Comune di Montevarchi —
Liceo Scientifico Benedetto Varchi
Assessorato ai Gemellaggi ed alla Cooperazione Internazionale
MEMORIE FAMILIARI dal laboratorio di scrittura creativa del Liceo Scientifico “Benedetto Varchi” di Montevarchi
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Comune di Montevarchi —
Liceo Scientifico Benedetto Varchi
Assessorato ai Gemellaggi ed alla Cooperazione Internazionale
MEMORIE FAMILIARI dal laboratorio di scrittura creativa del Liceo Scientifico “Benedetto Varchi” di Montevarchi — a cura di Paolo Martinino —
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MEMORIE FAMILIARI dal laboratorio di scrittura creativa del Liceo Scientifico “Benedetto Varchi” di Montevarchi a cura di Paolo Martinino progetto grafico: B.AND stampa: Tipografia La Zecca foto: Le immagini pubblicate in questo volume sono state fornite dagli studenti della classe IVaA e IVaD del Liceo Scientifico “Benedetto Varchi” di Montevarchi I racconti e gli altri testi pubblicati in questo volume sono il frutto del “Corso di scrittura creativa” realizzato nell’anno scolastico 2007-2008 presso il Liceo “Benedetto Varchi”, finanziato dal Comune di Montevarchi, e lo sviluppo del laboratorio di scrittura della classe IIA.
Il laboratorio di scrittura è stato ideato, coordinato e gestito dalla Scuola di Narrazioni “Arturo Bandini”
dell’associazione Nausika
direttore: Federico Batini coordinatore: Gloria Capecchi tutor: Paco Mengozzi. Nell’ambito del corso hanno tenuto lezioni i docenti: Matteo Bortolotti, Francesco Botti, Enzo Carabba, Simone Cini. www.narrazioni.it 4
Un ringraziamento particolare alla Scuola di Narrazioni “Arturo Bandini” di Nausika, senza la quale non sarebbe stato possibile realizzare il corso di scrittura, e al Comune di Montevarchi, che ha mostrato sempre interesse e fiducia nella creatività degli studenti. Il ricavato della raccolta fondi realizzata con questo libro sarà interamente devoluto ad un progetto di sostegno ad una scuola del Burkina Faso. — Info: Ufficio Gemellaggi e Cooperazione Internazionale del Comune di Montevarchi Tel. 055/9106744 Fax 055/9106715 gemellaggi@comune.montevarchi.ar.it
INDICE
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IL FUTURO NELLA MEMORIA di Giovanni Rossi
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LE PAROLE CHE ARRICCHISCONO di Daniela Mannucci, Cristina Palmieri, Cinzia Parati
MEMORIE FAMILIARI 17 — Alessandra Argenti, Una vita in campagna (intervista) 19 — Eleonora Becattini, Il Palio di Siena ci fa un baffo 12 — Ain Deheb Bensenouci, Senorbì 15 — Ain Deheb Bensenouci, Il nastro rosso 17 — Irene Betti, Il cantiere dei ricordi 19 — Leonardo Bruni e Federico Cossentino, Intervista in famiglia (intervista) 21 — Alessandra Caccialupi, I ricordi impagliati nel ricamo 24 — Iacopo Cigolini, ‘Nù scurdammc’… la Passata 25 — Marco Del Riccio, Paure diverse 29 — Giulia Failli, I giovani di una volta (intervista) 34 — Martina Giusti, Per non dimenticare 38 — Giuditta Masciadri, Tra le macerie di Praga 40 — Lorenzo Gren, Pagine di diario 42 — Lorenzo Losi, Ricordi 44 — Filippo Mugnai, Il mostro 46 — Emma Odori, Pomeriggio d’inverno 50 — Marta Orlandi, I vestiti della nonna 52 — Marta Orlandi, Memoria d’amore 53 — Marta Orlandi, Dalila 56 — Beatrice Ottaviani, La festa degli alberi 58 — Annalisa Piccioli, L’alluvione 60 — Claudia Rossi, Ottobre 1978 63 — Chiara Sacchetti, La mia guerra 64 — Alessio Sacconi, Incontro 66 — Alessio Scarito, Viaggio in Grecia 72 — Alessio Scarito, Barcellona 76 — Aurora Toso, L’orologio all’indietro (intervista) 76 — Virginia Vanni, Pizza, liscio e house
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LE PAROLE CHE ARRICCHISCONO —
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Questo progetto nasce dalla consapevolezza che gli adolescenti alternano chiusura e volontà di ribellione verso il mondo degli adulti, cercano forme e luoghi per esprimere la loro visione del mondo e i loro ideali, ma non trovano spazi e strumenti adatti per esprimersi e persone disposte ad ascoltarli. Il loro disagio si manifesta in una realtà sempre più complessa nella quale è difficile ascoltare e comprendere le ragioni degli altri. Attraverso la scrittura è possibile riflettere su sé stessi, esprimere e comunicare emozioni ed esperienze. Raccontando sé stessi ed ascoltando le storie degli altri è possibile scoprire le proprie risorse personali, ma anche ri-scoprire la storie e la memoria della comunità e del luogo in cui si vive. In questo senso, la scrittura può diventare un momento di incontro e di dialogo tra ragazzi e ragazze, tra giovani ed anziani, tra il passato e il futuro. È anche vero che la realtà in cui siamo immersi rende spesso le parole prive di significato e riduce il nostro patrimonio lessicale spingendoci ad usare sempre lo stesso linguaggio. Perciò, quando abbiamo proposto agli alunni del Liceo “Benedetto Varchi” di mettersi alla prova scrivendo racconti ed attingendo alla memoria personale e familiare, eravamo consapevoli della strana novità del progetto. Invece la risposta è stata entusiastica e superiore alle aspettative: abbiamo scoperto un desiderio profondo di raccontarsi e di raccontare, una volontà insospettabile di usare le parole come strumenti, nuovi e antichi allo stesso tempo, per scendere in profondità e per descrivere con gli occhi della memoria i luoghi, le persone, gli episodi che ci hanno formato e che hanno lasciato traccia in noi e nella nostra storia. Parlare con gli altri e condividere memorie significa sempre scoprire emozioni vere; dar loro voce attraverso la parola scritta è un’operazione allo stesso tempo creativa e conoscitiva, un’esperienza di cui tutti, scrittori e lettori, possono arricchirsi.
— Daniela Mannucci, Cristina Palmieri, Cinzia Parati Docenti del Liceo Scientifico “Benedetto Varchi”
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IL FUTURO IL FUTURO NELLA MEMORIA —
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NELLA MEMORIA —
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l’avrebbe detto chevissute le vicende da un bambino di Rendola Chi l’avrebbe maiChi detto che mai le vicende davissute un bambino di Rendola negli negli anni della Seconda guerra mondiale, un giorno di 60 anni dopo anni della Seconda guerra mondiale, un giorno di 60 anni dopo sarebbero rimaste sarebbero rimaste nella memoria della sua giovane nipote e che proprio nella memoria della sua giovane nipote e che proprio la memoria delle sue storie la memoria delle sue storie dolorose avrebbe contribuito a realizzare un dolorose avrebbenuovo contribuito nuovo sostegno una progetto adirealizzare sostegno adun una scuolaprogetto in Burkinadi Faso. Eppure, ad nella scuola in Burkinanostra Faso.società Eppure, nella nostra globalizzata, ancheequeste globalizzata, anchesocietà queste cose, a volte, accadono quando accadonoe lasciano sapore dellalasciano speranza di poter costruire un mondo di cose, a volte, accadono quandoil accadono il sapore della speranza migliore, una globalizzazione dal basso che trova le basso ragioni della solidarietà poter costruire un mondo migliore, una globalizzazione dal che trova le e dell’accoglienza proprio nella nostra memoria sociale. La guerra è solo uno ragioni della solidarietà e dell’accoglienza proprio nella nostra memoria sociale. La dei tanti temi affrontati nel Corso di scrittura creativa, realizzato nell’anno guerra è solo unoscolastico dei tanti2007-2008 temi affrontati Corso di scrittura realizzato presso ilnel Liceo “Benedetto Varchi”creativa, di Montevarchi nell’anno scolastico pressoArturo il Liceo “Benedetto Varchi” Montevarchi dalla2007-2008 Scuola di Narrazioni Bandini di Nausika, con undifinanziamento del ComuneArturo di Montevarchi. racconti diversi chefinanziamento parlano dei nostridel dalla Scuola di Narrazioni BandiniSono di Nausika, con un luoghi, del Sono lavoro,racconti delle feste, sono ricordi e immagini tanti piccoli eventi Comune di Montevarchi. diversi che parlano deidinostri luoghi, quotidiani e personali diventati storie attraverso quel meraviglioso “ponte del lavoro, delle feste, sono ricordi e immagini di tanti piccoli eventi quotidiani tra generazioni” che è il raccontare. Credo non esista un’altra dimensione e personali diventati storie attraverso “ponte tra generazioni” così fortemente educativaquel comemeraviglioso la narrazione, nell’aprire i nostri ragazzi che è il raccontare. non esista un’altra dimensione così allaCredo scoperta di altri mondi possibili, nell’insegnare lorofortemente a relativizzare i modelli culturali nell’aprire dominanti e ia nostri mettersiragazzi umilmente relazione di conaltri l’altro, educativa come la narrazione, allainscoperta con la diversità sociale, culturale e generazionale. Esperienze di questo mondi possibili, nell’insegnare loro a relativizzare i modelli culturali dominanti tipo, che fanno delle storie familiari uno strumento di collegamento con la e a mettersi umilmente in relazione con l’altro, con la diversità sociale, culturale memoria sociale e quindi con il senso di appartenenza alla nostra comunità e generazionale. dovrebbero Esperienze di questonelle tipo,nostre che fanno familiari uno in moltiplicarsi scuole edelle negli storie altri contesti educativi strumento di collegamento con lai nostri memoria sociale e quindi con il senso di e cui sono impegnati ragazzi. La ricerca di nuove strade di sviluppo per il nostro paese, oggi moltiplicarsi sempre più urgente, innestarsi appartenenza allainnovazione nostra comunità dovrebbero nelledeve nostre scuolesulla consapevolezza dei principi fondamentali sui quali è cresciuta la nostra società e negli altri contesti educativi in cui sono impegnati i nostri ragazzi. La ricerca civile, sulla conoscenza della storia delle tante lotte per l’acquisizione di quei di nuove strade di sviluppo e innovazione per il nostro paese, oggi sempre più diritti di cittadinanza che oggi sembrano scomparire. È questa memoria la urgente, deve innestarsi sulla consapevolezza principi fondamentali garanzia per i nostri figli di un futurodei stabile, di pace, democratico.sui quali è cresciuta la nostra società civile, sulla conoscenza della storia delle tante lotte per l’acquisizione di quei diritti di cittadinanza che oggi sembrano scomparire. — Giovanni Rossi E’ questa memoria la garanzia i nostri figliInternazionale di un futuro stabile, di pace, Assessore ai Gemellaggiper ed alla Cooperazione democratico. del Comune di Montevarchi
— Giovanni Rossi Assessore all’Istruzione del Comune di Montevarchi 7
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UNA VITA IN CAMPAGNA
Siamo in compagnia di Lidiana Silvestri che ci racconterà qualcosa della sua vita. Signora, ci dica dove è nata e cosa ricorda di quando era bambina. Il mio paese d’origine è la Cicogna. Sono nata in campagna perché i miei genitori lavoravano la terra e ho vissuto lì fino all’età adulta. Io adoro la campagna, anche se la città ha maggiori agevolazioni. Mi mancano gli sterminati campi distesi al sole dove potevo riposare quando era bel tempo. Ricorda qualche attività che veniva svolta in campagna? Oh sì, ricordo con emozione la vendemmia e soprattutto la festa che si svolgeva la sera, dopo che l’uva era stata raccolta e pestata. E’ stata ad una di quelle feste che ho conosciuto mio marito. Non era tutta rose e fiori, però, la vita in campagna. Anche da bambini bisogna darsi da fare, aiutare in casa, andare a pascolare gli animali. Non c’erano tutte le comodità che abbiamo oggi, le strade non erano asfaltate.
Qual è l’aspetto che caratterizzava la vita di allora e che oggi non c’è più? Intanto i bambini e i ragazzi della mia generazione si divertivano con molto poco, soprattutto perché si dovevano badare da soli. Crescevano più in fretta e questo secondo me era un bene, invece oggi i bambini vogliono tante cose e non danno importanza a niente. È vero che ricevono più attenzioni, ma non si prendono nessuna responsabilità. La famiglia, poi, era importante e più unita. C’era maggiore solidarietà e spesso ci si riuniva insieme, tre, quattro, dieci famiglie e ci si divertiva. La vita era più povera, ma mi sembra che ci fosse più felicità. La ringraziamo per la sua disponibilità, ci ha aperto una finestra sul passato e ci ha offerto una breve, ma significativa testimonianza di un periodo che tutti dovremmo conoscere. — Alessandra Argenti
Lei ha vissuto il periodo della guerra. Che cosa le torna in mente pensando a quell’epoca? Mio marito è andato in guerra per circa un anno e mezzo. Io ero molto giovane, sono rimasta sola e dovevo tirare avanti con la paura che arrivasse qualche brutta notizia. Quando aprivo le lettere che mi mandava mi tremavano le mani.
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IL PALIO DI SIENA CI FA UN BAFFO La mia storia è in gran parte vera e parla di una delle poche tradizioni del mio paese: il Palio di Incisa. Ho cercato di raccontare come questo fosse vissuto non solo da tutti gli abitanti ma soprattutto dai giovani e di far capire che anche le piccole tradizioni, e forse soprattutto quelle, sono impresse a fondo nel cuore delle persone. Le feste del Perdono a Incisa sono cambiate molto negli ultimi 15 anni. Ormai sono solo un’occasione di ritrovo fra giostre e mercatini mentre le tradizioni, quelle che rendevano il Perdono a Incisa diverso dagli altri, sono andate perdute. Ci siamo ridotti a fare il Palio delle Balle di Fieno, poco amato e ancor meno seguito! E pensare che fino a qualche anno fa i nostri palii facevano concorrenza ad alcune fra le più antiche competizioni toscane e addirittura italiane. Non ci credete? Ok, prendete per esempio il Palio delle Canoe. Avete mai sentito parlare della regata storica fra le Repubbliche Marinare? Ecco, loro corrono con barconi antichi in mezzo al mare, noi correvamo con le canoe sull’Arno, che differenza c’è. Anzi, il nostro palio era più divertente visto che, mentre le repubbliche erano solo quattro, le nostre contrade erano ben otto: Vivaio, Borgo di Sotto, Comune, Castello, Palazzolo, Burchio, Massa e Loppiano. Ognuna aveva i suoi colori e così, la sera del Palio, si poteva vedere l’Arno nero rallegrato da otto chiazze colorate, le canoe con il loro vogatore, che si rincorrevano cercando di vincere la corrente del fiume. Ma anche questa tradizione è andata lentamente a morire, visto che non è questo il Palio a cui i veri Incisani sono legati. Infatti, il Palio delle Canoe era nato qualche anno fa per sostituire il più antico, ma soprattutto più amato Palio dei Ciuchi. Qui il paragone con un altro palio famoso è ancora più evidente. Siena: diciassette contrade che corrono due volte l’anno per aggiudicarsi il “Drappellone”. Incisa: otto contrade che correvano il lunedì del Perdono per aggiudicarsi una coppa, ma soprattutto il diritto di vantarsi con le contrade perdenti. Siena: un corteo storico dal Palazzo di Giustizia a Piazza del Campo per ricordare i fasti della Repubblica Senese. Incisa: una sfilata dei carri delle contrade da Barberino alla chiesa di Sant’Alessandro per eleggere, a furor di popolo, il lavoro migliore. In fondo le differenze sono poche, no? Loro fanno un corteo storico in costume, noi un corteo di carri in maschera, tipo carnevale. Loro hanno diciassette contrade, noi solo otto ma altrettanto agguerrite. Loro il Palio lo fanno in Piazza del Campo, noi nel campo sportivo. E poi, scusate, che gusto c’è a veder correre i cavalli, quelli corrono e basta! Mica come i ciuchi che ogni tanto si impuntano e non ripartono nemmeno a prenderli a calci. Credo che questo sia stato uno dei motivi che ha spinto alla scelta del ciuco invece del cavallo, oltre al fatto che è decisamente più economico. Comunque questa decisione, indipendentemente dai motivi, ha sempre avuto le sue conseguenze, ad esempio la “corte spietata” che ogni contrada faceva a quei 11
due o tre pastori sardi che abitavano in paese e che, si diceva, “con gli animali ci sanno fare”. Ma oltre alla semplice corsa, che, comunque, riusciva sempre a riempire il campo sportivo, nel Palio dei Ciuchi c’era molto altro. Già il venerdì, tre giorni prima della gara, ogni contrada riempiva e decorava le sue strade con bandierine, striscioni e stendardi dei propri colori e tutti iniziavano a prendersi in giro: “Tanto un vu vincete!”, ”Altro che ciuchi, un vu siete boni nemmeno a giocare all’oca!”. Ma, alla fine, anche queste prese in giro erano solo tradizione visto che, più o meno, si conoscevano già le contrade favorite ma, soprattutto, quelle sfavorite. Purtroppo la nostra, il Vivaio, era una di queste ultime, ma noi andavamo comunque fieri di essere bianco-celesti, soprattutto perché ci rifacevamo sempre con la sfilata dei carri. Gli unici che ci potevano fare concorrenza, in questo campo, erano i Loppianini che ogni tanto se ne venivano fuori con una trovata davvero geniale. Ma uno degli ultimi anni li abbiamo veramente stracciati! Quella volta l’idea geniale era venuta a noi e per realizzarla avevamo passato intere notti in bianco per montare il carro. Avevamo fatto tutto in stile egiziano, con Giulia vestita da Cleopatra che faceva il bagno nel latte. Era uno spettacolo, c’erano anche la palme. Ma l’anno più bello è stato quello, l’unico credo, in cui il Vivaio è riuscito a vincere anche il Palio. Appena il nostro ciuco e il suo fantino hanno tagliato il traguardo, un’ondata bianco-celeste ha invaso il campo e da lì si è diffusa per tutta la contrada, inarrestabile coma la gioia dei contradaioli che per la prima volta potevano alzare al cielo la coppa del vincitore. Fin qui la cosa può sembrare poetica, e lo è stata davvero, per lo meno finché qualcuno non ha piazzato una damigiana di vino in mezzo a Piazza Capanni. Da lì in poi scende la nebbia su gran parte della serata, anche se ci sono dei momenti che ricordo. Per esempio, ricordo chiaramente Francesco che, mentre tornava a casa in motorino, si è fatto tutto il Viale della Stazione a zig-zag. E ricordo anche che…che…ok quella è l’unica cosa che ricordo, ma ciò non vuol dire che non vada fiero di quell’unica vittoria, soprattutto perché per un anno ho potuto prendere in giro tutti quelli che ci avevano fatto pesare il fatto di non aver mai vinto il Palio. Oh, ora che ci ripenso mi viene in mente un’altra cosa, anzi due. Ricordo l’incredibile mal di testa del giorno dopo e, soprattutto, la frase che mi è martellata in testa per tutta la sera: “A noi, il Palio di Siena ci fa un baffo!!” — Eleonora Becattini
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SENORBÌ Ognuno di noi è rimasto legato al paese dove ha trascorso la sua infanzia, dove ha provato per la prima volta le emozioni che lo accompagneranno per tutta la vita: solo raccontando queste esperienze possiamo creare un legame con le generazioni successive. Senorbì è un piccolo paese del Sud della Sardegna la cui esistenza è ignorata dal mondo e dalla maggior parte dei suoi abitanti… Probabilmente anche io avrei fatto parte di questa maggioranza, se non fosse stato per il fatto che la mia famiglia è originaria di quel luogo. Tutte le estati passo il mio tempo nella casa dove solo pochi anni fa viveva ancora mia nonna e dove tanti anni fa, quando mia madre era bambina e la mia bisnonna Mariannicca dagli occhi azzurri e dalla faccia particolarmente avversa alle macchine fotografiche del tempo era ancora viva, c’era il cortile dove stavano le galline e i cavalli nella stalla. In una torrida estate Senorbì non è il posto migliore in cui alloggiare, però la tranquillità che ti accompagna per le sue stradine semideserte è piacevole. A Senorbì non c’è molto da fare o da vedere, ma c’è tanto da ricordare… Mia madre, per esempio, mi ha sempre parlato allegramente dei giorni in cui andavano tutti insieme con nonna Mariannicca a lavare i panni al fiume. Accadeva più o meno ogni dieci giorni e mia madre e i miei zii aspettavano con ansia l’arrivo dei primi raggi di sole come se portassero con se una festa. “Domani si va al fiume e partiremo molto presto, prima che si alzi il sole, perché poi camminare non è facile…” diceva nonna. Nonostante le scarpe a disposizione mia madre e i suoi fratelli preferivano andare scalzi rischiando di “scapocchiarsi l’alluce” (in sardo: sconcheddendisiri is didusus) mentre mia nonna teneva un gran cesto di latta sulla testa appoggiato ad un canovaccio colmo dei panni da lavare, del sapone e del cibo per il pranzo… Nonna camminava spedita e sicura nonostante il peso non indifferente che portava e i bambini le trotterellavano intorno osservando la campagna con le sue distese di grano ancora verde, i peschi in fiore e tante margheritine e biancospini. Al fiume non erano mai soli: c’erano sempre molte altre donne intente a lavare i propri panni ciascuna su una pietra liscia tenuta ferma tramite sassi più piccoli in modo da poterci sfregare i panni insaponati. Le donne erano distanti le une dalle altre quanto bastava perché ognuna avesse acqua fresca e pulita per risciacquare il proprio bucato. Parlavano tra loro raccontandosi cose di tutti i giorni, scambiandosi informazione sul paese e ridendo tra un calzino e una gonna che ogni tanto la corrente portava via. Quando succedeva i bambini divertiti rincorrevano i panni assieme alle donne, che per non bagnarsi si erano rivoltate le lunghe gonne… L’acqua accoglieva i bambini scalzi ed euforici: era un’acqua amica, che 14
