n u v o l e
ugo rosa
attraverso la zisa
(divertimento alla turca)
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lsd studio
metascapes
È giusto che questo libro sia dedicato a quattro donne. Ad Olga, in pegno. A Rosa, Elvira e Loredana, in segno.
“Il barbaro che cosa è obbligato a fare dalla povertà di esperienza? È obbligato a ricominciare, a iniziare daccapo. “Il nuovo barbaro” non riconosce nulla di stabile, ma proprio per questo vede ovunque delle possibilità. Anche dove gli altri incontrano mura o montagne, lui vede una via. Ma poiché vede ovunque una via, ovunque deve ripulirla da qualcosa. Vedendo ovunque una via, egli si mette sempre agli incroci. Non sa mai che cosa gli accadrà nell ’ istante successivo. Egli riduce in macerie tutto ciò che esiste: non però per le macerie stesse, ma per la strada che le attraversa” Walter Benjamin
© 2007
biblio te c a d e l c e n i d e v i a st a z i on e 10 8 9 0 1 0 ca n n it e llo (rc ) italia + 3 9 . 0 9 6 5 . 7 00492 ph / f x w w w. c e n i de . n e t i n fo s@c e n i de . n e t
i n d i c e
Ug o Ro s a Attraverso la Zisa pr o ge t to g raf i co
domenico cogliandro f o to g ra f i e
mario virga [ pp. 22, 33, 49, 76, 89, 98, 114, 116, 127, 133, 167, 172 ] domenico cogliandro [ pp. 4, 10, 51, 56, 88, 148, 155, 159, 162 ] s ta m pa
officine tipografiche aiello & provenzano L’editore intende r ingr aziare per la collabor azione offer ta nel lavoro di prepar azione del libro, la Sopr intendenza BB .CC .AA. della Regione Siciliana nelle per sone della Dott.ssa Adele Mor mino e del Dott. Mar io Raffaele Camillo, nonché tutto il per sonale presente nei monumenti Zisa e Cuba a Paler mo.
Propr ietà ar tistica e letter ar ia r iser vata per tutti i paesi. Senza il consenso dell’editore non sono consentite la r iproduzione , la archiviazione in un sistema di recupero o la tr asmissione , anche parziale , in alcun modo e con qualsiasi mezzo (elettronico, meccanico, microfilmatur a, fotocopiatur a).
Prima edizione:
Luglio 2007
ISBN
978-88-87669-14-5
Una modesta proposta I. Dove s’inizia parlando d’altro: non della Zisa bensì della Cuba, sua gemella, che per molto tempo fu irreperibile ma adesso è tornata e fa strage di cuori. II. Dove si scopre che se lo stare immobile aiuta la riflessione, anche l’entrare in contatto con gli spigoli, per quanto doloroso, può infine aiutare a riflettere. III. Dove, appena dietro l’angolo, si scopre un giardino. Dentro il giardino, una costruzione. E dentro la costruzione, di nuovo, un giardino. IV. Dove si continua a sottilizzare sulle “i” e sulle “e”. V. Vi si sorprende la Zisa a rimirarsi allo specchio. VI. Ci s’incammina pieni d’entusiasmo e si arriva esattamente al punto di par tenza. VII. Breve e crudele interludio biografico in cui Guglielmo, detto il Malo, si rivela un malinconico tombeur de femmes, il destino si mostra cinico e baro, e il tempo niente affatto galantuomo. VIII. Che prima ci mostra Guglielmo che rincorre un cinghiale e, dopo, il cinghiale che rincorre Guglielmo. IX. Dove si costruisce sulla sabbia e nel vento.
X. Piccola parentesi enigmistica che (speriamo) diver tirà il lettore. XI. Dove si osserva che chi si ripete non sempre dice le stesse cose, chi dice cose diverse non è detto che non si ripeta e chi sta zitto non necessariamente non dice niente. XII. Che non chiarisce quel che s’è detto prima ma in compenso stabilisce che, in qualsiasi modo si risponda agli indovinelli, non si può errare di più se si stava già errando. XIII. Dove, tra le dune, s’intravede Peter Pan in trasfer ta dai giardini di Kensington e si scopre, con sempre rinnovato stupore, che si può esser poveri ma belli. XIV. Che per rassicurarci riguardo al nostro esistere ci mette di fronte a uno specchio ma ottiene, ahimè, l’effetto contrario. XV. Dove si vede come in questa nostra traballante manifattura quasi nulla vada a posto perfettamente e l’incastro giochi sempre un pochettino. XVI. Ci rivela come spesso avviene che chi cerca non trova, e a trovare è chi non cerca XVII. Che adombra una sor tita in Hurqalyja XVIII. In cui dopo aver predicato bene si razzola male. XIX. Una veduta dal tappeto volante... XX. ...volando volando, si raggiunge ed oltrepassa il muro del suono...
