ZOOMaginario, catalogo 2013

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un po’ da leggere un po’ da guardare un po’ da scrivere



ZOOMAGINARIO a cura di Francesca Canfora e Daniele Ratti 12 ARTISTI E 1 SCRITTORE RAPPRESENTANO E RACCONTANO LA BIODIVERSITÀ In collaborazione con:

STRADA PISCINA 36, 10040 CUMIANA (TO)

WWW.ZOOMTORINO.IT



Una fauna insolita, una compagine di creature fantastiche e misteriose prende vita inaspettatamente accanto agli animali reali, abitanti naturali di ZOOM. Come in un bestiario fantastico di antica tradizione, rivisitato e realizzato in chiave contemporanea, dodici giovani artisti danno vita, attraverso sculture ed installazioni site specific, a Zoomaginario, lo zoo parallelo ed impossibile. Stilizzati e avveniristici oppure simbolici e mitologici, i nuovi e inconsueti ospiti del bioparco, diventano per il visitatore un tramite verso una dimensione meravigliosa e stupefacente, resa accessibile dall’arte e dall’immaginazione. La commistione di illusione e realtà nella rappresentazione del mondo naturale è consuetudine propria dei bestiari medievali, in cui animali reali sono descritti e accostati a creature leggendarie e favolose. Mostri e animali fantastici si ritrovano nei poeti, nei mitografi e geografi latini e, andando ancor più indietro nel tempo, in quelli greci per arrivare sino agli egiziani. Sin dall’antichità, addirittura dalla preistoria come testimoniano alcune incisioni rupestri, è infatti evidente da parte dell’uomo la tendenza ad inventare nuove specie animali. Tale esigenza è nata con ogni probabilità per ragioni legate alla magia, alla filosofia e alla religione anche se poi, con il tempo, tali creature aberranti o composite hanno iniziato ad acquisire una dimensione reale grazie ad una serie di motivazioni. I resoconti di esplorazioni effettuate in terre ancora sconosciute, storpiati e trasformati dalla tradizione orale, come le contraffazioni dei tassidermisti abili in tal senso nel ‘dare corpo’ al mito e alla leggenda o ancora le errate interpretazioni di resti fossili, andavano infatti in passato ad alimentare e considerare verosimili le fantasie più estreme. La maggior parte del materiale iconografico che rappresenta in modo sistematico animali stravaganti e improbabili risale al Medioevo, anche se è all’epoca romana e a i suoi naturalisti che si devono le prime precise e minuziose descrizioni. E’ proprio da questi testi che prende spunto, per procedere oltre, l’iconografia dei bestiari medioevali, considerati ai tempi, in mancanza


di trattati scientifici sull’argomento, dei veri e propri testi di zoologia, anche se tali compilazioni avevano origine in realtà da uno scopo morale, illustrando vizi e virtù dell’uomo attraverso gli animali, usati in modo simbolico. Nello spirito surreale proprio dei bestiari fantastici medioevali, da cui trae direttamente ispirazione, ecco che prende vita Zoomaginario, in cui vengono accostati e mixati insieme animali autoctoni, esotici e inesistenti, e dove anche questi ultimi acquistano pari dignità rispetto agli altri avendo ognuno a corredo una storia, che narra delle loro caratteristiche e peculiarità, non solo biologiche ma anche caratteriali. Un ironico invito ad andare oltre la realtà tangibile, in un paesaggio da sogno in cui non esiste discontinuità tra le diverse categorie: l’impossibile si tramuta in possibile, manifestandosi a sorpresa nella natura e facendo irruzione nella vita quotidiana

Francesca Canfora, Daniele Ratti Al momento di ideare le didascalie dei dodici animali immaginari che compongono Zoommaginario eravamo tutti d’accordo: per un bestiario un po’ surreale ci voleva qualcosa di altrettanto surreale. È nata così l’idea di sottoporre a ogni artista uno strambo questionario, dove si chiedeva di rispondere a una serie di domande naturalistico-zoologiche relative all’animale creato (dal nome scientifico all’habitat, dal tipo di alimentazione alla longevità, e così via), esattamente come se si trattasse di un qualsiasi altro animale ospitato a Zoom. Gli artisti sono stati al gioco e le loro risposte sono andate a comporre i dodici racconti pseudoscientifici che accompagnano ciascuna opera. Si spazia dal racconto di viaggio ottocentesco alla storia mitologica, dall’apologo alla finta scheda di wikipedia, etc. Tutti questi testi sono però caratterizzati dalla medesima finalità: accompagnare con una storia un po’ buffa la visione delle opere, esplorarle nei dettagli, andare fino in fondo alla loro creatività. Insomma, in sei parole: rendere il surreale ancora più realistico.

Enrico Remmert




FORMANTIDE (Formantis formantidis) Il nome Formantide deriva dal greco “formantis” vale a dire “profeta, indovino” e fa riferimento alla postura delle zampe anteriori, che ricorda quella che si assume in preghiera. Ben poco di religioso c’è però nello stile di vita della Formantide - una sorta di ibrido tra una formica gigante e una mantide religiosa - che riveste una indubbia pericolosità per molti animali, compreso l’uomo. La specie presenta dimensioni notevoli: le femmine sono alte circa 260-270 cm, mentre i maschi non superano i 210-220 cm. Entrambi gli esemplari presentano colori cangianti e variabili: questo perché la Formantide possiede una capacità camaleontica di cambiare colore a seconda dell’ambiente circostante. Il fine primo del mutamento di tonalità non è sempre la mimetizzazione, ma può essere anche la manifestazione di determinati stati emozionali (come l’aggressività, la predisposizione all’attacco o la paura), mentre anche la temperatura, le condizioni di luce e il traffico stradale influiscono sulla colorazione. Questa caratteristica ha provocato il famoso “Paradosso cromatico della Formantide”, elaborato dal professor Hiroshi Daiatshu della Facoltà di Scienze Naturali di Kyoto. “Ma se la Formantide cambia colore in funzione dell’ambiente, qual è il suo colore vero?” chiese una volta il Professor Daiatshu ai suoi studenti. Nessuno fu in grado di rispondere (a parte la signorina Momoko Yamamoto che rispose “Camaleontico” e fu espulsa seduta stante dalla serissima università nipponica. Oggi prepara hamburger in un fast food di Osaka). Ma non divaghiamo. La Formantide è un animale piuttosto longevo: vive in media 25/30 anni, ma in cattività può arrivare anche fino a 40, a patto che sia ben nutrita.


E qui arriviamo al punto centrale: la Formantide si nutre di qualsiasi forma vivente, compreso l’uomo. Per catturare le sue prede questo animale si serve del pungiglione posto sotto il ventre, che secerne un veleno capace di immobilizzare quasi istantaneamente le sue vittime, che poi vengono mangiate. Una volta la cosa non interessava a nessuno, perché la Formantide è originaria dell’Africa Sub-tropicale, ma negli ultimi anni è arrivata anche in Occidente, e così è diventata una notizia. In Europa meridionale task force appositamente addestrate per debellare la Formantide passano al setaccio i luoghi più bui delle città, là dove questo animale ama nascondersi: scantinati, metropolitane, sottotetti, brasserie, lounge bar e così via. Ora, sappiamo benissimo perché siete arrivati fin qui a leggere. Volete sapere se è vero quanto si dice intorno all’accoppiamento di questi animali. Volete sapere se è vero che si parla di “cannibalismo post-nuziale”. Volete sapere se è vero che la femmina, dopo essersi accoppiata, o anche durante l’atto, divora il maschio partendo dalla testa. Be’, certo che è vero. La Formantide femmina sembra nata esattamente per questo: è più alta, più forte, più velenosa e più aggressiva del maschio. E allora perché assume sempre quell’espressione infelice al termine del suo pasto-accoppiamento? L’ipotesi più interessante è stata formulata proprio da Momoko Yamamoto, tra un hamburger e l’altro: “Ma non è che la carne di Formantide non le piace?” FORMANTIDE di Matteo Ceccarelli 2013 metallo saldato e verniciato 185x250x400 cm



