSICALE. ALL’OPERA DI ROMA DA MERCOLEDÌ MUSICAL

L’arte, la ragione e il loro naufragio, in una inedita lingua americana di ORESTE BOSSINI

●●●Il 10 novembre del 1968 Roger Englander organizzò alla Avery Fisher Hall di New York una rappresentazione unica e per molti aspetti eccezionale di Candide, per festeggiare i cinquant’anni di Leonard Bernstein. Englander, all’epoca già una leggenda nel mondo televisivo americano, aveva intuito per primo l’enorme potenziale comunicativo di Bernstein, inventando nel 1958, insieme al musicista, uno dei programmi di maggior successo della Cbs, gli Young People’s Concerts, ancora oggi un esempio insuperabile di divulgazione culturale. Per quella recita speciale di Candide, Englander aveva radunato il meglio del mondo ebraico-progressista di Broadway, a cominciare dal direttore d’orchestra Maurice Peress, fedele assistente di Bernstein alla New York Philharmonic e autore di una delle più informate e divertenti storie della musica americana (Dvorák to Duke Ellington: A Conductor Explores America’s Music

and Its African American Roots, Oxford University Press 2004). Pangloss era Alan Arkin, fresco vincitore di un Golden Globe Award come miglior attore per il film musicale The Russians are coming, the Russians are coming di Norman Jewson. Arkin, figlio di uno scenografo di Hollywood messo al bando per essersi rifiutato di rispondere alle domande della famigerata Commissione per le attività anti-americane di McCarthy, conosceva bene sulla propria pelle il significato della parola intolleranza. Cunegonde era interpretata da un’attrice di formidabile talento comico, Madeline Kahn, che molti forse ricorderanno come la fidanzata isterica e ultrasnob di Gene Wilder in Young Frankenstein di Mel Brooks. Per capire cosa significava a quell’epoca diventare una star di Broadway, basterebbe ascoltare con che voce e quanto spirito Madeline Kahn cantava «Glitter and Be Gay», l’aria più famosa di Candide, impervia anche per un soprano di coloratura. La Old Lady infine era il contralto Irra Petina, una cantante russa emigrata in America dopo la Rivoluzione d’Ottobre (il padre era un generale del corpo di guardia dello zar Nicola II e lei stessa una figlioccia dell’imperatrice Maria Feodorovna), divenuta una delle artiste predilette del Metropolitan, interpretando ruoli importanti sia nel genere leggero, sia in quello drammatico. La Petina faceva parte del cast originale di Candide, allestito per la prima volta al Martin Bek Theatre di New York l’1 dicembre 1956. Lo spettacolo ave-

va resistito per sole settantatre recite, fino al 2 febbraio del 1957, che per gli standard di Broadway equivaleva a un sonoro fiasco. La ripresa a Londra del 1959 non ebbe sorte migliore, così come un ulteriore tentativo di revival in California in ambito universitario da parte del Theatre Group della Ulca nel 1966. Perché dunque festeggiare i cinquant’anni di Bernstein con un lavoro che in dieci anni di tentativi diversi era sempre andato a vuoto? La festa del 1968 in realtà rappresentava il riconoscimento di un intero mondo ebraico intellettuale e laico, che si era formato a partire dagli anni ’30 attorno all’ambiente dello spettacolo e che aveva trovato in Bernstein il suo campione carismatico. Per quella unica rappresentazione di Candide si erano mobilitati artisti provenienti dalla televisione, dal cinema, dal teatro leggero e dall’opera, in un amalgama che soltanto un personaggio come Bernstein poteva coaugulare in maniera omogenea. Era emblematico che la sintesi di queste forze eterogenee avvenisse attorno a un lavoro come Candide, che incarnava le convinzioni neo-illuministiche della sinistra radicale newyorkese. Malgrado i ripetuti insuccessi, Bernstein era sicuro di percorrere la via giusta verso la eleborazione di un linguaggio americano per l’opera. La sua ambizione era di rappresentare per il teatro musicale americano quello che Mozart era stato per l’opera tedesca. CONTINUA A PAGINA 6


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ALIAS DOMENICA 15 GENNAIO 2012

UN CASO DI LETTERATURA «INATTUALE» DEL NOVECENTO FRANCESE

GIONO La sopraffazione Florence Henri, «Ritratto composizione», 1930. A fianco, Bernard-Marie Koltès

DI ROBERTO DUIZ

JALLADE, ANALISI DELL’ALTROVE Prendiamo ad esempio il Taj Mahal, in India, «un’icona di esotismo magnificata dall’ideologia del turismo culturale». Bello ed emozionante, non c’è che dire, nessuna recriminazione di aver tanto scarpinato per raggiungerlo. Ma basta uscire un poco dal tracciato di segni glorificati da guide turistiche e libri di viaggio per scoprire, con beata meraviglia, che «il vero viaggio comincia ad alcune centinaia di metri da lì, nei quartieri fangosi e incredibilmente vivi di Agra». È una delle tante esemplificazioni che inducono a riflessioni contenute nel saggio tascabile di Sébastien Jallade, viaggiatore cosmopolita (padre francese e madre argentina) e dalle molteplici residenze (Lima, Parigi, Buenos Aires, Cairo), intento, per una volta in surplace, ad analizzare in chiave filosofica non un luogo o un percorso ma quella sete di altrove che divora l’uomo di ogni epoca e che rende squillante, quando non proprio ossessivo, Il richiamo della strada (edicicloeditore, pp. 90, € 8,50). È uno dei primi titoli di una nuova collana, già edita in Francia dalla Transborèal e chiamata «Piccola filosofia di viaggio», volta all’approfondimento dei temi e delle motivazioni del perdurante nomadismo, seppure in forme necessariamente nuove in questo terzo millennio in cui i supporti tecnologici invitano al viaggio virtuale e i veri viaggiatori sono diventati degli «antiquari della diversità del vivente». Oggi, che sempre più rare sono le destinazioni lontane («cordigliere inaccessibili, isole, deserti, metropoli irrazionali che sfuggono ai dogmi della globalizzazione»), non ha più senso parlare di «esploratori» o di «avventurieri», che riferivano di mondi popolati da tribù selvagge e terre da conquistare o anche solo da sognare e vagheggiare. Al contrario, si assiste alla fine dell’esotismo scrutando il mondo dall’alto con Google Earth, a distanza, in attesa del viaggio, «terribile e affascinante», che ci riserva il futuro ormai incombente, quando gli attuali mondi virtuali evolveranno in un avatar del mondo intero. Eppure, quell’ansia di mettersi in movimento (e dunque anche in gioco) non si placa, poiché «l’ossessione della distanza non ha che uno scopo: quello di ricordarci continuamente il carattere straordinariamente rigido e limitato dei nostri modi di pensare il mondo». Dunque, per «ripensarlo», il mondo, in un modo che più assomigli a quello che «realmente» è, non c’è che da analizzarne i frammenti che sfuggono a una panoramica globale, immergendovisi totalmente. Così Jean-Pierre Valentin ascolta Il mormorio delle dune, Anne-Laure Boch si lascia prendere da L’euforia delle cime, Davide Sapienza fissa su un immaginario pentagramma le note de La musica della neve. Tutti viaggiatori del XXI secolo alla ricerca del perduto filo logico che lega l’uomo al suo territorio. Tutti, questi e quelli che seguiranno, imparentabili al motto coniato da Jallade: «Partire è accettare il caos della propria esistenza» e dare a essa una parvenza di direzione.

PAOLO ZANOTTI, UNA GUIDA AI FRANCESI POST ’68

L’utilità dei manuali è anzitutto quella di ordinare una certa mole di materiali secondo criteri che risultino attraenti e attendibili. Quello stilato da Paolo Zanotti e intitolato Dopo il primato La letteratura francese dal 1968 ad oggi (Laterza, pp. 332, € 28,00), ha un fascino e un interesse particolari: mette il lettore in condizione di ritrovare o di scoprire nomi e opere secondo un disegno sottile fatto di concomitanze tematiche, di nessi segreti, di cortocircuiti, laddove la tesi di una perdita di primato pare di fatto essere posta in discussione e dunque alla fine negata dalle pagine della guida stessa e proprio mentre scorrono i titoli dei libri di Perec e Tournier, Koltès e Agota Kristof, Carrère e Modiano, Houellebecq, Forest e Littell. Invano, tuttavia, si cercherebbe Tony Duvert, assenza inspiegabile e anzi imperscrutabile. Ma si tratta, ovviamente, di un dettaglio (e.d.m.)

●●●Arrestato il 9 settembre del 1944 con l’accusa di collaborazionismo e liberato cinque mesi dopo per mancanza di prove, Jean Giono resta uno tra i casi più ambigui e controversi della storia del dopoguerra francese. Che Giono non sia stato un antisemita virulento alla Céline o un simpatizzante a libro paga dei giornali filo-nazisti è cosa ormai del tutto chiara, ma sapere con certezza che non ha mai presenziato al Convegno dell’Unione degli scrittori europei a Weimar non sembra comunque sciogliere il nodo complesso dei suoi rapporti con il governo di Vichy durante l’occupazione. Al di là delle ombre che possono pesare sulla sua identità politica, è evidente che l’antimodernismo dichiarato di Giono, la mitologia di una Natura salvifica e il «ritorno alla terra» dei suoi primi libri, sono stati riconosciuti dal primitivismo nazista e dai teorici della Révolution nationale di Pétain come in qualche modo simili, o quantomeno vicini. Giono non è mai stato «contemporaneo» al proprio tempo. Non ha mai voluto riceverne in pieno viso il fascio di luce. E soprattutto, non ha mai voluto scrivere come un contemporaneo. Ne è un esempio più che evidente il suo tentativo di creare un ciclo di romanzi sul modello balzachiano della Comédie Humaine (tentativo fallito e di cui L’ussaro sul tetto resta l’uni-

co risultato di qualche valore). Ne è un esempio altrettanto evidente il romanzo titolato le Anime forti, proposto oggi per la prima volta in Italia da Neri Pozza con la bella traduzione di Riccardo Fedriga (pp. 186, € 13,50). Scritto nel 1949, le Anime forti riprende in tutto e per tutto i modi e le forme del romanzo naturalista ottocentesco, il romanzo degli «studi sociali», quello dei grandi mutamenti della morfologia economica francese sul finire del secolo, della dissoluzione delle piccole comunità rurali, della trasformazione della manodopera contadina in proletariato inurbato. Il romanzo dell’odio di classe, della volontà di riscatto sociale, del denaro come primo e unico motore dell’anima. Il racconto si apre con una veglia funebre nella regione montuosa della Drôme degli anni cinquanta. Accanto al morto, a badare che i ceri non si spengano, un gruppo di donne del paese. Tra loro, Thérèse, rigida nel gelo nei suoi ottantanove anni ben portati, sola vincitrice del

gioco al massacro della propria vita, unica superstite di un mondo di sopraffazione e violenza di cui lei stessa è stata la più lucida e intelligente artefice. La storia che Thérèse racconterà durante quella notte di veglia è infatti la storia di un quadruplo inganno, di una partita a quattro giocata per anni tra lei, il marito Firmin, e una coppia altoborghese, Monsieur e Madame Numance, presso cui Thérèse appena ventenne era entrata a servizio. Che un domestico possa covare un violentissimo desiderio di revanche verso il proprio padrone, non è cosa nuova. Probabilmente Giono avrà avuto ben presente alla memoria il caso delle sorelle Papin, le domestiche assassine, di cui negli anni trenta si era interessata tutta la Francia surrealista, e non da ultimo il giovane Lacan. Ma quella di Thérèse è tutta un’altra storia. Tra Madame Numance e Thérèse non ci sono angherie di alcun tipo, nessuno sgarbo, nessuna violenza. Soltanto un infinito amore della padrona per la sua cameriera.