XXI. ...e continuando a volare ci si scopre colibrì. XXII. In difesa dei pornografi e a loro maggior gloria. XXIII. In cui dopo tanto girovagare finalmente si giunge alla conclusione che la Zisa, a Palermo, non si trova. XXIV. In cui, per amor di conoscenza, ci si dedica all’ozio, al riposo e a fare quattro chiacchiere col barbiere. XXV. Dove si spegne la sveglia e si continua a dormire. XXVI. Dove si scopre che il limite è sorgente d’infinito. XXVII. Giochi d’acqua e spigolature di superficie. XXVIII. Spigolature ulteriori ad uso di chi voglia apprendere come si fa a non arrivare da nessuna par te. XXIX. Dove si mostra che senza differenza non c’è seduzione, ma per farlo si confondono le gheishe con le urì. XXX. Dove si fanno i conti con l’alito del drago. XXXI. Che riconduce il gioco da dove era par tito e mostra che, se le parole non sono pietre, le pietre possono però assestarsi sulle parole. Chapeau. Nota finale
“Aggrappatosi per parti che non vi si sarebbono appiccati li picchi, nel giardino se n’entrò” Boccaccio, Decameron (novella VI, V giornata)
u g o ro s a
attraverso la zisa (divertimento alla turca)
Una modesta proposta
“Davvero, se mai una vela fu bracciata da pure forze spirituali, dovette essere quella vela, poiché, propriamente parlando, sull ’intera nave non v’era muscolo che rispondesse alla bisogna, a parte noi miserabili sul ponte.” Joseph Conrad "The shadow line"
Quando il neofita non indigeno s’accosta alla città di Palermo viene, suo malgrado, risucchiato in un maelstrom di storia patria che lo tramor tisce e, roteando tra scimitarre saracene ed elmetti normanni, precipita che è una bellezza. I giornali del luogo agevolano la caduta libera producendo, a ritmi pacatamente industriali, ponderose rimembranze siciliote che il professore s’affretta a sottoscrivere, traendo linfa nutritiva dalle loro profondissime radici isolane. Così sulle terze pagine delle gazzette proliferano gli eteronimi (Colapesce, Giafàr, Gran Guglielmo, il Normanno, Giufà) e pullulano i ritrovamenti archeologici e i coccodrilli necrologici in onore di meritori cavalieri della cultura mediterranea. Ad ogni sei righe, si rimembra con tono dolente il povero Pitrè. Abbiamo il giovine musico siciliano e il giovine architetto siciliano, il giovine scrittore siciliano e il giovine teatrante siciliano. Il puparo s’aggira, raffinato, per salotti. Da vecchi si diventa Grandi per stato d’avanzamento e si conquistano le maiuscole regionali: il Grande Autore di Sicilia,
il Grande Figlio di questa Terra Amara, il Grande Cantore del Ficodindia, della Salina e del Pescespada. Si è fieri a cottimo della propria etnia e il carretto siciliano si sublima in vaporose fragranze diventando merce di scambio tra eruditi: il Poeta porta la coppola e il Professore non disdegna il tamburello. Qualunque libro si pubblichi in loco, dunque, bisogna aver cura di intitolarlo a Palermo Capitale; ed effettivamente in questi ultimi anni Palermo è stata capitale di tutto: del mediterraneo, dell’Europa, del barocco, dell’insalata di mare, della cultura, dell’ar te, del liber ty e della sarda a beccafico. Non si sa più di cosa metterla a capo. Ma non si creda, prego, che si tratti di pretese infondate. Esiste, depositato agli atti, il catalogo delle gigantesche figure che hanno fatto grande la città. È un bel leggere: l’avvocato Francesco Maggiore Perni, professore di statistica nella Regia università di Palermo, Ignazio Paternò principe di Biscari, cultore di Scienze Tradizionali, Pietro Trombetta, trascrittore del Marvuglia, il ministro Giuseppe Bologni Beccadelli
marchese della Sambuca, sicilianista e successore del riformista Tanucci; sino alle intemperanze dialettali: Lo Faso di Pietrasanta, duca di Serradifalco 1783-1863, che si staglia tra i nembi e i cirrocumuli come “teorico dell’architettura, archeologo, statista e protagonista di primo piano delle vicende rivoluzionarie del 1812 e soprattutto del 1848”. I padri dei Sacri Studi sono dunque quelli di sempre, noti ovunque si pratichi il culto degli antenati e si sacrifichino vitelli al recupero delle tradizioni avite: anche in Tirolo. Ma qui, nella fattispecie, hanno smesso jodel e corno alpino e si cimentano con alterni risultati al mandolino, viaggiando a dorso di mulo con passapor to panormita. Gli ultimi rampolli di questa schiatta di mandolinisti, pur essendo passati allo strumento elettrico, permangono sentimentali e si esercitano giornalmente con i temi eterni della Memoria e dell’Ombra, mostrando nel trattamento della melodia letteraria una pazienza non inferiore a quella di chi li legge. Disponiamo così, nell’isola, di una ricca letteratura barocca, prodotta da personaggi scultorei ma a tutt’oggi viventi (o così, almeno, si vocifera...) ed abbondantemente espor tata. Essa tiene vivo e vegeto l’interesse nazionale nei confronti dell’ar tigianato locale. La Sicilianità, insomma, “in Palermo” è stata accudita e ingozzata a babà e cassatelle fino alla obesità più indecente. Qualche anno fa sono arrivati pure urbanisti dalla Padania a mettere in scena sui palcoscenici locali la Cavalleria