MATTEO CECCARELLI Formantide Nato nel 1975, vive e lavora a Torino. Dopo gli studi artistici si occupa della progettazione e realizzazione di sculture e oggetti di design, conciliando arte e architettura e conferendo una connotazione di unicità alla propria produzione, data dall’impiego di materiali quali il legno, il marmo e il metallo. Nella sua produzione una parte importante è rivestita da un personalissimo bestiario, una rivisitazione del mondo animale che ricrea una fauna ”virtuale”, una sorta di zoo metropolitano che trova la sua collocazione in ambienti urbani. Prede e predatori, animali da cortile o tropicali vengono realizzati in metallo saldato, ossidato o verniciato a colori forti e tinte eccessive, dando luogo a una trasfigurazione del mondo animale che si declina in nuovi esemplari e caricature di modelli reali. “Il progetto estetico di Matteo Ceccarelli non conosce distinzione tra fantasia e funzione, alto e basso, concettualismo e disincantata ironia, tutto si fonde in un insieme unico e totalizzante. Come dichiarato nelle pagine del sito internet la sua attività si espande a comprendere “arte e architettura, scultura, arredo e complementi artistici”. I materiali, impiegati con grande maestria e consapevolezza formale, sono molteplici: legno, marmo ed ogni genere di metallo. Nel suo stile l’eredità del minimalismo degli anni Sessanta e Settanta, concentrato sulla nudità dei materiali e sul rapporto di interscambio con il fruitore, si rende più complesso ed articolato da un punto di vista strutturale, con l’innesto, all’interno della massa aniconica, di elementi figurativi.” (Edoardo Di Mauro)




PIOVRILLA (Octophushominidae vulgaris) Per i naturalisti si tratta di un rompicapo zoologico: un po’ mammifero, un po’ cefalopode, un po’ pesce, il Piovrilla è presente in quasi tutti gli habitat continentali, grazie alla sua forte capacità di adattamento. Presenta una naturale predisposizione verso gli ambienti acquitrinosi ma le intricate chiome degli alberi rappresentano una irresistibile attrazione per il riposo diurno. Alcune famiglie si adattano facilmente anche alle zone fluviali e alle costiere marine, e in quest’ultimo caso il piovrilla diventa pelagico oppure bentonico ma esistono anche specie asdrieniche, qualunque cosa significhi. A livello morfologico questo mammifero… anzi no, questo cefalopode… anzi no, questo pesce… be’, insomma, questo coso presenta un capo da gorilla, sormontato da una pinna prominente, un massiccio busto antropomorfo, possenti braccia con mani prensili e un apparato deambulatorio dotato di quattro vigorosi tentacoli, capaci di un’energica propulsione in acqua e una sicura presa a terra. Queste formidabili caratteristiche fisiche - unite alla capacità, quando si sente minacciato, di produrre una nuvola di inchiostro - fanno del Piovrilla, un temibile predatore notturno (anche se in periodi di carestia non disdegna le carcasse). Non si erano mai registrati attacchi contro l’uomo finché, nel 1932, un gruppo di cineoperatori dell’Istituto Luce fu attaccato da un Piovrilla nell’agro pontino. In conseguenza, l’animale - insomma: il coso - venne inserito nella lista delle specie pericolose per l’uomo, con un indice di pericolosità pari a quello di un coccodrillo marino (e una tacca sotto quello di un banchiere). Pochi anni più tardi però, un pizzaiolo peruviano di Arequipa, tal Josè Vallejo, scoprì durante un pic-nic con i suoceri che il temibilissimo Piovrilla diventa docilissimo


in presenza di maionese. Oggi sappiamo che, oltre alla maionese, anche i mash mellows costituiscono un importante elemento della sua alimentazione. La letteratura scientifica si è occupata del Piovrilla in lungo e in largo, ma il più grande esperto vivente è considerato il Professor Herman Queequeg, direttore del Dipartimento di Oceanografia di Nantucket, che nel 1996 riuscì a comunicare con un esemplare di Piovrilla attraverso un sofisticato linguaggio di segni, di sua invenzione. Sappiamo perciò che il Piovrilla vive in equilibrio tra un senso di consapevolezza (alla domanda: “Cosa ti spaventa di più?” il Piovrilla rispose: “Di cosa potrebbe mai spaventarsi una bestia come me? Solo di un Piovrilla più grosso!”) e una marea di dubbi (alla domanda “In cosa credi?” la risposta fu: “Credo che non sia giusto giudicare la vita degli altri, perché comunque non puoi sapere proprio una fava della vita degli altri”). La vita sregolata e la discutibile alimentazione non permettono al Piovrilla una vita longeva ma, nonostante ciò, alcuni esemplari hanno raggiunto un’età sufficiente da essere stati studiati per il loro intero ciclo. In proposito, nel 1991, il Professor Queequeg scrisse: “Sento che nell’esistenza del Piovrilla c’è un insegnamento sull’intero cosmo. Ma non saprei dire quale.”

PIOVRILLA di Simone Benedetto 2013 cemento dimensioni ambientali



SIMONE BENEDETTO Piovrilla Nato nel 1985 a Torino, dove vive e lavora. Dopo la laurea all’Accademia Albertina di Belle Arti in scultura e arti plastiche sono state fondamentali per la sua formazione artistica e personale le esperienze all’estero: l’artista ha infatti conseguito intensi percorsi di studio nelle accademie di Valencia e Lisbona, proseguendo contemporaneamente nell’attività espositiva personale e lavorativa in ambito scultoreo. Scultore poliedrico nella scelta di materiali e tecniche, utilizza il figurativo come linguaggio per affrontare tematiche spesso legate al sociale. Le sue opere nascono dal quotidiano, da uno sguardo critico sul presente mostrando contraddizioni e problemi della società moderna e fornendo al fruitore uno spunto di riflessione : non danno risposte, ma suggeriscono domande. Punto forte dell’opera di Simone Benedetto è la continua sperimentazione di materiali, dai più tradizionali ai meno consueti. È proprio dall’uso di pietre dure, bronzo, cemento, resine e siliconi che parte la ricerca dell’artista per raggiungere in maniera sempre più efficace l’ espressione della propria sensibilità, indagando con grande potenza visiva temi profondamente attuali. Benedetto approfondisce il rapporto tra uomo e feticcio, cogliendo le contraddizioni e le costrizioni di un momento storico in cui l’oggetto tende sempre più pericolosamente a sostituire il soggetto e creando così un punto di incontro (scontro?) e discussione con il fruitore.




NEPHENTES MORTIS (Nephentes Mortis) Il 17 luglio del 1818 il brigantino “Betsy”, che trasportava una spedizione scientifica all’isola di Queimada Grande, al largo delle coste del Brasile, si trovò ad affrontare una tempesta senza precedenti. Malgrado tutti gli sforzi del capitano e dell’equipaggio la “Betsy”, stritolata dalla bufera, colò a picco. I due unici superstiti furono i professori Kiltartan Ballylee e Cork Knocknagur, dell’Università di Dublino: riuscirono ad aggrapparsi a un grosso mobile-bar in noce, che resse alle ondate e restò a galla finché il peggio fu passato. Navigando su questa improvvisata scialuppa, remando con i mescolini da cocktail, mangiando il pesce catturato con gli shaker e bevendo litri di whisky e gin, i due scienziati resistettero in mare per sei settimane. La mattina del quarantaduesimo giorno - come si legge nel diario che il professor Knocknagur compilava ogni sera sul librettino dei drink - i due raggiunsero finalmente la costa: “Dopo una scorpacciata di banane, ananas e cocco vedemmo uno splendido albero senza foglie, su cui decidemmo di arrampicarci per passare la notte al riparo dagli animali”. Peccato che avessero scelto una delle piante carnivore più letali della terra: la Nephentes Mortis. Queste ultime righe dal diario dello sfortunato professor Knocknagur sono la prima testimonianza scientifica dell’esistenza della Nephentes Mortis, pianta che in seguito è stata studiata in lungo e in largo, proprio in virtù della pericolosità. Il suo aspetto innocuo di albero centenario dal grande fusto non deve infatti ingannare: si tratta di una trappola perfetta per volatili e piccoli animali, che cercano riparo nei suoi radi e robusti rami. Quando un animale (o una persona o un ibrido) si è posato in tranquillità e inizia a