Sylvie Numance e suo marito sono una coppia angelica, filantropi al di là di ogni limite umano, arrivano a voler adottare Thérèse e a immolarsi per lei, ridotti sul lastrico da una trappola economica ben costruita da Firmin. Da qui la catastrofe. Monsieur Numance muore per un attacco cardiaco subito dopo aver firmato l’atto di cessione del suo intero patrimonio. Sua moglie Sylvie scompare senza lasciare traccia mentre Thérèse e Firmin, i bugiardi, gli ingannatori, non potranno che passare il resto della loro vita infierendo come bestie uno sull’altra, nel continuo tentativo di distruggersi, fino al giorno in cui Thérèse riuscirà finalmente a far assassinare il marito facendo passare la cosa per un incidente sul lavoro. Chi commette il crimine di annientare la purezza, chi uccide l’Albatros, si sa, non può che produrre una lacerazione irrimediabile all’interno della sua stessa anima, condannandosi a non distinguere più tra Bene e Male e a vivere la propria vita secondo le logiche scisse e

deliranti dell’ambiguità. Ma in questo caso chi ha ingannato chi? Chi ha vinto? Thérèse, che è rimasta l’unica in vita? Firmin, che ha creduto di condurre il gioco e finirà con le reni fracassate in fondo a una scarpata? Oppure Monsieur e Madame Numance, che hanno scelto apposta di farsi imbrogliare, che da mesi sapevano e hanno lasciato fare in una sorta di suicidio volontario, di puro annullamento di sé attraverso la jouissance orgiastica del dono? Sebbene siano borghesi, i Numance incarnano perfettamente un ideale ancora aristocratico di pura dépense che se portato alle sue estreme conseguenze non può che produrre, come ultima carta da giocare, l’evidenza sacrificale della morte. Sylvie Numance, scegliendo di opporre la dissipazione emorragica della totalità del proprio essere al «principio classico dell’utilità», come direbbe Bataille, non ha affatto perso, ma ha semplicemente affermato la sua volontà di dominio su un piano più alto, sfuggendo una volta per tutte al gioco di sopraffazione della sua amata-carnefice e rivelandosi come ultima vincitrice del gioco. Fin qui, a raccontarne semplicemente la trama, il romanzo, potrebbe benissimo figurare come uno tra i libri più interessanti del secolo appena passato. Ma pur nella bellezza dei suoi ingranaggi stritolanti, l’esperimento di Giono non sembra riuscire fino in fondo. Costruito come un incastro di voci tra la domestica, ormai vecchia, e le donne che vegliano il cadavere del morto, la storia della vita di Thérèse porta spesso verso vicoli ciechi, con evidenti contraddizioni interne a volte così macroscopiche da infastidire la lettura. Date e nomi che non coincidono, avvenimenti secondari sviluppati senza ragione apparente e poi lasciati cadere nel vuoto, interi blocchi narrativi così diversi uno dall’altro da risultare incoerenti: se sia stato un problema di revisione frettolosa del testo o una incuria dell’autore stesso non è dato saperlo. Ma resta il fatto di un nucleo narrativo estremamente vitale costretto in un corpo testuale che alla fine non ha saputo reggerne il peso così come un compromesso tra due istanze narrative ottocentesche (quella del «documento umano» di matrice naturalista e l’afflato epico-simbolico romantico) che la volontà caparbia di uno scrittore ostinatamente rivolto verso il passato non è riuscita a far rivivere. Che l’ostracismo di Giono dettato dal mondo culturale del tempo sia stato prevalentemente politico è evidente, ma sembra altrettanto vero che nella Francia di Camus e di Beckett, in cui il Nouveau roman sta per arrivare a sconvolgere nuovamente le carte, le Anime forti rischia di celebrare il funerale a qualcosa di ben più significativo che un semplice signorotto della campagna francese.

EMMANUEL BOVE

di STEFANO GALLERANI

melangolo, quasi sempre per le cure di Carlo Alberto Bonadies (cui si devono le più attente pagine critiche sull’opera boviana), ma al di fuori di una cerchia stretta Bove ha così faticato a imporsi che nelle nostre librerie La morte di Dinah, La trappola o Un padre e una figlia sono introvabili, ed egli ha finito per essere solo uno dei tanti fantasmi nel romanzo Dottor Pasavento di Enrique Vila-Matas (che in copertina riporta proprio un suo ritratto). Oggi, Lavieri rilancia la scommessa inaugurando la collana «autrement» con La coalizione (traduzioni di Gianfranco Brevetto e Gianfranco Pecchinenda, postfazione di Gianfranco Pecchinenda, pp. 222, € 14,50), il romanzo che nel 1928 valse a Bove il Prix Figuièra. La trama, o piuttosto la vicenda, così come i personaggi che la costellano, sono tipicamente boviani, discendenti in linea diretta di quel Victor Baton protagonista de I miei amici e

archetipo dell’eroe inetto e pusillanime che avrà la sua definitiva consacrazione nell’epoca d’oro dell’esistenzialismo. Come lui, e più di lui, il Nicolas Aftalion de La coalizione (cui la sigla campana affianca, in appendice, il dostoevskiano racconto Un Raskolnikov), ultimo rampollo di una decaduta famiglia borghese, si avvolge in una spirale di sfavore e depressività rendendosi complice irredimibile della propria derelizione: afflitto da un’incipiente povertà e proiettato da un alloggio di fortuna all’altro, Nicolas è incapace di reagire, piombato dall’asfissiante presenza di una madre cannibale che quanto più si immiserisce tanto più si allontana dalla realtà della condizione in cui vivono lei e il figlio. Fuori di questa parabola, che sconta una colpa di cui non è dato conoscere l’origine, non si dà altro sviluppo che quello che Bonadies definisce di «allucinato

allineamento»: i capitoli si sciolgono in una sequenza monotona di perdizione claustrofobica e parossistica che non offre scampo; nella vertigine finale, poi, come a sancire un legame sotterraneo ed estremo, risuonano le stesse eco dell’inazione che tronca, colpo di scena in negativo, le ultime pagine di quello chef-d’œuvre che è Armand (1926), o quelle che si librano dal soggettivismo impersonale e descrittivo di Bécon-les-Bruyères (’27). A quasi un secolo di distanza, insomma, ciò che ancora impressiona in Bove, insieme alla capacità di inventariare dettagli quasi invisibili di quotidianità, è la proprietà di un disegno asciutto ma non per questo freddo, scabro e senza sbavature, precipitato di una qualità umana precipua, e dunque inimitabile, consistente nel ritrarre, come per Ingres, l’oggetto di un sentimento che è il sentimento stesso.

di una serva amata Prima traduzione per «Anime forti». Scritto nel 1949, racconta un gioco al massacro sociale e sessuale: alla ottocentesca, nella Francia di Beckett e Camus

di ISABELLA MATTAZZI

La perdizione claustrofobica di un borghese inetto (anni ’20): spirale già esistenzialista

●●●Il caso del romanziere francese di origini russe Emmanuel Bove (all’anagrafe Bobovnikoff), nato nell’aprile del 1898 e spentosi a Parigi quarantasette anni dopo, è a suo modo paradigmatico. Nonostante una certa notorietà di pubblico e l’apprezzamento di scrittori del calibro di Colette (che nel 1924 patrocinò presso Ferenczi il suo primo libro, Mes amis) o Max Jacob e Rilke, dopo la morte il suo nome andò sbiadendo finché non ne rimase traccia; solo negli anni settanta, grazie a Raymond Cousse e alla patente di maestro riconosciutagli da Peter Handke, Bove è ricomparso nei cataloghi di Flammarion e Suhrkamp creando attorno a sé una vera e propria confraternita di estimatori: i boviens. In Italia i suoi libri sono stati tradotti vent’anni dopo da Feltrinelli, Le Mani, Marietti, Casagrande e il


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TRA MODERNISMO E REGIONALISMO

IDENTITÀ AMERICANE BILLY COLLINS

Il poeta laureato (con anticipo a sei cifre) che ti afferra parlando del più e del meno

«CASA» ■ UNA STORIA PRESBITERIANA

Robinson: santità, famiglia e perdizione nello Iowa anni ’50 di CATERINA RICCIARDI

di MASSIMO BACIGALUPO

●●●Alcuni poeti americani hanno conquistato vasta popolarità. Il caso più vistoso è Emily Dickinson, che forse vende internazionalmente più copie di qualsiasi altro poeta. Poi c’è stato il poeta nazionale Robert Frost, grandissimo e quasi sconosciuto in Italia. Billy Collins, newyorkese di settantuno anni, segue a buona distanza questi maestri scrivendo una poesia accattivante ma non scontata. La sua ultima raccolta, Balistica (Fazi, pp. 250, € 18,00), ottimamente curata da Franco Nasi, esperto di poesia-gioco, è tutta da godere. I testi ci afferrano subito dall’inizio parlando del più e del meno nel modo più diretto: «Primo ad alzarmi la domenica mattina / entro nel bagno bianco / cercando di non pensare né a Cristo / né a Wallace Stevens…». E continua: «Sono andato alle elementari per imparare Cristo / e all’università per imparare Wallace Stevens. // Ma in questo momento voglio considerare / solo l’acqua e la luce, / sempre pronte a scorrere e accendersi a un mio tocco…». C’è insieme semplicità e arguzia, e la concezione, forse lascito dell’educazione cattolica, di un Dio benevolo presente nei doni della vita. La nitidezza della pagina di Collins e la sua disponibilità sorridente ricordano il lavoro che fanno in Italia Patrizia Cavalli, Marcoaldi e a suo modo Zeichen. Ma gli americani tendono a una lingua media, a un tono pacato, a un’ironia sorniona. In Collins, che sfida la degnazione dei critici amanti del difficile, il dettato diventa trasparente e le sue letture affollano librerie e auditori. Sappiamo che, unico forse fra i poeti d’oggi, ottenne anni fa da un editore, per tre libri, un anticipo «di sei cifre». Ed è stato nel 2001-’03 «poeta laureato degli USA», chiamato anche a scrivere la poesia per l’anniversario dell’11 settembre, che giustamente si è rifiutato di pubblicare nelle sue raccolte «per non sfruttare quell’occasione». Balistica è arricchito da un’ampia intervista in cui Collins non si stanca di ribadire che i poeti devono imparare a prendersi meno sul serio tenendo presente «quanto universalmente siano ignorati», e da una postfazione dove Nasi racconta come una delle poesie apparentemente svagate di Billy è stata scelta da un amico per commemorare la madre morta. Il leggero Collins dimostra di saper reggere il confronto anche con esperienze dolorose, e ha il merito non piccolo di riconciliare con la poesia come forma di comunicazione essenziale e insostituibile.

●●●Un vecchio padre, pastore della Chiesa presbiteriana, sta morendo tormentato dal suo incrinato senso di responsabilità per non essere riuscito a redimere – o salvare dalla perdizione – l’anima di un figlio reprobo. Anche il figlio, tornato a casa dopo vent’anni, si tormenta, ma in modo diverso. Si sente costretto a constatare il fallimento dell’amore paterno. Se così stanno le cose, Jack Boughton non è un figlio ma solo un’anima caduta. Algida santità (del padre) e perdizione indelebile. «La completa perdizione dell’anima, o della felicità ultima in una condizione futura; tormento futuro o morte eterna»: così Jack recita a Glory, l’altra figlia tornata a casa, fuggitiva anch’essa da un segreto passato. Una definizione «crudele», egli ammette, attinta dal dizionario; una condanna irreversibile, della quale il padre, pur nella sua misericordia, si fa implacabile trasmettitore. In questo no-