Rusticana provvedendo ad inchiodare per l’eternità sulle già mar toriate carni dell’indigeno (di per sé oggetto della sempre compassionevole cronaca di gazzettieri locali, nazionali ed internazionali) i pittoreschi e perennemente applauditi panni di compare Alfio. In questo risuonare di marranzani, architetti, storici dell’architettura, prosatori e pensatori hanno conquistato il loro posto privilegiato all’ombra del ficodindia e stanno freschi. Tutti, in un modo o nell’altro, si sono distinti, si distinguono o si distingueranno per avere scolpito sulla pietra lavica almeno una metafora che sposi l’isola al vulcano e dia ragione del nostro splendido isolamento. Alcuni diser tori, e fra questi il sottoscritto, hanno for temente desiderato, fin dalla più verde età, che le loro occasionali letture d’argomento isolano fossero frequentate con maggior discrezione dai pendolari d’alto bordo della sicilianistica ma, implacabile, ecco periodicamente sbucare dalla pagina tremolante Volfango Goethe immoto a fronte degli Dei pagani della Magna Grecia, ecco Schinkel con il matitone dietro l’orecchio, ecco Von Klenze che passeggia tra i templi fischiettando marcette prussiane al passo dell’oca, ecco il carro di Santa Rosalia disegnato con interesse antropologico da Viollet-le-Duc, ecco Ibn Jobair tra gli aranceti della conca d’oro. Ecco insomma il sempiterno Voyage en Sicile praticato da secoli, con l’occhio lucido e propenso alla lacrimazione, dal turista di lusso preferibilmente, anche se non necessariamente, intriso di tedescaggine, il quale ci ha sempre
spiegato per filo e per segno come realmente stavano le cose e chi erano in realtà i Siciliani; ma soprattutto ecco l’oculista indigeno che immancabilmente ne verificava il visus con dottorali ispezioni. Poi arrivò il Gattopardo e da allora la Ver tigine divenne regolamentare (il sonno, la mor te, l’indolenza, le neant, noi-chesiamo-Dei, la fierezza, la violenza...). Da quel giorno non vi fu più nessuno scrittore che dovendo vantare, come da contratto editoriale, qualche briciola di sicilianità, si creda esentato dallo scrivere almeno una ponderosa monografia sulla mattanza dei tonni o sulle tristi e terrifiche esistenze di zolfatari e salinari, per conto del Banco di Sicilia che ne distribuisce copia agli azionisti tutti, agli impiegati ed a qualche correntista bene in carne. In conseguenza a tutto ciò, come dicevo, già i miei più giovani incubi furono affollati da indescrivibili gagà transalpini in calzamaglia che, inforcato il monocolo, mi davano conto e ragione dell’Isola come Cuna del Mondo e, secondariamente, da cicisbei locali col parrucchino rococò che mi spiegavano in sonante castigliano del settecento come si fa ad appuntare i nei alla luna e le lumie alla Sicilia. Tra questi fumi di cipria non era difficile avere visioni mistiche e fu fatale che qualcuno finisse per perdere la trebisonda e si immedesimasse nella par te: ho visto freschi e promettenti talenti, stritolati dalle ruote del carretto siciliano, prendere posto a pancia all’aria tra le lucer tole del Serpotta come allegorie
della erudizione e li ho anche sentiti esprimersi nel medesimo linguaggio dei basilischi senza alcun fremito di raccapriccio, persuasi di far prosa d’ar te. Da allora mi tengo lontano dalle rotabili ed evito accuratamente di incrociare la transumanza limitandomi, come si può capire, all’interno del bosco. Perciò della Sicilia, pur essendoci for tuitamente nato, non so niente. Naturale dunque che, dovendo scrivere di un edificio che vi si trova, io abbia fatto di tutto per figurarmelo altrove. Ci sono riuscito? Non lo so. Ma perlomeno gli ho messo sotto un tappeto volante: adesso se ne può andare quando vuole. Comunque, sempre fedele al capitano Conrad, mi attengo alla sua linea d’ombra: “Ora, marinai, andremo a poppa, a bracciare il pennone di maestra. È press’a poco tutto quel che possiamo fare per la nave; e per il resto dovrà affidarsi alla sua sorte.”