scorreva nel letto del fiume limpida e fresca, zampillando fra i sassi e gorgogliando gioiosa. Se si andava un po’ a ritroso, dove l’acqua era talmente limpida da poterla bere, c’era il crescione, molto buono da mangiare, che mia madre e i miei zii raccoglievano per tutta la settimana… Dopo aver lavato tutti i panni le donne li stendevano ad asciugare su delle grandi distese di profumatissima menta e poi appoggiavano delle tovaglie per terra dove posavano le cose da mangiare e iniziavano il pranzo. Di solito il menù era composto di pane fatto in casa, formaggio, pomodori, a volte mortadella e frutta colta dagli alberi vicini. I panni non erano ancora asciutti alla fine del pasto, così con la pancia piena andavano tutti a cercare asparagi selvatici (buonissimi nella frittata fatta con le uova delle proprie galline), cicorietta e bietoline. Poco prima del tramonto le donne riponevano i panni asciutti e ben ripiegati nelle ceste di latta che nuovamente si appoggiavano sulla testa con un panno per attutire il peso. Tutti insieme, donne e bambini, si dirigevano sulla strada principale del paese che li avrebbe condotti a casa… Spesso capitava di incontrare un carretto trainato da asinelli e mia madre e i miei zii cercavano di salirci per evitare qualche Chilometro a piedi. Tornavano a casa sempre con qualcosa in più di quando erano partiti… Erano giornate allegre e spensierate per mia madre e i suoi fratelli ma faticose per la nonna Mariannicca. Questa estate mentre andavamo a Sant’Andrea, da mia zia Adriana, percorrendo la strada principale in macchina, mia madre mi ha fatto vedere la curva dalla quale scendevano per arrivare al fiume; si vedeva anche il letto dove un tempo scorreva l’acqua amica di mia madre e anche se non c’erano più le distese di menta o le donne intente a lavare i panni o gli alberi in fiori, anche se mia madre non era più piccola né riccia e né scalza, quel posto era e rimaneva comunque speciale per lei. — Ain Deheb Bensenouci
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IL NASTRO ROSSO Un ricordo, un sogno riaffiorato dal passato, ma tale da condizionare anche il presente Eravamo cresciuti dentro quell’edificio ormai carico di ricordi. Ero cresciuta e lui se n’era accorto. Era cresciuto, ma non sotto il mio sguardo. Lo guardavo scrivere qualcosa sul diario, forse le solite frasi con cui regalava parole forti come fossero pezzi di carta a chiunque gli stava intorno. Era tutto concentrato, ed era bellissimo. Curvo sul banco accanto alla finestra, il cui panorama non era abbastanza interessante da catturare il suo sguardo, un piccolo dio greco assorto in pensieri che neanche lui sapeva di avere. Il viso improntato di un’espressione che raramente avevo occasione di scorgere: disarmato, con la maschera momentaneamente messa da parte. Un sorriso illuminò il mio viso, e quel piccolo segnale bastò a farmi tornare all’interrogazione in corso, consapevole che avrei rimpianto quel momento per il resto della mia vita. Di nuovo mi distrassi, Zenone proprio non rapiva la mia mente, almeno non quanto poteva fare quell’idiota… Sì, perché ci riusciva ancora, ancora mi richiamava a sé come fosse il mio polo naturale di attrazione, ancora, come tre finestre prima, quando nella classe accanto avevo riposto le mie lacrime su quel banco che sapeva tutto di me, come colei che leggeva ciò che ci scrivevo. L’unica che sapeva, che viveva con me quel dolore che ancora non posso far a meno di provare di tanto in tanto. Lei che mi conosceva e che sarebbe rimasta sempre accanto a me, tra un problema di matematica e una versione di latino. Aveva imparato a conoscerlo e quando ne avevo bisogno, per quanto pensasse che fosse una cosa sciocca e inutile, lo odiava con me. Sempre in prima fila, in classe e fuori, sarebbe mai cambiato qualcosa? No, non credo. Davanti a me una cartina che conosceva ogni mio pensiero grazie alle espressioni che si dipingevano sul mio volto ad ogni sussurro poco sussurrato, una lavagna che custodiva i miei desideri scritti di corsa tra una lezione e l’altra, una cattedra che sentiva le mie paure ed una sedia che mi sorreggeva in ogni situazione… Una classe, una scuola, che non pensavo potessero contenere l’immensità del mio dolore senza esplodere con me. E invece… Ancora qualche finestra più in là, il ricordo di un bacio al tonno mi travolse… Cambio piano, scendo verso l’inizio, il principio di tutto: poche facce conosciute e poche quelle ricordate fino ad oggi. 17
E lui? Era tra le ultime citate… Ero più felice? Più serena, forse. Perché nonostante i tre e i quattro non facessero bene riuscivo a trovare altre soddisfazioni. Ma dopo aver provato la più grande delle soddisfazioni ci si può accontentare di altro? Tornai al presente, a quel banco accanto alla finestra, appoggiato ad un muro pieno di scritte stupide frutto di risate soffocate durante le lezioni. Tornai a lui, che si era appena nascosto nuovamente dietro una maschera che, oltre tutto, non era neanche tanto originale. Tornai ai suoi occhi, profondi come l’inferno che io, purtroppo, avevo visitato. Pensavo al rapporto speciale che c’era tra noi, perché c’era, ne ero sicura. Ne volevo essere sicura, perché era l’unica cosa che mi impediva di implodere con il mio dolore. La prof di Filosofia mi guardò, forse per il sorriso compiaciuto che evidentemente non era dovuto ad Aristotele. Era il momento di tornare al mio posto, in prima fila. Era il momento di tornare a casa, fuori, dove lui non esisteva più. Guardai il mio grande liceo, le mie finestre e i miei ricordi che sarebbero sempre rimasti là dentro, tra quattro muri scarabocchiati e un tetto che lasciava passare qualche goccia qua e là in quella struttura che sembrava un ospedale, ma al cui confronto le gioie, ve lo posso assicurare, erano di gran lunga maggiori dei dolori. E allontanandomi dal Liceo Benedetto Varchi, dai suoi cancelli, lasciai, assieme ai miei ricordi, soltanto lì custoditi senza amarezza, un segno del mio passaggio… un nastro rosso e niente altro….. — Ain Deheb Bensenouci
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IL CANTIERE DEI RICORDI Ci sono luoghi legati alla nostra memoria personale e collettiva che difficilmente possono essere dimenticati: staccarsene rimane sempre una sofferenza Venni a sapere che avevano buttato giù anche il caseggiato nella traversa di via Gramsci in un giorno d’estate, mentre passavo per quelle strade guidando l’Opel Corsa di scuola guida. Raffaele disse che gli era dispiaciuto che avessero già finito di abbatterlo perché si divertiva a vedere le ruspe e tutti quegli enormi macchinari fatti a posta per distruggere. Disse anche che, visto che per quell’edificio non aveva fatto in tempo, se ci riusciva, sarebbe andato a vedere come radevano al suolo il vecchio ospedale di San Giovanni. Quello di Montevarchi è un pezzo che ormai l’hanno buttato giù. Sono anni ormai che è stato costruito il plesso sanitario di Santa Maria alla Gruccia e l’edilizia ha accelerato alla grande nella vallata, sia la pubblica che la privata. Non si può dire infatti che il secondo mandato dell’attuale sindaco non sia all’insegna della ristrutturazione e della ricostruzione, è da quando hanno tolto i sampietrini da via Roma che non vedevo tanti cantieri. Tuttavia, il cambiamento nella mia cittadina che mi ha più colpito è stato quello che riguarda il vecchio ospedale. I vecchi edifici che ospitavano corsie, reparti e ambulatori verranno sostituiti da appartamenti e giardini, mentre i malati sono già da tempo stati dirottati alla Gruccia. Per quanto riguarda il cantiere del “Foro Varchi”, così è stato denominato il progetto nel sito dell’ex ospedale, i lavori procedono, anche se dietro ai due blocchi ristrutturati c’è la desolazione del fango e dei calcinacci. Fa un po’ strano pensare che del posto dove sono nati tanti montevarchini, compresa la sottoscritta, quella corsia a cui si accedeva da quella rampa di scale che quando ero piccola mi sembravano tanto ripide, non siano rimasti che detriti. Succede proprio quando passo in piazza Donatori di Sangue e sbircio dietro alla palazzina ben ristrutturata e rifinita che mi riaffiorano quei pochi ricordi legati a quel posto: il fatto che le scale erano ripide viene dal ricordo di quando andavo a trovare mia zia che aveva appena partorito mia cugina, avevo nove anni, ma mi ricordo ancora le tre macchioline di sangue sulla sedia-poltrona o quello che era nella stanza di mia zia. Quanti anni sono passati da quando è nato Lorenzo non me ne ricordo, ma l’immagine di lui piccolissimo dentro al carrello che sembrava un catino trasparente non la dimentico. Insomma, tutte queste figure legate alla nascita sono ora sepolte sotto un bello strato di macerie, pazienza. La forza propulsiva dell’edilizia non si ferma di fronte a simili fantasticherie, in particolare a Montevarchi e nel Valdarno dove case e condomini spuntano come funghi; d’altronde è il prezzo da pagare per far perdere ai nostri paesi la loro facciata di borghi campagnoli e mandarli al loro destino di città. — Irene Betti 19
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INTERVISTA IN FAMIGLIA
Abbiamo cercato di raccogliere testimonianze dirette della vita di qualche decennio fa. Siamo riusciti a parlare con Margherita, la nonna di Leonardo. Ci ha colpito soprattutto il fatto che fin da piccola ha sempre lavorato e ha sacrificato spesso tempo e divertimento. Prima ha lavorato presso il tabacchificio e poi ha iniziato a fare la sarta in casa, un’attività che le ha dato tante soddisfazioni ma che non aveva orari. Oggi vogliamo sentire un’altra voce, così abbiamo deciso di sottoporre alle nostre domande il nonno che abbiamo in comune: Aldo Tromboni. Cominciamo subito parlando della tua infanzia. Dove hai vissuto da bambino e da giovane? Ho sempre vissuto a Montevarchi. Da quando sono nato fino all’età di tre anni abitavo in Via Cennano; nel 1939 ci siamo trasferiti nella casa di mio nonno a Levanella assieme a mio padre Bruno, mia madre Emma, mia zia e mio nonno. Raccontaci di un episodio che ricordi con più emozione. Mi ricordo ancora dei bombardamenti americani del ’44. Suonava la sirena e uscivamo tutti di casa per scappare nei campi circostanti; dopo arrivavano gli aerei che gettavano bombe sul ponte del Tredicesimo per interrompere le comunicazioni ai tedeschi. Mi ricordo sempre i grappoli di bombe che venivano giù e gli aerei passavano sopra casa mia. Il bersaglio però non venne mai abbattuto tant’è che venne poi minato e distrutto dagli stessi tedeschi quando si ritirarono da Montevarchi. Potresti parlarci di un luogo del tuo paese a cui sei particolarmente legato? Il luogo che mi è più caro è la ex GIL. Questa sigla significa Gioventù Italiana del Littorio, ma per quelli della mia età è il luogo dove andavamo a giocare a pallone. Lì ho stretto amicizie che sono tuttora vive e salde. Ho passato in quel campetto i momenti più belli della mia giovinezza. E’ buffo pensare che oggi c’è una palestra dove accompagno mia nipote; quando entro in quel cancello mi ritornano in mente vecchi episodi.
C’è stato un avvenimento storico che hai vissuto direttamente? Sì, la liberazione da parte degli anglo-americani. Io e la mia famiglia eravamo sfollati a Rendola a casa di parenti; tutti i giorni i tedeschi cercavano uomini per scavare fosse dove collocare i cannoni; perciò tutti gli uomini si nascondevano nei boschi. Una sera i tedeschi iniziarono a scappare perché stavano arrivando gli inglesi. Ci rifugiammo nella cantina del parroco di Rendola, mentre fuori si sentivano spari ed esplosioni. La mattina dopo arrivarono finalmente i primi soldati inglesi. Per noi fu una gioia immensa: era la fine di un incubo che sembrava non terminare mai. Ma poi qual è stato il tuo lavoro, quali ricordi hai ? Il mio lavoro si è svolto soprattutto nell’autoscuola. Andavamo anche fuori Montevarchi: a Gaiole, a Pergine, a Badia Agnano. I corsi si svolgevano dopo cena fino a tarda ora e si creava un bel rapporto di amicizia con quegli allievi, che di solito erano adulti. Spesso si finiva a mangiare tutti assieme alla fine del corso perché prima tutti lavoravano e non avevano tempo di cenare prima. Mentre parliamo con il nonno, pensiamo che molte sono le differenze tra la nostra generazione e la sua e così gli chiediamo che cosa, secondo lui, deve essere ricordato della sua giovinezza. Credo che debba essere ricordato soprattutto lo spirito di sacrificio, la serietà e l’impegno nel lavoro quotidiano: grazie a questo abbiamo ricostruito un paese che usciva dalla guerra. Avevamo tanto entusiasmo e non ci fermavamo davanti alle difficoltà! Ma questo non è forse quello che ci ha detto anche nonna Margherita?! — Federico Cossentino e Leonardo Bruni
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I RICORDI IMPIGLIATI NEL RICAMO Attraverso i pensieri di una bambina di sessanta anni fa si possono rivivere le paure e le angosce di un giorno qualunque durante l’occupazione tedesca E’ maggio del 1944. La vita va avanti sempre allo stesso modo: un giorno sembra che gli Americani ci debbano liberare entro poco tempo, il giorno dopo sembra che la guerra non finisca più. Nonostante nel mio paese ci sia tanta gente strana, che parla una lingua altrettanto incomprensibile e che si diverte a farci giocare a nascondino anche quando c’è bisogno di lavorare, io sto abbastanza bene. Mi preoccupo un po’ nel vedere i miei genitori che stanno così male perché mio fratello Sisto non è potuto tornare dalla casa della zia, ma non è la fine del mondo! Anche se ammetto che manca un po’ anche a me! È sera e mi sto preparando per domattina, sperando che i tedeschi non ci facciano sorprese. Vado a letto, ma è inutile, non riesco a dormire, il rumore degli spari è troppo assordante e mi mette molta paura; vorrei chiamare la mamma e il babbo, ma non li voglio svegliare perché so che domattina dovranno andare a lavorare e devono riposarsi. Rimarrò qui ferma a pensare , stretta nel mio piccolo cantuccio di letto, condiviso con mia sorella Maurizia. Finalmente si sta facendo l’alba, ci alziamo tutti perché prima di andare a “scuola” dobbiamo andare a badare ai maiali. Oggi mi sembrano molto più spaventati del solito, sarà perché forse i tedeschi stanotte si sono divertiti con loro. Do un’occhiata al granturco: sembra proprio che sia pronto per la mietitura, si dovrà fare buio da ora in poi per riuscire ad avere un raccolto completo! Sono quasi le 7.30 e sto andando a scuola da sola perché oggi la mia migliore amica è malata e non può venire, ma incontro per la strada due ragazzi che hanno il mio stesso insegnante. Loro due, però, non hanno una bella reputazione: sembra che siano addirittura ricercati dai tedeschi. Ad un tratto si sente un botto enorme venire dalla casa del Rotondi ed io, presa dalla mia ingenuità, corro a vedere che cosa è successo perché tanto ancora è presto. Quando arriviamo nel posto mi vedo tre tedeschi davanti, armati di fucile e con una faccia bruttissima, mi guardano male e cominciano a correre verso di me. Allora anche io inizio a scendere giù per il colle, ma non vedo niente perché le lacrime mi coprono gli occhi. Non vedo dove sto andando, potrei anche trovarmi in mezzo ad un bosco, ma io non lo so. Sento un botto. Mi volto per vedere cosa sia successo, ma non vedo assolutamente niente a parte il fatto che i tedeschi si stanno stancando e cominciano a boccheggiare. Mi sto tranquillizzando un po’, le lacrime non scendono più, ma i piedi mi fanno male, tantissimo. Mi fermo, sento un altro sparo e vedo che un ramo dell’albero sopra di me mi sta cadendo addosso. Per fortuna va solo vicino ai miei piedi e mi rincuoro perché vedo che quella gentaccia va dietro agli altri due nella direzione opposta. Cerco di calmarmi un po’ e di fare mente locale. Sono in un frutteto a Sogna, riconosco la casa del dottore, avrò corso per qualche chilometro e dovrò farne altrettanti per tornare a casa. Ormai la strada 23
la so, l’avrò fatta migliaia di volte nella mia vita. Mi merita passare dalla strada di bosco, almeno i tedeschi non mi potranno vedere. Riesco a rialzarmi da terra e ricomincio a camminare, ma ho una paura tremenda. Ogni volta che muovo un passo mi sembra che loro siano dietro di me, so che mi stanno cercando, penso a quali scuse inventarmi, so che sicuramente mi prenderanno, ho sete, si sta facendo buio, i miei genitori saranno preoccupati… potrei non rivederli. Tanto lo so che Sisto me l’hanno preso loro! Sto continuando a camminare e sono ormai vicina a casa, ma devo attraversare la strada principale, quella dove di solito tutti i tedeschi si divertono a prelevare le persone. Per fortuna non c’è nessuno, ma presa da uno spavento improvviso, inizio a correre a più non posso e quando arrivo davanti a casa e vedo i miei genitori… ho solo voglia di abbracciarli. So che mio padre vorrà delle spiegazioni, ma l’importante è che siamo ancora tutti vivi. Riesco a raccontargli tutto quello che è successo e mia madre allora mi dice che per pareggiare questa grande paura stasera non dovrò andare a mietere e a badare agli animali, ma potrò restare tutta la sera a cucire con lei. Ricamare – per me - è la cosa più bella che esista a questo mondo. Quando ricamo di solito, sono con le mie amiche e parliamo di tutto quello che ci passa per la mente, anche di cose che non ci interessano o di cui non ci piace parlare, come la guerra. Lo facciamo solo perché così ci sentiamo più grandi e mature. Ma stasera sarà tutto ancora più bello perché potrò parlare un po’ con mia mamma, la donna che ammiro di più al mondo. Io, da grande, voglio diventare come lei. Poi il babbo arriva da me e mi porta una scodella di minestrone fatto dalla nonna. Lo mangio veloce così c’è più tempo per ricamare. Finalmente arriva questo momento bellissimo: io e mamma ci sediamo sulle scale che portano alla nostra casa e cominciamo a parlare del più e del meno. Ho deciso che farò una tovaglia rossa per il prossimo Natale, sperando che la guerra sia finita e che si possa festeggiare in pace. Ed ecco che arriva Frizzino a dare la brutta notizia: a quanto pare i tedeschi hanno deciso che stasera non si vogliono divertire con i maiali, ma con gli uomini e quindi bisogna scappare in fretta e furia e dirigersi verso il castello lì vicino. Io rimango sconvolta, mamma lo vede e mi dice di portare il mio cestino da ricamo. Così, quando saremo arrivate potremo continuare il nostro lavoro, se c’è un po’ di luce. Faccio come mi dice lei, vado a chiamare tutti gli altri e insieme ci dirigiamo là dove saremo più sicuri. Quel palazzotto è veramente orribile. Entriamo nelle cantine dove c’è un puzzo di vino e di muffa disgustoso; in più io e mamma siamo andate vicino all’uscio per vedere meglio alla luce della luna. Peccato che questo posto sia vicino alla latrina; passa sempre molta gente di qua e di là che mi deconcentra dal mio lavoro. È comunque una bella serata, nonostante tutti questi disagi, perché mamma mi sta spiegando tutti piccoli segreti del ricamo che lei conosce e che le aveva insegnato sua nonna. Continuo a ricamare fino a che la luna è alta nel cielo, poi però ricevo l’ordine di “andare a dormire” e sono costretta a posare tutto, interrompendo il mio prezioso lavoro. È ovvio che non riuscirò mai a dormire così come tutti gli altri. Gli spari provengono da vicino, sento che mi sta riprendendo la paura, ma almeno ora nessuno va più fuori a fare pipì. Ad un certo punto si sente il rumore di passi veloci che vengono verso la nostra direzione, noi chiudiamo l’uscio e ci mettiamo la mucca del pastore del paese per essere più sicuri che così i tedeschi non entreranno e che forse non capiranno che siamo lì dentro. Si sente, però, che non è un tedesco quello che sta bussando alla porta, ma 24
Pietro, un ragazzo del paese. In lontananza si sentono passi di gente armata. Vengo presa dall’impulso di levare la vacca dalla porta, ma mio padre me lo vieta perché se Pietro entra i Tedeschi capiranno che dentro quelle cantine ci sono veramente delle persone e troveranno sicuramente un modo per sfondare la porta. Vengo presa da un attacco di pianto estremo, singhiozzo rumorosamente, il babbo cerca di farmi stare zitta con una mano. Non ce la faccio a smettere di piangere, anche se so che i tedeschi sentiranno il rumore. Allora mi portano in fondo alla stanza, mi fanno passare attraverso un piccolo buco, che probabilmente prima era una fognatura, e arriviamo in un posto così stretto che c’entriamo solo io, papà e Maurizia (anche lei si era messa a piangere, eravamo le uniche bambine). È un vecchio forno che ora non viene più utilizzato. Vado a vedere dal buco della serratura del forno quello che sta succedendo lì fuori e ne rimango stupefatta. Pietro è famoso in paese perché ha una bicicletta ed è quella che i tedeschi vogliono. Lui non gliela vuole dare, così vedo che lo portano attraverso un bosco dall’altra parte del colle... Poi si sente solo uno sparo. Stasera, mentre ricamavo ho rivissuto quella giornata, la più brutta della mia vita. Ancora ho gli occhi buoni e so fare tante cose, ma stasera no: eseguo meccanicamente i punti, senza neanche vedere come viene il disegno.