L’acclamata autrice di «Gilead», di cui continua l’allegoria, innesca qui la dialettica ideologica degli Usa del 1956: razzismo e atomica sotto il perbenismo

do, più che teologico, umano (l’anelito salvifico del padre, l’iniziale diffidenza della sorella, l’incomprensione nei rapporti famigliari), sta il senso di Casa (traduzione di Eva Kampmann, Einaudi «Supercoralli», pp. 330, € 20,00), il terzo romanzo della parsimoniosa e acclamata Marilynne Robinson. «Casa» è – alla lettera – la vecchia casa di famiglia a Gilead (Iowa), «fulgida stella del radicalismo», dove la prateria degli Indiani, se non dominata costantemente dalla vanga e dal sudore dell’uomo, torna al suo antico stato di ondosa distesa di terra verde infestata da malerbe da sradicare: il compito di un «Caino perdonato» che riacquista in questo modo un po’ della simpatia del Signore. Non sarà così per Jack. Del ritorno del figliol prodigo (Jack) avevamo già saputo nel pregevole Gilead (Einaudi 2008), il cui titolo ricordava che «Gilead» è il luogo dove, nella Bibbia, si possono «sanare le ferite». È un luogo di salvezza nella simbologia protestante americana. In tempi di schiavitù la cittadina abolizionista aveva dato asilo (casa) ai neri fuggiaschi. Casa sviluppa una storia parallela di quel romanzo, conservandone sia lo spunto topografico allegorico – se non l’effetto balsamico – sia i protagonisti (gli Ames) che qui agiscono di contorno al fine di sostenere il lato ‘dottrinale’ del romanzo: una teologia che appare ora più zoppicante, sottoposta a stringenti contraddizioni. Per esempio, chiede Jack al padre e al reverendo Ames, come si conciliano i due principi scritturali della predestinazione e del perseguimento della salvezza? Oppure: perché c’è chi nasce con indole malvagia? Ma c’è altro, di più contestuale, che da Gilead trasmigra con maggiore prepotenza in Casa. Si tratta dei complessi Stati Uniti del 1956, apparentemente felici, e invece agitati da gravi problemi ideologico-sociali: lotta al Comunismo, bomba atomi-

ca, la seconda difficile scelta presidenziale fra Stevenson (liberal democratico) e Eisenhower, la «miscegenation» (matrimoni misti), i movimenti della popolazione nera (soprattutto in Alabama), frenati con un’aspra violenza. Perdizione del paese? «Casa/Home» significa anche ‘patria’: quell’America dai sani valori delle origini e dalle radicate istituzioni (famiglia integerrima inclusa), come pure da pregiudizi dogmatici, che il reverendo Boughton corteggia, soprattutto sul tema rovente della – per lui scomoda – integrazione razziale. Non sa ancora che negli ultimi dieci anni il figlio Jack è riuscito a redimersi grazie a una donna del profondo Sud che ha sposato e che vorrebbe portare a Gilead con il figlio. E non sa neanche che quella donna è nera. Le amare pagine finali restituiscono un Jack di nuovo sulla strada, un reietto privato del perdono paterno, esiliato da casa, verso non sappiamo quale destino. Dopo la sua partenza, sarà Glory ad accogliere, per pochi istanti, sulla soglia di quella casa, la moglie Della e il piccolo Robert Boughton, anch’egli in ansiosa ricerca del padre. Una conclusione straziante che lascia aperta una speranza, mentre il vecchio reverendo è ai suoi ultimi respiri. Casa è un romanzo ‘storico’ avvincente, provocatorio, dialettico, ben scritto, pur nel talora lento passo narrativo. Non di rado il ritmo stagna in scene domestiche ripetitive, gesti e dialoghi un po’ consunti (che servono però a riaccendere l’amore tra fratello e sorella), e la trama di qualche ‘ricaduta’ di Jack e delle meticolose cure al vecchio malato, capriccioso e lamentoso, crudelmente perseverante nell’irrevocabilità del suo giudizio. Un padre che non dimentica mai di essere anzitutto un ministro della Chiesa, un (quanto legittimo?) delegato di un Dio impietoso che distilla con troppa oculatezza il suo amore per le sue stesse creature. Non sarà la Chiesa presbiteriana a salvare Jack Boughton ma, si spera, l’amore per il proprio figlio, sfiduciando un altro dogma discutibile dei suoi precettori: i peccati dei padri non possono ricadere sui figli («fino alla quarta generazione», dice la Scrittura), bianchi o neri che siano. Nel complesso impianto religioso del romanzo sono i rapporti famigliari a pagare il prezzo. La parabola del «figliol prodigo» («casa») viene radicalmente sovvertita. Qual è il messaggio che ci consegna oggi Marilynne Robinson?

La casa nello Iowa del pittore americano Grant Wood, da: «Great American Artists for Kids»

CYNTHIA OZICK

Dalla California a Parigi, il romanzo di una jamesiana vibratile e moderna

di LUCA BRIASCO

●●●Classe 1928, Cynthia Ozick appartiene, con Philip Roth, alla generazione di scrittori che ha raccolto il testimone di Saul Bellow e Bernard Malamud, avviando fin dagli anni sessanta un confronto serrato e carico di tensioni con la propria doppia identità, ebraica e americana. Nota soprattutto per le opere pubblicate negli anni ottanta, da La galassia cannibale a Il Messia di Stoccolma, dominate da una riflessione sull’ebraismo che si accende spesso di toni polemici contro ogni ortodossia o banalizzazione, Ozick si è in realtà proposta, fin dai suoi esordi narrativi, come scrittrice americana, e prima ancora jamesiana. E Henry James, presenza costante nella sua produzione anche saggistica, è l’autentico nume tutelare del suo ultimo, notevole romanzo, Corpi estranei (Bompiani, pp. 316, € 18,00), modellato su Gli ambasciatori, capolavoro tardo del maestro, di cui rielabora lo schema portante con ammirevole autonomia. Tornano, nella storia di una insegnante di mezza età che parte alla volta di Parigi per rintracciare un nipote «scapestrato» che non ha mai conosciuto, i grandi temi sui quali James ha costruito le sue più preziose macchine narrative: il confronto America-Europa come occasione per fare i conti con il proprio passato e riscoprirne il peso e la consistenza; lo spaesamento e lo stupore dell’espatriato davanti a un mondo che non gli appartiene e che lo respinge almeno quanto lo affascina; l’amore (in questo caso quello di Bea, la protagonista, per l’ex marito, musicista ambizioso ed egocentrico, o del nipote per una rifugiata rumena) come sentimento distruttivo e nodo irrisolto. Alla tradizione del romanzo ebraico appartiene invece il côté famigliare, e le pagine dedicate al difficile rapporto tra Bea e il fratello Marvin, assimilato al modello di vita californiano ma tirannico e opprimente come i più classici padri di Philip Roth. Al di là della ricchezza tematica, però, Corpi estranei conquista il lettore soprattutto per merito di una lingua vibratile e moderna, resa con perfetta aderenza nella «traduzione d’autore» di Simona Vinci. Una lingua capace di evocare gli stati psicologici dei personaggi come la violenta fisicità dei luoghi – da Parigi alla California – in cui essi si muovono, amano, odiano e soffrono: la lingua, insomma, di una grande scrittrice, che non ha mai avuto in Italia il riconoscimento che avrebbe meritato e ancora meriterebbe.

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In copertina di «Alias-D»: una foto dal «Candide» di Leonard Bernstein che andrà in scena all’Opera di Roma


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LE LETTERE 1885-1889 A CURA DI CAMPIONI E FORNARI

NIETZSCHE Col quinto volume si conclude da Adelphi l’edizione dell’«Epistolario» iniziata nel 1977 sotto la spinta «eretica» di Colli e Montinari. Rileggiamo un capitolo infuocato della ricezione italiana

Gelosie, musica e biglietti della follia di STEFANIA NONVEL

●●●Così – ed è forse l’unico dono dell’infelicemente trascorso anno 2011 – il monumento epistolografico di Nietzsche, col suo quinto volume, è entrato in porto ed è ora finalmente stivato nei meglio dotti arsenali: Friedrich Nietzsche, Epistolario 1885-1889 (pp. XIV-1358, € 100,00). Ritroviamo gli Adelphi come si erano fatti tanto amare un tempo e salutiamo nell’opera valorosa di Giuliano Campioni e Maria Cristina Fornari, nonché della preziosa traduttrice Vivetta Vivarelli, il compimento di una impresa editoriale e scientifica che difficilmente di più alto livello si po-

L’ultima tranche delle lettere comprende gli anni della crisi psichiatrica e delle opere nate dalla «distruzione» del proprio pensiero... trebbe richiedere o auspicare. Quando Giorgio Colli aveva varato il primo galeone della flottiglia correva l’anno 1977 e la fase alta del ritrovato pensiero e della nuova lettura del filosofo (di) Zarathustra pareva lievemente già tracollante. Per null’altro dire, il successo popolare di quell’anno fu Così parlò Bellavista di Luciano De Crescenzo. A Colli restava poco più che un anno di vita: cadde (si può proprio dire) nella febbre di quel suo nuovo scossone alla Grecia accademica, innalzato coi tre volumi intitolati a La sapienza greca (1978-1980, il terzo postumo, l’Eraclito, a cura di Dario Del Corno); Mazzino Montinari gli sarebbe sopravvissuto di poco più che un lustro. Egli era, del resto, l’anima filologica, nel senso migliore, e germanistica (nonché, leggendariamente, grafologica) della gloriosa impresa; Colli è difficile immaginarselo varare un libretto Che cosa ha veramente detto Nietzsche, ripubblicato a cura dello stesso Campioni nel 1999, con titolo meno reboante di quello – che fa storia, a suo modo – della collezioncina Ubaldini in cui originariamente il profilo era apparso. Era stato pur bello, quel Nietzsche che rigerminava sui negri colli fiorentini.

Il 1965-’75 era stato, nel mondo, segnato dalla guerra del Viet-Nam; per la sua porzione occidentale, dalle varie contestazioni che, in parte, anche a quello stato di guerra protestando si riferivano. Nel 1968, a cura di Colli e Montinari, in fase di vigorosa prosecuzione della loro edizione nietzschiana, erano usciti lo Zarathustra e Al di là del bene e del male, con la Genealogia della morale, nella traduzione di un altro, un poco mago, un poco filosofo, un poco poeta, fiorito sui medesimi colli, Ferruccio Masini. E, buon colle non mente, col 1977 spunta, fra gli argonauti, il nome di Roberto Calasso, cui compete la traduzione dell’Ecce homo, fattosi poi ‘il’ best-seller nicciano in Italia. Mi accorgo di procedere a forza di nomi, che possono suggerire molto o dir quasi nulla; come in quei quartieri ‘residenziali’ dove la giunta decida di intitolare ogni strada a una delle battaglie della guerra del ’15-’18. Sangue e carne, costarono; tracimarono di sui giornali; si fecero poi, distanziate, merce per tesi di laurea o chiarimenti storiografici. Di chi la colpa di che. Dobbiamo avere netta consapevolezza che in questi trentacinque anni (fra il secondo volume dell’Epistolario e il terzo, del 1986, passano quindici anni di silenzio, la ripresa è del 1995, ossia diciassette anni fa), mettiamo che un lettore ne avesse allora anche lui trentacinque e si fosse messo in biblioteca il primo volume dell’Epistolario, ora potrebbe completare la collezione ma sarebbe fatto intanto vecchio di settant’anni. Lo sappiamo, di ciò non cura la storia né la filosofia; ma ne curava Nietzsche. L’onda cupa del tempo è come un sordo rumore nelle sue scritture; se no restava dentro l’università e faceva una tranquilla carriera. Così, non possiamo sfuggire alla sensazione che questo stesso epistolario, nella sua serrata unitarietà editoriale, è comunque abitato (o, per altro verso, disabitato) da due anime, che sono poi quelle generative della immensa avventura editoriale nietzscheana. Solo amicizia leale e profondo rispetto reciproco potevano assicurare lo sforzo comune di Colli e di Mazzino; non è una faccenda di valori, che non vorremmo nemmeno fosse posta, ma di indirizzi. Campioni è, se non l’erede, certo il conoscitore più ampio e documentato del côté montiniano. La febbre di Colli guardava oltre e quest’oltre variava di mira. Il ‘dopo Nietzsche’ comincia davvero, alle soglie del varo dell’epistolario, col Dopo Nietzsche del 1974, e a chi avesse avuto orecchio, già ribolliva nella Filosofia dell’espressione di cinque anni prima, nella quale il Colli filosofo si rivelò maestosamente a un pubblico che di lui co-

noscesse, e non era poco davvero, solo l’attività di promulgatore seducente di una cultura emarginata o sbiadita. Chi non ne sapesse e volesse saperne non ha che da procurarsi la raccolta delle sue note per la famosa Enciclopedia di autori classici della Boringhieri, che segnò una strada luminosa sulla quale si sarebbe ben potuta incamminare la neonata Adelphi (e qui il rimando è al libro bellissimo di una storica, Pensare i libri di Luisa Mangoni, Bollati Boringhieri 1999, che ricostruisce con ogni evidenza l’agonìa di una cultura fattasi ‘troppo’ ufficiale, dunque prudente, e la nascita di una diversa, che produsse uno sforzo di rinnovamento nemmeno pensabile, purtroppo anzitempo esauritosi con la naturale, a volte precoce, scomparsa di alcuni dei protagonisti, e con la generale caduta di speranze, una fase di reflusso, all’inizio nemmeno intravedibile). Ma il lettore vorrà sapere di quest’ultimo Nietzsche. Gli anni (1885-1889) sono quelli della crisi, la cui attribuzione a una genesi luetica serve a mandare a letto tranquilli quelli che confondono pensiero e filosofia. Solo a una visione aerea dell’operatività nicciana, scorgiamo che, a una pausa di tre anni (dopo la Gaia scienza del 1882), seguono, in tre anni, opere decisive, in realtà finali, come lo Zarathustra, l’Al di là del bene e del male (l’«avvenire» del sottotitolo non è una spolveratina di miele sulla medicina troppo aspra), la Genealogia della morale, con la successiva liquidazione degli idoli e dei padri, siano essi il Cristo o Richard Wagner, per concludere nell’Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è; e se si tratta di un pensiero che può sorgere solo dalla propria stessa distruzione, se questa è la pazzia, simile a quella di certi leggendarii scienziati che morivano per avere sperimentato su di sé l’efficacia o la letalità di un loro siero, quest’ultimo volume è suscitatore, almeno agli occhi di un lettore ‘normale’ di Nietzsche, non tanto di

riscoperte o di indizii di correzioni ‘filologiche’ ulteriori (dilà dal libro un poco sparatamente imbizzito del Verrecchia sulla ‘catastrofe di Torino’, abbiamo letto in parecchi quantomeno la biografia del Jantz, tradotta in italiano per Laterza al principio degli anni ottanta, e altri libri sul filosofo non reticenti né avari in fatto di notizie anche particolari), ma di una partecipe e grave sensazione di ‘tutto scritto’. Quando i casi, gli episodii, i ‘biglietti della follia’, le gelosie, le proteste, la musica, onnipresente, la Grecia, onnipresente, le richieste d’aiuto, i ghirigori dell’anima si riuniscono ‘naturalmente’ fra di loro, nella scansione dei giorni, con una apparente casualità le cui origini ‘reali’ sarebbero percepibili solo a chi avesse l’orecchio di ‘questo’ Nietzsche, fragile, esposto, pietoso, osceno, indifeso, e insieme intrepido, incalzante, lampeggiante, insoddisfatto d’ogni limite raggiunto, affamato d’aria (come non pensare ai tintinnabuli nelle orecchie del Tasso ricoverato fra i matti di Sant’Anna, alla sordità di musicisti come Beethoven o Smetana), è ben diverso da quando, filtrati da un biografo o da un esegeta, certi fili aggallano per la soppressione o la sordina posta ad altri. Non è vero che in principio stia il verbo. Né in principio né in fine.

