n u v o l e
ugo rosa
louis khan iperboreo ipoebreo
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louis khan
pensieri sull’architettura
“Se il lettore vuole può meditarvi da solo; se invece preferisce ripercorrere con me i vent’anni della stravaganza di Bartlefield, sia il benvenuto...”
© 2005
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i n d i c e U g o Ros a
Louis Khan. Iperboreo Ipoebreo
Good bye mister Chips Rigor mortis
p r o ge t to g raf i co - ed i ti ng
Nomina et domina
domenico cogliandro
Locus Solus
sta m pa
Unheimlichkeit
officine tipografiche aiello & provenzano
Ghost of birth, Spirit of end Economia domestica
Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i paesi.
Nessuno
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Rovine
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Ludus solus
anche parziale, in alcun modo e con qualsiasi mezzo
La scomparsa dell’uomo ombra
(elettronico, meccanico, microfilmatura, fotocopiatura).
Origami. Le feste dei poveri sono fatte di carta
Prima edizione: ISBN
Gennaio 2005
88-87669-40-6
Pensieri sull’architettura
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l ou i s
k h an
iperboreo ipoebreo
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ugo rosa
Good bye mister Chips
Louis Isidore Kahn nasce da famiglia di religione ebraica, nell’isola di Osel in Estonia, l’anno è il 1901. Fino a quattordici anni rimane suddito dello Zar di tutte le Russie, del cui imperiale esercito il padre, Leopold, è sottufficiale. Solo allora (è appena iniziata la grande guerra e la sua famiglia risiede in America già da qualche anno) diviene finalmente cittadino statunitense; sua madre si chiama Bertha. Louis è dunque americano nell’unico modo in cui, dopo Wounded Knee, questo risulta possibile, cioè non essendolo. Da bambino il suo volto viene devastato da una tremenda bruciatura: conserverà per sempre qualcosa della maschera attraverso le cui bucature due occhi, febbricitanti ed iperreali, testimonieranno una presenza posticipata e inquietante. I suoi inizi sono canonici: bimbo indigente e giovane povero, intraprende una faticosa scalata sociale che lo porta alle soglie del sogno americano; emigrante di ritorno, viaggia in Europa da turista, prende appunti e fa schizzi dei monumenti greci e italiani mentre gli scugnizzi lo tirano per la giacca chiamandolo messiù. È attratto dalla pittura e dalla musica, ma alla fine persuade se stesso e gli altri di essere un professore ed insegna perciò all’università di Yale; in questa veste diventerà
personaggio da romanzo con l’improbabile appellativo di Homer Japson. L’autore del libro (titolo: Native stone) è un tale Edwin Gilbert che cercando di sfruttare il successo della riduzione cinematografica della biografia di Wright (interpretato come tutti ricordano da Gary Cooper) ne propone subito il copione ad un produttore Hollywoodiano che sceglie il comico Danny Kaye per personificare Kahn; per sfortuna non se ne fa nulla. Ma proprio come era successo a mister Chips (altro notevole professore cinematografico) con l’avvenente Petula Clark, il grimaldello dell’imponderabile finisce ugualmente per forzare quella professorale esistenza, che subisce una metamorfosi tardiva quanto repentina; la sua vocazione di architetto, covata per quarant’anni come un vizio, alla fine si manifesta sorprendendo tutti: Louis Kahn, alias Homer Japson, finirà per costruire una città in India dopo avere rimesso in questione l’architettura moderna così come noi la concepiamo. Muore nell’anno 1974: lo trovano in una stazione della metropolitana di New York e per tre giorni il suo corpo giace in obitorio: gli hanno rubato persino il papillon, la salma risulta perciò inidentificabile.
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“...io rinunzio ad ogni biograf ia di scrivano per pochi frammenti della vita di Bartlef ield, che fu il più bizzarro copista che mai abbia veduto, o di cui abbia sentito parlare.”
“Dobbiamo affrettarci a seguirlo, lungo la via, prima che egli perda la propria individualità...” Diciotto anni prima moriva in Europa un signore di nome Robert Walser. Si dice che fosse uno scrittore; all’anagrafe risultava uno svizzero di lingua tedesca, senza fissa dimora, né ebreo, né emigrante, né architetto. Che c’entra? Nulla, ed è per questo che m’è venuto in mente: difficile, sinceramente, trovare due figure più distanti tra loro. Sentenzioso ed enfatico l’americano, svagato ed etereo lo svizzero. Persino le modalità della loro morte marcano la distanza: Walser muore, dimenticato da tutti, in una casa di cura per malati di mente, il giorno di natale del 1956, nel corso di una passeggiata solitaria. Kahn, all’epoca della sua morte, è invece un uomo di successo, unanimemente riconosciuto come uno dei più grandi architetti del suo tempo. Walser se ne va su una candida coltre di neve mentre i fiocchi, lentamente, lo ricoprono, Kahn si ritira sottoterra e si inuma in anticipo. La morte del primo è glaciale ed aerea, quella del secondo sulfurea e tettonica. Ma dietro questo affollarsi di differenze c’è qualcosa che li accomuna ed è la loro vocazione alla scomparsa: vengono inghiottiti ambedue dalla loro opera nella muta ostinazione di non lasciare tracce di sé stessi. La morte ha, com’è noto, un suo rigore ed è definitoria, oltre che definitiva: se uno muore non si muove più, diventa il cliente ideale per chi esercita la fotografia, arte ferma e perentoria quanto nessun’altra e quanto nessun altra irreparabile.