— Alessandra Caccialupi
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NÙ SCURDAMMC’… LA PASSATA Ci sono tradizioni che affondano in un tempo così remoto da creare addirittura una memoria immaginaria, ma non per questo meno vera I primi giorni di Luglio si svolge a Levane, un paese di circa seimila abitanti in provincia di Arezzo, la tradizionale “2 giorni in rosso”. Quando la calura e l’afa sciolgono gli animi anche dell’elettricista scorbutico, nella piazza, divisa in due dalla strada provinciale 69, i quattro rioni: Acquaborra, Levane Alta, Santa Maria e Querce, si sfidano a colpi di ramaiolo per preparare la più grande quantità di pomarola, o meglio pummarò tale da durare l’intero inverno. Il termine napoletano deriva dai fondatori della celebrazione, una coppia di meridionali. Narra la leggenda che nel Luglio del 1945, dopo che le truppe nazi-fasciste furono allontanate dai partigiani, a Levane non era rimasto più cibo. Bormioli Ciro, abile fabbricatore di tappi, e Cirio Concettina, leader incontrastata nella bollitura di pomodori, arrivati in quel momento da Santa Maria Capua Vetere in cerca di fortuna, nell’attraversare l’Ambra a piedi, il torrente che bagna Levane, essendo il ponte stato fatto saltare in aria dai nazisti in fuga, avrebbero scorso nell’acqua una camionetta di materia prima. Ansiosi di dare la notizia ai sopravvissuti Levanesi, i due avrebbero corso fino alla piazza e visto il paese in macerie e la popolazione disperata, avrebbero preparato una grande festa a base di passata di pomodoro per sfamarsi a vicenda. La baldoria sarebbe durata tutta la notte e il giorno dopo. Alla fine, gli abitanti di Levane, stremati e inzuppati di pomodoro, tanto che anche i fascisti locali arrestati dai partigiani avevano la camicia rossa, sarebbero crollati a terra. Da oltre sessant’anni è ricordata la liberazione con questa festa. Si inizia la mattina del 3 luglio con un sorteggio per stabilire la collocazione dei rioni nella piazza. I pomodori sono forniti dalla COOP di Levane, rappresentante del potere temporale, mentre la benedizione è fatta da don Angelo, delegato del potere spirituale. In genere i Rioni che sono accanto nella stessa parte di piazza si alleano tra loro: “un mettetimi con la Marisa, perché io con una che sta lassù in punta alla Querce un mi ci raccapezzo”. Tende a precisare ogni anno la Carla, abitante storica del Santa Maria. Alle 12 in punto, all’ultimo rintocco della campana della chiesa,“ l’è banda ”! I bambini lavano il materiale, gli uomini preparano il fuoco e le donne cuociono il tutto; verso le 2 del pomeriggio c’è la spaghettata, si dice che dalla bontà di questa dipenda l’esito finale della gara. Intorno alle 4 si bollono i barattoli in modo da render tutto sottovuoto e per sterilizzare il prodotto, come dice il barista dell’ARCI, o per non far entrare il male all’interno del corpo sacro, come dice il barista dell’ACLI. Passata la notte in piazza per continuare il lavoro, ma in realtà tutti si portano il sacco a pelo e organizzano dei turni per dormire, la mattina dopo riparte la sfida. L’edizione del 2003 non si è potuta svolgere per siccità e in segno di cordoglio è stato proclamato un giorno di lutto, con tanto di bandiera a mezz’asta nella caserma dei carabinieri. Dagli ultimi anni si aggira 26
per Levane un gruppo di meridionali senza dimora dichiarata. Essi, anche grazie al Comune che chiude un occhio, non potendo essere collocati in un rione di riferimento, si mettono a disposizione di chi offre più denaro, perché, insomma chi si aggiudica le famiglie Esposito e Capuana ha la vittoria in tasca. L’anno scorso si è verificato un fatto che avrebbe potuto intaccare il vero spirito della manifestazione. Il rione della Querce ha spacciato un uomo per Vesuviano DOC, niente di strano se non per la sua impeccabile pronuncia della “C” e dell’assenza della “R”, quando ha chiesto una “Coca Cola flesca”. Tsu Ming è riuscito a rimanere sveglio tutta la notte per tappare oltre 1200 barattoli ininterrottamente. Smascherato l’inganno, è stato costretto a ristappare tutti barattoli e a ritapparli: questa perdita di tempo è costata cara alla Querce che ha perso la gara, vinta dal lato Nord della piazza, occupato dall’Acquaborra e dal Santa Maria. — Iacopo Cigolini
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PAURE DIVERSE Ogni generazione ha avuto le sue paure e i suoi timori, ma il ricordo della guerra riesce ad avvicinare generazioni spesso lontane C’era molto rumore in classe quel lunedì mattina. I bambini della VaA parlottavano, separati in più gruppetti, di quello che avevano fatto il giorno precedente: alcuni erano andati allo stadio a vedere la squadra del cuore, altri erano usciti a prendere un gelato con gli amici, altri ancora avevano preferito studiare per non esser colti impreparati nella possibile interrogazione del lunedì. Quando ancora i più insicuri non avevano finito di ripassare gli avvenimenti salienti del periodo Nazifascista e della Seconda Guerra Mondiale la campanella suonò. La maestra entrò in classe, di corsa gli alunni la salutarono e si sistemarono ai loro posti. Ognuno dei bambini aveva paura che quel giorno toccasse a lui, in molti pensavano a come poterla scampare. Concluso l’appello nel più totale silenzio, la maestra aprì il suo registro e cercò un possibile interrogato quando: “Maestra – intervenne Mario – ieri ho provato a studiare per tutto il giorno, ma non sono riuscito a superare neanche un’ora concentrato sul libro; non ho capito niente di quello che leggevo, forse perché non riesco a immedesimarmi bene in quello che è successo. Non potrebbe raccontarci lei di qualche episodio di questo periodo della storia, dato che l’ha vissuto in prima persona? Forse potrebbe aiutarmi a capire …” . “Mario ha ragione – rispose la maestra – in effetti il vostro libro non è molto chiaro e comunque penso che potrebbe aiutarvi molto a capire la crudeltà della guerra se vi raccontassi la mia esperienza personale”. Ogni compagno di Mario ringraziò la trovata del bambino , riproponendosi di sdebitarsi con lui prima possibile per aver sventato il rischio dell’interrogazione. La maestra si sedette e, dopo un lungo sospiro, cominciò a raccontare. “Era il lontano 1944 e io avevo circa 10 anni. Di mattina presto arrivarono nella piazza davanti a casa mia tanti Tedeschi che cercavano i Partigiani. Non avendoli trovati riunirono in un vecchio garage circa 80 uomini che, sorpresi ma felici, credevano di andarsene a lavorare in Germania. Le donne e i bambini furono invitate a lasciare il paesino, perciò mi trasferii con mia madre ed altre famiglie del vicinato nel cimitero comunale, in attesa che ci raggiungesse mio padre che si trovava al lavoro nelle miniere di lignite.” “Che cos’è la lignite?” chiese Francesco incuriosito. “La lignite è un particolare tipo di combustibile fossile…o almeno credo... per sicurezza chiedi alla maestra di scienze, lei ti saprà dire meglio. Ero rimasta al punto in cui ci trasferiamo nel cimitero comunale. Con noi c’erano anche delle suore, che ci divertivano e ci riparavano con le loro tonache per non farci sentire le mitragliatrici che sparavano. Ogni volta che sentivo quei terribili rumori correvo a ripararmi dalle suore, che cercavano di tranquillizzarmi. Avevo sempre molta paura. Solo più tardi venimmo a sapere 28
che quegli ottanta uomini erano stati tutti barbaramente fucilati dai Tedeschi e poi bruciati.” Subito, sentita la sorte destinata agli uomini, nella classe si alzarono degli urli di paura e sgomento. La maestra cercò di tranquillizzare i suoi ragazzi con parole rassicuranti, ma era evidente quanto lei stessa fosse turbata al solo ricordare quel tragico episodio; non aveva detto ai ragazzi che tra gli uomini fucilati e bruciati c’era anche un giovane seminarista, un sedicenne che poteva essere il loro fratello maggiore: non lo avrebbe fatto. “Ancora oggi, a distanza decenni, il solo ricordare questo fatto mi fa rabbrividire, ragazzi. Dovete ritenervi fortunati perché vivete in un’Italia pacifica e non segnata dai conflitti, come quella in cui vivevo quando ero giovane io.” “Che cosa terribile!” esclamò Lisa, forse la più impressionata dal racconto. “Si, Lisa, e ancora cerco di pensarci il meno possibile. Spero che la mia storia sia servita a farvi comprendere la gravità della guerra, l’odio e il dolore che essa ha generato; ora basta però, manca ancora mezz’ora al suono della campanella e oggi volevo interrogare...”; sguardi fugaci attraversarono la classe in lungo e in largo… “Mario! – il ragazzo sobbalzò – vieni Mario, dopo tutto quello che ti ho detto saprai sicuramente fare un’ottima interrogazione.” “Oh no!” sbuffò il ragazzo. La classe scoppiò in una fragorosa risata generale. — Marco Del Riccio
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I GIOVANI DI UNA VOLTA
Il contrasto tra i giovani di oggi e le antiche generazioni si fa sempre più evidente. Negli ultimi anni spesso si sentono in giro espressioni del tipo “i ragazzi di una volta…”, “se io un tempo avessi fatto come loro…”. Proprio per questo motivo, per riuscire a capire meglio cos’è che distingue i giovani di una volta da quelli di oggi, abbiamo voluto raccogliere la testimonianza di persone che hanno vissuto da ragazzi nei tempi della guerra. Guardiamo la realtà ed il presente anche dal loro punto di vista. Oggi risponde alle nostre domande Ottavina Stonizzati , per gli amici “Vera”. Che ricordi ha della sua infanzia? Dove l’ha trascorsa? Sono nata il 9 Maggio 1921, l’ottava di otto sorelle. Ho sempre abitato a Vacchereccia, fino all’età di venticinque anni, età nella quale mi sono sposata e mi sono trasferita al Ponte alle Forche. Dopo la scuola, trascorrevo le giornate lavorando nelle aie dei contadini, li aiutavo a pulire il grano, venivo pagata una lira e mezzo al giorno, ma lo facevo più che altro perché mi divertivo, anche se servivano i soldi a casa mia. Ha un episodio avvenuto nella giovinezza che ricorda spesso? Non faccio riferimento ad un particolare episodio, ma ricordo un periodo, quello dove ero una scolaretta. Non mi piaceva andare a scuola e tutte le mattine mia mamma mi accompagnava e io piangevo. Non mi piaceva per niente la scuola, l’ho frequentata fino alla terza elementare. C’è un luogo al quale è particolarmente legata? Mi piaceva andare a lavorare con i contadini nelle loro aie. Ricordo la mia “preferita”, quella che frequentavo più spesso, di un signore chiamato Mini. Andavo lì per battere e mietere il grano, insieme ad una capretta che mi faceva compagnia. L’aia esiste ancora. Non ci torno da molto tempo; ogni tanto quando vado a passeggiare lì
vicino mi capita di vederla e ogni tanto ripenso a quando ero piccola. La domenica noi bambini andavamo in queste aie a giocare, ho un ricordo piacevole di quei momenti di divertimento. C’è stato un particolare avvenimento storico che ha cambiato la sua vita in negativo o in positivo? Il ricordo più vivo ancora oggi rimane la guerra: la Seconda guerra mondiale. Nonostante i tedeschi avessero occupato tutto il Valdarno, c’era comunque una situazione di convivenza: non venivano fatti grossi soprusi, i soldati si limitavano a presidiare la zona, facevano piccoli saccheggi e i nostri uomini si erano dati alla “macchia”. Io però insieme ad altre persone dovetti abbandonare la casa dove abitavamo, andai ad abitare in un rifugio, anche se rimanevo libera di entrare in casa tutte le volte che volevo. Una volta successe che dei partigiani, nella zona di Cavriglia, assediarono ed uccisero un camion con alcuni tedeschi. Questo scatenò l’ira dei tedeschi che radunarono uomini (giovani e anziani) a Meleto; dettero fuoco sia a loro che alle case, mentre le donne erano nel cimitero di Castelnuovo. Ricordo questo episodio come l’aspetto più atroce della guerra che ho vissuto io. Fino ad allora non si era manifestata in modo così evidente. Quale era il lavoro e le attività che svolgeva quotidianamente? Ricordo che quando ero bambina andavamo ad una fonte lontano da casa ad attingere acqua con dei secchi (“mezzane”) ed una volta tornate dovevamo aiutare a cucinare o a fare tutto ciò di cui la casa aveva bisogno. Il bucato veniva fatto una volta al mese, il pane una volta ogni quattro giorni. Se avanzava del tempo aiutavo il mio babbo nell’orto; zappavo, pulivo e mietevo il grano e lo portavo dal mugnaio. Di solito, durante la settimana si mangiavano legumi o verdure dell’orto, la carne come il pollo o il coniglio 31
veniva cucinata solo di domenica. Quando scendeva la sera,andavamo a “veglia”, cioè a casa di amici e conoscenti per stare riuniti tutti insieme a chiacchierare. Mi piaceva la veglia. Dopo aver frequentato fino alla terza elementare non ripetendo, per me era già un buon traguardo perché sapevo leggere discretamente e avevo imparato bene la storia. Per continuare gli studi sarei dovuta andare in un paese vicino e non era il caso, generalmente a quei tempi continuavano soprattutto i maschi. Negli anni successivi alla scuola mi ero data da fare ad aiutare la famiglia come potevo; mietevo l’erba, tenevo in ordine la casa, giravo per le aie dei contadini che mi davano dei piccoli incarichi che venivano retribuiti con poche lire, come la sgranatura delle pannocchie, oppure mi offrivano ricompense alimentari. Pressappoco le mie giornate erano scandite da ritmi uguali, con dei lavori che variavano a seconda della stagione. Poi i miei, con la mia approvazione, mi proposero di andare a servizio presso una famiglia benestante, mi ricordo che era il mese di settembre e le giornate iniziavano ad accorciarsi pian piano. Vuole raccontarci che cosa significava “andare a servizio” ? Certo, per me è stata un’esperienza importante, ma dura. Prima di me altre sorelle avevano già fatto la scelta di andare a lavorare, la scelta era dettata soprattutto dalla necessità di tirare avanti, perché in campagna con un babbo minatore, le entrate erano veramente scarse; tre mie sorelle Silvia, Maria e Palmira erano già infermiere nella clinica di S. Salvi, la terza in ordine di nascita, Dina, era a servizio presso una famiglia benestante. Ero emozionata, ma una parte di me aveva paura di affrontare una nuova realtà; in fin dei conti avevo solo tredici anni. Gli amici e le amiche di famiglia che avevano vissuto l’esperienza che mi attendeva, la ricordavano come qualcosa di faticoso e duro, e questo pensiero non mi rincuorava. Dalle testimonianze che mi erano arrivate mi ero fatta una mia idea di come potesse essere Firenze, la grande città. La mattina di buon ora mi alzai, feci colazione con i membri rimasti della mia famiglia, e dopo averli salutati uno per uno (ricordo ancora il lungo e straziante 32
abbraccio di mia madre, seguito da quelle raccomandazioni che ormai era da un intero mese che mi ripeteva) Partii per la stazione dove erano venuti direttamente a prendermi i signori che mi avrebbero ospitato, giunti fino a lì per l’occasione del Perdono a Montevarchi. Sul treno ci ero già salita, perché mio padre anche se eravamo di campagna, mi portava in treno a trovare mia sorella Giulia, che si era sposata a Montevarchi, ma quella mattina mi sembrava un’esperienza nuova anche salire in treno: ero così confusa che tutto mi creava emozione. Durante il viaggio non parlai molto, ero un misto tra innervosita e imbarazzata e mi limitavo a rispondere alle domande che la signora mi poneva sorridendo forzatamente e sperando che di lì a poco il babbo e la mamma mi sarebbero venuti a fare visita, come avevano promesso. La signora era slanciata, magra e ben pettinata, sembrava gentile all’apparenza, mentre il marito stava più in disparte ed era meno estroverso della moglie, impegnato nel leggere il giornale e nel controllare di tanto in tanto il suo orologio tascabile, i due figli di poco più grandi di me, distaccati da subito. Dopo un’ora circa arrivammo alla stazione, dal finestrino vidi il cartello: “Firenze”. Iniziai ad essere un po’ agitata, lo ammetto, la voglia di tornare indietro era tanta, ma ormai non potevo più.. Appena scesi, ci incamminammo. Arrivammo in piazza della Signoria. Rimasi a bocca aperta. Non avevo mai visto così tanti negozi tutti insieme, così tante persone ognuna indaffarata, così tanti tram carichi di gente. Dopo un po’ di tempo che camminavamo, arrivammo davanti ad una casa, posta in una via non molto lontana dal centro. La signora mi mostrò tutta la casa; la cucina, il bagno, lo studio del signore e il mio alloggio. Quello che sarebbe stato il mio rifugio per un po’ era una cameretta piccola ma accogliente, accomodai il mio misero bagaglio in camera ed andai ad aiutare per la cena. La sera, mi coricai presto a letto, con il permesso della padrona, poiché ero stanca del viaggio e sapevo che il mattino successivo sarebbe stato duro. In quella casa le cose da fare erano davvero tante: lavavo, aiutavo per quanto potevo in cucina, tenevo in ordine, andavo a fare la spesa, e facevo da dama di compagnia alla signora. A
mia disposizione c’era un ragazzo, in servizio alla famiglia perché il padrone era invalido civile, che mi accompagnava a fare la spesa e portava le borse pesanti. In tutto il giorno non avevo un attimo di respiro, ma anche stanca, pensavo alla mia famiglia, a quando l’avrei potuta riabbracciare e il tempo sembrava scorrere più velocemente. I primi tempi furono i più duri in assoluto perché tutto era nuovo, il lavoro pesante e la città sconosciuta, nella prima settimana specialmente provai nuove esperienze, come andare in centro per i negozi a svolgere le commissioni della padrona, o al mercato, per comprare cibo da cucinare. La prima domenica fu una delle più belle; era il mio giorno libero della settimana e mi ritrovai con le mie sorelle, sia quelle che lavoravano a S. Salvi sia l’altra che era in servizio presso una famiglia di signori. Passammo tutto il pomeriggio insieme, a passeggiare per quell’enorme città, e a mangiare il gelato. Era una gioia per me essere stata con loro, perché in qualche modo, sentivo meno la lontananza da casa. Le domeniche successive mi incontravo spesso con mia sorella Dina, mentre le altre che facevano le infermiere presso la clinica avevano degli orari da rispettare ed erano per contratto molto meno libere. Ricordo con piacere che Dina mi faceva da mamma, mi dava molti consigli, mi indicava i posti dove poter fare acquisti a miglior prezzo e maggior qualità, era in quel periodo la mia guida e il mio punto di riferimento e anche se la settimana era dura il pensiero di uscire con lei la domenica mi faceva andare avanti. Per molto tempo arrivare alla domenica e ritrovare un viso familiare era l’obiettivo principale da seguire, ciò che mi dava la forza. Di quel periodo, ricordo che una domenica mentre eravamo a passeggio un giovanotto mi diede un volantino con lo sconto per la parrucchiera, con la permanente a buon prezzo. Io, che un negozio di parrucchiera l’avevo solo visto in paese ma non c’ero mai entrata, rimasi incuriosita, ma mia sorella mi spinse ad andare perché avere un aspetto dignitoso era importante anche per il lavoro che facevo. Seguì il suo consiglio e quella fu la prima volta che mi feci la permanente. Di quella casa e di tutti i lavori che facevo, quello che preferivo era stare in cucina, anche
perché la dispensa era fornita di tante cose ed io, che per fortuna non avevo mai patito la fame perché vivevo in campagna, ne rimanevo incantata. C’era un grosso orcio d’olio che la padrona mi raccomandava di usare con parsimonia ma io lo sapevo perché mia mamma faceva così da sempre, in casa mia non si sprecava mai niente; c’era anche un orcio più piccolo pieno di miele e io di nascosto, ogni tanto cedevo alla tentazione e lo mettevo sopra un corteccio di pane. Ricordo che quando mio babbo venne a trovarmi per la prima volta dopo mesi, mi trovò diversa sia per i capelli sia perché ero ingrassata e portò a casa buone notizie: il messaggio fu che io stavo bene e tutti si rallegrarono, anche la mamma, ma io tanto bene non stavo o almeno non ero tranquilla anche se il mio aspetto diceva il contrario. La cosa che mi infastidiva maggiormente era dover essere svegliata la notte, perché la signora aveva difficoltà a dormire e voleva la camomilla. Io con tutto il carico di lavoro del giorno dovevo alzarmi nelle fredde notti d’inverno, con la candela andare in cucina e preparare la camomilla che spesso non veniva neanche bevuta tutta… questo trattamento mi infastidiva perché era come non pensare alla fatica che facevo… lo so io ero lì per lavorare ma certe volte mi sentivo sfruttata. I mesi passarono all’incirca tutti uguali; ma l’impressione che mi aveva fatto la calorosa e gentile accoglienza fu smentita dal trattamento scostante e superficiale che mi rivolgevano per non parlare della fatica che facevo in quella casa. Dall’autunno si passò al freddo dell’inverno, per poi tornare ai primi soli di primavera e io cominciai a meditare di tornare a casa. Siccome con il primo mese d’estate la famiglia si sarebbe trasferita in campagna io avrei avuto un periodo di vacanza, così decisi che non avrei fatto più ritorno. Non ne feci parola con nessuno, semplicemente salutai tutti, poi tornata a casa comunicai la decisione ai miei familiari, avevo voglia di lavorare, avrei sempre contribuito all’economia della famiglia ma a servizio non sarei più tornata. Per il trattamento che mi avevano riservato non meritavano di essere avvertiti da me, tanto loro avrebbero trovato un’altra. Quando tornai dalle mie parti, nella mia casa, con i miei familiari, e rividi tutti i posti che per un anno mi erano tanto mancati ero di 33