GLI SCRITTI SU HEIDEGGER DI FRANCO VOLPI Acerrimo nemico di «quell’ammirazione supina e spesso priva di spirito che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica», Franco Volpi (1952-2009) ha avuto nei confronti del ‘suo’ autore, Martin Heidegger, una cruciale funzione smitizzante, a partire da un confronto laconico con i testi, tradotti e interpretati in base a una conoscenza portentosa non solo della lingua tedesca ma anche del contesto culturale, o meglio semantico, in cui videro la luce. Lo sappiamo, anche in Italia il «mago di Messkirch» ha incantato con i labirinti del suo pensiero e con l’immaginosità di un vocabolario nuovo – il «salto», il «fendersi», il «gioco di passaggio», i «venturi» – con cui definiva i concetti nella sua guerra a tutto campo contro i residui della metafisica. Ricezione ‘epifanica’ che rischia di perdere il nocciolo del pensiero, la sua radicalità critica tutta tesa a prospettare il trionfo universale della tecnica. In questo senso l’approccio filologico di Volpi, il low profile del suo dettato interpretativo, non potrà essere sottovalutato, anche per orientarsi nella spinosa questione dell’Heidegger filonazista: come afferma Antonio Gnoli nella sua lucida Nota a La selvaggia chiarezza Scritti su Heidegger, edito da Adelphi «Piccola Biblioteca» (pp. 336, € 16,00).

VISIONARI ■ IL SEMINARIO DAL 1934 AL 1939

Jung di fronte allo Zarathustra, un terribile rompicapo di PAULO BARONE

●●●Sino a non molto tempo fa la produzione di un autore sembrava ordinata secondo una precisa gerarchia, al cui vertice brillava quella certa opera, etichettata come il suo «capolavoro», mentre tutto il resto (appunti, lettere, versioni preliminari) andava a occupare senza scandalo un posto marginale e trascurabile (tranne che per i cultori e gli studiosi). Oggi questa rigida disposizione sembra, in molti casi, vacillare. Seminari, corsi, materiali cosiddetti «preparatori» – lì dove l’autore procede con la guardia abbassata e il passo lento, senza il controllo pieno dell’argomentazione, in una lingua spesso trascritta da altri – hanno assunto un’importanza crescente, configurandosi quasi come un genere autonomo: non solo «appendici» che aiutano la comprensione dei testi «maggiori», ma luoghi dotati di una energia propria, imprevista e non di rado illuminante, che scaturisce precisamente da quella loro tessitura smagliata, formalmente imperfetta. Che cosa sarebbe, per esempio, Foucault senza la pubblicazione

dei suoi Corsi o Lacan senza quella dei suoi Seminari? Una considerazione analoga vale probabilmente anche per Jung, adesso che cominciamo a disporre di qualche tessera del suo materiale «collaterale», la cui imponenza potrebbe sfiorare quella delle Opere Complete. Infatti, dopo l’uscita dei Seminari dedicati a Visioni (1930-34), Analisi dei sogni(1928-30), La psicologia del Kundalini-yoga (1932), e dopo il fatidico Libro rosso, è ora il turno del Seminario, quanto mai opportuno, sullo Zarathustra di Nietzsche (Bollati Boringhieri, a cura di James L. Jarrett Vol. I pp. 484, €45,00). Tenuto in inglese, a Zurigo, dinnanzi a un uditorio composto da circa ottanta partecipanti di nazionalità varia – secondo una pratica consolidatasi ufficialmente nel 1923, ma cominciata già nel 1913 – stenografato e quindi integrato dagli appunti presi dai membri del gruppo, questo seminario dapprima circolò «per uso strettamente privato» e quindi venne stampato la prima volta solo nel 1988. Ebbe inizio nel 1934- sollecitato dalle tensioni politiche presenti nell’Europa di quegli anni – e proseguì sino al


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PENSIERO DEL NOVECENTO «Studio per “Dissonanza”», 1905: Franz von Stuck in due gelatine fotografiche attribuite a Mary von Stuck, collezione privata. In piccolo, in alto, Hans Blumenberg; sotto, Emmanuel Levinas

IL CONFRONTO FRA HANS BLUMENBERG E CARL SCHMITT Composto da documenti postumi, il carteggio che i due filosofi si scambiarono tra il 1971 e il 1978 esce in questi giorni da Laterza con il titolo «L’enigma della modernità». Ciò su cui dibattono i due filosofi, da opposte sponde, riguarda la considerazione dei fondamenti e della giustificazione esibiti dalle pretese conoscitive dell'epoca moderna. Schmitt aveva scritto pagine di critica acuta e radicale della modernità, Blumenberg ne teorizzava la piena legittimità, l’uno essendo estraneo a ogni nostalgia tradizionalista, l’altro rifuggendo ogni ingenua retorica progressista. Come scrivono nella postfazione Alexander Schmitz e Marcel Lepper, il contrasto porta all’emergenza le rispettive biografie: Blumenberg fu infatti vittima di quella politica nazional-socialista di cui Schmitt fu co-realizzatore. so, un crollo, un sovvertimento, qualcosa che prelude a un atteggiamento mentale inedito. Di tale crollo Jung è disposto a dare conto minuzioso, rivelando una prossimità all’impostazione di Nietzsche mai davvero così chiara come in questo seminario: il ritorno alla «grande ragione» del corpo («vivente», aggiunge Jung) e al senso della terra; la necessità di considerare le cose «così come sono» e non come «dovrebbero essere», dipendenti, nella loro dinamica, da noi e non da moventi esterni, affrontando il rischio, l’oscurità, l’infelicità e il conflitto che il processo di disillusione comporta, perché senza l’incremento di conoscenza e di coscienza che deriva dal ritiro delle proiezioni nessun mutamento autentico sarà mai davvero possibile; l’assunto che l’uomo non sia una forma definita e non coincida affatto – una volta detronizzato Dio – con la divinizzazione dell’Io.

1939, interrompendosi anzitempo, il 15 febbraio, alle soglie della quarta e ultima parte del testo, a causa della guerra ormai alle porte. Quasi cinque anni, dunque, (salvo due viaggi in America e uno in India), per analizzare, parola per parola, le sole prime tre parti (l’edizione italiana, curata con attenzione da Alessandro Croce, si ferma, per ora, a circa metà della prima, cioè al marzo del 1935), in un corpo a corpo con lo Zarathustra cominciato già nel 1898 e più approfonditamente, di nuovo, nell’inverno del 1914, per un’esperienza definita, senza mezzi termini, «terribile». Persino in apertura del seminario Jung avvisa l’uditorio che si tratta di un testo «straordinariamente complesso, dove regna un caos infernale», un «vero rompicapo», di cui occorre «accollarsi la responsabilità» della lettura, magari anche avendo il coraggio, a un certo punto, di sospenderla. Quattro sostanze tossiche Che cosa possiede di speciale, di perturbante, agli occhi di Jung, questo testo da giustificare tanta passione e simili precauzioni, oggi incomprensibili per un libro (fermo restando che il nome di Nietzsche è una scossa tellurica che attraversa e condiziona l’intera cultura novecentesca, da Strindberg a Thomas Mann, da Jaspers a Heidegger, sino a Bataille, Foucault e Deleuze)? Sconcerta, innanzitutto, lo stile. Pur lasciandosi leggere con una certa facilità, Jung rileva che lo Zarathustra, a differenza degli altri scritti di Nietzsche, «è difficile da ricordare»: quando lo citi, ti accorgi di farlo sempre in maniera sbagliata, poiché le sue immagini, provenendo direttamente dall’inconscio, entrano immediatamente in risonanza con l’inconscio del lettore. Jung assegna una simile capacità agli artisti visionari, a coloro in grado di intercettare e prefigurare la

A Zurigo, Jung lesse e commentò in inglese il testo di Nietzsche e lo trovò «difficile da ricordare», forse perché veniva direttamente dall’inconscio piega invisibile che gli eventi stanno prendendo. Ma la visionarietà di Nietzsche ha una cifra specifica, frutto della miscela di quattro sostanze «intossicanti» concatenate, che lo Zarathustra pone, com’è noto, in successione: morte di Dio, super-uomo (o, meglio, oltre-uomo), volontà di potenza ed eterno ritorno. Leggendo questo testo, allora, è come se si ingoiassero «pillole ricoperte di zucchero, ma piene d’ogni tipo di veleno». Già particolarmente cruciale è la prima «sostanza», l’annuncio della morte di Dio. Con quest’ultima, infatti, non viene meno soltanto il cielo delle fedi metafisiche, delle speranze ultraterrene, degli ideali, ma la possibilità stessa di un qualunque punto «esterno», superiore alla realtà o indipendente da essa. Pensieri, idee, concetti o anche semplici immagini mentali, perdono la loro presunta, sovrana separatezza e vanno a fondersi con l’esistenza di chi le professa, con la sua vita concreta, in carne e ossa. Lo scenario tradizionale – le sue prospettive, le sue pratiche, le sue figure, tutte improntate a un sostanziale dualismo – subisce così un collas-

Una diagnosi sul presente A Jung pare, piuttosto, che, nell’insieme, queste linee di ritorno verso il basso e il concreto convergano segretamente nel punto in cui Zarathustra dichiara che, a seguirlo, devono essere quei compagni che «vogliono seguire se stessi». Ognuno deve seguire se stesso: è qui che, secondo Jung, si svela l’intero significato del libro – la sua natura «velenosa» e la sua validità per il tempo attuale – e si chiariscono di colpo gli inconciliabili motivi di dissidio con il Cristianesimo ufficiale, ma soprattutto con quella «mentalità cristiana» diffusa, che storicamente ci caratterizza. Sia l’uno che l’altra, basandosi, al contrario, sul sacrificio e sulla completa cessione di sé, non possono che avversare l’idea di scelte autonome e libere, di una sperimentazione diretta, integrale e senza deleghe della propria vita. Il pronostico di Jung sulla scia di Nietzsche – che è anche una diagnosi sul presente – è però netto: l’avversione potrà anche continuare e la mentalità cristiana valere come rifugio «per migliaia d’anni ancora», ma questo non servirà a contrastare la confusione e il disorientamento provocati dal rientro nell’inconscio di quella straordinaria quantità di vita e di libido prima depositata in Dio e negli antichi valori, ora ridotti a un «fil di fumo». E tuttavia, che l’intreccio tra sacrificio e perseguimento di sé, tra vecchia e nuova disposizione, sia una questione spinosa e possa rivelarsi una trappola mortale è la stessa vita di Nietzsche – con la follia finale – a dimostrarlo. Jung sostiene che se fosse stato fedele a quanto professava, la sua identificazione con la figura, pur sempre collettiva e spersonalizzante, di Zarathustra sarebbe stata parziale, limitata dalla presenza di quel piccolo e insignificante residuo rappresentato dalla sua banale esistenza quotidiana, dal suo corpo, dai suoi bisogni. Nel club dei desperados Da questa infima posizione avrebbe trattato le prediche di Zarathustra con distacco, con noncuranza, come uno che vede passare di sfuggita un animale nel proprio giardino. Non certo per trovare conforto mentale nelle presunte virtù terapeutiche di una vita bucolica. Piuttosto per cercare meglio nella giusta direzione, perché proprio in quel piccolo residuo alloggerebbe pericolosamente – secondo Jung – l’unicità, la singolarità, l’incomparabilità di una vita, di se stessi, di Sé; ovvero del punto-limite che include coscienza e inconscio, individuo e mondo, parola e silenzio. Forse allora Nietzsche non sarebbe diventato folle, ma sarebbe entrato di diritto in una cerchia ancor più stravagante e folle, il «club dei desperados», quel gruppo spurio e sparuto in cui – a detta di Jung – vanno a finire coloro che investigano su una simile esperienza.