sonnecchiare ecco che la Nephentes Mortis agisce: gli stacca la testa con un solo morso e se ne ciba con grande ingordigia (si è notato che questa pianta carnivora ama in particolare i cervelli, i bulbi oculari, il muco, il pellame, le piume e - anche se è un altro discorso - il sole del mattino). Gli studi effettuati nel corso degli ultimi decenni hanno scoperto esemplari di Nephentes Mortis con mille e più anni di età: questo nonostante le tribù indigene delle foreste equatoriali, l’habitat di origine della pianta, ogniqualvolta ne scoprono una, la abbattano immediatamente senza pietà. Un’altra caratteristica della Nephentes Mortis è la sua capacità di attendere con pazienza giornate, settimane, e a volte addirittura mesi, l’arrivo di una sprovveduta vittima. Ciò è reso possibile dal fatto che la pianta non solo si adatta senza problemi alla mancanza di cibo ma pare apprezzi molto l’attesa, come concetto esistenziale (si ipotizzò che l’esemplare che pose fine alle vite dei professori Ballylee e Knocknagur non mangiasse da quasi due anni). In ultimo, una curiosità: sembra che la Nephentes Mortis sia molto spaventata dalle eclissi lunari. Forse un cortocircuito nella fotosintesi clorofilliana (o forse la cattiva digestione) danno luogo infatti a un insolito comportamento: durante le eclissi la Nephentes Mortis tende a mordersi da sola, rischiando spesso il suicidio.

NEPHENTES MORTIS di Bounty Killarts 2013 struttura metallica, cemento fuso 220x100x100 cm



BOUNTY KILLARTS Nephentes Mortis Gruppo formatosi a Torino intorno al 2002, si dedica inizialmente a compiere missioni di disturbo nei territori della street art e della produzione video. Negli ultimi tempi, l’attenzione si è focalizzata invece sul tema dell’oggetto e sulla costruzione di immagini spiazzanti. La loro pratica artistica si identifica in compulsivo bricolage combinatorio che attrae con un’estetica del frammento, impreziosita dalla perfezione degli incastri.




HYSTRIX (Hystrix absolutos omnia) Il medico e naturalista svedese Carl Nilsson Linnaeus (più noto come Linneo), che riformò e sistematizzò la nomenclatura degli esseri viventi, fu molto confuso con l’Hystrix, che nel 1758 venne così classificato: Dominio: Eukaryota; Regno: Animalia et Plantae; Sottoregno: Eumetazoa; Ramo: Bilateria et Radiata; Superphylum: Deuterostomia; Phylum: Chordata et Cnidaria; Subphylum: Vertebrata; Infraphylum: Gnathostomata; Superclasse: Ittiopsidi; Classe: Mammalia et Magnoliopsida et Anthozoa et Chondrichthyes; Sottoclasse: Alcyonaria; Superordine: Euarchontoglires; Ordine: Rodentia et Gorgonacea et Myliobatiformes et Gentianales ; Sottordine: Hystricomorpha et Vertebrata et Scleraxonia; Infraordine: Hystricognathi; Famiglia: Hystricidae et Potamotrygonidae et Apocynaceae et Coralliidae; Sottofamiglia: Asclepiadoideae; Divisione: Magnoliophyta; Tribù: Ceropegieae; Genere: Hystrix; Specie: Absolutos Omnia; Nomenclatura binomiale: Hystrix Absolutos Omnia. Questo estenuante elenco aiuta però a gettare una luce sul mistero dell’Hystrix: un po’ corallo, un po’ mammifero, un po’ pesce, un po’ fiore, l’Hystrix racchiude le caratteristiche di tutti gli istrici della fauna e della flora. Si tratta di un gigante sedentario, che “passa la sua vita immobile/forte della sua corazza invincibile”, come diceva Giosué Carducci - oppure era Homer Simpson? Non so, li confondo sempre - e, in quanto essere appartenente a più mondi, si trova bene in qualunque habitat. Non è noto se sia dovuto alla sua morfologia, ma l’Hystrix possiede una liricità un po’ dark: ama stare immobile, dedicarsi alla contemplazione dei cieli e riflettersi nell’acqua ascoltando musica anni ’80 (Billy Idol, Depeche Mode, The Cult, Siouxsie and the Banshees, The Cure, The Jesus and Mary Chain, etc). Chiaramente quest’ultima è


una abitudine degli esemplari più giovani: i centenari preferiscono la musica da camera. Sì perché l’Hystrix è estremamente longevo e raggiunge con facilità i cento anni, probabilmente grazie al suo stile di vita immobile e molto abitudinario (essendo immobile, è molto abitudinario). Sebbene si tratti di un animale pacifico, data la sua immobilità, l’Hystrix può essere pericoloso: i suoi aculei infatti sono velenosi, ma solo se si cerca di staccarli. Il Professor Wolfgang Gineprus, della Facoltà di Zoologia di Tubinga, ha stilato una preziosa lista delle preferenze dell’Hystrix: uno) COSE CHE ODIA: gli uccelli che nidificano sulla sua testa; due) ANIMALI CHE AMA: tutti tranne gli uccelli; tre) ANIMALI CHE ODIA: gli uccelli. Tra il 2002 e il 2005 il Professor Gineprus ha inoltre vissuto per quasi 34 mesi a stretto contatto di un esemplare di Hystrix e ne ha registrato con pignoleria, giorno dopo giorno, tutti i comportamenti. Il risultato di questa straordinaria osservazione sul campo - che, come detto, ha investito oltre mille giorni della vita dello scienziato - ha fruttato l’importante opera “La giornata tipo dell’Hystrix”, che pubblichiamo qui di seguito, nella versione integrale: “La giornata tipo dell’Hystrix è la seguente: contemplazione dei cieli diurni alternata a contemplazione dei cieli notturni.”

HYSTRIX di Nucleo 2013 legno riciclato, resina riciclata 90x120x220 cm



NUCLEO Hystrix E’ un collettivo di artisti e designer diretto da Piergiorgio Robino con sede a Torino. Il lavoro di Nucleo è materico e svolto a più mani. Il lavoro di Nucleo indaga l’essere umano attraverso il tempo immaginando il futuro remoto. Il lavoro di Nucleo è una manipolazione della storia, passata, presente e futura, reale o immaginaria. Nucleo manipola la storia passata piegandola agli interessi della creazione. L’opera di Nucleo è collettiva, figlia della condivisione e del confronto. Materico, originale, tridimensionale, si traduce in oggetti di uso quotidiano, comunque fruibili. Manufatti la cui realizzazione passa attraverso processi che emulano la costruzione di una memoria. “Esploriamo lo spazio-tempo con la presunzione di progettare il futuro delle nostre opere”. Nucleo è un team interdisciplinare attivo nel campo dell’arte contemporanea, design ed architettura. Le opere di Nucleo, hanno partecipato a numerose mostre in Italia e all’estero: in Italia (Fondazione Re Rebaudengo, Turin, 2009), in Francia (Centre Georges Pompidou, Paris 2004), in Belgio (Pierre Bergé and Associates, Brussels, 2008), in Spagna (Marco Museum of Contemporary Art, Vigo, 2005), in Danimarca (ID Forum, Horsens, 2006) negli Stati Uniti (Carnegie Museum of Art, Carnegie 2004; Chelsea Art Museum, New York, 2004; Walker Art Center, Minneapolis, 2003) e nelle principali fiere di arte e design in Europa: Design Miami Basel, PAD Paris, PAD London, PAD New York. Nucleo è: Piergiorgio Robino (1969) nato ad Asti; Stefania Fersini (1982) nata ad Aosta; Alice Carlotta Occleppo (1981) nata a Torino; Alexandra Denton (1984) nata a Göteborg