nuovo felice. Devo dire però che nonostante tutto quell’esperienza mi fece bene, mi aiutò a diventare più forte, a crescere, ad essere più sicura di me stessa poiché mi trovavo a vivere da sola lontano dalla famiglia e tutte le volte che incontravo delle difficoltà dovevo fare affidamento solo sulle mie forze. A sedici anni iniziai ad andare a lavorare in fabbrica e mi piaceva il mio lavoro. Lavoravo le pelli che sarebbero servite per fabbricare cappelli. All’interno della fabbrica c’erano vari ruoli: ad esempio le “spuntatrici”, ma erano le più esperte che ricoprivano questo ruolo. Io ero addetta al taglio. Ricordo che ero in un tavolo, insieme ad altre due compagne ed una volta pronte le pelli si spedivano al cappellificio. In quel periodo le donne lavoravano sia per dare un contributo alla famiglia sia per mettere da parte i soldi e farsi il corredo, questo era l’obiettivo principale di una ragazza della mia età. Io in quegli anni avevo trovato anche il fidanzato e lavoravo con questo scopo. Il mio fidanzato era un ragazzo di Vacchereccia, di qualche anno più grande di me, proprio come usava allora. All’inizio tenevamo il nostro fidanzamento nascosto, anche perché lui era nell’arma dei carabinieri e passava molto tempo fuori di casa, tornava in licenza e ci vedevamo. Allora ci racconti qualcosa di questo fidanzato… Quando scoppiò la guerra eravamo divisi, lui era in Sicilia nei pressi di Trapani e lì avrei dovuto raggiungerlo dopo il matrimonio, perché era un bel posto e lui aveva un buon lavoro. Agli inizi della guerra lui e la sua squadra furono presi prigionieri dagli inglesi e portati in Algeria. Io continuavo a lavorare, qui c’era l’occupazione tedesca e parte della giornata si trascorreva nei rifugi a causa dei bombardamenti. Quando fu preso prigioniero per più di un anno non si seppe più niente, molti lo davano per morto solo io e la sua mamma nutrivamo in cuor nostro la speranza che sarebbe tornato. Era un periodo bruttissimo, l’occupazione tedesca, la guerra, la morte e la fame e i nostri progetti si erano sgretolati come molte altre cose del nostro paese. Una mattina arrivò il postino con un biglietto, un biglietto non una lettera, con sopra scritto l’indirizzo e queste parole: “Sono libero, torno a casa!”. Ancora oggi mi chiedo come sia potuto arrivare a me! 34
Quando tornò a casa ci sposammo poco dopo , era il gennaio 1946, la guerra era finita, la fame continuava e il nostro paese era da ricostruire ma poi pian piano le cose si rimisero a posto. Siamo giunti alla conclusione di questa intervista: cosa pensa debba essere ricordato della sua generazione e quali sono le differenze con quelle di oggi? Le differenze sono tante, troppe, e penso che ci sia stato un cambiamento in negativo. Sicuramente sono aumentati i vantaggi e tutti possono studiare, mentre ai miei tempi la possibilità era molto ristretta; le femmine frequentavano la scuola fino alla terza elementare, i maschi potevano proseguire fino alla quinta. C’era molta distinzione tra maschi e femmine. Tutti però eravamo abituati alla vita più pratica, ad aiutare, ad avere più senso del rispetto, ma la nostra è stata “un’infanzia rubata” perché fin da giovanissimi venivamo addestrati al lavoro e alla fatica. Non esistevano tutte le comodità come ci sono oggi. Una nota positiva, però, se vogliamo così chiamarla, era lo stretto contatto con la natura, e soprattutto la dipendenza che avevamo da essa, poiché per nutrirci dovevamo seguire il ciclo naturale, ma se l’annata non era propizia soffrivamo la miseria. Eravamo per la maggior parte della giornata a contatto con i campi. Mancavano i momenti di ritrovo e spensieratezza, ma quei pochi che ci concedevamo erano molto graditi e gioiosi (i balli sull’aia, la battitura, la veglia della sera, le cene dei contadini, il carnevale). Penso debba essere ricordata della nostra generazione la civiltà contadina, fatta di piccole cose, di lavoro e fatica, e la guerra, affinché non si ripeta, e la gioia provata dopo che essa finì. La vita di nonna Vera continua, ma anche dopo la morte del marito non è mai da sola. Quando noi nipoti andiamo a casa sua ci invita a stare con lei, a farle compagnia, e qualche volta, all’improvviso, se ci avviciniamo a lei ci prende la faccia e ci dà un bacio. — Giulia Failli
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PER NON DIMENTICARE Il racconto è stato scritto dopo una emozionante intervista con Don Angelo, Parroco di Levane E’ un pomeriggio un po’ nuvoloso di primavera; da una finestrella che si affaccia su piazza Del Secco, si scorge un gruppetto di ragazzi in una stanzetta della canonica che ascoltano con molto interesse un uomo di circa 70 anni che sta gesticolando animatamente, ma non sembra arrabbiato, bensì immerso in un racconto. Don Angelo con i suoi ragazzi, classe 1992, sta riportando alle mente ricordi ormai da un bel po’ ricoperti di polvere. Cammina sulla linea di quel tempo che lo separa dal 1945, denso di dolore e di paura. Il divario viene colmato dalla volontà di far conoscere a tutti quei suoi “nipoti” l’orrore, in modo da allontanarlo nel momento in cui glielo avvicina. Il desiderio di far comprendere il dolore che è stato sofferto ha il sopravvento, la guerra è il male più grande e più terribile: solo se viene smascherata perde ogni attrattiva. “Stavamo ritornando a casa nostra dopo aver passato segregati in una caverna all’incirca un mese con pochissimo cibo, quasi senz’ acqua, ma ancora con qualche speranza…” I campi, come lenzuola colore dell’oro al volare del vento, colmi di spighe mature, sono delicatamente attraversati da una leggera brezza. Un piccolo uccellino sta zampettando al limite della strada e sembra far compagnia ad bambino minuto di sette anni, che sta ammirando a bocca aperta il paradiso. Nella sua mente si allontanano i lunghi e bui giorni in cui lo stomaco non smetteva mai di martellare e la realizzazione di un sogno consisteva, semplicemente, nell’aver fra le mani un filone di pane appena sfornato con quel suo profumino che quasi sazia l’olfatto e sicuramente accresce l’acquolina in bocca. La fame è lontana, pensa. Il nonno lo precede con quella sua aria burbera, i candidi baffi, le mani congiunte dietro la schiena e l’andatura dondolante; un po’ speranzoso, ma certamente preoccupato. Sa già che la casa di suo padre non esiste più o è solamente un ammasso di macerie: i bengala hanno sferzato per giorni e giorni il quel suo cielo azzurro che quasi aveva dimenticato così bello, sono state lanciate bombe su bombe. La madre tiene su la manina del figlio che oramai non tiene più la presa, ma si fa sorreggere. E’ straziata, ma nella gioia del figlio trova conforto e speranza in un futuro migliore del passato. Spera. La guerra l’ha segnata col suo marchio di fuoco chiamato paura che, momentaneamente, la rende incapace di reagire. Riuscirà a liberarsene grazie alla sua di vivere, grazie al suo carattere, grazie a suo figlio. Dietro due uomini, babbo e zio. Sono tutti presi in un’accesa discussione che 36
disturba il quieto silenzio che imperversa su tutto. I due uomini hanno vestiti laceri, lunga barba, occhi arrossati… In lontananza ancora non si scorge che una collina. Il bambinetto, Angelo, ha iniziato a saltellare e a fischiettare: sta affrettando il passo. Raggiunge il nonno, lo sorpassa, svolta una curva ed eccola la dolce casa. Dà il via ad una corsa sfrenata. Arriva. Il fiatone fa muovere velocemente quell’esile petto, il cuore è in gola. Metà tetto crollato e le mura con le crepe, ma è pur sempre casa sua! La madre, ancora in lontananza, ha il viso rigato dalle lacrime, il nonno ha il volto meno corrugato, babbo e zio sono muti. Si avvicinano. Silenzio e riflessione. Preghiera di ringraziamento. Dopo circa un quarto d’ora zio, nonno, mamma e babbo sono già al lavoro per rendere più accogliente quella, oramai, ex caserma della milizia tedesca. Angelo, mentre attende, può girovagare nei dintorni della casa e nel cortile. Non sa cosa fare e decide di andare ad “ispezionare” il fienile; vi trova all’interno numerosi arnesi da lavoro come martelli, seghe, chiodi … E in un angolo oscuro la motocicletta. Simili a quella ne aveva viste molte ai fascisti e ai nazisti ma non vi si era mai avvicinato tanto! Inizia a toccarla, a salirvi, a correre con la fantasia … Passa ore con lei; per la stanchezza gli occhi cominciano a pesare e della paglia ammucchiata ad un muro attrae la sua attenzione. Vi si distende. Al tramonto la mamma lo sveglia delicatamente. Le braccia familiari lo sollevano, lo stringono al petto e lo conducono in cucina. Sul tavolo vi sono quattro piatti patate lesse e farro : questa è la cena. Angelo a quella vista non può trattenere le lacrime. C’è da festeggiare il ritorno a casa e gli preparano da mangiare il farro?! Dove sono il pane, la carne, la verdura, il dolce? Il babbo si adira a quella reazione e si alza di scatto per dare al figlio uno schiaffo, ma la moglie lo ferma. Anch’egli è stremato e, dopo qualche momento di riflessione con il capo chino sul piatto, Piero capisce che non c’è nessun motivo di reagire in quel modo contro suo figlio; non è solamente lui che ha sofferto il freddo, che ha patito la fame, che ha dormito in una caverna ma anche quella povera creatura! E vuol ripagarlo del suo affetto e dei suoi immani sforzi con questo? Al contrario, è lui che non è riuscito a dargli una vita serena lontana sia dal dolore che dalla sofferenza! Umilmente rivolge gli occhi al figlio con i quali cerca di chiedere perdono. Angelo è troppo stanco per comprendere e persevera nel suo pianto, nonostante sia confortato dalla madre. Pochi minuti dopo dorme soavemente sul suo seno. La mattina successiva, al risveglio, si trova sul suo letto nella sua cameretta. Le tende alle finestre sono lacere, la carta da parati è strappata di qua e di là, i vari quadri alle pareti non vi sono più e tutti i suoi giocattoli sono scomparsi, nonostante ciò, però, quella stanza ha comunque qualcosa di familiare, ma cosa? La sua copertina azzurra! Tante notti, forse troppe, aveva pianto per la sua mancanza e col passare del tempo si era arreso a quella perdita, ma nel ritrovarla tutto il dolore sofferto viene cancellato da quella sensazione di normalità, che può essere concessa solo da una cosa a cui siamo particolarmente affezionati. Solo quella sensazione alimenta la forza che tu metti a disposizione per realizzare tutti i sogni. Così Angelo nel poter, di nuovo, abbracciare la sua cara e vecchia copertina azzurra trova la volontà di crescere per aiutare il nonno, lo zio, il babbo e la 37
mamma e per inseguire anche i suoi sogni. Le giornate passano con allegria e spensieratezza tra pulizie e perlustrazioni nei dintorni per far rifiorire casa Sabatini. Il nonno ammira il suo campo di grano. E’ colmo di spighe dorate, che non aspettano altro che di essere raccolte e di mietere vittime: sono stati minati durante la ritirata. Angelo e la sua famiglia continuano a mangiare legumi e quel poco che trovavano. Il nonno non può più sopportare di vedere la sua famiglia ridotta alla fame con la grazia del Signore di fronte agli occhi manifestata in quel florido campo di grano. Cosa aveva fatto lui, povero cristiano, per meritare questa punizione da parte di Dio? Non riesce a non pensare a tutto il duro lavoro che aveva dovuto compiere per lavorare quella terra amica e nemica insieme: non vuole cedere alla prepotenza del destino, non si arrende. Una mattina Angelo viene svegliato da una detonazione; pezzi di intonaco cadono dal soffitto e una gran nuvola di polvere entra nella stanza. La prima cosa che pensa è che la guerra sia di nuovo ricominciata con i suoi bombardamenti e la sua tristezza. Si fa coraggio e si affaccia alla finestra con la maglietta premuta sul naso. Attraverso la nuvola di polvere intravede una figura umana sanguinante senza più gambe: è il nonno! Una corsa all’impazzata per le scale e uno spettacolo rivoltante. L’amore per il nonno convertito in lacrime ed urli; una lievissima speranza nel comprendere che è ancora vivo. Cosa fare? Andare all’ospedale, ma dove? Perché il babbo e la mamma sono paralizzati e non fanno nulla? “Compresi che i miei genitori erano bloccati dalla disperazione; sapevano che non vi era nessuna probabilità di poter portare mio nonno ad un ospedale, dato che tutti i ponti erano stati abbattuti e il viaggio avrebbe solamente accelerato la morte del nonno. In quel dramma compresero che era meglio farlo morire a casa sua tra il suo campo, il suo fienile e la sua vita.” La campana batte le nove. E’ giunto il momento di lasciar andare i suoi ragazzi. Un’enorme felicità colma il suo cuore; sono rimasti attenti, hanno sofferto e avuto compassione, hanno rispettato il ricordo, hanno aperto il cuore all’ascolto: sono cresciuti. Ci vediamo mercoledì ragazzi. — Martina Giusti
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TRA LE MACERIE DI PRAGA Un viaggio è l’occasione di entrare nella memoria di un popolo e di una città .E ci sono luoghi che ci rimangono dentro perché ci hanno fatto vivere esperienze uniche ed irripetibili Praga era una favola, mistica, proprio come l’avevo sognata; quel miscuglio tra antico e moderno, tra l’architettura gotica e quella del regime, città rumorosa e silente al medesimo tempo, realtà e leggenda in un unico contesto… solo negozi e bancarelle per turisti da strapazzo disturbavano la magia di quel luogo da sogno che avevo fino ad allora ammirato solo su carta fotografica sospirando “ahh… prima o poi verrò…” in cinque miseri ed insulsi giorni ho assaporato la mia Praga… niente rispetto ai secoli di storia che le gravano sulle spalle!! Ogni suo angolo parla del tempo che fu, soffermandosi anche sui dettagli più irrilevanti; ogni angolo esprime la sofferenza di un paese oppresso dal regime e dalle sue regole spietate, che sogna ad occhi aperti una libertà che a suo tempo era dolce e lontana. I palazzi, quelli gotici specialmente, anneriti dal tempo e dal carbone, parevano vecchi burberi, superbi e altezzosi, intenti ad ammonire ogni passante che osava, o per abitudine o per negligenza, negare loro uno sguardo esterrefatto per la bellezza e rispettoso per l’anziana età: tutto sembrava vivere intorno a me, ogni granello di polvere,ogni mattone raccontavano le loro avventure al mondo, che spesso restava indifferente annegando nella superficialità del turismo. Ma io, io non ero là come turista, non volevo essere un turista, stavo vivendo il mio sogno, non ero solo curiosa, avevo fame di cose nuove, volevo vivere a pieno quello che fino ad allora era stata utopia: ogni sussurro, ogni mormorio… Anche il Moldava in quei giorni era molto loquace: minaccioso aumentava sempre più la sua portata, sbattendo irato sul letto e urlando racconti del passato con voce possente e piena di dolore; il cielo color zaffiro, solleticato dalle alte guglie che si stagliavano nell’azzurro dell’infinito, festeggiava la libertà novella e curava le profonde ferite inflitte dal regime alla bella Praga, che ormai sorrideva pullulante di turisti e sfoggiava quasi in ogni vetrina i lucenti cristalli di Boemia; ma una ferita molto più profonda di tutte le altre, e forse l’orgoglio di ogni praghese, la scorsi al centro di piazza San Venceslao: è il monumento funebre di Yan Palac, il rivoluzionario praghese che sacrificò la sua vita dandosi fuoco al centro della piazza, per la libertà del suo popolo da quell’oppressione che sembrava impossibile poter contrastare. Mentre ero lì, che commossa non riuscivo a distogliere lo sguardo da quella tomba, segno di gloria, coraggio, amore per la patria, ma anche di morte e di dolore, mi sembrò di vedere Yan Palac, pieno di rabbia, di coraggio, di disperazione, inveire fiero e determinato contro l’oppressore e dare con la sua morte una nuova speranza di libertà alla magica Praga, che ormai distrutta e assopita piangeva in silenzio senza reagire alla furia del dittatore. Intorno a me i palazzi si alternavano tra le strutture gotiche, longilinee, 40
stagliate agilmente al cielo, e le moli soffocanti, piatte e squadrate delle strutture del regime ed era come vedere uno scontro di boxe: gli uni che si battevano per la loro bellezza e per la loro autenticità, gli altri per far prevalere monotonia e regole severe e tarpare le ali a chiunque vi avesse rivolto lo sguardo, bramoso di libertà. L’atmosfera era stupenda: il vicolo d’oro ricco di tradizione e cultura pareva una viuzza di uno di quei villaggi delle fiabe; il ponte Carlo, che a stento abbracciava affettuosamente i violenti flutti del Moldava, quasi volesse calmarli, come una madre fa col suo bambino; disegnatori ambulanti, disposti a immortalare chiunque avesse pagato la “modica” cifra di trecento corone a volto; la regale maestosità del castello; il fantastico orologio astronomico che, allo scoccar di ogni ora, affolla la piazza circostante di spettatori curiosi… Ma lo spettacolo che mi ha colpito più di ogni altra cosa, fu una chiesa: credo si chiamasse Kutna Hora il paesino in cui era situata. Quel luogo aveva ospitato un convento di frati che si prendevano cura dei malati di peste e ogni volta che questi ultimi morivano ne conservavano le ossa; in seguito la chiesa fu venduta a una ricca famiglia tedesca, e con essa le ossa che vi erano conservate al suo interno, e così, secondo il risaputo e macabro gusto tedesco, la struttura fu arredata completamente con le reliquie degli appestati. Uno spettacolo tetro, ma nel complesso affascinante, come la splendida Praga. — Giuditta Masciadri
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PAGINE DI DIARIO Le canzoni hanno il merito di rituffarci nel passato o di farcelo sentire più vicino. In fondo, anche i nostri nonni ascoltavano canzoni, più o meno come facciamo noi Dopo varie insistenze mia nonna mi aveva convinto a rimettere in ordine un suo vecchio fondo. La polvere ricopriva tutto quanto, sembrava che tutto fosse rimasto sospeso in un tempo lontano; mia nonna mi aveva raccontato che lì una volta si ritrovavano i giovani per ballare. Sul tavolo notai un quaderno, anzi un diario con la copertina rossa e i dettagli in finto oro. Era coperto con una carta velina bianca; decisi di fare una pausa e iniziai a leggerne qualche pagina. Il diario era di una certa Maria e in quelle prime pagine, come nelle altre, descriveva come ogni momento della sua vita fosse stato caratterizzato da una o più canzoni. Raccontava di come le canzoni descrivessero esattamente il suo stato d’animo, i suoi sentimenti , i suoi atteggiamenti. — 21.01.1969 Sono appena tornata della vacanza con dei miei amici in montagna. E’ stato davvero emozionante, sicuramente non me la scorderò mai . Abbiamo passato le giornate a sciare tutto il tempo e a fare a pallate di neve. Quando eravamo lassù tra i monti i ricordi mi avvolgono e sento ancora l’ultimo successo dei Beatles, “Yellow submarine”. Sì, è stato un po’ la colonna sonora di questa vacanza con gli amici, questa canzone ci perseguitava, quando eravamo a mangiare c’erano sempre come sottofondo le note di questo nuovo successo degli scarafaggi. Alla fine l’abbiamo eletta canzone di inverno all’unanimità. In the town where I was born, Lived a man who sailed the sea, And he told us of his life, In the land of submarines Yellow submarine, yellow submarine. Uffa, adesso devo proprio andare ! Ciao — 06.02.1969 Mi sto preparando per questi “ultimi” esami che sono davvero stressanti, sono giorni che non faccio altro che studiare, credo che alla fine scoppierò. Spero che l’esame non sia troppo difficile, anche se molti mi hanno detto che il professore è davvero tosto, vabbè si vedrà. In questo ultimo periodo non faccio altro che ascoltare quella nuova canzone dei Beatles che non riesco proprio a togliermi dalla testa, mi farà ricordare questo periodo di lavoro opprimente quando la riascolterò. E’ strano come ogni momento della tua vita, ogni momento della tua esistenza su questo pianeta, possa essere legato così tanto ad una canzone… via torno sui libri che è meglio. Ciao diario. — 12.02.1969 … Ho visto ora il risultato dell’esame che mi ha fatto tanto penare: 30… quel prof che doveva essere un lupo si è rivelato un vero agnellino, sono proprio soddisfatta di me stessa adesso mi aspettano però altri duo o tre mesi di fatica… e poi finalmente vacanza, al mare con gli amici, finalmente, non vedo l’ora… We all live in a yellow submarine, Yellow submarine, yellow submarine, We all live in a yellow submarine, 42