Chi muore non per questo scompare, anzi: mai come al momento della morte la sua scomparsa è stata fuori causa. Egli si inscrive piuttosto in una cornice marmorea, si incide in una lapide che, letteralmente, ne fissa i caratteri e fa la felicità del biografo, cui sostanzialmente non resta che trascriverli. La morte non ha il potere di fare scomparire un autore, ma semmai di attestarne la già avvenuta scomparsa, definendola come tale. Se l’autore è scomparso, dunque, deve averlo fatto prima. Ora, noi abbiamo qui due personaggi la cui morte non fa che perpetuare, ai nostri occhi e per sempre, il loro essere autori già scomparsi. Uno s’è asfissiato per elefantiasi del principio di autorevolezza. Nessun autore può sentenziare tanto autorevolmente come Kahn ha fatto, senza smettere di essere un autore e diventare un oracolo. Dietro le sue asserzioni non c’è nessuno, dentro la bocca di quel mascherone puoi ficcarci la mano senza il timore che qualcuno te la tranci. Louis Kahn viene ricordato infatti come costruttore di città, cosa solitamente riservata a semidei, imperatori, popoli o altre entità astratte. L’altro s’è estinto invece per l’essiccarsi totale di ogni forma di autorevolezza: scolaro, cameriere, assistente, servitore, valletto, garzone di bottega, mentecatto, pelatore di patate, scomparso del giorno di natale e sepolto dalla neve. Una nullità rifinita e praticata con meravigliosa maestria fino alla sue conseguenze più estreme. I suoi libri sono silenzi che non esercitano neppure quel poco di enfasi che occorre a definirsi tali. Louis Kahn ha preso congedo calando su se stesso, con gesto teatrale, il portentoso sipario della Storia. Robert Walser lo ha fatto au ralenti, attraverso il liso lenzuolo della sua esistenza, filtrandosi goccia a goccia nell’invaso di piccoli libri, per poi evaporare.
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Rigor mortis
II
Ambedue sembrano chiederci, scomparendo, di far conto che non siano mai esistiti; lo scrittore ha però potuto farlo ritraendosi come una testuggine nel guscio, mentre l’altro ha dovuto farlo praticando il paradosso di costruire una città. Ma per usare le parole dello stesso Walser “ci sono molti destini e ad essi voglio inchinarmi”.
Nomina et domina
“- Bartlef ield. Nessuna risposta. - Bartlef ield. Nessuna risposta - Bartlef ield - urlai con quanto f iato avevo. Esattamente come uno spettro, docile alle leggi delle formule magiche, alla terza ingiunzione egli apparve sulla soglia del suo eremo.” La vita di questo piccolo emigrante ebreo inizia all’insegna dell’esodo e ne rimane intrisa, cosicché tutta la sua vicenda architettonica sembra segnata dall’abbandono e dalla fuga. Fuga dalla sua formazione accademica, dalla pittura, dalla musica, dall’architettura dell’International Style, dall’attualità ed infine dalla storia, in una sorta di definitiva apoteosi epigrafica. Il manifestarsi della sua architettura è già preceduto da una implosione di silenzio, un esilio che dura decenni e che non fa che proseguire quello che lo ha portato ad Ellis Island con la sua famiglia e precederne un altro, che lo condurrà a costruire “l’opera della sua vita” nel lontano oriente. L’evento cruciale dell’architettura, che per tradizione dovrebbe occuparsi di immobili, viene da lui identificato in una diaspora: “il momento in cui il muro si divise e la colonna fu”. Perduto in questo vagabondaggio Kahn si presenta di spalle alla cultura del suo tempo, che lo osserva mentre lui, perennemente, s’allontana. Bruno Zevi nota giustamente che se “Wright...contestava la realtà, Kahn...se ne distacca...non è eretico, ma soltanto estraneo”. L’opera di Wright, in effetti, non esula dal recinto dell’abitare, possiede un'origine e vuole farvi