SLEIPNIR MOBILIS PICTUS (Sleipnir Mobilis Pictus) Sleipnir non è un argomento su cui si può scherzare. Sarebbe come scherzare su Pegaso o sull’Unicorno (ma, si sa, i cavalli hanno uno scarsissimo senso dell’umorismo). Sleipnir è, nella mitologia nordica, il destriero di Odino. Il suo nome significa “colui che scivola rapidamente”, è dotato di otto zampe ed è il migliore cavallo che esista: il più forte e il più veloce, capace di galoppare in terra, in cielo, in mare e anche lungo gli altri mondi. La nascita di Sleipnir è una storia che vale la pena di essere raccontata: è istruttiva, ambigua e non priva di ironia. Dopo che le mura di Asgard - l’Olimpo nordico - erano state gravemente danneggiate nella guerra tra gli Æsir e i Vanir, gli dèi decisero di erigere un nuovo muro per difendersi dai giganti loro nemici. Un abile tagliapietre si offrì di compiere l’oneroso lavoro in cambio della mano di Freyja, il Sole e la Luna. Si trattava chiaramente di un prezzo troppo alto da pagare, ma Loki, dio della astuzia e del caos, persuase gli dèi a ingannare il tagliapietre, promettendogli Freya solo nel caso fosse riuscito a completare l’opera in meno di un anno, entro l’estate successiva. La fiducia di Loki nella propria furbizia era grande - nessuno avrebbe mai potuto recintare Asgard in meno di un anno - così come la sua capacità di influenzare gli altri grazie a quella fiducia. Pertanto la ricostruzione delle mura della fortezza cominciò: il tagliapietre di giorno lavorava e di notte trasportava le pietre con Svaðilfœri, il suo gigantesco cavallo da tiro. Il lavoro procedette così speditamente che, a tre giorni dalla scadenza, mancava solo la costruzione della porta. Presi dal panico, gli dèi si riunirono in consiglio, chiedendosi chi mai poteva aver loro consigliato di accettare di privarsi di Freyja e di spogliare il cielo delle sue luci.


Furono tutti concordi nell’indicare Loki come responsabile di ciò, e lo costrinsero a rimediare. La sera stessa Loki si tramutò in una puledra e nitrì richiamando Svaðilfœri. Quest’ultimo, non appena udì il richiamo, strappò le briglie e si precipitò verso la foresta, dove si trovava il dio trasformato. Il tagliapietre fu costretto a rincorrerlo e, poiché i due cavalli corsero per la foresta tutta la notte, il lavoro subì un grande rallentamento. Loki ripeté il trucco per tutte le tre notti e i tre giorni. Quando fu evidente che il muro non sarebbe stato completato per tempo, il tagliapietre fu preso da un’ira bestiale, rivelando di essere in realtà egli stesso un gigante. E allora Thor, che dei giganti è il maggior nemico, gli fracassò il cranio con un colpo di Mjöllnir, il suo martello. Ma ancora non siamo arrivati alla fine della storia. Loki trasformato in puledra, infatti, non era stato in grado di scampare al cavallo, e si ripresentò ad Asgard solo dopo alcuni mesi di volontaria reclusione portandosi dietro un puledro a otto zampe, figlio suo e del magico Svaðilfœri. Era Sleipnir, che divenne il destriero di Odino, poiché era il più veloce e possente di tutti i cavalli. Sleipnir dunque è figlio di Loki, il più ambivalente e umano di tutti gli dèi: colui che inganna e salva, colui che escogita e sventa piani, aiuta a scongiurare la fine di ogni cosa e la affretta. Un dio dalla natura affascinante e infinitamente complicata, esattamente come questa narrazione.

SLEIPNIR MOBILIS PICTUS di Duilio Forte 2005 legno 500x250x150 cm



DUILIO FORTE Sleipnir Nobilis Pictus Vive e lavora a Milano. Di origine italiana e svedese, svolge attività di ricerca nel campo dell’arte con particolare attenzione alla dimensione spaziale. Nei suoi lavori l’esperienza pratica della tradizione svedese, con l’attenzione alla natura ed alla semplicità, si fonde con il grande respiro e complessità della storia e della cultura artistica italiana. Il 13 marzo 1998 fonda AtelierFORTE, uno spazio in continua evoluzione in cui le persone contribuiscono alla creazione di un universo epico e di una scenografia del quotidiano che si declina nei campi dell’arte, architettura e design. Nel 2008 e 2010 ha partecipato alla XI e XII edizione della Biennale di Architettura di Venezia. Il 12 febbraio 2009, a 200 anni della nascita di Darwin, Duilio Forte redige il Manifesto ArkiZoic, stile artistico fondato sulla centralità dello spirito vitale, Anemos, che da 450 milioni di anni caratterizza in modo inequivocabile il pianeta Terra. Il manifesto stilistico Arkizoic, suggerisce di utilizzare la geometria della natura e i materiali e le forme della tradizione. Ogni opera deve avere un’anima. Duilio Forte si ispira alla mitologia norrena e adotta il personaggio di Sleipnir, il cavallo di Odino nato dal possente Svaðilfari e dal dio Loki. Sleipnir è dotato di otto zampe ed è il cavallo migliore che esista. Il suo nome significa “colui che scivola rapidamente” ed è in grado di viaggiare per mare, per terra e attraverso altri mondi. Per Duilio Forte il cavallo è simbolo di esplorazione, scoperta e conquista. Inoltre è anche punto d’incontro tra mitologia classica e mitologia norrena. L’attività di AtelierFORTE si divide tra arte, architettura, design e formazione accademica.




PAPUS (Immanis mixtura papulus) Del Papus parla già Plinio il Vecchio (2379 d.C.) nel trentasettesimo volume della Naturalis Historia, dove questo animale, il più grande mammifero oviparo del pianeta, viene così descritto: “Papus placida bestia est, prorsus pacata.” In effetti si tratta di un animale pacifico, totalmente innocuo, caratteristica che va di pari passo con la sua longevità: il Papus ha infatti una vita straordinariamente lunga, tanto che i primi naturalisti furono portati a pensare che addirittura non invecchiasse mai (e infatti raggiunge con facilità il secolo e mezzo). Questo animale è particolarmente propenso alla meditazione e alla concentrazione. Lo si può spesso osservare immobile come una statua, mentre scruta l’orizzonte con espressione indecifrabile. Non bisogna però trarre conclusioni affrettate: questo comportamento, che può apparire sintomo di pigrizia, è invece indice di grandissima curiosità. Il Papus, infatti, è in grado di passare intere giornate a osservare particolari che nessuno nota, come per esempio: la lenta crescita dell’erba e delle piante, i giochi del pulviscolo atmosferico nel vento, la conta degli esseri viventi che riesce ad abbracciare con un solo sguardo, e così via. Inoltre il Papus è consapevole di come la sua immobilità sia necessaria per socializzare con i moscerini, altra attività che ama alla follia. La caratteristica che lo ha reso proverbiale - tanto da creare la frase idiomatica: “essere attento come un Papus” - è perciò proprio questa sua capacità di osservare qualcosa per ore senza farsi distrarre. Tipico è il suo modo di fissare l’orizzonte in attesa di nuvole, abitudine che non è però dettata dalla curiosità (né da un particolare affettuosità verso la pioggia) ma da un aspetto peculiare della sua personalità : il Papus crede infatti che le nuvole si possano mangiare, e molte volte lo si vede con il collo e la proboscide tesi nell’intento di addentarle.


Questo cibo intangibile - viene da dire: cibo teorico - è poi integrato dall’abituale alimentazione del Papus, che predilige frutta fresca e verdure, per tenersi leggero. Gli studiosi più pazienti hanno anche notato, in tempi recenti, una notevole golosità dell’animale sia verso il tofu sia verso la frutta caramellata. Gerard Melchiorre Oblongs, presidente emerito della facoltà di Scienze Naturali di Oxford, dopo una vita intera dedicata allo studio del Papus, ha stabilito che questo mammifero “odia il cibo cotto male”. In ogni caso l’alimentazione è sicuramente importante, visto che un esemplare in età adulta supera agevolmente i 4 metri di altezza. Nonostante la sua morfologia - l’enorme collo, che arriva in media a 2 metri, e la grande pancia, sorretta dagli arti inferiori piccoli e tozzi - il Papus non va poi sottovalutato nella corsa: sia pur in modo goffo, e per piccole distanze, è infatti in grado di raggiungere i 50 km/h. In definitiva il Papus ha modi gentili, bontà d’animo e un carattere davvero eccezionale: non è mai giù di corda ed è sempre pronto a strappare un sorriso. Potrebbe essere, disponendo dei dovuti spazi, un perfetto animale da compagnia.