Yellow submarine, yellow submarine, As we live a life of ease, Everyone of us has all we need, Sky of blue and sea of green, In our yellow submarine. — 5.05.1969 … ebbene sì , oggi è il gran giorno, sono arrivata a 23 anni. Oddio, sto invecchiando! Come al solito, ho festeggiato il compleanno in famiglia, come vuole la tradizione. I miei amici tutti insieme mi hanno regalato il nuovo disco dei Beatles e adesso me lo voglio ascoltare tutto in santa pace. So già che non mi deluderanno… — 15.08.1969 Siamo finalmente in vacanza ed ora senza più preoccupazioni sono pronta insieme ai miei amici a partire per il mare, sto scrivendo mentre ascolto l’ultimo successo del mitico Lucio – Acqua azzurra, acqua chiara. Ma lo sai che ha vinto anche il Festivalbar? diciamo che è il vero tormentone dell’estate ‘69 e sono sicura che durerà nel tempo la sua fama… Acqua azzurra, acqua chiara con le mani posso finalmente bere. Nei tuoi occhi innocenti posso ancora ritrovare il profumo di un amore puro puro come il tuo amor Da quando ci sei tu tutto questo non c’è più. Acqua azzurra, acqua chiara con le mani posso finalmente bere — 31.08.1969 Eccomi tornata dalle vacanze, forse un po’ stanca e un po’ scontenta . Peccato sia già finita, ma sicuramente è stato bello stare tutto il giorno al mare ad abbronzarsi. Vicino alla spiaggia libera dove eravamo noi c’era anche un bagno a pagamento dove si sentiva sempre la canzone di Battisti … e riascoltando e ripensando a quella canzone mi tornano in mente tanti momenti di questi 15 giorni, passati in compagnia dei miei amici… ma in particolare penso ad una persona…tu sai a chi mi riferisco ?!… adesso vado a letto, visto che sono stanca morta ciao ciao… con le mani posso finalmente bere… Dopo aver letto qualche pagina del diario mi sorpresi a pensare come la musica è nella nostra vita, come caratterizza determinati periodi di essa e come ci aiuta a ricordare i momenti sia belli che brutti. Appoggiai il diario lì dove lo avevo trovato e vidi, sotto un telo ricoperto da una grande quantità di polvere, un juke box. Mia nonna non mi aveva mai parlato della sua esistenza; mentre tentavo di farlo funzionare partì la canzone Acqua azzurra acqua chiara. Sentendo strani rumori mia nonna scese e con grande stupore, ma anche con gioia ritrovò la sua musica e con essa i ricordi più belli della sua intera vita. — Lorenzo Gren 43
RICORDI Parlare con chi appartiene ad un’altra generazione stimola anche la riflessione sul presente La mia nonna vive spesso di ricordi; ricordi di una vita serena, semplice vissuta in campagna, godendo delle piccole cose che la vita di allora poteva offrire. Giocava molto quando era bambina: giochi all’aperto con i coetanei delle case vicine, giochi inventati, corse sui prati, girotondi e nascondini. Altri giochi erano quelli con i sassi e con le noci; si facevano tanti mucchietti e si dovevano centrare tirando una palla; o il salto con la corda ed era il più bravo quello che resisteva di più, o il tiro alla fune, o la campana, tutti giochi dimenticati che i ragazzi di oggi non conoscono. La vita trascorreva cosi, con gli adulti intenti al loro lavoro, i bambini fuori a giocare. Si interrompeva la vita di sempre solo per le ricorrenze religiose, quando venivano i parenti a festeggiare. Ecco allora i ricordi di grandi tavolate, di una grande confusione perché ciascuno aveva qualcosa da raccontare, i ricordi di tanti abbracci e di “come sei fatta grande...”e “come sei brava a scuola...” e cose simili. Il paese non era molto lontano, ma non c’erano motivi per andarci spesso, salvo la domenica quando si andava alla messa. Poi la nonna incominciò ad andare a scuola, perciò il suo ricordo più bello è legato a quell’edificio e al grande giardino pieno di alberi; con l’inizio della scuola incominciò l’amore per le letture e quanti libri ha letto all’ombra degli alberi e ha riso o sofferto su quei libri, a seconda dell’argomento che stava leggendo. Purtroppo quella vita serena fu interrotta allo scoppio della guerra e allora incominciò la paura, paura di bombardamenti, paura dei tedeschi che reagivano agli attacchi dei partigiani e portavano via gli uomini. E poi ancora le fucilazioni e le macerie e i morti. Sono stati questi gli anni che hanno segnato la sua adolescenza e, anche dopo la fine della guerra, ci volle del tempo per riprendere la vita normale. C’erano tante cose da fare, ma c’era la volontà di farle, e nessuno era scoraggiato dal dover affrontare dei sacrifici, tutti erano abituati alle privazioni e alle rinunce. Dopo la guerra la nonna continuò i suoi studi e diventò maestra, cominciò ad insegnare, si sposò e il suo lavoro era doppio, a scuola e a casa, dove non c’erano tutti quegli elettrodomestici che oggi aiutano le donne nelle faccende domestiche. La vita cambiava in fretta: quando prima tutto rimaneva uguale per molto tempo, ora tutto si rivoluzionava velocemente: tecniche sempre più moderne, scoperte sempre nuove tanto che molte volte era difficile stare al passo. La giovinezza della mia nonna era meno complicata di quella di oggi: allora i giovani si accontentavano di ciò che avevano, senza pretendere troppo e sapevano godere di ciò che la vita offriva. I sentimenti erano molto più forti, ogni piccolo dono era una gioia, ogni scoperta riempiva di felicità. Oggi abbiamo molto di più e vogliamo molto di più: cerchiamo spesso nuove emozioni e nuovi stimoli che non riescono però a soddisfarci del tutto. Siamo diversi dai giovani di una volta, è diverso il mondo che ci circonda. — Lorenzo Losi 44
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IL MOSTRO Un racconto ispirato alla ferrovia tra vecchi ricordi e nuove immaginazioni È mattina, il sole splende sopra i tetti e la vita del mio paese comincia a risvegliarsi, come me. Mi sento accecato da un raggio di sole che illumina il mio viso e parte del mio piccolo letto e l’ombra che appare sul pavimento sembra proprio uno di quei pupazzetti che ho fatto da solo. Mentre mi alzo il terreno scricchiola sotto di me, i miei passi si sentono dal piano di sotto e la mamma mi urla che è pronta la colazione. Appena arrivo in cucina vedo mia madre vestita con una maglia di lana vecchia, una gonna lunga lunga ed un grembiulino bianco. Sta facendo il pane, cosa che non fa spesso, ed è tutta piena di farina sulle guance e sulla fronte. Come è buffa! Dopo aver mangiato qualcosa ed aver dato un bel bacio schioccante sulla guancia farinosa della mamma esco di casa per andare a scuola. Il portone dietro di me si chiude violentemente a causa del vento e per la paura mi cadono libri. Li raccolgo dalla strada sporca e piena di ortaggi e, mentre alzo lo sguardo, vedo in lontananza un’ombra scura, come un serpente gigantesco che passa attraverso le case, per poi scomparire nella montagna. Rimango immobile con lo sguardo fisso e comincio a pensare di aver visto un mostro, così mi precipito in casa dove mia madre mi accoglie dicendomi: “E te? ‘Un tu dovresti essere a scuola?” arrabbiata come non mai. “Ora si comincia a non dar più conto all’istruzione ed i voti caleranno, sei contento?” Diventa tutta rossa, gonfia ed i respira con il naso, fa volare la farina che le è rimasta in viso. Vedendola così sconvolta le dico: “Non è colpa mia!” e comincio a raccontare del mostro! “L’ho visto passare di casa in casa e nascondersi nella montagna, era tutto nero e lunghissimo!” Mia madre impallidisce e comincia a tremare fino a che si siede su un panchetto polveroso. “Hai visto un mostro?” mi dice con voce tremolante, terrorizzata. Mia madre è sempre stata superstiziosa e crede all’esistenza di mostri e fantasmi. Sono nervoso e comincio a tremare anch’io. Mi viene detto di prendere un matterello e mentre vado a prenderlo sento le parole di una preghiera che la mamma stava dicendo per invocare la protezione dei santi. Ci apprestiamo così ad andare nel luogo dove ho appena visto il mostro: vi sono delle strisce di ferro piantate per terra, sulle quali probabilmente strisciava. Alla vista di quelle sbarre mia madre scoppia in una risata fragorosa, mentre in lontananza si sente un rumore fortissimo ed inarrestabile. Ad un tratto vedo spuntare dalla collina dietro di noi la bestia gigante. Il mio sguardo si blocca per un po’, come pietrificato, per poi spostarsi su quello tranquillo e sereno di mia madre che continua a ripetermi che sono uno sciocco. Il mostro si avvicina sempre di più, sempre di più, sempre di più, fino a passarci davanti e nonostante non si fermi riesco a scorgere delle persone dentro quell’essere. Sono state divorate dall’animale! Vorrei fare tante 46
domande a mia madre, ma lei mi prende per il braccio e mi porta a scuola dove racconto a tutti quello che mi è successo. Tornato a casa trovo la mamma seduta a fare un disegno e quando mi avvicino posa la penna e me lo mostra: è l’essere mostruoso che avevamo visto la mattina. Rimango sbigottito ed impaurito nel pensare che mia madre c’entri qualcosa, poi però, con voce gentile e delicata, mi dice che non è un mostro, è solo un treno, una macchina che corre sui binari. Serve a trasportare tante persone tutte insieme in posti lontani. Mi sono sentito sollevato, felice e al sicuro perché sapevo che non c’era niente di cui preoccuparsi. Il giorno seguente sono troppo curioso di rivedere il treno e così mi sono avviato ai binari a fare i compiti. Mentre aspetto fisso i binari per terra e mi sembrano dei serpentoni infiniti, così decido di mettermi in piedi su uno di questi. All’improvviso sento il rumore del treno, così fuggo dai binari, riprendo in mano i miei libri pieni di terra e mi metto seduto ad aspettare. Alla fine passa la macchina davanti a me, è bellissima vista da vicino. La prima parte, che mia madre mi ha detto si chiama locomotiva, ha come un camino sopra che sbuffa fumo di continuo. È stato fantastico vedere il treno da vicino, che sfrecciava sui binari come una barca sfreccia sull’acqua. Purtroppo l’emozione è durata solo pochi secondi perché il treno è passato e sono rimasti solo i binari. Da allora tutti i giorni vado a vedere quei binari perché mi trasmettono qualcosa di magico, di misterioso. Non riesco mai a vedere i volti delle persone al suo interno. Tutti i giorni mi fermo a vedere il treno ed alle volte sto per ore ed ore fermo a fissare quei binari freddi e soli che mi fanno pensare che oramai nessuno sa fare più qualcosa da solo, hanno bisogno tutti d’aiuto, perché si ha paura delle cose che non si sanno spiegare. Il treno che viaggia sui binari mi sembra sempre qualcosa di riconducibile alla nostra vita, qualcosa che ci fa riflettere talmente tanto da perderci in quel pensiero: abbiamo questo treno che viaggia inesorabilmente sui binari, una strada fatta di ferro alla quale non ci si può sottrarre e alla quale non ci si può ribellare. Così la nostra vita è come un treno che viaggia su binari che più comunemente la gente chiama destino, non si può sfuggire al destino, né cambiarlo. Penso anche che se non fosse stato per questi binari non avrei capito tante cose: perché spesso vedo persone nuove, alcuni concetti strani che anch’io non mi so spiegare, mi sarei perso tante cose importanti. Non si va avanti se non abbiamo idee importanti sulle quali fondarci. Oggi invece ho deciso di portare il mio migliore amico a vedere lo spettacolo, e lui estasiato, pieno di lentiggini e con degli occhi azzurri come l’oceano guardava fisso in avanti qualcosa di speciale. Io gli spiego che erano i binari la cosa speciale ma lui ha fatto una smorfia ed un sorriso un po’ forzato e se n’è andato. Mi ha raccontato, in seguito, che suo padre era stato portato via durante la guerra da un treno e che non era più tornato. Penso che questo fosse il destino per suo padre, per la sua famiglia e per lui, e che lui non avrebbe comunque potuto cambiarlo. La vita viaggia sempre sulla strada del destino: è come un treno che viaggia sui suoi freddi, ruvidi, immobili binari. — Filippo Mugnai
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POMERIGGIO D’INVERNO Da bambina, attraverso le memorie del nonno, ho imparato una lezione di vita sulla guerra di ogni tempo Li adoravo quei pomeriggi di inverno inoltrato, mentre fuori il cielo era scuro e nella cucina di casa mia si respirava quella profonda aria di familiarità. Il fuoco scoppiettava nel camino, mentre io, seduta sulla panca di legno chiaro vicino alla parete, contemplavo le mie carte. Di fronte a me il nonno, sulla sua vecchia poltrona di vimini. Ad ogni partita lui mi lasciava sempre vincere. Molto tempo dopo mi disse, lo faceva perché gli piaceva vedere il sorriso di soddisfazione che si creava sul mio volto ogni volta che lui lasciava cadere le carte sul tavolo e diceva con finta esasperazione: “Hai vinto di nuovo!”. A volte ci stancavamo di ripetere sempre lo stesso gioco e allora io mi arrampicavo sopra le ginocchia di mio nonno, aiutata dalle sue braccia. A quel punto, con la mia vocina alla quale non si può dire di no gli chiedevo di parlarmi della guerra. Ero ammaliata da quei suoi racconti in prima persona, così vissuti, pieni di dettagli, magari apparentemente insignificanti che però venivano ricordati anche dopo tanti anni. Forse ero così interessata a quei suoi ricordi di guerra, più precisamente la Seconda Guerra Mondiale perché mio nonno è nato, vissuto e si è costruito una famiglia proprio qui a Rendola, nel paese in cui vivo io adesso. Quando parlava si riferiva sempre ad un luogo di questo mio paesino che adesso è completamente mutato. Per esempio mi parlava della scuola che frequentava, che ora non è altro che una vecchia cantina chiusa da anni. Quando mio nonno narrava quegli avvenimenti di guerra che gli erano successi da piccolo, io non avevo un´idea precisa di cosa volesse dire guerra. Per me “guerra” erano i racconti del nonno, i suoi modi per sfuggire ai nazisti, la notte, il buio, i nascondigli in grandi buche scavate nel terreno. Io lo ascoltavo e basta, mentre quella cascata di parole invisibile agli occhi fuoriusciva dalla sua bocca. Quasi fosse una necessità liberarsi da quei ricordi. Anche quel giorno, fu uno di questi pomeriggi che tanto adoravo. La cucina era calda e accogliente come al solito. L´odore di pane e di minestra di verdure contribuiva a farmi sentire a casa. Il nonno mi aveva fatto vincere l´ennesima partita e a quel punto era l´ora delle storie. “Nonno raccontami della guerra!”. L´anziano signore di fronte a me cambiava espressione, si faceva serio in volto, guardava la superficie della tavola da pranzo, come se realmente meritasse tutta la sua attenzione. Poi la cascata di parole sgorgava dalla sorgente, dalla sua bocca. “Vedi vicino a quell´albero? Proprio lì nel tuo giardino? Adesso c´è la piccola casetta di legno dove tu e tua sorella passate i pomeriggi, inventandovi giochi sempre nuovi. Un tempo invece, quando anch´io avevo la tua età e le mie gambe potevan correre leste per i prati, proprio lì, un giorno ci venne parcheggiato un piccolo furgone tedesco. Me lo ricordo bene. Io e le mie sorelle avevamo sentito il rumore di un motore 49
e affacciandoci avevamo scorto quel veicolo verde militare. Ma ero piccolo e non comprendevo cosa potesse significare. Poi mi sono sentito strattonare via dalla finestra, in modo impaurito, veloce. Pochi minuti dopo, eravamo tutti pigiati gli uni contro gli altri, al buio e all´odore di chiuso nella cantina. La mamma era vicino a me. Potevo sentire la sua paura, era quasi palpabile. Mi stringeva la mano, ma era troppo agitata per poter parlare. Quando gli occhi si abituarono all´oscurità scorsi nell´altro angolo della vecchia stanza, mio padre. Teneva il nostro cagnolino bianco stretto stretto a sé, lo pigiava contro il suo petto, perché altrimenti avrebbe potuto abbaiare. Una serie di colpi violenti alla porta ruppero quel silenzio carico di tensione. Allora capii. I proprietari del furgone sotto l´albero erano venuti a prenderci, chissà perché, in fondo ero solo un bambino. Non riuscivo a trovare una valida motivazione perché quegli uomini avessero dovuto cercare noi con tanta violenza. Mio padre lavorava, mia madre era sempre stata buona ed io e le mie sorelle, tranne qualche marachella giovanile, ci eravamo sempre comportati bene. E allora perché tutto ciò? Dei passi, rumorosi, pieni di impeto e di rabbia. Avevamo chiuso a chiave la porta della cantina, così i due tedeschi spararono alla serratura e con quelle loro torce illuminarono il suolo umido. Ci videro. Ci fecero alzare ad uno ad uno, fino ad andare nel piccolo atrio più luminoso. Lì ci strattonarono per un po´ da tutte le parti, ci perquisirono, come se fossimo dei ladri. Presero a pedate il nostro cane. Successivamente entrarono di nuovo in cantina, presero tutto ciò che vi era conservato con tanta cura e tanto lavoro di mio padre. Tutti i salumi, la farina, i legumi. Dopo un periodo di tempo che a me sembrò un´eternità se ne andarono, dicendo che ci eravamo salvati solo perché avevamo tante cose da mangiare. Pronunciavano ordini con quel loro italiano duro, freddo come il ghiaccio. Sembrava una lamina che ci tagliava la pelle. Crescendo ho capito il perché di tutto ciò. Sono solo felice di aver vissuto queste esperienze da piccolo, quando tutto sembra un gioco. Ci sono cose molto peggiori che due prosciutti rubati”. A distanza di tanti anni la piccola bambina dalla vocina sottile che si arrampicava sulle ginocchia di suo nonno è cresciuta. Ha avuto modo di comprendere quei racconti usciti fuori, quasi per bisogno di far sapere, in pomeriggi freddi e spogli. Il nonno è ancora lì. Sul suo volto ci sono più rughe da quando teneva ancora in collo sua nipote. Però i ricordi ci sono ancora, magari sottoforma di immagini sfuocate e flebili, forse sono semplicemente dei suoni. Ma ci sono. Esistono ancora dentro di lui, perché non è giusto che vadano persi. Non è giusto che la gente si dimentichi di ciò che è stato e che forse potrebbe riaccadere. In fondo siamo tutti uomini. Il male dentro di noi è naturale. Inconsapevolmente mio nonno mi ha fatto capire che la guerra non è altro che un invasore. Invasore della nostra quotidianità, delle nostre tradizioni. Delle nostre scorte di cibo accumulate in cantina. Ci può portar via la dignità, la voglia di vivere e di pensare. E quell´anziano signore che mi ha narrato il suo passato aveva negli occhi la paura che tutto gli fosse portato via di nuovo, anche ora. Grazie a lui ho capito e accettato che qualsiasi cosa può esser frantumata dalla guerra, da degli invasori. Perfino il mio bellissimo clima familiare, la casetta di legno in giardino situata sotto lo stesso albero dove una volta vi avevano parcheggiato un furgoncino tedesco, sono cose che possono essere spezzate da uomini che senza diritto irrompono nella nostra libertà. — Emma Odori 50
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I VESTITI DELLA NONNA Era solo un decennio fa, ma quanto sembra lontano… io ero bambina e giocando con lo specchio mi immaginavo già grande, giovane e bella, mentre lei, nonna, bella lo era davvero ed anche giovane, giovane dentro e fuori, giovane nel suo sorriso e nel suo essere donna, magica in quei vestiti da fiaba All’epoca nonna aveva molti anni di meno e, anche se dirlo non è molto carino, aveva anche dei chili di meno. Non era una nonna giovane, anzi, le nonne di tutte le altre mie amiche avevano all’incirca l’età di mia mamma, ma per me la nonna era giovane e bella, era il mio mito senza tempo, come lo è ancora. Ricordo che ogni sabato sera si vestiva elegante ed andava a ballare con mio nonno; erano davvero belli, davvero bravi. Io adoravo stare con nonna mentre si preparava: mi presentavo a casa sua nel pomeriggio, la accompagnavo dal parrucchiere e poi di nuovo a casa, dove mi preparava la merenda; ci mettevo circa trenta secondi a finire di mangiare il mio pane e marmellata per poterla raggiungere nella sua stanza ed ammirarla mentre si preparava. Ogni volta aveva un nuovo smalto, un nuovo fermaglio o un rossetto più corposo per definire quelle sottilissime labbra, e ricordo che pensavo che nonna, dal momento che aveva tutti quei trucchi,dovesse essere per forza la fatina buona di Cenerentola. Lei mi guardava e, vedendo che mi brillavano gli occhi, mi sussurrava “vieni qui signorina” e mi appuntava la frangia su un lato con una delle sue bellissime forcine piene di strasse, mi colorava appena la bocca con il rossetto e mi diceva “via, a scegliere il vestito per nonna ora”. Io aprivo il grandissimo armadio di noce che stava in camera sua e iniziavo a scorrere da capo ogni abito; li guardavo tutti, ogni volta,ogni singola volta, non avrei mai smesso di guardare quegli abiti e immaginarmi a vent’anni dentro ognuno di quelli. Alla fine però, sceglievo sempre lo stesso: lo tiravo per il lembo in basso, perché ovviamente non arrivavo a staccarlo dall’armadio, e dicevo “nonna, perché non metti questo?”. Lei, che intanto stava sistemandosi i boccoli su un lato della fronte, sapeva già l’abito che avevo in mano, quello lungo, tutto rosa, con la gala, le paillettes, le rose… sceglievo sempre quello, e le scarpe lilla col fiocco in cima. Nonna mi sorrideva, diceva “Mimmina, ma questo è di quando nonna era giovane, adesso non può metterlo più. Guarda questo invece… ti piace?” e staccava dalla gruccia quello che aveva già deciso di mettere. “E’ bello, ma quello rosa è più bello. Perché non lo metti?”. A quel punto nonna mi prendeva in braccio “sai che facciamo? Lo lasciamo lì per te, per quando cresci, d’accordo? Anzi, nonna ti promette che quando sei più grande e vuoi andare a ballare, ti cuce un vestito tutto tuo, come vuoi tu…” “e me lo cuci per ballare e tutto rosa?” “certo, è il tuo vestito, puoi farlo come piace a te“; poi nonna mi baciava la fronte e mi metteva seduta sul cassettone, da dove la guardavo finire di prepararsi. Alla fine, dopo aver messo anche le scarpe, nonna sceglieva una delle tante pochette che aveva; io ero piccola e le chiamavo semplicemente “miniborsine”; 52
ricordo quanto fui felice quando nonna mi regalò quella fucsia. Prima di uscire nonna si lasciava spruzzare il profumo da me e mi chiedeva “come sto?” io rispondevo sempre “beeeella...”, come se stessi guardando un angelo ammantato di luce e sognavo, speravo di essere come lei, un giorno, bella e semplice a quel modo. Adesso sono passati più di 10 anni, nonna non va più a ballare perché i suoi acciacchi hanno raggiunto il numero delle paia di scarpe e di bei vestiti, ma lei è sempre la nonna, la mia nonna, quella che ha perso la gioventù, ma non la voglia di vivere; la nonna che, quando avevo 10 anni, il vestito rosa me lo ha cucito sul serio e mi ha fatto sentire una vera principessa. Nonna che a farmi sentire bella e importante ci riesce tuttora, con una carezza o un sorriso; nonna che tutti i suoi vestiti li ha conservati, anche quelli che non le entrano più, perché spesso, guardarli insieme a me, la rende felice. Nonna che per tutta la vita è stata e sarà il mio sobrio ed elegantissimo faro. — Marta Orlandi