LEVINAS

«Quaderni di prigionia», diario filosofico e abbozzi tra ruminazione e stile musicale di MARCO PACIONI

●●●Nella pur ricca di avvenimenti e rocambolesca vita del filosofo lituano francese Emmanuel Levinas (1906 – 1995) lo spartiacque che segna la vita e il pensiero non è un fatto, ma un evento per così dire intellettuale: l’adesione del tanto ammirato Heidegger al nazismo. Levinas ne è sconvolto non solo per quel che riguarda la persona di Heidegger, ma anche per sé e per quella che gli si rivela come un’incubata contiguità fra lo stesso nazismo e alcuni aspetti della filosofia moderna. Non gli sembra possibile di non essere riuscito neanche lui a vedere come il pensiero di Heidegger potesse sviluppare certe affinità. E che anzi, lui stesso si era nutrito di quel pensiero per sviluppare il proprio percorso filosofico fino al punto che, anche quando articolerà più compiutamente la sua critica a Heidegger, Levinas non potrà fare a meno di ricorrere all’autore di Essere e tempo. Della reazione a Heidegger vi è dissimulata traccia già nel breve scritto Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo del 1934 e nel saggio del-

PSICOANALISI

André Green elegge Marilyn Monroe a icona dell’esito fallimentare di una analisi di FRANCESCA BORRELLI

●●●Dopo cinquant’anni di lavoro, il grande psicoanalista francese André Green affronta i possibili esiti infelici della sua professione, e assume come icona della evoluzione negativa di una analisi Marilyn Monroe. Tutto ciò che racconta è probabilmente già noto ai cultori dell’attrice, così come il resto del libro, significativamente titolato Illusioni e disillusioni del lavoro psicoanalitico (Raffaello Cortina, pp. 206, euro 21) si risolve in una sintesi, spesso velocemente annotata, di pensieri già espressi dallo psicoanalista francese in altre sue opere; ma sebbene il libro offra motivi di dolersi per la sua cripticità – persino esaltata dalla traduzione (di Rosella Prezzo) e dalla postfazione (di Fernando Urribarri) – il montaggio offerto alle vicende di Marilyn è di per sé una buona ragione per averlo in libreria. Secondo il parere di Ralph Greenson, lo psicoanalista più famoso della costa occidentale, se non altro grazie alle numerose star che ebbe in cura, il suicidio di Marilyn Monroe arrivò come una drammatica contraddizione alle speranze indotte dal suo miglioramento: la sofferenza psichica si era fatta meno incombente, o così sembrava,

l’anno successivo Dell’evasione. Il giovane filosofo lituano che si era trasferito in Germania dalla Francia per studiare con Husserl fra il 1928 e il 1929 e dove appunto incontra Heidegger, quando scoppia la guerra si arruola nell’esercito francese per combattere contro i nazisti. L’uniforme salva l’ebreo Levinas dai campi di sterminio, ma non dall’internamento nei campi di lavoro dove scrive dei quaderni pubblicati in Francia nel 2009 come parte dell’edizione delle «Opere» sotto la direzione generale di Jean-Luc Marion e ora tradotti in italiano da Silvano Facioni, Quaderni di prigionia e altri inediti (Bompiani «Overlook», pp. 510, € 25,00). I Quaderni sono il diario di un filosofo. Gli eventi vengono raramente annotati come fatti, ma sempre presi come spunti per la riflessione che, al di là della filosofia, si innesta spesso all’arte, alla letteratura. Critica letteraria, ma anche progetti di scrittura narrativa. Essi presentano anche l’abbozzo di due romanzi che rimarranno incompiuti: La Signora di casa Wepler e Eros. La difficile condizione della prigionia catalizza certi movimenti di pensiero di Levinas che, in forme più elaborate, ma non meno sfuggenti, si ritrovano nelle opere maggiori del do-

poguerra e soprattutto in quella che è la sua opera più importante e cioè Totalità e infinito (1961). Nei Quaderni si può osservare allo stadio grezzo il carattere di fuga musicale del pensiero di Levinas, il suo svilupparsi da un nucleo propulsivo mentre da questo si distanzia e spazia in variazioni talvolta inaspettate. Il delinearsi di uno stile filosofico nel quale le ragioni della «scrittura» prevalgono su quelle del «testo», come sottolinea Facioni nell’introduzione e come mostrano i tanti riferimenti al commento biblico, cioè a quell’infinita ruminazione di parole scritte come fossero insegnate tipica della tradizione culturale ebraica. La situazione estrema dell’internamento focalizza l’attenzione di Levinas su alcuni temi che si ritrovano negli scritti successivi e che qui si possono cogliere allo stadio germinale. Per esempio l’allegoria quale tensione del linguaggio a uscire dalla lettera verso un significato altro, la carezza, il carattere eccedente del desiderio, il pericolo totalizzante della comprensione, il volto e, più in generale, su tutti quegli elementi che troverà utili a costruire una filosofia «al di là dell’essenza», per parafrasare il titolo di uno dei suoi più importanti saggi, e con ciò combattere Heidegger e l’heideggerismo del quale, suo malgrado, anche lui rimane in un certo modo partecipe. Nelle pagine dei Quaderni spicca l’Omaggio a Bergson dove si rivela ancora una volta come a Levinas interessi la salvaguardia della possibilità di continuare a cercare la verità anche più che il trovarla, perché solo insistendo sulla ricerca, come fa appunto Bergson secondo Levinas, si approda alla libertà. Scrive Levinas: «La vera conoscenza consiste nel ritrovare il ritmo libero della durata concreta. E questa conoscenza che è anche libertà Bergson l’ha chiamata intuizione. Con lei la vita interiore fu riabilitata. La filosofia resuscitò».

forse grazie al fatto che Marilyn aveva finalmente assimilato la regola basilare di ogni analisi, ovvero la capacità di associare liberamente i pensieri che le passavano per la testa. Per la verità, il compito non le riusciva durante le sedute bensì soltanto quando era sola, perciò si risolse a registrare le sue parole e mandare i nastri a Greenson perché li ascoltasse in sua assenza. Dal punto di vista di uno psicoanalista, sebbene tutt’altro che convenzionale come Greenson, una conquista come questa bastava da sola a lasciar sperare nella evoluzione positiva della vita particolarmente drammatica di Marilyn; ma lei evidentemente non la pensava così. Restò in cura presso Greenson per trenta mesi, e molti di meno ne bastarono per circondare quella analisi del clamore che meritavano entrambi i protagonisti del setting: lungi dall’attenersi pedissequamente ai dettami della neutralità analitica, Greenson vigilava sugli impegni professionali dell’attrice, era pagato per accertare la sua puntualità sul set, sovrintendeva alle sceneggiature e, a sua volta, aveva ingaggiato una donna che riuniva in sé le funzioni di guardia del corpo, infermiera, e spia dei movimenti di Marilyn. Greenson non era l’unico caso di celebrità nel campo analitico che ne violasse sistematicamente le regole: Masud Khan fece altrettanto con molti dei suoi pazienti che necessitavano di protezione speciale. Sembra che Marilyn progettasse di emanciparsi dalle cure di Greenson, che non approfittò mai di lei, ma sviluppò una dipendenza sufficiente a preoccuparlo, tanto che si rivolse a Max Schur, il medico di Freud, perché lo riprendesse in analisi. Non bastò, dovette fare un lungo viaggio in Europa con la moglie per allontanarsi da Marilyn, che prese quella assenza molto male: tutta la sua vita si era risolta in una serie di abbandoni. Quando veniva presa dall’angoscia si comportava come una bambina ripudiata, e effettivamente lo era. Davanti alla cinepresa appariva impacciata, parlare la gettava nello sconforto: «Il ci-

nema è come l’atto sessuale – diceva con notevole intuito – l’altro prende il tuo corpo per mostrare fantasmi in cui tu non ci sei.» Dopo la sua morte Greenson commentò l’infelicità della attrice interpretandola come una vana attesa del padre, che non aveva mai conosciuto e che non le aveva dato il suo nome. Anche la madre, malata di mente, l’aveva subito abbandonata, e alla notizia del suo suicidio aveva reagito con coerente indifferenza. Il caso di Marilyn era, secondo il parere di André Green, al di sopra delle risorse della psicoanalisi: aveva conosciuto «traumi troppo preoci, troppo profondi, troppo incurabili per sopportare le frustrazioni implicite nella cura.» Ma non tutti i fallimenti analitici possono trovare giustificazioni così imperative, né vanno assimilati a quella «reazione terapeutica negativa» capace di ribaltare, a volte, l’evoluzione di una cura proficuamente avviata: Freud la teorizzò nel 1920, facendola discendere dalla coazione a ripetere, a sua volta la principale rappresentante della pulsione di morte, argomentata per la prima volta tra le pagine di Al di là del principio di piacere. Quando André Green si risolse a affrontare i capitoli meno felici della sua lunga esperienza, trovò che la bibliografia sugli esiti infausti della analisi esibiva molto imbarazzo e pochi titoli: l’ultimo che si è aggiunto, da poco uscito per Bollati Boringhieri con il titolo La seconda edizione della vita. Analista e paziente valutano l’efficacia della terapia psicoanalitica (pp. 254, euro 18,50) è a cura di Joseph Shachter e concorda con Green nel segnalare la difficoltà di valutare empiricamente i risultati di una cura non assimilabile alla medicina, dove manca un modello di valutazione, e appare del tutto inadeguato ragionare in termini di guarigione, o di miglioramento, o di stagnazione: perché nessun criterio oggettivo sembra evocabile e non sempre l’alleanza terapeutica approda a un accordo tra analista e paziente sulla sua efficacia effettiva.


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INCURSIONI NELLA BIBLIOTECA PRIVATA

WOOLF di IVAN TASSI

●●●Chi ha letto il Diario di una scrittrice di Virginia Woolf, conosce gli sforzi e le battaglie che l’autrice ha ingaggiato con la penna per impossessarsi della vita nella sua essenza. Con la sua forma elastica, a «maglie larghe», il Diario funziona come un meraviglioso contenitore e allo stesso tempo come un giudice: se da una parte consente di catturare «momenti d’essere» in maniera più franca e disimpegnata di quanto non accada nei romanzi, dall’altra permette anche di sorvegliare i progressi della scrittura romanzesca e di rilanciare di giorno in giorno le scommesse della sua arte, in una infaticabile corsa al libro. Ma accanto al Diario, disposto a celebrare traguardi e sconfitte in una cerimonia di premiazione privata, esiste per la Woolf anche un altro campo di gara: la critica letteraria, che si incunea fra le performance creative dell’artista per costituire un vivace e funambolico esercizio in pubblico della sua intelligenza. Gli Essays di Virginia Woolf hanno visto la luce in un arco di tempo che si estende dal 1904 al 1941 e sono stati pubblicati, tra il 1986 e il 2011, dalla Hogarth Press di Londra in un’edizione critica complessiva di sei volumi. Si comprendono allora i dubbi e l’imbarazzo denunciati da Liliana Rampello, nel momento in cui si è trovata a selezionare e curare i testi della Woolf che ora compongono la raccolta antologica Voltando pagina. Saggi 1904-1941 (a cura di Liliana Rampello, Il Saggiatore, pp. 664, € 29). Si è trattato di farsi strada fra prove di alta levatura, per poi ricavare, a prezzo di inesorabili rinunce, un percorso suddiviso sia qualitativamente sia tematicamente. La prima parte del libro raggruppa infatti «Saggi maggiori» di ampio respiro e più specifiche «Occasioni e avventure» di lettura, organizzando il materiale in cinque blocchi cronologici, ognuno contrassegnato dal riferimento al titolo di un romanzo della Woolf. Sul metodo della lettura La seconda parte propone invece una serie di incursioni in territori disparati – come la pittura, la guerra, la natura, la malattia – che si rivelano comunque di cruciale importanza per la ricostruzione dell’universo ideologico e affettivo della scrittrice. È bene sottolineare che una simile operazione offre incontestabili vantaggi. Mentre la partizione cronologica ci permette di collegare l’esercizio critico all’orizzonte di una determinata stagione creativa della Woolf, la raccolta nel suo complesso, assemblando in un unico volume testi prima tradotti e pubblicati in opere sparse, lascia emergere un’idea decisiva: la critica letteraria, per la Woolf, è una forma di movimento e una libera attività della mente, impegnata innanzitutto a ridefinire, attraverso il proprio esempio concreto, le modalità, il «metodo» e i protocolli dell’atto di lettura. Ma come si propone al pubblico la Virginia Woolf lettrice? Di certo come il più invidiabile dei modelli. Inesausta, iperattiva, la Woolf è capace di bal-