PAPUS di Francesco Marinaro 2013 vetroresina, plastica 110x90x400 cm



FRANCESCO MARINARO Papus Nato a Torino nel 1987, vive e lavora a San Sebastiano da Po(TO). Inizia giovanissimo la produzione artistica, partecipando e vincendo diversi concorsi di scultura a Tarragona in Spagna. Intraprende gli studi al Primo Liceo Artistico proseguendo poi all’Accademia Albertina di Belle Arti con indirizzo Scultura a Torino. Lavora vari tipi di materiali, prediligendo l’argilla e modellando forme come fossero fuse in bronzo. La critica di settore lo considera uno delle leve migliori e più promettenti fra gli scultori in Italia alle prese con l’arte del modellato. E’ considerato il più giovane cultore piemontese ed ha partecipato a numerose esposizioni collettive e personali in Italia e all’estero. E’ attualmente impegnato nella realizzazione del monumento dedicato al Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa per il comune di Collegno (TO) che vedrà la luce nel 2013. La sua produzione segue più filoni espressivi; tra questi vi sono le metamorfosi, figure in cui uomo e animale si fondono, con plurimi livelli di lettura. Fondamentale è la denuncia della condizione in cui gli animali vivono in cattività e l’espressione della ferinità dell’uomo. Per concludere non manca un pizzico di ironia con la presa alla lettera degli epiteti che gli esseri umani si rivolgono da “sciocco come una gallina” a “Porco!”. Francesco Marinaro riprende quell’immaginario e lo cala nella quotidianità, traslandolo da un piano aulico ad uno esoterico. Divaga sulla sinestesia tra percezione tattile e proprietà intrinseche dei materiali, giocando con la scultura classica e rivisitandola con innovazione.




CETUS (Cetus cetus) Il Cetus è un animale antichissimo. Fino al 2010 i paleontologi sostenevano che il Cetus fosse uno dei rari vertebrati marini che riuscirono a resistere alla catastrofica estinzione di massa Permiano-Triassica, durante la quale scomparvero oltre il 90% di tutte le specie marine e il 70% dei vertebrati terrestri. Nell’ottobre del 2010 però, sulle coste dell’Uruguay, i paleontologi dell’Università di Pechino rinvennero sette esemplari perfettamente fossilizzati di Cetus, risalenti all’era Mesozoica, e per la precisione alla metà del periodo Cretacico, 90 milioni di anni fa. A quei tempi il clima caldo, com’è noto, favorì la comparsa di nuove forme animali: tra gli invertebrati comparvero gli echinodermi, i brachiopodi, i mozzarellidi e i cefalopodi (uno di questi è inventato, per favorire una vostra lettura più attiva) mentre tra i vertebrati ebbero uno sviluppo notevole i rettili, soprattutto quelli di grandi dimensioni noti come Dinosauri. Che il Cetus risalga al Permiano o al Cretacico oggi poco importa: mica dobbiamo comprargli una torta di compleanno, no? Quello che conta è che questo felino marino sia arrivato fino a noi senza estinguersi: non lasciatevi infatti trarre in inganno dalla sua morfologia finto-fossile, perché l’esemplare che vedete qui è assolutamente vivo e vegeto (ma solo dannatamente pigro). Il Cetus è caratterizzato da una testa di (quella che sembra) una bestia feroce innestata sul corpo di (quella che sembra) una scheletrica creatura marina, e può raggiungere facilmente i dodici metri di lunghezza. Quando si trova sulla sabbia a riposare (cioè molto spesso, perché è un animale dannatamente pigro) il corpo del Cetus sembra fondersi con la sabbia, assecondando una forma di mimetismo tipica di molti animali marini. Le spiagge, d’altronde, costituiscono l’habitat naturale di questo


animale, soprattutto quelle bianche delle coste atlantiche di Argentina e Uruguay. Lo stile di vita del Cetus è quello di una bestia feroce, se non fosse così dannatamente pigro. La sua giornata tipo può essere così riassunta: dopo una lunga dormita (poiché è dannatamente pigro) il Cetus si sveglia e va a caccia di pesce per la colazione. A quel punto, essendo dannatamente pigro, torna a prendere il sole sulla sabbia (coda dentro e testa fuori). A pranzo va a caccia di pesce per il pranzo dopodiché, essendo dannatamente pigro, torna a prendere il sole sulla sabbia (coda dentro e testa fuori). Quando si fa sera il Cetus va a caccia di pesce per la cena, fa gare notturne di velocità sott’acqua alla luce della luna e, infine, va a dormire stremato, in apnea. Le dormite sono lunghissime poiché questo felino marino, va detto, è dannatamente pigro. In conclusione: il Cetus è un animale dannatamente pigro, che passa la sua lunga vita (raggiunge tranquillamente i cento anni) a mangiare, fare gare di velocità sott’acqua e farsi asciugare la chioma dormicchiando al sole. Non ha nemici naturali anche se, sulla sabbia, odia le formiche e, in acqua, non sopporta squali e piranha. Malgrado ciò, essendo dannatamente pigro, raramente affronta questi animali, preferendo riposarsi sotto il sole. Non so se l’abbiamo già detto, ma il Cetus è dannatamente pigro.

CETUS di Atelier 37.2 2013 legno, sabbia dimensioni ambientali



ATELIER 37.2 Cetus Fondato nel 2009, é un atelier di microarchitettura le cui produzioni e ricerche si articolano intorno al potenziale relazionale e narrativo dello spazio: come un’opera d’arte, uno spazio architettonico deve intrattenere un dialogo permanente con i suoi occupanti. Al di là della sua forma e funzione, pensiamo la micro-architettura come un’esperienza, uno spazio percettivo capace di stimolare l’immaginazione dell’abitante, piuttosto che di modellarla. L’approccio di 37.2 consiste nel creare e applicare dei layers spaziali che provocano uno sfasamento della percezione quotidiana, sviluppando spazi, spesso autonomi, che si sovrappongono a quelli esistenti e confrontando densità variabili all’interno di uno stesso luogo. Attraverso produzioni in situ tra astrazione e figurazione – micro architetture minimali, land art, sculture da abitare – introduciamo dei « se spaziali » che invitano ogni individuo a sviluppare le fictions intime che lo abitano, a interrogare il potenziale narrativo di uno spazio. Ogni progetto è un’opera in fieri, un’istallazione concepita per una temperatura corporea di 37.2° C.