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MEMORIA D’AMORE I ricordi di amori perduti sono lame nell’anima; ciò che era “noi due” adesso è mancanza, ciò che era magia è nostalgico dolore. Vi parlo di amore perché l’amore muove il mondo ed “è meglio aver amato e perso che non aver amato mai” Per gioco dicevi “ti amo” ed io, forse, inconsciamente, ti ho creduto. Eri serio e dicevi “son solo”, sono seria anche io e ti dico “sei vuoto”. Che coraggio nel chiedermi scusa, quando non credevi di aver davvero sbagliato; che ingenua, nel crederti ingenuo, e porgerti ancora la mano. In quegli occhi di stella c’era ascritto “illusione”, nel mio cuore di polvere già ti archiviavo sotto il nome “finzione”. Da così distante, mi gridavi il tuo gioco, pretendendo ancora un giro di ruota. Dimmi, mi senti tra questo frastuono? È un rumore assordante la vita che fai: per un attimo anche io sono stata quel tuono, ed intorno tempesta ma provando ad insegnarti il silenzio, mi hai risposto “guarda… quanto è lontano questo Universo”. Decisa nel vivere appieno, ma stanca di sentire, poco dopo, quell’immenso vuoto, ho scelto di dirti che volerti mi nuoce; ho voluto guardarti mentre ti allontanavi: incapace di andartene in punta dei piedi, sei uscito da quel nostro irreale momento sbattendo la porta e dicendo “sai, comunque, io non mi pento”. — Marta Orlandi
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DALILA Quando si parla di memoria, spesso si parla di un ricordo e per ricordo si intende il disegno lontano di un pezzo di vita, più o meno bello, più o meno nitido, comunque indelebile. La memoria storica è la vita passata del nostro paese e conoscerla è un po’ come conoscere una spiacevole verità, magari fa soffrire, ma è necessario. Non trovate? Io ho deciso di parlarvi di un periodo a cavallo della guerra, un periodo che non ho vissuto, ovviamente, ma che qualcun altro ha visto e vissuto, raccontandolo poi a me, come mi accingo a fare io adesso. Voglio parlarvi del male più diffuso nel periodo della seconda guerra mondiale, la tisi, e di mia nonna, che pur avendo perso tutto, ha conservato la speranza e la voglia di vivere …. e me le ha trasmesse A quel tempo c’era la guerra, nel senso che c’era già stata e ce ne sarebbe stata un’altra. Il clima non era certo dei migliori: poco cibo, poca salute… scarsa igiene. Io, Dalila, non avevo che 12 anni. Io, con gli occhi color zaffiro, non avevo mai notato che il cielo fosse azzurro; mai. Per me è stato perennemente grigio. Io, coi boccoli neri e le guance pienotte, avrei dato tutto il niente che avevo, in cambio dell’universo che mi fu sottratto. Io, che sognavo di studiare e diventare maestra, la scuola non l’ho frequentata e ho dovuto lavorare in filanda. Io, che attorno avevo tanti “Sansone”, non potevo sorridergli, perché il pianto mi ha scandito la vita da sempre. Avevo 12 anni, nient’altro, niente di più. Avevo una casa piccola, umida, affollata… come tutti i miei coetanei, come tutti, negli anni ‘30, ma non m’importava, perché quella folla era la mia famiglia, e quella casa piccola ci costringeva in un abbraccio perpetuo che noi amavamo. Ve l’ho detto, tutto questo è ciò che avevo, ciò per cui vivevo, ciò che ho perduto irrimediabilmente. Mio padre ci lasciò giovane per un folle amore… una donna, credete? No, non fu una donna: fu lei, la guerra. Lui era innamorato della causa, di quella intrigante causa persa, e lei, donna di malaffare, finì col cedere al suo amore e, come fece con altri, con troppi, lo rapì per sempre. Avevo un fratello, una sorella, una madre. D’un tratto, non ho più avuto nessuno. Non fu la guerra a portare via loro, no, fu qualcos’altro, qualcosa di peggiore, qualcosa di infimo e meschino; qualcosa di invisibile, ma letale, qualcosa che li portò via lentamente, ma in modo inevitabile; questo qualcosa, oggi, lo sappiamo bene cos’è, ma allora era l’ignoto, sebbene fosse la routine. Sapevamo solo che era un male, un male orribile chiamato tisi. […] Mi alzai una mattina, come al solito, ma quella mattina qualcosa di diverso 55
c’era: mamma, Tobia e Lucrezia non si alzarono. Nessuno mi disse niente, nonna passava da una camera all’altra, portando infusi di erbe maleodoranti, pezze bagnate, fazzoletti, bacinelle d’acqua. Zia Gherty dondolava sulla sua sedia a dondolo, come sempre. No, aspettate. Anche lei era diversa: dondolava in modo più malinconico, stringeva il rosario e pregava a bassa voce. Pregava, piangeva, non so dirlo. Quella mattina passò più lenta di tutta la mia intera vita; credo di aver capito qualcosa dentro di me, in modo inconscio, perché non dissi una parola, non domandai, mi limitavo ad osservare ed ascoltare. Ascoltavo il tossire. Ascoltavo il ticchettio dell’orologio e ancora il tossire. Ascoltavo quella straziante agonia e, senza sapere di cosa, avevo una gran paura. Zia Gherty bisbigliava, loro tossivano, tossivano fuori la loro stessa vita. Mi misi seduta in cucina, fissando inutilmente il vuoto, e aspettavo. L’attesa mi uccideva, volevo piangere, avevo paura. Che cosa aspettassi, non lo so davvero, ma in quel momento sentivo che c’era qualcosa che doveva succedere. Ed avevo ragione: era quasi mezzogiorno quando nonna iniziò ad urlare il mio nome, chiedendo dove fossi, senza sapere che ero seduta al tavolo davanti al quale lei aveva fatto avanti e indietro per ore, senza notarmi. Ricordo che mi disse di prendere le mie cose, perché sarei andata via, lontano: “da quelle persone che erano amiche di papà, ricordi?”. Io continuavo a tacere, ero una statua di marmo, sentivo tossire e tossire. Tossire. Tossivano ininterrottamente da ore, come se avessero avuto un cilicio attorno al cuore e all’anima, come se avessero voluto dire qualcosa, ma le parole fossero state lame, come se un acido li stesse sciogliendo silenziosamente a loro insaputa, dall’interno. E, in verità, è questo che gli successe: l’oggi noto bacillo di coc a quel tempo era famoso, ma sconosciuto al contempo, era temuto, era famelico, avido, si approfittava di noi tutti, di come vivevamo… si portava via così tante persone e non quella mattina, ma poco tempo dopo, volle portar via anche la mia famiglia: strappò loro la vita, pugnalando i loro polmoni; mi lasciò la mia, se pure lacerandomi il cuore. Nonna iniziò a preparare la valigia per me, che poi, ma quale valigia? Mise poche cose essenziali in un cesto di vimini e me lo dette. Mi cadde di mano. Sembravo apatica, lo so, lo percepivo, ma nessuno lo vide, nessuno poté pensare a me quel giorno; nessuno ci avrebbe più pensato. Ricordo che sentii mamma piangere e rantolare faticosamente un “NO” dalla sua camera; lasciai la mano di nonna e corsi da lei. Era distesa nel letto, avevano portato Tobia e Lucrezia li accanto a lei; dormivano, o meglio, soffrivano muti, ad occhi chiusi. Avevano occhiaie marcate, uno strano colorito; sembravano senza fiato, come se un masso sul petto gli impedisse di respirare bene. Mamma piangeva e questo aggravava la sua situazione; credevo che soffocasse. Avevo paura. Io corsi ad abbracciarla e le chiesi perché dovevo andare via, le dissi che non volevo. Lei mi abbracciò a sua volta, ma si ritrasse subito per quanto poté, quasi stupita, pentita, come per dire “cosa ho fatto”; mi allontanò, si coprì la bocca con un fazzoletto e mi disse “va via Dalila, vai!”. Perché mamma mi mandava via? Cosa le avevo fatto? Scoppiai; gli argini si ruppero, fiumi salati mi solcarono il viso in pochi secondi. A quel punto nonna venne a prendermi, mi strattonò per un braccio fino alla porta; ora anche lei piangeva: “Dalila non fare così, per amor del cielo, smettila, è per il tuo bene, lo devi capire!”, io mi dimenavo, urlavo, singhiozzavo. Perché dovevo andare via? Si erano ammalati altre volte, perché? Voglio la mamma! Nessuno mi rispose. Non riuscii a capirlo per un bel po’, per anni, perché nessuno volle mai dirmelo; 56
dovetti scoprirlo da sola. Gli amici di papà da cui andai a stare vivevano in campagna dove l’aria era buona; ora so che mi ci mandarono per far sì che non mi ammalassi anche io, ma allora, non ero che una bambina e non capii, come potevo capire? Solo io so quanto ho sofferto, senza avere la forza di contare le lacrime, solo io so che non potei più essere una bambina. Ho vissuto con queste persone, un uomo e una donna che erano piuttosto vecchi e senza lavoro, eccetto i loro campi da accudire. Mi trattavano bene, benissimo, non mi fecero mai mancare nulla, ma non mi vollero mai bene. Mi proibirono di studiare, mi trovarono un lavoro in filanda, mi vietarono di domandare della mia famiglia. Avevo 20 anni quando seppi che morirono poco tempo dopo che io li lasciai: Lucrezia non aveva superato la prima settimana e Tobia l’aveva raggiunta in paradiso dopo due giorni. Mamma… se non sapessi che anche lei morì di tubercolosi, direi che morì di dolore e crepacuore, e tuttavia, non lo escludo. Nel frattempo, anche nonna e zia Gherty si erano ammalate, era ovvio: zia lasciò tutti per prima, era così anziana e debole; e nonna, non aveva nessuno che la curasse: si mise a letto una sera di settembre, da sola, e nessuno la vide più. Nessuno mi disse dei funerali, forse non li fecero, forse non vollero dirmelo; la guerra distrusse casa mia. Io ero già a pezzi. La mia fanciullezza non l’ho vissuta, non facevo che ripensare a mamma, a Luly, a Toby, a papà; sentivo nella testa il cigolio della sedia di zia Gherty, che quell’ultima mattina si era tramutato in sospiro, in gemito raccapricciante; sentivo il ticchettio sommesso dei ferri per la maglia di nonna. Pensavo a loro che mi amavano e che io amavo, a loro che tutti insieme mi erano vicini, guardandomi da lassù, ma che mi avevano lasciata sola al mondo. Piangevo, perché le bambine e i bambini potevano dire “mamma” e “papà”, mentre io no. Piangevo perché volevo una carezza, un sorriso, qualcuno che mi amasse e me lo dicesse. Piangevo perché non potevo più correre per mano con mia sorella, che ho sempre pensato per mano ad un ricciolo cherubino biondo. Piangevo perché le lepri selvatiche non erano più nulla, senza mio fratello che gli correva dietro nei boschi per scovare le loro tane e poi mostrarmele. Piangevo perché la cosa più bella, più cara, più incredibile che esista, la Mamma, mi fu strappata dalle braccia da qualcosa che non conoscevo. Oggi, vivo una vita normale, ma non posso dire felice, perché la memoria, per quanto io sia avanti con gli anni, è ancora buona e non potrò mai dimenticare una cosa del genere, perché questo passato sarà il mio eterno presente; questo genere di passato, anche se si sfoca nella mente a causa degli anni, è tanto gravoso da non potersi mai cancellare dal cuore, dal profondo dell’anima, dall’essenza di ogni azione che fai per andare avanti. Io, Dalila, con questo bellissimo nome, ad un tratto non ho avuto più nulla di bello; non ho avuto fanciullezza, non ho avuto adolescenza: oggi sono vecchia, ma non ho mai avuto età. Ho avuto una vita, certo, e ho cercato di viverla per tutti loro, ma tante volte, così tante, ho chiuso gli occhi vedendo mamma piangere con un fazzoletto macchiato di rosso premuto sulla bocca che silenziosamente, con lo sguardo, mi dice addio. Ogni volta ho desiderato di poter essere distesa accanto a lei, quell’orribile giorno, perché credo che la mia vita con lei, con loro, ovunque, sarebbe stata comunque migliore. — Marta Orlandi
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LA FESTA DEGLI ALBERI Tra attesa e preoccupazione la giornata speciale di una bambina che ha vinto un premio
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Il sindaco inizia il discorso e il cuore sta battendo a mille. Allora si presentano nella mia testa i fatti dell’ultimo mese, in successione così come sono accaduti e non riesco a concentrarmi sul discorso. Il pensiero va a quando tutto è iniziato: non sapevo cosa scrivere nel mio tema assegnato dalla maestra sulla festa degli alberi, che si svolge ogni novembre e sulla quale tutti i bambini delle scuole elementari devono scrivere un tema. I migliori temi sono stati letti da una commissione e il vincitore verrà premiato dal sindaco in persona con la bellezza di 500 lire. ”Cosa potrei dire sugli alberi? Nessuno mi ha dato le idee giuste quindi dovrò passare tutto il pomeriggio da sola in casa per questo tema di nessuna importanza… peccato… dovevo andare a giocare a nascondino in fondo alla via e invece dovrò stare qui. E’ tutto inutile visto che partecipano tutte le scuole elementari di S. Giovanni. Non vincerò mai! Speriamo almeno che la maestra mi dia un bel voto! Vediamo… la festa degli alberi mi piace, gli alberi sono importanti per la natura e per l’uomo. Va bene, penso che inizierò così!” Diverse settimane fa è arrivata la bidella con una busta bianca, spedita direttamente dal comune: “Franca Manneschi ha vinto il premio per il miglior tema sulla festa degli alberi. Distinti saluti, il Sindaco”. Non ci volevo credere… era uno scherzo dei miei compagni oppure c’era stato un errore. Ero stata migliore del più bravo della classe che mi batte sempre in tutte le materie. Ero la vincitrice e non mi sembrava vero… mi vedevo già scrittrice quando sarei diventata grande. Sì, una scrittrice di successo con molti soldi, bellissimi bambini ed un importante marito famoso. Ne ero certa, avrei scritto un romanzo più bello di “Piccole donne” che ho letto così tante volte che ormai conosco le battute a memoria pagina per pagina. Pensavo: “La mamma ne sarà orgogliosa, diventerò famosa, importante e ricca! Con 500 lire poi mi posso sbizzarrire!” Il pomeriggio della premiazione si avvicinava sempre di più. Così la mamma mi ha portato nel miglior negozio da bambini di S. Giovanni. Dovevo trovare in tutti i modi il vestitino giusto per l’occasione: carino ma non troppo (le scrittrici d’altronde non sono donne di poco conto), elegante ma non esageratamente altrimenti pensavo che mi sarei sentita troppo fuori luogo. Finalmente l’ho visto: rosa con le margherite gialle, era bellissimo, perfetto per l’occasione. Doveva essere mio in tutti i modi e così corsi a prenderlo come se qualcuno me lo volesse rubare… La mamma poi fortunatamente me lo comprò. Così tutta orgogliosa sono uscita dal negozio sfoggiando la mia busta grande e colorata e anche a casa tutti hanno apprezzato la mia scelta. Ora che lo indosso mi rendo conto che mi sta molto bene e sembro quasi una bambina di quinta elementare. Torno a pensare all’attesa della presentazione. Oggi, però, mi è sembrata quasi una giornata normale: mi sono alzata, ho fatto colazione con il migliaccio della nonna, mi sono vestita e sono andata a scuola. Non ho ascoltato la
maestra neanche un minuto, ero troppo tesa per il grande evento che mi stava aspettando nel pomeriggio. Sono tornata a casa, ho pranzato , ho fatto il bagno e mi sono vestita… Ma ancora mancavano due lunghe ore prima della premiazione. Allora mi sono spogliata perché se mi sporcavo il vestitino ero praticamente morta e ho iniziato a pensare ad un discorso di ringraziamento. Mi sono messa a scrivere e mi sono resa conto che per ringraziare genitori, nonni, parenti di ogni tipo, dalla cugina alla zia, i compagni di classe, gli amici, la maestra che mi ha insegnato così bene a scrivere, ho riempito completamente 2 fogli. Allora mi sono impegnata per accorciare il discorso togliendo le persone meno care e… mi sono accorta che mancava un quarto d’ora all’inizio della premiazione! Mi sono infilata il vestitino al volo e sono scesa dalla mamma che mi stava aspettando ed era nera dalla rabbia. Di fretta ci siamo dirette al luogo della premiazione e solo allora mi sono resa conto di aver lasciato il mio tanto sudato discorso a casa… Peccato, tanta fatica sprecata, ma in quel momento non era quello che mi interessava, dovevo arrivare alla premiazione in tempo. Siamo entrate dentro al salone… Quante persone… la stanza è grandissima ed è piena di bambini, insegnanti e genitori. Le pareti sono giallo crema e ci sono delle grosse tende amaranto, lunghe file di sedie rivolte verso un tavolo dove sono sedute una decina di persone. Ci siamo sedute nelle ultime file visto che le prime erano già tutte occupate. Ed adesso sono di nuovo qui, al presente perché devo stare concentrata e penso che adesso arriverà il mio momento. Ancora qualche parola del sindaco e poi inizia la premiazione: si parte dal quinto classificato, mi rilasso un attimo perché davanti a me ci sono ci sono quattro persone, invece velocissima arriva la voce: “Ed infine prima classificata, Franca Manneschi”. Non mi voglio alzare, improvvisamente il momento che ho aspettato con ansia mi spaventa così tanto che mi immobilizza e mi faccio piccola piccola. Mi passa per la mente per un breve momento anche la voglia di scappare ma il pensiero se ne va subito perché la mamma, quasi alzandomi di peso, mi tira per un braccio e mi spinge verso il tavolo centrale dove si trovano i giudici e altre persone che non ho mai visto. A pensarci bene mi viene in mente anche che non ho mai visto neanche il sindaco e ritorna nuovamente il panico… sono la premiata e non so chi è il sindaco. Poi torna la lucidità e mi rendo conto che una persona ha parlato fino adesso e quindi non può essere altro che lui l’uomo giusto. Inoltre c’è un’unica persona in piedi con una busta gialla in mano. Non può essere altro che lui. Tutto si svolge velocemente: mi reco lì davanti, il sindaco mi stringe la mano, si complimenta e mi dà la busta con l’ambita vincita di cinquecento lire. Per fortuna la cerimonia è stata così breve, un altro minuto davanti a tutta quella gente e sarei morta se avessi dovuto pronunciare due parole: avrei iniziato a balbettare e non avrei più finito. Torno al mio posticino con il cuore in gola e tutti gli occhi tenuti fissi su di me e finalmente la premiazione finisce. Mi vengono incontro i miei compagni di classe, qualche complimento, qualche battuta e la mamma mi lascia andare con loro ai giardini a giocare a bandierina. Torno a casa con il vestitino tutto sporco ma la mamma stranamente non si arrabbia, è molto contenta di me. Ceno con i miei familiari e poi vado a letto. Così si conclude la giornata che con ansia avevo atteso per tanto tempo. Tra alti e bassi non è stata male e soprattutto, oltre alla soddisfazione, ho anche cinquecento lire tutte per me! — Beatrice Ottaviani 59
L’ALLUVIONE Questa è la testimonianza appassionata di nonna Bruna, una donna che ha vissuto in prima persona i terribili eventi del Novembre ‘66 Era il 1966 e la vita di noi umili lavoratori scorreva sempre uguale a se stessa. La giornata si divideva nel lavoro in fabbrica e nei campi, in più a casa avevo sei figli (quattro femmine e due maschi): il più piccolo aveva sei anni e la più grande diciannove. Tutti insieme mi davano un bel da fare. A spezzare la quotidianità ci pensò una tremenda alluvione che nel Novembre di quello stesso anno colpì gran parte del Valdarno. Erano giorni che la pioggia cadeva incessantemente e, con il passare del tempo, la preoccupazione cresceva, ma le istituzioni ci spronavano a rimanere calmi e a non cadere nel panico. Tuttavia, quando giunse la notizia che un primo fiume era straripato, un’irrefrenabile ansia mi pervase ed insieme un grande istinto, che forse solo chi è riuscito a guadagnarsi con il sudore della fronte ciò che possiede sa trovare, quello di mettere in salvo almeno una buona parte delle cose per le quali avevo tanto lavorato. Le cose da fare erano tante e non avevamo idea del tempo che ci era concesso prima di vedere anche l’Arno straripare, così ogni secondo era prezioso. Più di ogni altra cosa il mio pensiero andò ai miei figli. Quelli più grandi sarebbero venuti ad aiutarci mentre per quelli più piccoli era necessario trovare una sistemazione. Ogni luogo mi sembrava poco adatto e poco sicuro; infine, decidemmo di sistemarli in soffitta assieme ai miei anziani suoceri che li avrebbero badati e protetti. Successivamente io e mio marito cominciammo a portare le bestie più belle al secondo piano della casa assieme ai rifornimenti di cibo mentre ci assicurammo che tutto il resto degli animali, anche se non avevano caratteristiche particolari, fossero all’interno della stalla. Intanto, alcuni dei miei figli chiudevano bene le porte e, per sigillarle ancora meglio, compattarono fieno e sterco che avrebbero impedito all’acqua di entrare. Tutti assieme ci recammo nel campo dove raccogliemmo i migliori ortaggi perché tanto ciò che ne sarebbe rimasto avrebbe avuto ben poco di utilizzabile e il solo pensiero di tanto lavoro che veniva distrutto mi faceva venire un tuffo al cuore. Ritornammo in casa e lì attendemmo, affacciati alla finestra della soffitta, troppo stretta per una famiglia così numerosa che adesso attendeva in un silenzio innaturale. Quando l’Arno straripò tutto fu sommerso sotto cinquanta centimetri d’acqua, nelle stanze al piano terra l’acqua filtrava da sotto il terreno e nella cantina furono rovesciate alcune botti, agli animali nella stalla l’acqua arrivava alle ginocchia per non parlare di quello che era diventato il campo che era letteralmente sommerso: adesso sembrava solo una grossa pozza. Nonostante le condizioni fossero gravi, l’Arno non aveva completato la sua distruzione. Infatti, la pressione dell’acqua aveva fatto sì che alcuni tronchi si ammassassero sui portelloni della diga che non permettevano il regolare 60