BOSSINI DALLA PRIMA

Tra Bernstein e il suo ebraismo un dramma su note sarcastiche Candide aspirava a diventare Il flauto magico del Nuovo mondo, iniettando nelle convenzioni dello spettacolo popolare contemporaneo il liquido seminale di un teatro di idee, di passioni, di coscienza critica alimentato da un intreccio di valori estetici ed etici. Non a caso Lillian Hellman e Bernstein si erano rivolti a Voltaire e a Mo-

Un grande amore per la scrittura non è che il rovescio della passione per la critica: questa la certezza che Virginia riporta nei suoi romanzi

ANTOLOGIE ■ «VOLTANDO PAGINA», I SAGGI 1904–1941 PER IL SAGGIATORE

Edifici della letteratura scalati con spirito degno di un atleta

zare di scatto, nelle sue ricognizioni da un libro all’altro, verso qualsiasi genere ed epoca. Sul suo tavolo di lavoro vediamo accumularsi alla rinfusa tragedie greche, romanzi russi, liriche, classici della tradizione inglese e francese, epistolari, volumi di memorie. Anche se il romanzo di ogni tempo finisce per rappresentare il terreno privilegiato delle esplorazioni, non sembrano esistere barriere all’intelligenza della scrittrice, disposta a misurarsi su più versanti in contemporanea e a conquistare mete sempre nuove, affidando il proprio istinto e la propria «sensibilità» alla guida della ragione. Il rovescio della medaglia La lettura, per questi versi, si rivela il nutrimento indispensabile al vigore della mente, ma anche un trampolino di lancio per buttarsi a capofitto nella creazione letteraria. Perché quando la Woolf indossa i panni del lettore si lascia alle spalle le zavorre superflue (come ad esempio le notizie sulla vita dell’artista preso in esame), guizza come una «lepre» e tiene gli occhi fissi su quanto «ha fatto» uno scrittore, sul suo «disegno» e sugli sforzi di ingegneria che gli hanno consentito di dare una «forma» al singolare «edificio» del suo libro. Rispetto alla «passione per la scrittura», la critica – come leggiamo in una lettera che Virginia indirizza a Ethel Smyth nel 1932 – non è altro che «il rovescio della medaglia»: tanto che poi, se assieme ai saggi di Voltando pagina ci spingessimo a riaprire Mrs Dalloway o Al faro, resteremmo stupiti dalla prontezza con cui la Woolf, una volta riapprodata alla finzione, ha saputo far tesoro dei propri esercizi di lettura nel disegnare una sua personale forma-romanzo. Non è difficile accorgersi che a questi patti, attraverso la critica letteraria, la Woolf riesce a garantirsi molteplici tornaconti: primo fra tutti la possibilità di sbarazzarsi dei critici stessi, per ridefinire profilo, competenze e «re-

sponsabilità» del proprio lettore ideale. Per Henry James il lettore di romanzi aveva il permesso di procedere «delicatamente», senza «spezzare il filo», a tappe di «cinque pagine al giorno»; secondo Nietzsche, al contrario, il lettore ideale doveva assomigliare a un «mostro di coraggio e curiosità» pronto ad avventurarsi in qualsiasi impresa a proprio rischio e pericolo. La Woolf, per parte sua, domanda invece al lettore di seguire il suo stesso esempio e di comportarsi come un «giovane», formidabile atleta che si lancia alla scalata dei grandi «edifici» della letteratura. Non le interessano le credenziali dei professionisti: la lettura, per lei, coincide con un «vigoroso esercizio all’aria aperta», con uno sport dell’intelletto da praticarsi al riparo dal torpore degli accademici e dal chiacchiericcio parassitario dei recensori di giornale. È il «metodo» a rappresentare, in questa prospettiva, la più sicura delle salvaguardie. Il lettore dovrà infatti impegnarsi a valutare la «forma» delle opere senza lasciarsi distrarre dalla giuria dei critici, alimentando invece il proprio giudizio con la ginnastica mentale della comparazione. Per capire il «piano» di uno scrittore e il risultato della sua «osservazione» artistica della vita, sarà dunque indispensabile metterli a confronto con quanto è stato fatto, prima e dopo, sui campi di gara della letteratura. «Ogni libro – insiste la Woolf – discende da un altro libro». Solo grazie a una «storia delle forme» – che in parte ricorda quella auspicata da certi formalisti russi – saremo allora in grado di riappropriarci dell’antico «piacere» della lettura, che consiste nel tramutarsi, a tutti gli effetti, in «complici» o «compagni di lavoro» del romanziere, nel superare la sua stessa comprensione dell’opera e nel «ricreare» (o riscrivere) il suo libro attraverso la nostra attiva collaborazione. Anche perché poi di questo passo arriveremo a orientarci nel grande «caos» generato, secondo la Woolf, dalle innovazioni della narrativa contemporanea, magari fino ad apprezzare una delle sperimentazioni romanzesche della scrittrice, sottovalutate dai critici, e così audaci – testimonia ancora il Diario a proposito di Al faro – da richiederle talvolta di inventare un «nome nuovo» per definirle.

Disegni di servizi da tè dall’archivio della fabbrica inglese Liberty presso la Westminster City Library

●●●Anche la Woolf ha il suo mattoncino nelle «radici» Bur, la collana con le copertine rigide plastificate che allinea in traduzione italiana «per tutti» i classici delle letterature antiche e moderne, corredandoli di sintetici apparati comprensivi di una aggiornata bibliografia italiana e straniera, che in questo caso è davvero «up to date», visto che arriva sino all’edizione commentata degli Essays finita di uscire l’anno scorso (e antologizzata da noi nel volume recensito qui a fianco). In questo volume di Romanzi, introdotto da Roberto Bertinetti, troverete La crociera, Gita al faro, Orlando, Le onde, sui quali felicemente grava «in quarta» la consueta epigrafe Bur, stavolta affidata a T.S. Eliot: più che altro una freccia nell’occhio del lettore acquirente.

Questioni di giustizia «La critica – affermava del resto Chesterton nel 1911, parlando di Dickens – non esiste per raccontare ciò che uno scrittore sa già da solo, esiste per raccontare di lui ciò che ancora non sa». È un’affermazione sottoscritta in più di un saggio di Voltando pagina. E tuttavia, se il lettore è in fin dei conti autorizzato a fondarsi soltanto sulle proprie ragionevoli «intuizioni», per chi scrive il critico letterario? La coraggiosa ridefinizione dei ruoli con cui la Woolf ci invita a riattivare il nostro ingegno, non rischia di ritorcersi contro di lei con una paradossale, improduttiva auto-squalifica? E non ci ricorda forse gli attacchi che in questi ultimi anni sono stati perpetrati a neutralizzare il mestiere del critico? Osserva in ogni modo la Woolf che «spesso il lettore si rivela estremamente ingiusto»: e dunque, per quanto finisca per «trarre le sue conclusioni da solo», non può mai essere abbandonato del tutto a se stesso. La critica, come ci dimostra Voltando pagina, può rappresentare in ogni caso un tramite prezioso e insostituibile, una sorta di preparatore atletico, chiamato ad «allenare» il «gusto» dell’atleta lettore, ma disposto a farsi poi da parte al momento della gara coi testi. È proprio questo suggerimento che ci spinge ancora oggi a voltare pagina.

zart, attraverso il filtro del teatro epico di Brecht, per rinnovare in maniera radicale le forme e il linguaggio dello spettacolo popolare. Sullo sfondo della polemica contro l’assolutismo delle religioni, il Candide di Bernstein esprime la frustrazione di un artista discriminato e umiliato a causa delle sue origini ebraiche. Malgrado gli onori, la fama e il potere, Bernstein non è mai riuscito a liberarsi della spirale perversa del disprezzo di sé e del compiacimento per le proprie sofferenze. Il dramma del suo controverso rapporto con l’ebraismo pulsava come una ferita sempre aperta nell’animo dell’autore, trovando proprio in Candide una espressione geniale e sarcastica. All’inizio dell’atto II, quando il quartetto dei fuggiaschi sbarca nel Nuovo Mondo, la vecchia Signora canta un irresistibile song a ritmo di tango,

l’aveva fatta per tutti, il mondo intorno stava esplodendo, in maniera fin troppo simile alle vicende raccontate nell’operetta. Il 4 aprile del 1968, a Memphis, veniva assassinato Martin Luther King. Due mesi più tardi la stessa sorte toccò a Robert Kennedy, dopo aver vinto le primarie in California. Queste notizie furono un vero chock per Bernstein, che si precipitò a dirigere l’Adagietto della Quinta di Mahler ai funerali del giovane senatore nella Cattedrale di St. Patrick. Ma soprattutto la società americana sembrava sommersa da una marea reazionaria sempre più aggressiva, in parallelo con l’escalation della guerra in Vietnam. L’amministrazione Johnson arrivò al punto di incriminare per istigazione alla diserzione persino il dottor Benjamin Spock, il pediatra autore di Baby and Chid Care, una sorta di bibbia per la maggior

parte dei genitori americani. In questa situazione Bernstein attraversava un periodo di profonda crisi, scontento di sé e del suo lavoro, incapace di vedere un segno positivo in tutto quello che fino ad allora aveva ritenuto sacro. Per paradosso, le certezze illuministiche di Bernstein stavano vacillando paurosamente proprio nel momento in cui la fortuna di Candide cominciava finalmente a risalire la china. Il fallimento del progetto di adattare in forma di musical L’eccezione e la regola di Brecht, un lavoro che aveva occupato il musicista nel corso di tutto il 1968, fu la goccia che fece traboccare il vaso di una lunga serie di delusioni e incomprensioni. Il legame, seppur tenue, che teneva ancora legato Candide a una dimensione etica e nobile dell’arte si era spezzato per sempre.