ANGELI RIBELLI (Avicellus Spennatus Ribellis) Agile, scattante, leggero, quasi invisibile, l’Angelo Ribelle ricorda vagamente una enorme zanzara, ma non ne possiede il pungiglione (fatto che, date le dimensioni, lo rende certamente più piacevole). È invece dotato di una notevole vena poetica, che lo porta a filosofeggiare sul rapporto corpo-mente-vita. Come facciamo a sapere tutto questo? È presto detto. Lo straordinario universo mentale dell’Angelo Ribelle venne svelato nel 1978 dal professor Eupillo Cortázar dell’università di Cognac, che escogitò un singolare sistema per comunicare con questo animale: la decodifica delle sue onde cerebrali attraverso un vecchio telefonino UMTS, appositamente modificato. Grazie a questo prodigioso apparecchio il professor Cortázar riuscì a intercettare i pensieri di un esemplare di Angelo Ribelle e, attraverso una serie di domande mutuate da un vecchio manuale portoghese di quiz per la scuola materna, fu in grado di dare una risposta a molti interrogativi che la scienza si era posta fino a quel momento. In proposito è doveroso citare il risultato finale di quegli studi: l’articolo “La danza immobile dell’Avicellus Spennatus Ribellis” pubblicato sul numero 168 del trimestrale Scientific Journal. Il testo riporta fedelmente le domande e le risposte che il professor Cortázar registrò tra le 17:03 e le 17:26 del 30 marzo 1978, ora in cui il telefonino cessò di funzionare e per la rabbia venne scagliato in terra e distrutto in via definitiva dal professore. Ma torniamo ai risultati di quello straordinario studio scientifico. La prima domanda posta dal professor Cortázar era: cosa ti spaventa di più? E la risposta dell’animale fu subito inaspettata: “La fissità, la rigidità, l’abitudine e l’ovvietà”. La seconda domanda era: quali sono le tue inclinazioni? E la risposta: “Verso l’alto.” A questo punto il professore cominciò


a chiedere all’Angelo Ribelle quale fosse il suo habitat preferito (risposta: “Le colline azzurre… le distese ardite”), il suo cibo preferito(“L’aria”) e la sua musica preferita (“Bach, specialmente le composizioni a più voci, come le fughe”). Una volta rotto il ghiaccio il professore decise di passare a domande un po’ più complesse, per stabilire le relazioni dell’Angelo Ribelle con il mondo circostante. Domandò così quali animali amasse e quali odiasse e le risposte furono, rispettivamente “l’essere umano, in special modo quello irrequieto ed incontentabile: l’eterno viandante”, e “il maialino panciuto e sedentario, quello che si addormenta mangiando, pieno di sé e privo di curiosità o interesse alcuno”. A quel punto lo incalzò: qual è la tua giornata tipo? “Non ha inizio, né fine, - rispose l’Angelo Ribelle. Non il sorgere del sole e neppure il tramonto. Non c’è scansione del tempo e quindi non c’è neppure una giornata tipo” e il professore venne travolto da tanta saggezza. A quel punto il telefonino smise di funzionare e fece la fine che sappiamo (in realtà, come scoprirono alcuni studenti qualche mese più tardi, era semplicemente esaurito il credito, ma nessuno osò farlo notare all’irascibile professore).

ANGELI RIBELLI di Luisa Valentini 2008 tubi in maglia d’acciaio, bocce di maiolica dimensioni ambientali



LUISA VALENTINI Angeli ribelli Vive e lavora a Torino. Laureata in Germanistica con Claudio Magris all’Università degli Studi di Torino, si è diplomata in Scultura nell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino; insegna all’Accademia di Belle Arti di Urbino. Realizza diverse opere scultoree per concorsi pubblici ed il suo lavoro è presente in collezioni pubbliche e private, Fondazioni Bancarie e Musei, in Italia ed all’estero. In omaggio a J.Beuys colloca nel 2008 un ‘segnale stabile’, “Female ancestors”, a Bolognano nella Piantagione Paradise della Baronessa De Domizio Durini. Insieme agli architetti R.Rigamonti e Negozio Blu di Torino vince il V concorso di Progetti Pilota 2008/9 indetto dalla CEI per la progettazione di un complesso parrocchiale a Racalmuto. Dal 2009 collabora con la Costa Crociere, per la quale ha installato la scultura “Rosa Bianca e Rosa Nera” a bordo della nave Costa Luminosa, la scultura “Loto” a bordo della nave Costa Deliziosa ed il complesso scultoreo “Jeu de la vie” nella hall della nave Costa Fascinosa.




FARFAGIRAFFANTE (Farfalapagos longinicus) Il Farfagiraffante è un mammifero proboscidato della famiglia dei giraffidi. Venne scoperto per la prima volta solo nel 1978, grazie a una spedizione scientifica congiunta friulano-messicana nel Grande Bacino Artesiano, in Australia. Come è noto, il luogo non è solo una delle più grandi falde artesiane del mondo, ma rappresenta anche l’unica riserva di acqua potabile di tutto il continente australiano. Il diario di quei giorni, scritto dal Professor Valter Comolho del Politecnico di Guadalajara, è assai preciso: “I nostri studi erano concentrati su due progetti: un tentativo di carotaggio dell’acqua, che falliva ogni volta per inspiegabili motivi, e un programma sperimentale per facilitare la mobilità urbana, che prevedeva l’utilizzo di catapulte per spostarsi da un punto all’altro di una città senza utilizzare l’auto. Fu proprio nel corso di uno di questi lanci che smarrimmo nel bacino la Professoressa Claudia Segale dell’università di Udine, forse per un difetto della catapulta. Non ritrovammo mai più la donna, ma scoprimmo il Farfagiraffante. È questo il bello della scienza, no?”. Ai tempi il Farfagiraffante era dunque un animale totalmente ignoto, mentre oggi la nostra conoscenza delle sue caratteristiche si è fatta molto approfondita. Fisicamente presenta un collo molto lungo, che sembra ricamato, una testa simmetrica, dotata di una lunga proboscide, e due ali molto fragili, che non gli permettono di volare in modo stabile ma lo rendono estremamente elegante. Non solo: le ali vengono utilizzate dal Farfagiraffante a mo’ di ventaglio, per farsi aria quando fa caldo e per scacciare via le zanzare che cercano sempre di pungerlo. Per il resto si tratta di un mammifero innocuo (il suo indice di pericolosità è 3/10) e molto longevo: gli esemplari più anziani possono sfiorare i 90 anni. La vita sociale


del Farfagiraffante è piuttosto complessa: odia gli elefanti perché lo hanno emarginato per il suo aspetto incerto, mentre gli piace conoscere altri animali “strani”, per non sentirsi l’unico. Nel corso degli anni si è invece notato che il Farfagiraffante lega in particolare con i suricati, perché lo mettono in guardia nel caso di avvistamenti pericolosi, e con il Marabù africano. L’affiatamento con questo uccello saprofago è un vero e proprio dilemma per gli etologi: come mai il Farfagiraffante, un animale che si ciba unicamente di fiori di cappero, lega con il Marabù africano, un animale che si ciba unicamente di carcasse? Come mai un animale così grazioso lega con un animale il cui becco è adatto a lacerare la carne putrefatta e il cui collo è privo di piume per evitare il raggrumarsi del sangue e delle briciole di carne, inevitabili quando si banchetta a carcasse? A queste domande si è tentato di rispondere in molti modi, ma nessuno è risultato convincente quanto l’ipotesi del Professor Comolho, formulata nel corso delle “Giornate Internazionali del Farfagiraffante e del Marabù”, che hanno avuto luogo lo scorso anno a Prato Sesia, in concomitanza con la Sagra dello struzzo: “Il Farfagiraffante ama i Marabù e cerca di farseli amici perché ha paura che altrimenti potrebbero ingaggiare altri animali per ucciderlo. E poi mangiarselo.” È questo il bello della scienza, no?

FARFAGIRAFFANTE di Valeria Vaccaro 2013 ferro dimensioni ambientali



VALERIA VACCARO Farfagiraffante Nata a Torino nel 1988, dove vive e lavora. Diplomata all’Accademia di Belle Arti di Torino. Ha partecipato alla Master Class in Arti Visive e Design organizzato dalla Biennale di Venezia dal titolo “Segni d’acqua, riflessioni di manualità sulla carta tra oriente e occidente” ed al corso di formazione “la sQuola” industrie culturali e creative in Italia. Dal 2010 ad oggi ha partecipato a numerosi eventi espositivi in diverse città italiane e straniere; da ricordare il concorso internazionale “Una scultura da vivere” di Cuneo, nel quale si è classificata al secondo posto. È stata recentemente selezionata per partecipare alla mostra collettiva CO CO CO COMO CONTEMPORARY CONTEST e le è stato inoltre assegnato il Premio Speciale JCE Jeune Création Européenne, che le permetterà di esporre un’opera in una biennale itinerante che, dal 2013 al 2015, interesserà 10 città europee partner del progetto. Affascinata dal fuoco realizza lavori su come il fuoco e il calore trasformano il materiale per creare qualcosa di nuovo. Il fuoco è l’agente di relazione naturale tra il microcosmo e il macrocosmo, è un elemento dinamico in quanto, generando trasformazioni, tende a purificare tutte le cose, elevandole ad un livello di perfezione maggiore. Elemento non solo di distruzione ma di creazione allo stesso tempo. L’utilizzo del marmo, un materiale pressochè ignifugo permette di creare l’illusione del materiale combustibile per eccellenza: il legno.