defluire delle acque. A causa di questo il bacino di acqua che la diga tratteneva si rovesciò su di essa aumentando la portata dell’Arno e dei suoi affluenti . Quando riuscirono a liberare la diga dovettero aprirla e l’acqua arrivò a toccare il metro di altezza . Il terrore e la speranza che tutto ciò finisse presto riempì il mio cuore. In quei lunghi silenzi, dove non vi era parola per descrivere ciò che provavamo, potevamo appellarci solo alla preghiera. Pregai tanto per i miei figli e per tutto ciò per cui avevo tanto faticato. Quando le acque si ritirarono ciò che rimase fu un mondo devastato. Con la sua forza l’Arno aveva corroso la terra nelle strade riducendole a viottoli, gli alberi erano sradicati, i raccolti erano stati distrutti e alcune bestie erano morte affogate. Nonostante la paura, però, stavamo tutti bene. Ci sarebbero state molte cose da fare e il lavoro per molte settimane non mancò. Quando oggi racconto alle mie nipoti quei giorni terribili so di essere stata fortunata, ma ripeto sempre che la natura va rispettata perché, quando si ribella, la sua è una forza incontrastabile. — Annalisa Piccioli
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OTTOBRE 1978 Questo racconto narra una storia d’amore di 30 anni fa, è la storia di un passato recente, una memoria vicina. Si tratta di un insieme di fatti realmente accaduti che mi hanno raccontato i miei genitori, ma che ho rielaborato con la mia fantasia. E’ una storia semplice, che non parla di eventi importanti, ma di semplici gesti, perché in fondo la nostra storia è fatta soprattutto di eventi quotidiani Fa freddo, il vento si insinua dentro il giubbotto della mia divisa da militare, si sente che ormai è arrivato l’autunno anzi ormai siamo proprio nel mezzo dell’autunno visto che ormai siamo al 16 ottobre del 1978 stando a quanto c’è scritto sul giornale che ho comprato. Avevo intenzione di leggere un po’ ma ormai la confusione che mi circonda è tale da deconcentrarmi totalmente. Mi guardo intorno, il panorama che mi si apre davanti è mozzafiato, la terrazza della Basilica di San Pietro su cui mi trovo mi offre un’ottima visuale su gran parte dei tetti che mi circondano. Ma al momento il mio sguardo è puntato su quel piccolo comignolo che esce dalla sede del conclave. “Roberto! Roberto!” mi volto. Alfio mi sta venendo incontro. “Allora è stata presa una decisione?” mi chiede con il fiato corto per lo sforzo di raggiungermi attraverso la folla che riempie la terrazza. “Non ancora, ci sono stati solo dei falsi segnali” rispondo spazientito, in fondo non mi interessa molto sapere cosa verrà deciso, ma ormai sono curioso e sono stufo di aspettare, mi si sono congelati i piedi e il naso. “Guardate! Guardate!” la gente si sta agitando e punta il dito alle mie spalle, mi volto e finalmente il fumo è bianco! Il nuovo Papa è Karol Wojtyla che entrerà in carica con il nome di Papa Giovanni Paolo II. “Senti fa freddo, che ne dici se andiamo a bere qualcosa?” mi propone Alfio “vengono anche gli altri, stanno aspettando giù”. “Ok, va bene, andiamo. Però torniamo presto che più tardi devo telefonare a Lidia”. “ Sì, sì tranquillo romanticone, torniamo presto!” “Uffa! Ma perché non chiama!?” sbotto arrabbiata. “Doveva chiamarmi alle 18.30 e sono già le 19.45!”. “Dai Lidia, stai tranquilla, vedrai che ti chiamerà, si sarà beccato una punizione in caserma e sarà al lavoro!” Anna cerca di rassicurarmi. “Grazie Anna, grazie di tutto. Io ora vado altrimenti i miei si arrabbiano. Se chiama fammi risapere. Non avere il telefono è davvero un problema, sei fortunata ad averne già uno. Se non ci fossi tu non saprei come fare!”. “Non ti preoccupare, per me è un piacere”. “Allora ciao”. “Ciao, a domani”. Brr che freddo! Tiro fuori le chiavi e metto in moto il mio piccolo Ciao rosso scuro. Chissà perché non mi ha chiamato? Di sicuro se ne sarà dimenticato! Prima o poi mi farà dannare quel ragazzo! “Mmmm… che cos’è questo rumore?”. “Roberto alzati! Tra poco c’è l’adunata” “L’adunata? Alfio, ma che ore sono? E, soprattutto, che giorno è?”. “ E’ il 17. Non ti ricordi niente eh!? Ieri ti sei preso proprio una bella ciucca!”. “Cavoli, mi sono dimenticato di chiamare Lidia! E ora chi la sente? Sarà arrabbiatissima! E ora che faccio? Alfio aiutami!” “Beh, potresti prendere un quarantott’ore…” “Mmmm, buona idea, vado a chiederlo al capo”. 62
Uffa, niente da fare di una licenza neanche a parlarne, solo un sette tredici. Vorrà dire che mi toccherà fare una nottata in bianco e pagare qualche colazione. La stazione a quest’ora è quasi deserta. Ci sono soltanto altri pochi ragazzi più o meno della mia età chiusi nei loro giubbotti per ripararsi dal freddo, che come me prendono il treno di mezzanotte per andare a trovare le loro ragazze. La mia destinazione è Firenze, dove mi aspetta un tram per l’Antella che mi porterà dritto tra le braccia della mia Lidia. “Lidia voltati!” I miei amici mi guardano e mi incitano a voltarmi. “Che c’è?” chiedo e mi giro. Dall’altra parte della piazza c’è Roberto, il mio Roberto. Come sono contenta! E’ venuto a farmi una sorpresa! M sorride, è così bello con quei suoi riccioli al vento e i baffi che lo fanno sembrare più grande. Poi mi ricordo che non mi ha chiamata. Sento la rabbia salire, cerco di calmarmi e mi volto. Si sta girando, mi guarda. Sarà perché non la vedo da un po’, ma mi sembra ancora più bella, con quei suoi occhi azzurri come il mare nei suoi punti meno profondi, così grandi che mi ci potrei perdere, e i suoi capelli castani con i riccioli ribelli come lei. Sembra contenta, forse mi ha perdonato. Fa per venirmi incontro. No, si ferma e si gira. Cavoli è proprio arrabbiata! Mi avvicino. “Ciao Amore” le sussurro abbracciandola da dietro e annusando il suo profumo dolce. “Ciao” “Ti sono mancato?” le chiedo. “No, non mi mancano le persone che si dimenticano di chiamarmi” “ Ma amore non me ne sono dimenticato! mi hanno messo in punizione e non ho potuto chiamarti!” “Sì, come tutte le altre volte! Ma come fai a pensare che io ti possa credere?” “Tesoro, ti giuro che è vero!” la guardo cercando di tirare fuori ogni briciolo di dolcezza che ho. Non è giusto, quando mi guarda così non riesco a dirgli di no. “E va bene, ti perdono anche stavolta! Ma ti avverto che è l’ultima!”. In treno di ritorno per Roma. È tardissimo, anzi prestissimo dal momento che sono le 5.30. Ho molto sonno. Mentre entro nel mondo dei sogni ho solo un’immagine in testa e una sola domanda. Vedo il suo volto sorridente e mi chiedo se ne sarà valsa la pena averle mentito e aver fatto questa faticaccia. Non faccio in tempo a rispondermi che mi addormento. Drin… drin. Mi sveglio di soprassalto. Ho fatto un sogno stranissimo. Era un ricordo, così nitido, così pieno di particolari come se il mio cervello lo avesse ripescato dalla mia memoria e lo avesse proiettato solo per potermi far rivivere quei momenti stupendi. Ripenso alla domanda che mi sono fatto alla fine del sogno/ricordo. Mi volto e accanto a me vedo lei. Lei che dorme ignara dei miei pensieri. Lei che, immersa in chissà quale sogno, sorride. E la risposta arriva da sola. Sì, ne è valsa la pena. — Claudia Rossi
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LA MIA GUERRA Anche i bambini hanno vissuto l’orrore e la paura della guerra; i ricordi degli anziani sono spesso l’unica voce che possiamo ancora ascoltare C’era la guerra. Me lo avevano detto tante volte e mi avevano raccontato che il babbo era andato a combattere. L’avevo anche vista la guerra, da lontano, quando gli aerei tedeschi avevano bombardato il ponte a Mandri: era scoppiato tutto e c’era stato tanto rumore, ma io ero al sicuro e non avevo niente da temere. Poi la guerra arrivò anche nel mio paese. Sentivo continuamente il fracasso delle bombe, della mitraglia, dei fucili e di notte vedevo i lampi. Il frastuono e gli schianti sovrastavano ogni cosa, un temporale di fuoco e fulmini sarebbe stato uno starnuto rispetto a ciò che mi circondava. Un giorno l’ho incontrata la guerra, mi ci sono imbattuto e ho conosciuto la sua potenza atroce. Era estate, c’era il sole e faceva caldo, eppure tutti scappavano per le strade, le case bruciavano, le grida e gli spari risuonavano intorno e dentro di me. Fuggii. Fuggii da quel orribile incubo. Con il panico che mi inseguiva, fuggii. Finalmente, tra tutti quei suoni terribili, ecco una voce familiare, quella della mia mamma. Uscii dalla pianta di zucca in cui mi ero nascosto e le corsi incontro, ma pure lei stava fuggendo e trascinò anche me nella sua fuga. Con la mia sorellina Franca in braccio e me per la mano, trascinava Franco tirandolo per i pantaloni, incitandoci a correre senza fermarci. Se quella era la guerra, non mi piaceva. Ci passammo dentro a quella guerra spietata, attraversando il paese per scappare. All’improvviso un soldato fermò la nostra corsa, ci si piantò davanti con il fucile puntato. Urlava delle parole strane, non capivamo niente. Franca piangeva, Franco gridava arrampicandosi alla gonna della mamma, il soldato si arrabbiava, sempre con il fucile puntato. La mamma era immobile, atterrita, ma anche lei strillava qualcosa. Io non sentivo le sue parole, eppure una cosa mi era chiara: quello era un tedesco e ci avrebbe uccisi. Questa era la guerra. La mamma mi strinse forte, anche lei tremava. Mi ritrovai nel silenzio con il cuore che mi picchiava nella testa. Poi la paura. Non so quanto tempo passò, ma dopo stavo correndo ed era buio. La mamma era con me e c’erano anche i miei fratelli. Stavamo salendo verso la montagna per il bosco. Passammo la notte in una stalla, ospitati da una gentile signora che ci offrì il latte della sua mucca; era il latte più buono che io avessi mai bevuto. Sono passati ormai sessantaquattro anni da quel terribile luglio del ’44, ma il ricordo di quei momenti è ancora vivo nella mia mente. Ci sono tante cose che solo oggi mi appaiono chiare, ma mai completamente poiché la guerra non è in nessun caso giusta o ragionevole ed io lo so perché l’ho conosciuta. Il mio cuore è sempre pronto a ricordarmelo accelerando violentemente quando dentro di me riaffiorano i ricordi. — Chiara Sacchetti 65
INCONTRO Spesso le persone che conosciamo e che abbiamo sempre visto ci rimangono sconosciute; forse solo talvolta le incontriamo veramente. Questo racconto è dedicato al ricordo di una persona speciale. È da quando sono nato che vivo a Montevarchi, ma non mi sono mai affezionato ad essa. La conosco a fondo, sia dal punto di vista morfologico sia da quello storico ma non mi ha mai conquistato, rappresenta tuttora ciò da cui voglio fuggire, una realtà depressiva e opprimente, che non mi rende felice. L’unica cosa che forse mi tiene legato a questa città, sono i suoi cittadini, che ogni tanto sanno regalarmi storie, aneddoti o esperienze che mi colpiscono e mi rapiscono, permettendomi di evadere da tutto, anche se solo con la mente. La mia storia, non parla di Montevarchi, ma di un montevarchino. “Il sole scompariva dietro l’orizzonte, quando, tornando a casa, camminavo con passo lento sul terreno soffice e poltiglioso, risultato di qualche giorno di pioggia, contemplando i vecchietti che correvano dietro ai nipoti , come se stessero inseguendo una giovinezza ormai scomparsa da tempo. Non mi sarei mai aspettato quell’incontro. Stavo per i fatti miei, ecco tutto. Pensavo ad altre cose, a cose che magari non esistevano ed erano solo frutto dei miei occhi a volte così chiusi. Si fermò e la salutai. La salutai diversamente, se devo dire la verità era un saluto più sincero di quello che feci l’ultima volta che la vidi. D’un tratto quel movimento della mano così usuale e spontaneo, mi riportò alla realtà. Cominciammo a parlare, all’inizio La ignorai, dalla mia bocca solo frasi stereotipate. Dopotutto, in parte ero ancora immerso nei miei pensieri. È buffo come ci si sopravvaluti a volte, e quanto si possa essere così offuscati da se stessi, da non far caso a persone che ci sono state accanto per anni, ma che fino al momento di un saluto, di una parola o di uno sguardo, entrino a far parte della tua vita, lasciandoti un ricordo indelebile. L’avevo ignorata per anni. Stupido. Dovetti far passare qualche minuto, perché il mio cervello entrasse totalmente nella conversazione, solo allora capii quanto ero stato ottuso e maleducato fino ad allora. Avevo fatto come le persone che dico di disprezzare, avevo giudicato senza sapere e avevo chiuso la mia mente dando per scontato che quello che stava dicendo erano solo stronzate o frasi di circostanza, ero stato ipocrita e per quello mi sarei tirato un pugno in faccia. Continuando a parlare con lei, capii che in verità mi conosceva da anni, o meglio da una vita, che conosceva le mie abitudini, dove abitavo, dove giocavo da bambino, cosa facevo; non riuscivo a spiccicare parola, perché dopo tanto avevo trovato una persona che mi stupiva veramente, che riuscivo ad ascoltare senza annoiarmi o pensare ad altro, anche se a volte mi perdevo nei movimenti sinuosi delle sue labbra carnose o dei suoi occhi azzurri che si guardavano intorno, forse anche per evitare il mio sguardo fisso su di lei, in adorazione. Tutto questo in poco tempo. Andando via, la salutai con un sorriso ebete, baciandola in maniera maldestra una guancia. Ero contento. Ero riuscito a toccare quelle guance morbide e rubiconde che ispiravano amore e affetto. Ciro contento. Ero riuscito a toccare quelle guance morbide e rubiconde che ispiravano amore e affetto. guardavano intorno, fors rivedemmo nei giorni seguenti, passando ore ed ore, seduti su un prato a contemplare il cielo. Adesso sono felice. E lo sono davvero.” — Alessio Sacconi 66
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VIAGGIO IN GRECIA Visione. Tra rilassanti note, fitta nebbia e bottiglie vuote, la mente si apre: scavando nell’infinito che vi è contenuto, l’esperienza torna a galla. Torna a galla la memoria. Affascinante, autorevole, ammaliante. Terre lontane, anni da me non vissuti, cose mai viste, che mai ritorneranno. Abbandonato, ho aperto la mia mente e ho alimentato il mio infinito. Grazie, Storia. Grazie, Memoria “Quanto diavolo mangia quell’animale!” Ci avviammo con la nostra carriola da spesa per andare a prendere un po’ di carne, un sacco da 50 chili di riso e le varie ed eventuali schifezze o prelibatezze che la città ci poteva offrire. Era un bel mattino, soleggiato e il mercato era caotico come sempre. Il solito colore grigio dominante, i vocii eccitati dei venditori, le grida delle persone. Ci inoltrammo dentro per le nostre commissioni. Dopo la spesa tornammo a casa. Fuori dal caos, fuori dalla città. Dopo la salita, le due acacie si ergevano imponenti davanti al condominio, con la solita rete da circo fissata sui tronchi e abilmente sistemata con gli altri due capi sull’esterno dell’edificio. E lì c’era lei che ci aspettava affamata. Sei mesi, pelo biondo scuro, lucente, aspetto fiero. “Quaranta chili per quanto le basteranno?” “Non credo che dureranno più di un paio di giorni.” La sera, mentre eravamo tutti riuniti nella mia stanza, uno dei nostri coinquilini ci disse che la leonessa era scappata. Per un attimo restammo tutti a guardarci. Non avevamo mai pensato a questa evenienza e ad essere sinceri, dato l’improvviso impatto che questa notizia ebbe su di noi, un po’ ci spaventammo tutti. Di corsa prendemmo le auto e andammo fuori a cercarla. Un leone in una notte fa anche cinquanta o sessanta chilometri di passeggiata. Diamine! Fu con quella sensazione di lieve spavento che sobbalzai sul letto, svegliandomi. Cercai di ripercorrere tutto il sogno, minuto per minuto, per ricordare ancora una volta i giorni che furono: la casa, gli amici, l’orto, le ragazze, la leonessa. Lo spavento scomparve, al suo posto la nostalgia. Nulla ci apparteneva e tutto era nostro. A quei tempi io, anche se già formato dalla leva militare in Marocco, ero un ragazzo che non si poneva limiti. Non potevo porre limiti al nulla che avevo. Niente soldi, niente casa di proprietà, niente di niente. Solo la vita. Il solo limite della vita è la morte. Nessuno spazio e nessun tempo mi poteva fermare. Nessuno. La nostalgia scomparve, al suo posto un irrefrenabile desiderio di libertà. Mentre con la mente viaggiavo attraverso quel sogno di vita già vissuta, non volevo sfigurare con me stesso. Volevo che quella sensazione rimanesse in me, non volevo perderla. Era bella. “Voglio fare un viaggio” pensavo. Accesi la radio. “I don’t need no arms around me I don’t need no drugs to calm me.” 68
La mattina dopo mi svegliai tardi. Mi vidi con la mia compagna. “Voglio lei al mio fianco”. La mia proposta: io, lei, un sacco a pelo, e una vecchia vespa cinquanta, truccata con un motore novanta che la faceva andare molto più veloce del normale. Adoro truccare motorini. Destinazione Grecia. Lei adorava queste mie idee, adorava andare fuori da ogni sorta di limite o imposizione. Lei aveva fatto il ’68, aveva spaccato un bel po’ di culi ai suoi tempi. Era d’accordo su modi, tempi e destinazione, con la piccola aggiunta di un milione di lire, tanto per campare, in questo folle volo. Aspettammo l’estate. Risparmiammo i soldi necessari fino al giorno della partenza. Di buon ora la andai a prendere a casa dei suoi, che non so quanto fossero favorevoli a questo viaggio. Chissenefrega. Lei scese: lunghi capelli castani, fluivano fino alla schiena. L’espressione decisa, da ragazza matura. Maglietta, gonna lunga, un paio di sandali. Io non avevo nulla di più di quanto lei non avesse, solo il sacco a pelo nel quale avremmo dormito insieme. Se fosse dipeso da noi, gli orari di partenza e arrivo non sarebbero esistiti, ma il traghetto ad Ancona non ci avrebbe aspettato. Così partimmo. Finalmente. Il sole in faccia, il caldo torrido, le sue braccia intorno alla vita, la vespa che non mi avrebbe mai deluso! Sensazioni forti. Non mi ero ancora reso conto di quello che stava succedendo, ero troppo contento e basta. Nemmeno mi resi conto di essere già ad Ancona, sul traghetto, che ci avrebbe lasciati ad Atene. Io odio i traghetti. E in particolare quello l’ho odiato più di tutti. Fu un freno momentaneo. Non credo di aver retto più di tre o quattro ore, prima di impazzire, prima di esplodere. Avevo voglia di muovermi. Girai tutto, ma davvero tutto, il traghetto, nella speranza che quella parte di viaggio finisse subito. Era triste. Gli interni avevano il pavimento rosso sangue, annerito dal sudicio delle scarpe e dei copertoni delle macchine, fuori, il balconcino era dipinto di verde pisello con il corrimano di legno, marrone chiaro, coordinato al parquet della parte esterna. Volevo uscire, volevo guidare, volevo volare. Appena la Grecia fu visibile ai miei occhi, mi rivolsi alla mia compagna, con occhi da bambino, di quelli sul punto di chiedere qualcosa di vitale, infantile importanza. “Usciamo di qui”. La prima fermata sarebbe stata quella buona. Non importa dove. Ad Atene ci saremmo arrivati in vespa. Saremmo arrivati dovunque in vespa. Lei accettò. Il traghetto fece scalo. E così mettemmo piede (e ruote) in Grecia. Il molo di legno era deserto. Il porto consisteva in un piccolo casolare bianco e squadrato, con una luce gialla accesa al suo interno. Il passaggio dall’interno non era obbligato quindi montammo in vespa e sviammo per una delle quattro strade che partivano dalla fine del molo. Dovevamo innanzitutto trovare punti di riferimento. Ci muovemmo un po’ nella zona circostante il porto. Era tutto stranamente deserto. Le strade, dritte, tagliate da traverse perpendicolari e illuminate da lampioni, erano vuote. Proseguendo vedemmo un gruppo di ragazzi. Ad occhio erano tutti sulla trentina. Intenzionati a chiedere informazioni, li fermammo. Saranno stati poco più di venti. Scegliemmo loro perché notammo subito che erano tutte coppie: la cosa dapprima ci incuriosì, poi sperammo, visto che anche noi eravamo in due, che per una qualche forma di solidarietà ci avrebbero aiutati. Fortunatamente ci vedemmo giusto. Ci invitarono a casa di uno di loro. Festeggiavano qualcosa che non capimmo, ma ne approfittammo per 69