I ROMANZI NELLA BUR

Una sperimentale finita nel luogo comune

uno dei pochi numeri scritti per intero, parole e musica, da Bernstein. «I Am Easily Assimilated», dichiara la Vecchia in maniera sfrontata, aggiungendo di non essere spagnola, ma figlia di un uomo di Rovno Gubernya, la città ucraina da dove proveniva il padre di Bernstein. La portata dell’identificazione dell’autore nel personaggio grottesco della vecchia bagascia, alla quale è stata anche affettata metà del lato B (allusione nemmeno troppo velata alla omosessualità dell’autore), si chiarisce qualche numero più tardi: «Sono stata picchiata e frustata/ e ripetutamente denudata,/ sono stata costretta a tutti i tipi di prostituzione/ ma ultimamente sto scoprendo/ che il destino peggiore/ è morire di comodità e di noia». Malgrado il quadro desolante di ogni forma di rapporto umano raffigurato nell’insieme del musical, il fi-

nale offre una prospettiva se non positiva, almeno consolatoria. All’epoca della prima stesura di Candide, verso la metà degli anni ’50, Bernstein era convinto che l’arte e la ragione avrebbero potuto salvare l’uomo dal disastro, che nell’epoca della Guerra fredda assumeva l’immagine spettrale del fungo di Hiroshima. «Non siamo puri, né saggi, né buoni», cantano i sopravvissuti ai tormentati casi del Candide, «Costruiremo la nostra casa, spaccheremo la nostra legna e coltiveremo il nostro giardino». Dieci anni dopo, invece, la visione di Bernstein era cambiata in maniera drastica. Mentre il popolo ebraico di Broadway celebrava la fine della sua lunga traversata del deserto e la conquista di una dignità sociale sconosciuta alle generazioni dei primi immigrati festeggiando il suo rappresentante più eminente, quello che ce


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LA MOSTRA ALLA NATIONAL GALLERY, UN CASO CRITICO

DA LONDRA

Leonardo da Vinci, «Vergine delle Rocce», part., Londra, National Gallery. In piccolo, caricatura, Milano, Ambrosiana; a destra, Michelangelo, «Nudo di schiena», Firenze, Casa Buonarroti

di CLAUDIO GULLI LONDRA

●●●L’ombra dell’industria culturale si allunga su Leonardo. Una mostra così roboante sul pittore di Vinci non la si vedeva dal 1939: la inaugurò il Duce al Palazzo della Triennale. Ora come allora, i capolavori sono più radunati che studiati. Eppure l’occasione era ghiotta: lo studio della tecnica poteva rimettere in moto la macchina della Storia. Le analisi riflettografiche condotte sulla restaurata Vergine delle Rocce londinese (2005) hanno rivelato un disegno sottostante diverso, un’Adorazione del Bambino, che si ritrova in altri disegni di Leonardo. Da Suida in poi, gli studiosi si sono sempre chiesti se non fosse questo il caso di un dipinto del maestro andato perduto, poiché copie antiche attestano la conoscenza di quest’Adorazione. La mostra non sonda fino in fondo questa strada: naturalmente, credere che Leonardo sia un pittore raro è funzionale allo show: così i 9 dipinti esposti (più 1 cartone e 50 disegni) rappresentano la metà del suo corpus. Il confronto inedito fra le due versioni della Vergine delle Rocce poteva condurre a un discernimento del percorso stilistico del pittore emigrato a Milano. Bisognava chiedersi cioè come sia possibile passare dalla versione del Louvre (1483-’85) – di una saggezza rassicurante, dove i misteri dell’umanità si sciolgono col calore dei toni – alla glaciale lucentezza, ai bagliori di luna, alle rocce rigidamente cavate della versione di Londra, eseguita in due tempi, ante 1499 e 1506-’8. Che quest’opera sia tutta di mano di Leonardo è oggetto di discussione da secoli e, per la prima volta nella storia, i due dipinti sono stati messi uno di fronte all’altro – e non accanto, come logica avrebbe voluto… (quello parigino viene dalla chiesa milanese di San Gottardo in Corte; il londinese dalla cappella dell’Immacolata Concezione di San Francesco Grande, sempre a Milano). Il candidato più valido alla veste di collaboratore di Leonardo, nella Vergine delle Rocce della National, a me pare Francesco Napoletano, che, come Ambrogio de’ Predis, dipinge un Angelo nello scomparto laterale. Questi due pittori alla mostra sono un po’ negletti, perché troppo poco leonardeschi. Invece andrebbero interpretati come vettori di notizie, dal nord: Ambrogio (e forse anche Francesco) nel 1494 è documentato a Innsbruck, alla corte asburgica. Il riflettore è invece tutto puntato sull’unico allievo che non è ‘tristo’ perché lo ‘supera’, eccome, il maestro: Giovanni Antonio Boltraffio. Ma cominciamo. Prima sala: accanto al Musico di Leonardo e al cosiddetto Lettore di Seneca di Boltraffio, andava chiamato un dipinto – quello di Kansas City – e non un disegno, peraltro di attribuzione incerta, di Francesco Napoletano. Se qui Leonardo è devoto a psicologie fragili, a zigrinature di luce che rigano e riscaldano le superfici, Boltraffio è invece alle prese con eroi e bombature di chiari su volumi compatti. Ci lascia freddi anche il titolo: Leonardo da Vinci Painter at the Court of Milan (a cura di Luke Syson, fino al 5 febbraio), perché il castello del Moro è una cornice vuota, se si punta solo lì l’obbiettivo. Non si mettono in luce né la pluralità di voci della Milano degli anni leonardeschi (1482-’99), dove dai Foppa e i Bergognone le sperimentazioni prospettive virano nei Bramante e Bramantino, né la cappa di cultura sovra-regionale che va omologando i linguaggi cortigiani di Firenze, Ferrara, Urbino e Mantova, attraverso scambi di lettere e ritratti. Cronologie e identificazioni dibattute sono presentate con una certa sicumera: il Musico che molti datano dopo, non prima, della Dama con l’Ermellino, lo ritroviamo appunto nella prima sala, il cartellino dice ’86-’87. E dai dubbi germogliano certezze: chi garantisce che il ritrattato sia Atalante Migliorotti? Nella sala dopo, vedere le date della Dama con l’Ermellino (1489-’90) e della Belle Ferronière (1493-’94) può risultare scioccante. Bisognerà misurarne la distanza culturale: la prima, con la sua grazia da minorenne disinibita, è ancora legata al naturalismo

GRAFICA ■ LEONARDO E MICHELANGELO

Furor e sfumato in un confronto di disegni ai Musei Capitolini

di FRANCESCO GRISOLIA ●●●L’esposizione Leonardo e Michelan-

Il Leonardo roboante È dal mussoliniano 1939 che non si vedeva un raduno del genere sul pittore di Vinci: e oggi come allora, dinanzi a certezze più sbandierate che sostanziate si resta perlomeno perplessi fiammingo; la seconda, un oggetto erotico che ti fissa finché non ammetti che ti è superiore, è già un ragionamento su canoni e ideali. Sono questi gli anni (metà anni novanta) in cui per Leonardo il succo del discorso è diventato scovare una proporzione fissa, che riduca a numeri l’anatomia indagata. Lo spostamento dal periodo fiorentino a quello milanese del San Girolamo vaticano (1488-’90) viene accettato – è una proposta del 1992. Farebbe fede il supporto ligneo: è noce, come usava a Milano, e non fiorentinissimo pioppo. Rimane però da spiegare il dipinto omonimo di Filippino Lippi degli Uffizi, che pare proprio derivi da quello incompiuto di Leonardo. E come si poteva, da un artista che migrava come una rondine, aspettarsi qualcosa di finito? andava ritrovata a posteriori una categoria estetica che spiegasse la sua fama, e a questo ci penseranno i letterati e, da ultimo, il Vasari. Il troppo parlare di Syson di painter-philosopher, invece, annoia fa-

cilmente. Fu Leonardo un grande filosofo? (Croce diceva di no) un gran letterato? (Dionisotti diceva di no) un grande pittore? (Berenson e Longhi dicevano di no). Semmai è il fallire di Leonardo «uomo moderno» che seduce ancora tutti, da Freud in avanti. «Se sarai solo sarai tutto tuo, se sarai con un compagno sarai mezzo tuo»: e come poteva uno come Leonardo circondarsi di veri allievi? L’unico genio, Boltraffio – che è l’autore della Madonna Litta – approda a bellezze talmente perfette da parere di ghiaccio a metà anni novanta, quando Leonardo dipinge la seconda Vergine delle Rocce. Marco d’Oggiono invece assorbirà luminismo lunare e concavità ombrose fino a ridurle a formule stereotipe: quel che in Leonardo è felino e torbido e in Boltraffio angelico e latteo, in lui rimane vitrea assenza. Il chiaroscuro fosco e decadente di Francesco Napoletano, tutto di origine leonardesca, sembrerebbe appreso d’un colpo, come strumento di seduzione immediata, e non

più messo in discussione. Dopo viene il Cenacolo (’92-’96): siamo al primo piano, in una sala a parte, lontani dai sotterranei della mostra. Presenti tutti i disegni delle Teste degli apostoli di Windsor e la copia, a grandezza naturale, di Giampietrino. L’ultima sala è forse l’emblema di questa mostra vanamente muscolosa: perché cimentarsi in problemi critici irrisolti, se non si ha nulla di nuovo da proporre? Sulla Madonna dei fusi è ancora dibattuta la questione di quale (e se una…) delle due versioni sia l’originale di Leonardo. Nel ’92, a Edimburgo, si dedicava una mostra al tema. Ora a Londra ne espongono solo una – proprietà Buccleuch – e asseriscono dogmaticamente che è quella ‘buona’. O il Salvator Mundi: gli specialisti hanno trovato uno strano consenso pescando dal collezionismo privato un reperto da sempre noto agli studi. Il volto del Cristo è rovinatissimo e tutto di restauro, ma il dipinto è improvvisamente diventato di mano di Leonardo...

gelo ai Musei Capitolini, curata da Pietro C. Marani e Pina Ragionieri e aperta fino al 15 febbraio, affianca Capolavori della grafica e studi romani dei due maestri, con l’aggiunta di fogli di artisti della loro cerchia. Le opere provengono esclusivamente da due collezioni d’eccellenza: la Biblioteca Ambrosiana di Milano per i disegni di Leonardo, Casa Buonarroti di Firenze per Michelangelo. Il risultato è una rassegna a struttura speculare, che consente di apprezzare le maniere dei due artisti, di cogliere differenze e peculiarità nel modo di intendere arte e natura nel momento creativo e conoscitivo per eccellenza, quello del disegno inteso come «padre delle arti» (Vasari). Alle scale leggere del percorso in palazzo Caffarelli cedono pochi gradini in penombra, soglia della mostra. Violento l’impatto con i primi disegni esposti. Luci tenui avvolgono ed esaltano nove selezionatissimi capolavori di Leonardo, di una qualità disarmante, tutti testimoni di un’attività grafica quale strumento principe di indagine, conoscenza ed elaborazione della natura. Si va da noti studi tecnologici giovanili conservati nel Codice Atlantico ed eseguiti a penna e inchiostro, come il foglio con viti idrauliche e quello con una grande catapulta, a due ingegnosi progetti successivi, ovvero una macchina punzonatrice, che colpisce per il parco e funzionale utilizzo della matita rossa, e lo studio per ali, meccaniche e insieme vivissime; fino alle teste grottesche in profilo, testimonianza delle innovative ricerche del genio di Vinci nel campo della fisiognomica, e al più tardo e straordinario studio architettonico per una fortezza a pianta quadrata, dove i tratti della penna suggeriscono e seguono le forme delle strutture, donandogli concretezza e vitalità. Se la penna e l’inchiostro, con rari esempi mescolati alla matita rossa, emergono come gli strumenti preferiti da Leonardo, usati anche per colmare di annotazioni a grafia speculare i propri fogli, nella sala successiva tutto cambia, nella tecnica quanto nello stile. L’inebriante sezione dedicata a Michelangelo offre una visione del mondo e del fare arte in tanto differente e non meno fatale. Dal «disegnar scolpendo» della fase giovanile, con il suo «severo» primo disegnare, che è studio ed esercizio continuo e raffinato sull’antico come sugli autori «moderni», a partire da Giotto, oltre che sul vero, si passa ai fogli via via più maturi del Buonarroti, segnati da un furor immaginativo che sfonda il foglio e spiazza per la forza e la capacità di render pubbliche le sue visioni più intime e idealizzate, non meno di quanto la ferace fantasia leonardesca arricchiva finanche gli studi più tecnologici e i suoi più vivaci «ghiribizzi». Ci si sofferma su capolavori assoluti del tormentato artista, quali il giovanile Studio di nudo, forse dall’antico e collegato dalla critica a uno dei bagnanti della perduta

Battaglia di Cascina, ottimo esempio della sua tecnica a penna e del tratteggio, parallelo, incrociato e avvolgente insieme, usato per creare le ombre e animare le forme, oppure il piccolo, splendido ed evocativo Studio di testa, sorprendente per l’efficacissima delicatezza della matita rossa, messo in relazione da Paola Barocchi con la Madonna del Tondo Doni. Come non constatare per questo foglio, tra i rari disegni di testa dell’artista, la riuscita resa grafica di quel «moto degli animi» tanto teorizzato e ricercato da Leonardo stesso? O non correre con la mente allo «sfumato» leonardesco mentre tentiamo di cogliere i confini di certi schizzi di Michelangelo, non finiti per natura oppure per il carattere stesso del loro autore? Colleghi e spiriti forse più affini di quanto non siano sempre stati romanzescamente rivali, negli altissimi risultati raggiunti e nella prepotente umanità che trasuda da ogni loro creazione. Ardua e riuscita, dunque, la selezione dei capolavori, e non solo di questi: un’antologia ragionata che aiuta a comprendere le evoluzioni stilistiche e tecniche di Leonardo e Michelangelo disegnatori, ben approfondite nei saggi in catalogo (Silvana editoriale), ma che fa anche rimpiangere l’assenza di maggior spazio per altri fogli di tale livello, non accessibili al grande pubblico, ma pur sempre ghiotta occasione per i più navigati tra i visitatori. Il resto della mostra prende in esame il rapporto dei due grandi artisti con la città di Roma. Dal rapporto con l’Antico, modello imprescindibile per entrambi, ai disegni di architettura dei loro anni nella città papale. Di Leonardo troviamo poi studi ottici e di geometria, e piccoli, preziosi disegni di figura apposti sui fogli del Codice Atlantico, mescolati alle fitte osservazioni a carattere scientifico. Di Michelangelo documenti autografi di gustosa e non ardua lettura, come la lettera scritta a papa Clemente VII de’ Medici in merito alle statue per le tombe medicee della Sagrestia Nuova, oltre a studi anatomici e disegni relativi alla sua produzione pittorica nella Cappella Sistina – tra cui l’eccezionale studio d’insieme, eseguito a matita nera, per il discusso Giudizio finale – e a quella più tarda nella Cappella Paolina. Non mancano disegni collegati ad altri artisti al seguito dei due maestri toscani, come Cesare da Sesto e Bernardino Luini per Leonardo e il Tribolo per Michelangelo, a dimostrare la portata delle loro invenzioni, modello e ispirazione per generazioni di artisti e di fruitori dell’arte. L’approccio adottato offre un raffronto immediato ed esemplare tra le due grandi personalità e, ancor meglio di una mostra a carattere monografico, consente di indagarne dal vivo caratteristiche e diversità. Da qui una maggiore comprensione dei rispettivi percorsi e risultati. Mente e spirito del visitatore, specialista o curioso che sia, consapevole dei limiti di una selezione circoscritta a due sole, pur ricche, raccolte, ne escono senza dubbio rinfrancati e arricchiti.