PANDA REI Poco si sa, in realtà, del Panda Rei. La tassonomia, ovvero il sistema di classificazione degli organismi viventi, getta la spugna di fronte a questo animale e si rifiuta perfino di assegnargli un nome scientifico definitivo, anche se nel corso del tempo gli etologi hanno suggerito molte ipotesi. Tra queste le più dibattute - ma nessuna è ancora stata accettata in toto dalla comunità scientifica internazionale - sono: Ursus Fulgens, Parailurus Parabrezzis e Ailuropoda catalitica. La grande indecisione sul nome non è che un riflesso della ancor più grande confusione che regna analizzando i pochi studi disponibili su questo animale: se per alcuni scienziati, infatti, il Panda Rei apparterrebbe alla famiglia degli Ursidi, altri lo collocano invece in quella delle Utilitarie. Un vero e proprio caos è poi il risultato che si ottiene cercando di approfondire abitudini e caratteristiche di questo animale: per alcuni il suo tipico verso assomiglia al bramito di un orso, per altri assomiglia a un clacson; per alcuni il suo manto è melanoleuca (nero e bianco), per altri può anche essere metallizzato; per alcuni il Panda Rei si ciba di bambù, per altri si limita a “bere”, e così via. Su molte altre caratteristiche, per fortuna, gli etologi sembrano invece d’accordo. In riferimento all’habitat, per esempio, tutti indicano unanimemente le foreste europee, le zone di campagna e anche alcuni vecchi fienili e sfasciacarrozze(dove il Panda Rei ama riposare in pace). C’è un’ampia convergenza degli scienziati anche sulla longevità di questo animale (40/60 anni), sulle sue caratteristiche fisiche (750 cc) e sul suo nemico naturale (i vigili urbani). Tutte le opinioni coincidono anche in riferimento allo stile di vita del Panda Rei: l’animale ama sguazzare nel fango e stare in compagnia, cosa che gli riesce piuttosto facile poiché ama tutti gli altri animali, con una


vera fissazione per le pandine simpatiche. A dirla tutta ci sono anche cose che odia: gli insetti e i nasi alti, ma questa è un’altra storia. Il Panda Rei è comunque un animale estroverso e brillante: ama vivere giornate sempre diverse, in giro, all’insegna dell’allegria, convinto com’è che nella vita “tutto scorre” e perciò tutti siamo soggetti alla legge inesorabile del tempo (anche se, sotto questo continuo mutare delle cose, sembra nascondersi una profonda armonia). Non va poi dimenticato che il Panda Rei, un po’ per via del suo carattere e un po’ per via del suo aspetto, risulta irresistibilmente simpatico agli esemplari della razza umana, in particolare ai bambini e ai ragazzi (soprattutto quelli che hanno appena compiuto diciotto anni). Ma, nonostante l’amore che lo circonda, il Panda Rei è a rischio estinzione. La causa non è, come spesso capita nel mondo animale, un mutamento improvviso dell’habitat a cui il Panda Rei non è riuscito ad adattarsi, bensì la comparsa di molte specie concorrenti e predatrici, denominate “nuovi modelli”. Se tuttavia questa creatura tanto amata, ma poco compresa, non sparirà per sempre dalla faccia della terra, sarà grazie alla protezione che gli potrà essere offerta da noi uomini nelle zone in cui vive ora: ad esempio qui, dove ospitiamo questo incantevole esemplare.

PANDA REI di Pierluigi Slis e Lucia Sorge 2013 automobile rivestita di pelliccia 400x180x170 cm



PIERLUIGI SLIS e LUCIA SORGE Panda rei Pierluigi Slis, artista nato nel1 974, e Lucia Sorge, architetto nata nel 1974, vivono e lavorano a Vittorio Veneto, (TV) Siamo accomunati dal pensiero libero che ci consente la capacità d’inventare. Siamo accomunati dalla passione e dall’interesse per le variegate espressioni del “progetto contemporaneo”. Uniamo competenze e creatività per la realizzazione di soluzioni site specific basate sulla filosofia dell’utilizzo intelligente delle risorse e sulla riconoscibilità dichiaratamente a-referenziale. La nostra ricerca nasce dall’analisi delle energie potenziali suggerite dalla tematica/ situazione ove veniamo chiamati ad agire. Il processo immaginativo ci richiede sedimentazione, sottrazione e precisione da bagagli/fattori storici (culturali, sociali, politici). L’estetica dell’obiettivo intende fare riflettere ciascun fruitore sul senso del nostro operato in questo tempo presente, ovvero l’estetica della forma/dimensioni/materiali intende fare riflettere sul senso del proprio essere e del proprio agire ora di ciascuno. Che cosa è veramente utile e perché. Il linguaggio ludico, a volte, ci esibisce le risposte più vere.




CHASTAFA’ (Farfalapagos longinicus) Gli studiosi dell’antichità rimasero per secoli nel dubbio se considerare il Chastafa’ un fantastico animale oppure un animale fantastico. Come animale di fantasia il Chastafa’ è infatti catalogato sia nel Liber monstrorum de diversis generibus (VIII secolo) sia nel celebre Bestiario di Aberdeen (XIII secolo), cinquecento anni dopo. Qualcosa però cambia all’inizio del XIV secolo: il sonetto numero 18 dei 64 che compongono il Bestiario moralizzato di Gubbio è dedicato proprio al Chastafa’, ma questa volta come animale realmente esistente. Nel sonetto si allude all’ abitudine del Chastafa’ ad andare per boschi rimanendo fatalmente impigliato ai rami (“Poi se ne va iocando a la foresta/ Ove la trova più ‘intricata e scura /impiliace le teste, e sì s’arresta”) e viene inavvertitamente data una spiegazione del banale motivo per cui questo animale sia oggi così raro. È curioso il fatto che tutte e tre le opere citate presentino, associata ai differenti testi, la medesima illustrazione, probabilmente derivata dai repertori enciclopedici tardoromani e medioevali. Quest’immagine è molto precisa: raffigura un massiccio quadrupede, il cui corpo è tutto ricoperto di una folta peluria giallastra, simile per la sua consistenza a paglia. L’animale è dotato di una coda (che, si è scoperto, cade d’inverno) e di una tripla testa rotante: la testa destra è donna, la testa sinistra è uomo, la testa al centro è inutile (questo capita anche a molti esseri umani). È risaputo e confermato da recenti e approfonditi studi scientifici che il Chastafa’, pur disponendo di queste tre teste, è dotato di un solo cervello (e questo forse spiega perché ha dovuto arrivare fin quasi all’estinzione per decidersi a smettere di andare per boschi). I medesimi studi hanno anche definito con precisione le caratteristiche principali del


Chastafa’: secondo gli appunti pubblicati dal professor Jesus Pangasio dell’Università di Wimbledon, che ha condotto per un ventennio il gruppo di studio, si tratta di un animale carnivoro (“con stile, anti-vegano”) e piuttosto longevo (“alcuni esemplari, che vivevano molto lontani da boschi e foreste, sono arrivati ai 200 anni”). Il Chastafa’, inoltre, ama rotolarsi nel fango e guardare l’orizzonte, odia i sacchetti che volano sbattuti dal vento ed è ossessionato dalle simmetrie e dalle misure regolari: allinea le cose di continuo e non si ferma mai (tranne quando finisce impigliato in un bosco). Nel 2006 il professor Pangasio ha condotto uno stravagante esperimento su un esemplare di Chastafa’: lo ha ipnotizzato con due espadrillas usate e gli ha posto una serie di domande intimiste per saggiare le sue reazioni. È così emersa una curiosa fissazione del Chastafa’: l’animale crede infatti che i ragni possano entrargli dalle orecchie e, una volta scelta la testa giusta, prendere possesso della sua mente. L’ultimo appunto del professor Jesus Pangasio è invece piuttosto enigmatico (forse un’avvisaglia del suo successivo ricovero in una clinica psichiatrica): “Tra i peli di paglia del Chastafa’ci sono minuscoli punti, invisibili cavità, dove l’occhio può fermarsi per studiare l’enigma del buio.”