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ALIAS DOMENICA 15 GENNAIO 2012

TRASFERTE

BAIRES Caccia al tesoro di Horacio Quiroga di FABIO DE PROPRIS BUENOS AIRES

●●●Di fronte a una natura che si estende quasi all’infinito producendo un fiume dalla foce sterminata in mezzo a una pianura rigogliosa che va dal tropico del Capricorno fino quasi al polo sud, l’uomo boreale si è sentito sfidato nella capacità di eccedere e ha creato Buenos Aires, rimediando ai propri limiti con un gusto della citazione storica – la colonna dorica, la statua equestre di gusto rinascimentale – che vorrebbe addolcire la tracotanza, ma non ha evitato le tragedie della storia. La foce del Rio de la Plata si apre fino a raggiungere un fronte di 220 chilometri. Che adesso Buenos Aires sia piena di grattacieli sembra ovvio. Gli europei che la fondarono hanno impiantato nei discendenti il virus dell’architettura, la necessità di dare un’interpretazione allo spazio abitato, trasformandolo in un contenitore di significati. Con tanti metri quadri e cubi a disposizione in un territorio pianeggiante, produrre strutture architettoniche grandiose, avendo del cemento armato a disposizione, è una scelta quasi banale nella sua ovvietà. Il luogo della dismisura L’ampiezza della Avenida 9 de Julio cita quella del Rio de la Plata, l’altezza dei grattacieli del microcentro rimanda agli alberi della foresta subtropicale. Anche le tragedie e le vittorie storiche dell’Argentina, oltre che essere conflitti tra uomini, possono sembrare anche sfide alle meraviglie e alle catastrofi della natura. Per chi viene dall’Italia e ha perciò un occhio abituato a orizzonti limitati dall’ermo colle, dai sette colli, dagli Appenini, e dalle Alpi, che inducono alla bellezza ordinata e a misura d’uomo, Buenos Aires è il luogo della dismisura e della sproporzione. Tra gli altissimi edifici del centro e le infinite baracche di lamiera costruite sotto le strade sopraelevate non c’è continuità. Lo squilibrio architettonico è specchio dello squilibrio economico.

Dal grattacielo di Buenos Aires al cucchiaio nella foresta: un reportage sull’arte del racconto, nella sproporzione dell’Argentina

La maggiore ricchezza dell’Argentina di oggi, passata in dieci anni grazie ai governi Kirchner dal fallimento orchestrato dal liberista Menem a una crescita seconda sola al Brasile (il fatto insegnerà qualcosa ai seguaci del liberismo?), non è priva di zone d’ombra. Più ricchezza significa, ad esempio, anche più grande produzione di immondizia. Come sostiene l’architetto Carlos Levinton, è arrivato il momento di passare alla raccolta differenziata dei rifiuti in casa, ma l’Argentina ancora non è preparata al passaggio. La sproporzione tra la massa dei rifiuti e le tecniche di smaltimento produce effetti spettacolari e sinistri anche agli occhi di chi viene dall’Italia: le vie eleganti del centro di Buenos Aires, come la famosa calle Florida, di notte diventano punto di incontro dei cartoneros che vi ammassano i loro grossi contenitori di immondizia e procedono a differenziare, accumulando cartone su cartone, plastica su plastica e così via. Nell’attesa di raggiungere l’obbiettivo di riciclare il cento per cento dei rifiuti prodotti (esattamente come fa la natura, chiosa l’architetto), la città notturna offre immagini di sovrapposizioni incongrue che purtroppo ispirano pensieri poetici, come l’in-

gresso del Teatro Tabaris, sull’avenida Corrientes: una grande scritta che lo copre tutto annuncia il prossimo allestimento di un dramma di Albee (La capra) ad opera di due dei migliori attori argentini del momento, Julio Chavez e Cecilia Roth. Davanti alla scritta, un senzatetto ha sistemato il suo giaciglio e cerca di dormire. Se ci si allontana dal centro, annunciato dalla gigantesca scultura metallica che riproduce un fiore ideale, la Floralis Genérica di Eduardo Catalano, si incontra il quartiere signorile di Palermo, dove nacque Borges, e dove ora sembra che la Madrid più monumentale si sia trasferita dilatandosi nelle forme e nelle distanze. Alla ricerca di zone meno invidiose della grandiosità forestale si inverte la direzione di marcia e si arriva a San Telmo, dove le vecchie case a un piano si fanno meno rare e i negozi di antiquariato riportano alla dimensione delle piccole cose e della nostalgia. Spingendosi più in là, fino alla Boca, si ha l’illusione di trovare riposo nello sgargiante colore locale delle casette di lamiera dipinte. Questioni di forza naturale Le fotografie dei turisti, i pittori che vendono i loro acquarelli, il carretto dell’aranciata riportano verso una dimensione in cui la lotta per la vita si stempera nell’arte di arrivare alla fine del mese. Viene addirittura voglia di visitare il museo delle cere alla fine del Caminito. E lì, inaspettato, ci si imbatte nel nodo che tiene unito l’umano e il tremendamente naturale. Accanto alle cere dei gauchos in duello e degli eroi della resistenza guaranì, c’è una piccola sezione di serpenti imbalsamati e riproduzioni in cera di arti umani deformati dai rispettivi morsi velenosi. Spicca un boa constrictor e, ancora di più, un piccolo cartello che allude al più velenoso dei serpenti del nord: lo yararà. Tutto all’improvviso è chiaro, perché torna alla memoria l’opera di uno dei più grandi e misconosciuti narratori sudamericani, Horacio Quiroga. La sproporzione di Buenos Aires e di tutta l’Argentina è il tema di tutta l’opera di questo scrittore

della generazione che ha preceduto Borges. Se l’arte del racconto è una porta che può condurre a comprendere il reale, allora è il caso di partire. Dal reportage sconfiniamo nella relazione letteraria e dal museo delle cere ci spostiamo nella provincia di Misiones, seguendo la via di Quiroga che, nato in Uruguay, crebbe a Buenos Aires, per poi trovare nella foresta subtropicale tra Misiones, Posadas e San Ingacio il posto dove vivere e ambientare molti dei suoi racconti. Se la capitale rappresenta la sproporzione, la foresta ne è il cuore. Il veleno dei serpenti, la corrente dei fiumi, la vita degli alberi sono entità che l’uomo, soprattutto se arrivato dalla città, prova a ridurre alla propria dimensione, quasi sempre fallendo. Ma quand’anche riesca, il successo è frutto della stessa imponderabile forza naturale che al-

tre volte porta al disastro. La grandezza di Quiroga sta nell’aver colto il tema della sua città adottiva e di averlo sviluppato nel luogo in cui raggiunge il suo più alto grado di drammaticità attraverso un strumento quale il racconto che, miniaturizzando lo scenario, ne fa risaltare al massimo la dismisura. Api che producono un miele velenoso per il grassoccio e inesperto ragazzo bonaerense appena arrivato in vacanza a Misiones, tagliatori di legname che vanno incontro a un fato vario ma, come in Verga, immutabile, amori impossibili che si concludono per assurdo con un lieto fine e altri che naufragano in modo ugualmente assurdo: questo il genere di storie che racconta Quiroga. Tuttavia a farne veramente un grande scrittore è la capacità di produrre, nel folto di una prosa compassata come tronchi d’albero, frasi abbaglianti come fiori d’ibisco. Ci si limiterà qui a citarne una da Il tetto d’incenso. Il protagonista Orgaz, ufficiale civile di San Ignacio, è alle prese con due missioni impossibili: innanzitutto sistemare il tetto della sua casa che, fatto di tegole di incenso non stagionate e perciò soggette a de-

BIOBIBLIOGRAFIA

La costellazione di morti e di libri che approdò al suicidio dell’uruguayano Quiroga

Un’illustrazione per il racconto breve di Horacio Quiroga (foto piccola) «El almohadon de plumas»

●●●Horacio Quiroga nacque a Salto, in Uruguay, alla fine del 1878. La sua vita fu segnata da molti eventi luttuosi. Il padre morì per un colpo accidentale di fucile quando Horacio aveva pochi mesi e lo stesso Horacio uccise poi accidentalmente un amico con un fucile nel 1902, anno in cui lasciò per sempre l’Uruguay stabilendosi a Buenos Aires, dove lavorò come insegnante. Nel 1910 si trasferì nel nordest del Paese con la moglie Ana María. Nel 1915, quando la sua carriera letteraria cominciava a consolidarsi, la moglie si suicidò. Tornato a Buenos Aires nel 1916 con i due figli, Quiroga divenne un autore stimato e celebrato. Nel

formarsi, si è presto trasformato in un colabrodo e in secondo luogo rimettere a posto i registri che nei quattro anni di servizio ha completamente trascurato per cercare di risolvere il problema del tetto. Quando, dopo tre giorni di lavoro febbrile, Orgaz è pronto per portare i registri in ordine all’ispettore ministeriale, si accorge che deve attraversare in canoa il fiume Paranà in piena. Il pericolo è grande, ma il senso del dovere prevale. Emozioni inattese A questo punto della narrazione, Quiroga scrive una frase che si può definire più grande della letteratura e che per un momento cancella la sproporzione tra l’uomo e la natura-destino: «E se la canoa, che imbarcava acqua da tutte le parti ed era esposta di fianco alle onde, non affondò in quel tragitto fu perché, a volte, succedono cose inspiegabili» (trad. di Eleanor Londero). Non è difficile capire che trovare oggi a Puerto Iguazù, nella stessa provincia di Misiones, in un piccolo negozio chiamato «Flower Power», un cucchiaio di legno d’incenso, novant’anni dopo la pubblicazione del racconto di Quiroga e sentirsi dire dalla proprietaria che gli alberi di incenso in quella zona sono scomparsi da decenni e quel cucchiaio è stato ricavato da un pezzo di legno vecchio trovato in chissà quale casa diroccata, destinato all’immondizia e invece riciclato nel rispetto della natura, può suscitare varie emozioni.

1932, risposatosi con la giovanissima María Elena, tornò a vivere nel nordest, a Misiones, come console uruguayano. Nel 1936, nuova crisi matrimoniale: María Elena e la figlia avuta da lei rientrarono a Buenos Aires. Un anno dopo, Quiroga, ammalato, fece ritorno nella capitale e si suicidò con il cianuro (vedi l’introduzione di Lafforgue a Los desterrados y otros textos, Castalia 1990). Negli ultimi anni l’opera di Horacio Quiroga è stata proposta varie volte in italiano. Si ricordano almeno: Racconti d’amore di follia e di morte (pref. di Dario Puccini, trad. di Fausta Antonucci, Editori Riuniti 1987; nuova trad. di Feretto, Internòs 2010); Anaconda e altri racconti (trad. di Fausta Antonucci 1988); Il tetto d’incenso (trad. di Eleanor Londero, Sellerio 1995); I racconti della foresta (a cura di Francesca Lazzarato, Editori Riuniti 2003); e lo studio di Vito Galeota La configurazione del cuento moderno ispanoamericano: Horacio Quiroga (Aracne 2005). (f.d.p.)


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