CHASTAFA’ di Octopus Lab Project 2013 legno 230x230 cm



OCTOPUS LAB PROJECT Chastafà

E’ un collettivo nato un po’ di anni fa a Parma, dove opera. Alcune persone si sono incontrate, si sono trovate e hanno deciso di collaborare pur mantenendo un proprio lavoro. Con il tempo poi le affinità si sono sviluppate sempre più e le possibilità di realizzare cose importanti si sono presentate alla porta. Dirty Hands Festival a Parma, Collecchio Video Film Festival, Squinterno Festival, Salone del Mobile, Estremo Presente al Museo Guatelli di Ozzano Parma, Liq Art. Il progetto nasce dalla collaborazione di più persone che si sono unite per dar vita ad un collettivo impegnato a sviluppare il concetto di arte in ogni sua forma. Ci sono architetti, illustratori, pittori, street artist, fotografi, critici d’arte e librai. Per questo, per ogni evento in cui siamo coinvolti, portiamo la nostra diversificata esperienza. Ideiamo installazioni in base al contesto in cui veniamo chiamati. Allestiamo mostre, disegniamo dal vivo su materiali diversi. Stampiamo magliette con disegni originali, recuperiamo oggetti per creare mobili e selezioniamo libri d’arte.




HIPPOTRAGUS (Hippotragus regulorum) Il primo a descrivere un esemplare di Hippotragus, nel 1936, fu il naturalista Kerpet Korkenzieher dell’Università di Brisbane, nel corso di una spedizione scientifica lungo la Rift Valley, la regione dei grandi laghi africani. Sfortuna volle che l’avvistamento ravvicinato del professor Korkenzieher, avvenuto nei pressi del lago Tanganica, non poté essere avallato né da testimoni né da fotografie. “È una totale allucinazione, un’assurdità scientifica,” sentenziò in aula magna il collega Wilfred Pecosbill, ai tempi il più famoso zoologo australiano, al termine della presentazione di Korkenzieher. “Ma la scienza ha spesso bollato di assurdità la realtà, - protestò Korkenzieher. - E proprio basandosi su certezze e principi assai meno certi dell’esistenza dell’Hippotragus, che io ho peraltro visto con i miei occhi.” Ma non ci fu nulla da fare: la comunità scientifica internazionale voltò le spalle al professore, ignorandolo totalmente. Va detto che lo scopritore dell’Hippotragus non aveva mai goduto di buona fama e i suoi avversari accademici, per screditarlo, non avevano esitato a sottolineare alcuni aspetti bizzarri del suo carattere: ad esempio l’abitudine di battezzare le nuvole e quella di assistere alle cerimonie funebri di persone sconosciute vestito da frate (Korkenzieher era inoltre famoso per le sue burle: un giorno aveva donato la sua collezione di boomerang alla facoltà e durante la notte la collezione era tutta tornata indietro). Comunque sia, ci volle quasi un ventennio prima che la scoperta dell’Hippotragus venisse avvalorata e, ironia della sorte, fu proprio il professor Pecosbill a doversi ricredere di persona: “Me lo trovai davanti durante un safari in Congo, sul Lago Kivu: dalle zampe alla groppa era un’antilope, dal collo in su, testa compresa, una gru


coronata.” Purtroppo Korkenzieher non poté festeggiare quella rivincita morale: era morto pochi giorni prima nel corso di un esperimento di volo senza motore, buttandosi giù dal campanile di Brisbane con le tasche piene di mosche. Wilfred Pecosbill, per riconoscenza postuma, decise di dedicare il resto della sua vita allo studio dell’Hippotragus tanto che, oggi, tutto quello che sappiamo di questo straordinario animale lo dobbiamo alla sua dedizione. In sostanza si tratta di un uccello non molto longevo (arriva al massimo ai quarant’anni), innocuo (a meno che non travolga accidentalmente qualche piccolo animale mentre galoppa) e dall’alimentazione del tutto ordinaria (si ciba di insetti, germogli, semi e frutti). Essendo oviparo, nidifica e depone le uova in pozze poco profonde e canneti, lontano dalle insidie di serpenti e manguste. Caratterialmente presenta alcune curiosità: è molto vanitoso ed è convinto di essere bellissimo, perciò non sopporta tutti gli animali con le corna: li trova brutti e non ne condivide i punti di vista. Inoltre è consapevole di essere un uccello molto più grande di tutti gli altri e, in conseguenza di ciò, è convinto di essere una sorta di re della categoria, fatto confermato dalla corona che porta sulla sommità del capo. Tutto questo gli fa odiare la fama dei leoni (la cui criniera, a suo parere, non somiglia affatto a una corona). Avendo un cervello da uccello, ama la compagnia degli altri uccelli.

HIPPOTRAGUS di Alice Zanin 2013 fil di ferro, carta, colla e resina 120x190x40 cm



ALICE ZANIN Hippotragus

Nata a Piacenza nel 1987, vive e lavora a Podenzano. Dopo il diploma classico con indirizzo linguistico, frequenta per qualche mese la scuola d’arte “Gazzola” a Piacenza, abbandonandola presto per proseguire il suo percorso artistico come autodidatta. Attraverso gli anni l’artista si sperimenta sia nel campo della pittura che in quello della scultura. Il percorso pittorico costituisce una breve parentesi, e conta una serie di dipinti ritraenti un’unica modella, calata in atmosfere eccentriche o surreali. Per quanto riguarda invece le opere tridimensionali, il suo interesse investe diversi materiali: terracotta, resina, carta e ferro, singolarmente o assemblati. Stilisticamente i lavori in terracotta e polimaterico rispondono ad un’idea di linearità e destrutturazione dei volumi pur rimanendo nell’ambito figurativo; le cromie smorzate o assenti contribuiscono ad una scultura della leggerezza. Dagli inizi del 2012 l’artista, sfruttando le suggestioni volumetriche e il gusto per la rappresentazione di situazioni in bilico tra ragionevolezza e assurdità, sviluppate nel corso del suo percorso di ricerca, sceglie di concentrarsi pressoché esclusivamente sulla tecnica della cartapesta, dando vita alla serie “verba volant scripta…”, dove soggetti animali si muovono ironicamente attorno al valore tutto umano della parola.




Zoomaginario è una rassegna di arte contemporanea inserita all’ interno del

NIGHT SAFARI FESTIVAL

Evento organizzato da Zoom la cui finalità è sensibilizzare i visitatori alle problematiche ambientali e alla biodiversità. Parte del ricavato delle attività legate all’iniziativa andranno a sostenere i progetti di Save the Rhino, organizzazione internazionale che si occupa di proteggere i rinoceronti finanziando e supportando progetti contro il bracconaggio e la protezione degli habitat.

Con l’acquisto di questo prodotto hai contribuito anche tu alla salvaguardia della biodiversità. Grazie!


MOSTRA a cura di: Francesca Canfora e Daniele Ratti assistenti direzione artistica: Sofia Gallarate e Giorgio Massarella progettazione e organizazione: Cut4Art Production in collaborazione con: Paratissima

RACCONTI Enrico Remmert FOTOGRAFIE Daniele Ratti PROGETTO GRAFICO Andrea Zanoni e Irene Pecchenino Creativity & Communication Zoom Torino FOTOLITO Fotomec - Torino STAMPA Tipo Stampa - Moncalieri (TO)

SI RINGRAZIA Gianluigi Casetta, fondatore di Zoom, per la sua follia creativa. Gli artisti che hanno partecipato e creduto nel progetto. Tutto lo staff di Zoom, per il supporto e la disponibilitĂ dimostrata sempre. Alessandro Stillo per la preziosa collaborazione.



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