festeggiare anche noi: lo stomaco brontolava, la voglia di compagnia c’era, per non parlare della voglia di divertirsi. Dopo lo stress del traghetto non potevamo chiedere altro. Li seguimmo, io che portavo la vespa a mano. Camminammo fino ad una casa di modeste dimensioni, isolata dalle altre e diversa per forma e colore. Ci fecero entrare, tutti guarniti di solidale ed entusiasta sorriso. Mangiammo, bevemmo, fumammo, scherzammo, ballammo. Ballammo una ridicola, ma estremamente divertente danza che consisteva nell’abbracciarsi in cerchio, a tempo di musica, girare in tondo, muovendo i piedi come più ci piaceva; poi il ritmo della musica aumentava costantemente, così, nel seguirlo, i nostri gesti si facevano frenetici, quasi caotici. Funzionava così questa danza. Mi stavo divertendo. Mi stavo veramente divertendo: ridevo a crepapelle, non mi fermavo nemmeno quando la musica smetteva. Nessuno si fermava. Anche la mia compagna si stava divertendo. Vederla sorridere mi riempiva il cuore. Come è bella quando sorride. La notte proseguiva e noi, incuranti di essa, continuammo la festa. Intanto, steso su un divano col fiatone, mi chiedevo se in Grecia funzionasse sempre così: straniero o no eri ben accetto, cordialità e ospitalità gratuita, nessuna forma di patriottismo estremo, nessuna discriminazione. A cosa dovevamo tutto questo? Mi chiesi cosa succedeva lì, a livello politico, a livello culturale. Mi immaginai, come forse a molti succede, la Grecia Antica. Tutti identificano quella nazione col suo passato. Anche io. Entrai nei meandri della mia immaginazione, viaggiai tutto il paese dentro la mia testa, vidi templi, monumenti, persone. Vidi Platone, Socrate, Aristotele. Li vidi pur ignorando le loro stesse origini. “È ovvio che siano Greci”. Li vidi parlare ai loro discepoli. Il sapere del mondo è nato qui. Qui la gente si è chiesta il perché della nostra esistenza, qui la gente si è chiesta cosa sta al di fuori del mondo, qui la gente si è chiesta cosa c’è dopo la morte. Fontana di sapere. “Questo viaggio mi cambierà”. E proprio nel mentre di questa mia divagazione, il padrone di casa mi chiamò. Andai verso di lui barcollando, un po’ per l’effetto del bere, un po’ per l’improvviso ritorno alla realtà. Mi fece intendere a gesti che potevamo rimanere a dormire lì da lui. La notizia mi fece piacere. Dissi alla mia compagna della proposta del ragazzo. Quando ci avvicinammo a lui per farci indicare la camera, d’improvviso lui iniziò a squadrarci. La sua espressione, da gentile e cordiale, divenne diffidente e sospettosa. Notai che iniziò ad osservare le nostre mani, in quel momento congiunte in una forte stretta. In inglese ci chiese “Voi non siete sposati?”, rispondemmo di no. Al che, iniziò un complesso discorso sul valore del matrimonio, credo. Continuò per un’abbondante quarto d’ora, parlando in un inglese sempre più arruffato e incomprensibile e, inteso da me, che l’inglese nemmeno lo so, era totalmente impossibile da decifrare. Alla fine di tutto il discorso: noi, poiché non sposati, non potevamo rimanere un secondo di più in quella casa. Non capirò mai il perché di questa fisima. Sta di fatto che incazzato come una iena uscii, offendendoli in ogni modo da me conosciuto. La mia ragazza mi seguì, sia fuori, sia nelle offese. Prendemmo la vespa e ci allontanammo senza meta. Mentre andavamo, a voce alta, per superare il baccano della vespa, disquisimmo sulla nostra prossima tappa. Il sole si stava già affacciando sul mare. Uno spettacolo incredibilmente bello. Di dormire non avevamo voglia. Decidemmo allora di cercare una spiaggia dove poter fare un bagno ristoratore, per smaltire un po’ la sbronza e per rilassarci sotto quel sole che, seppur cocente, ci appariva diverso da quello che picchiava sulle nostre teste in Italia. Era un altro. Più candido, più piacevole. Seguimmo delle indicazioni con dei disegni che ricordavano le onde del 70
mare. Le spiagge che incontrammo erano già piene zeppe di turisti, piene di ombrelloni e sedie sdraio, ognuna col simbolo e talvolta lo slogan del lido che le possedeva. Senza bisogno di dirci che in questi posti non ci saremmo fermati nemmeno morti, cercammo un qualche luogo più isolato, più intimo. Trovare un posto simile ci sembrava impossibile. Ovunque giravamo le nostre teste c’erano solo turisti: gente allegra, armata di macchine fotografiche e bambini, e tutti che facevano un baccano che sovrastava persino il rumore della mia vespa truccata. Per tutta la durata del viaggio mi interrogai sui motivi per i quali il ragazzo della sera prima ci aveva buttato fuori di casa per un motivo così futile. Sono sicuro che io e la mia ragazza stavamo insieme da più tempo di quanto lui non stesse con sua moglie e che il nostro legame non aveva nulla da invidiare al loro. Tutt’ora io non sono sposato con lei. Pensavo ad una qualche situazione socio-culturale che imponeva questa regola. Forse la religione. Forse lo ha detto Platone, o Socrate, o Aristotele. Chi impone tutto questo? “I greci sono un popolo molto compatto conscio della propria storia e della propria tradizione. Non a caso i greci ricordano sempre ai visitatori del loro paese, che sì sono un piccolo popolo rispetto ad altri, che sì sono un piccolo paese, ma che loro sono i padri della moderna civiltà occidentale e che hanno influito non poco anche in quella orientale. Alla base della personalità greca, con tante affinità mediterranee con l’Italia, è la famiglia, centro di tutti i rapporti. La famiglia ha sempre fatto da banca, da protettore e da assistenza per giovani ed anziani. I gruppi di famiglie diventano poi clan di intere province e di intere regioni. Non ci si sente mai soli.” La strada mi scivolava dietro. Arrivammo nei pressi di un sito archeologico, situato in una collina a ridosso sul mare. C’era qualche rudere, recintato da alcune transenne disposte intorno ad essi a formare poligoni irregolari. Scendemmo dalla vespa e ci avvicinammo sul ciglio della collina. Lo spettacolo fu magnifico. Ad occhio, cinque chilometri di spiaggia completamente incontaminati. Bianca. Niente ombrelloni, niente persone, niente di niente. Solo un albero, credo una betulla, ma non me ne intendo, sulla destra, appena sotto di noi. Io e la mia compagna ci guardammo con un sorriso soddisfatto, quasi a dire “missione compiuta”, oppure “ecco il paradiso”. Non ci sembrava vero. Le detti il sacco a pelo, le dissi di scendere giù e aspettarmi sotto l’albero. Io avrei preso la vespa e l’avrei portata sulla spiaggia. Fatto questo scavammo una grande buca nella sabbia, sotto l’albero, nella quale mettemmo il sacco a pelo. Ci volle un’oretta buona per farla. Finita l’opera, esausti, ci facemmo un bagno. Che sensazione sublime: il sudore veniva lavato via insieme al caldo, alla stanchezza, ai postumi della sera prima, a quel maledetto marito greco. Poi tornammo sotto l’albero. Non c’era nessuno intorno. Facemmo l’amore. Passammo in quella buca il resto del giorno e vi dormimmo la notte. Era davvero comoda. Il mattino seguente ci svegliò l’alba. Avevamo voglia di dormire ancora, pertanto la ignorammo, per quanto possibile. Infatti, verso le otto di mattina il sole picchiava già sul sacco a pelo con prepotenza. Ci venne di istinto di rotolarci su noi stessi per seguire l’ombra dell’albero. Che cosa buffa. Se qualcuno ci avesse visto avrebbe riso di noi. E per un’oretta o due, con questo sistema, riuscimmo a farci ancora un po’ di sonno. Quando, verso le nove e mezza-dieci, ci stancammo di questo rotolamento continuo, ci alzammo e facemmo il bagno. Ero sudato. L’aria era torrida. Ma l’acqua, quella era fresca, gioiosa, bella. Ci venne fame. Facemmo una passeggiata lungo il bagnasciuga, che si estendeva a vista d’occhio, curvando leggermente a sinistra, nella 71
speranza di trovare un posto dove mangiare. Non ci volle molto per trovare quello che stavamo cercando. Anche se la scena che ci si presentò davanti era senz’altro curiosa. Una capanna di paglia in mezzo alla spiaggia, che emanava un odore intenso di pesce freschissimo e una processione di una decina di persone che veniva dal lato opposto al nostro, diretti lì. Ci avvicinammo e scoprimmo che quello era un posto assai rinomato. Viaggiatori, persone che abitavano nelle zone circostanti il sito archeologico sopra la collina, a tutte le ore, da ogni luogo nel raggio di tre o quattro chilometri, andavano lì a mangiare pesce, data la qualità e i prezzi più che accessibili. Provammo un piatto di pesce fritto. Era la fine del mondo. Delizioso, delicato. In Italia un pesce così non esiste. A quel punto io e la mia compagna ci guardammo, e, ancora a bocca piena, senza dirci nulla, come telepaticamente, prendemmo una decisione: indipendentemente da quanto volevamo far durare tutta la vacanza, noi saremmo rimasti lì più tempo possibile. Sotto quell’albero, dentro quella buca nella spiaggia, tra il mare e la capanna del pesce. Mangiare, dormire, fare l’amore. Non potevamo chiedere di più. Quindi ogni mattina, l’alba ci svegliava, ci rotolavamo per un’oretta al seguito dell’ombra dell’albero, ci facevamo un bagno e andavamo a mangiare, tornavamo sotto l’albero e vivevamo nell’ozio più totale i pomeriggi, poi, la sera, prendevamo la vespa e facevamo un giro, per sentire l’aria fresca d’estate passarci addosso, dopo andavamo a dormire. Routine degna di un dio. Un giorno, lungo la strada per la capanna notammo un uomo che non vedevamo di solito lì a mangiare. Ci facemmo avanti con l’intento di socializzare. Lui s’irrigidì sospettoso e un po’ impaurito, con gli occhi sgranati, azzurrissimi, la lunga barba e i lunghi capelli castani, squadrandoci da capo a piedi almeno un paio di volte. Dopo vari, convulsi gesti e ridicoli suoni gutturali, riuscimmo a convincerlo delle nostre intenzioni pacifiche. La sua espressione si calmò. Si vedeva subito che era un uomo solitario. Da come si muoveva, dalla distanza che manteneva tra sé e le altre persone. Dallo sguardo sempre attento. Forse noi gli stavamo simpatici. Perché con un grande sorriso ci fece cenno di seguirlo. Così ci incamminammo dietro di lui, che ogni tre o quattro passi ci guardava eccitato, come un cane che, fiero e galvanizzato, torna dal padrone con una preda in bocca. Dopo una camminata di circa un chilometro sulla spiaggia, iniziarono a vedersi i primi pini marittimi e i primi aghi secchi facevano capolino dalla sabbia. Lui abitava dentro quella pineta. Dentro una serie di teloni di plastica trasparenti, sistemati a mo’ di capanna. Da dodici anni. Da solo. Eravamo attoniti di fronte ad una cosa simile. Cosa spinge un uomo a ritirarsi dalla vita sociale fino a questi livelli? “Forse non era sposato” pensai, e feci una smorfia che doveva essere un piccolo sorriso. La fame premeva lo stomaco. Gli chiedemmo di seguirci a mangiare ma lui rifiutò. Allora lo salutammo dandoci l’appuntamento all’ indomani, alla solita ora, li alla capanna, per rivedersi. Lo rivedemmo il giorno dopo. Anche lui divenne routine. Undici giorni. Poi decidemmo di ripartire. Non salutammo nessuno. Non mi ricordo perché prendemmo questa decisione. Ma era come se volessimo andare via in modo uguale a come eravamo arrivati lì, per quella gente . In silenzio, in punta di piedi. L’oste della capanna certamente ci aveva cucinato il nostro piatto di fritto di pesce, così come era abituato a fare da undici giorni. L’uomo della pineta ci aspettava sicuramente lì, nel lembo di spiaggia vicino alla capanna del pesce, forse deluso del fatto che non era riuscito a farci vedere l’interno della sua “casa”. 72
Da quel punto in poi i rimanenti giorni di vacanza in Grecia furono più che altro passati sulla strada, in sella alla vecchia vespa che non perdeva un colpo, con la mia compagna che mi stringeva la vita, come io volevo che fosse. Facemmo un bel po’ di strada: non mi ricordo da dove partimmo, poiché non mi ricordo dove eravamo stati negli ultimi giorni, ma il nostro obbiettivo era Atene, al porto, per imbarcarci e tornare in Italia. Vedemmo scorrerci accanto un mondo totalmente diverso e sconosciuto. Avevamo stabilito di fermarci solo in casi di emergenza, o comunque per mangiare o per riposare, quindi facemmo pochissime soste e in luoghi non troppo degni di nota. A parte uno. Quello me lo ricorderò per sempre: al seguito di un interminabile rettilineo di una superstrada (che con la mia vespa, per il codice della strada, non potevo neanche percorrere), c’era una minuscola uscita sulla destra, una strada stretta, senza guard rails, che, curvando sempre a destra, dava sulla campagna deserta. Notai, e questo dettaglio mi spinse a scegliere quella strada, una piccola casa, probabilmente di legno, annerita dal tempo, col tetto a spiovere e un curioso, sottile comignolo consumato che usciva da questo. Che figata. Quella strada ci ha condotti verso un quartiere dotato di un fascino veramente particolare: era pieno di colori. Gli edifici, le strade, persino le persone. Ma soprattutto le macchine. Veicoli variopinti con colori allegri e raggianti. E poi, cosa che mi dette veramente i brividi, data la mia passione per i motori, erano macchine composte di pezzi di varie altre auto: per esempio macchine con la parte dietro di una Fiat 500 e il davanti di una Mercedes. Tutte colorate. Le più disparate combinazioni. Infinite. Come scordarsene. Mangiammo un boccone in un locale pieno di persone allegre e rumorose. Poi ripartimmo. La mia compagna perse un sandalo lungo il tratto di superstrada successivo. Proseguì scalza. Quel viaggio ci ha segnati. Ha consolidato la nostra unione, ci ha resi inseparabili. Ha alimentato la nostra voglia di libertà. E ci ha dimostrato che essa è raggiungibile. Ed è bellissimo. In traghetto siamo stati ore ed ore a guardarci negli occhi, col sorriso in faccia. Senza toccarci, senza baciarsi. Sorridevamo e ci guardavamo. Ripercorrendo ogni secondo della vacanza. Tornati a casa lei mi disse: “che facciamo domani?” Io non le risposi. Sorridevo come un’ebete da più di ventiquattro ore. E volevo continuare a farlo. Il giorno dopo eravamo sulla strada statale da Livorno a Firenze, a piedi, un sacco a pelo, i pollici alzati. Destinazione Barcellona. — Alessio Scarito
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BARCELLONA
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Barcellona era una città ricca. Ricca di idee, di opportunità. Ricca di stile, di etnie. Ricca di fascino, di colore. Io ero ricco di curiosità. Ero curioso di vivere. Curioso del mondo. Un mondo spazioso. Volevo spaziare. Volevo allargare la mia visione. Cercare più cose possibili. Essere il mondo. Come se, steso sull’erba, volessi occupare più spazio possibile, stendendo le gambe, allargando le braccia. Allargare il mio orizzonte. Dai sobborghi nei pressi dei quali abitavo, scappai in centro. Basta casa, basta genitori. Erano persone assenti nella mia vita, avevo poco da spartire con loro. Un anno prima della mia partenza fu mio padre ad andarsene. Non disse nemmeno che andava a comprare le sigarette, come invece aveva fatto il padre del mio amico, nonché vicino di casa. Scapparono nello stesso periodo. Forse sono andati via insieme, loro, chissà. Stanchi delle loro mogli e di noi. Stanchi dei debiti e delle buie cantine del quartiere sudicio dove abitavano. La differenza cruciale tra me e mio padre consisteva nel tipo di “stanchezza”, motivo della dipartita. Scappare per stanchezza, cercare pace e al contrario scappare dalla pace, per cercare novità, spazio, esperienze, fino alla stanchezza. Mi volevo stancare io. Ma col fiatone, il sorriso sulle labbra. Lesto nel voler ripartire alla volta di chissà quale altro obbiettivo. Tutto inconsciamente. Cosa potevo sapere di queste cose io? E come avrei potuto saperne? Curiosità come motore, come incentivo, come musica che accompagna, come calcio nel culo all’abitudine. Imparai l’arte del fabbro. Per due anni ho scansato la fame vendendo oggettini di mia creazione, quali collane, braccialetti e anelli, al mercato. Per due anni ho scansato il vento gelido della notte giocando a fare il povero, il bisognoso, l’orfano. Elemosina. Asilo. Con casa mia che distava una dozzina di chilometri. E quando, stanco di questo, col fiatone, il sorriso sulle labbra, curioso, più grande, più ricco, partii per il Marocco, per la leva militare. Il gioco era finito. La Regola non si può scansare. La conobbi. Appuntai ciò che imparavo di Lei ogni sera su di un taccuino. Era una cosa nuova per me. Nuova e affascinante. Mi prese, mi agganciò, come un amo. La studiai leggendo libri di diritto, di legge, di storia. Libri di filosofi illuministi. La Regola non ha aspetti negativi. O almeno non tanti quanti ne dicono. Chi parte dal presupposto della negatività della Regola, non ha capito niente. La Regola è una pista. Una pista è un gioco. Un gioco di macchine, un gioco di costruzioni, un gioco di carte. Indifferente. Giocare bene le carte. Sfruttare al meglio le possibilità. Tutto è in gioco fino alla fine. Bene, la Regola mi stancò. Sempre più col fiatone, sempre più sorridente, sempre più ricco. Sempre più lesto nello scegliere la prossima strada da seguire. Sensazioni possenti. Anni ’80. Barcellona. Il Centro si estende. Le industrie crescono. Le industrie schiacciano i monti, li bucano per scavare gallerie. Demoliscono case, quartieri, paesi. Come una gomma da cancellare su di un foglio. Tutto bianco. È possibile
ora riscrivere. Quello che c’era prima ora non c’è più. Siamo proiettati al futuro. Il passato perde. Le Persone diventano Operai. Io ero lì. Vedevo lo spettacolo. Non ero solo. Ero motivato. Avevo una bandiera rossa sulla testa a mo’ di bandana. Anarchico. Anarchici. A suon di bastoni e qualche arma da fuoco occupammo un quartiere intero. Quel quartiere non divenne Centro. Strano e buffo pensare ad un quartiere di periferia circondato dal Centro. Anzi a pensarci bene è illogico, impossibile. Avevamo fatto l’impossibile? Le case abbandonate divennero nostre. Nostri erano i terreni che le circondavano. Nostra divenne la Regola. Nostra divenne la vita. — Alessio Scarito
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L’OROLOGIO ALL’INDIETRO
Abbiamo la piacevole possibilità di intervistare la simpatica Signora Fernanda Rosi. Cominciamo a parlare dei luoghi a cui è particolarmente legata. Innanzitutto il luogo in cui sono nata, è un piccolo paesino chiamato “Grillo”, ci sono rimasta fino all’età di 22 anni, poi mi sono trasferita a S. Giovanni. Ma non posso dimenticare anche S. Barbara dove andavo a ballare il valzer nella piazza centrale del paese, soprattutto per la festa del Perdono. Il luogo, però, più caro è la “Badiola”. Se ripenso a quando sono stata lì mi tornano alla mente solo bei ricordi: la cresima, la comunione, il mio matrimonio. Al cimitero di questo paese è sepolta tutta la mia famiglia e tutte le volte che ci ritorno è come tornare tra la gente di un tempo. Mentre risponde alle domande Fernanda ha uno sguardo un po’ perso nel vuoto e un sorriso sulle labbra; dispiace interromperla ma abbiamo altre domande da farle. Lei ci ha detto prima di iniziare l’intervista di aver vissuto in pieno la Seconda guerra mondiale. Provi a descriverci quel periodo. Ah, che giorni orribili erano quelli! Dovevamo sempre stare all’erta perché i tedeschi arrivavano all’improvviso. Poi c’era la paura delle bombe. All’udire il suono della sirena correvo velocemente, insieme alle mie sorelle, in un rifugio sotterraneo scavato dai contadini per ripararsi. Ma la paura che provavo non era niente in confronto al terrore che mi accompagnava quando, al ritorno, dovevo stare attenta a dove mettevo i piedi: l’erba era alta e non vedevo niente, bastava poco per saltare in aria. Ogni volta mi tremavano le gambe e gli si arrossavano, ma continuavo a camminare spinta dal coraggio che ora mi sembra impossibile aver avuto. Era come se la ragazzina che ero allora fosse un’altra. Per fortuna, oggi qui in Italia, non dobbiamo più vivere momenti come quello! 76
Quindi, la sua infanzia e la sua adolescenza alternano momenti di spensieratezza a momenti di vera paura; ma andiamo un po’ avanti nel tempo: all’età di 22 anni si è trasferita a S. Giovanni e qui come è cambiata la sua vita? Mi sono sposata, ho avuto una figlia e ho iniziato a lavorare. Come primo impiego sono stata assunta come lattaia: ogni mattina dovevo consegnare il latte alle famiglie che vivevano in paese. Poi, a causa di una grave malattia che colpì mio marito, mi sono dovuta licenziare per cercare un lavoro più redditizio. Grazie a Dio in una fabbrica in periferia cercavano donne che sapessero usare la macchina da cucire e così sono stata assunta. Ho lavorato duramente per sedici anni portandomi spesso il lavoro a casa, poi mi sono licenziata visto che mia figlia lavorava a a mio marito è stata riconosciuta l’invalidità al 100%. Bene, siamo giunti alla fine del nostro incontro. Ci vuole salutare dicendo ai ragazzi di oggi ciò che pensa debba essere ricordato della sua generazione? Una cosa che oggi sta scomparendo è l’intraprendenza e la volontà di fare, nonostante le difficoltà o la giovane età. I ragazzi di oggi credono che tutto sia loro dovuto, senza capire quanto sia importante avere un’istruzione e non dover essere costretti ad andare a lavorare. Penso che per loro sia difficile,se non impossibile, immaginare la vita dura che abbiamo avuto noi alla loro età: ogni minima cosa andava guadagnata e niente andava sprecato. Comunque un saluto affettuoso e grazie per avermi riportato un po’ indietro nel tempo. — Aurora Toso
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PIZZA LISCIO E HOUSE … Questo racconto non è altro che la memoria di mio nonno mescolata alla mia: narro di come i miei nonni si sono conosciuti, ripercorrendo le tappe più importanti che portano al loro fidanzamento, avvenute in luoghi che tuttora io frequento, che magari nel corso degli anni sono cambiati e sono diventati ambienti diversi. Il centro del racconto si svolge nei pressi del giardinetto Ardenza di San Giovanni Valdarno: lì, una sera, durante la metà degli anni 40, i miei nonni materni si sono fidanzati, e sempre lì, io e le mie amiche, un sabato sera del 2007, abbiamo trascorso una piacevolissima serata ballando sulle note di musica “moderna”. Lo scopo è quello di evidenziare le differenze tra la mia generazione e quella dei miei nonni. Molte cose sono cambiate, alcune in meglio, altre in peggio. Questo racconto è quasi una testimonianza delle abitudini di questi anni, anni vissuti da un’adolescente e di conseguenza così raccontati Quella sera mi isolai dal mondo, nella mia mente le parole di mio nonno si legavano a ciò che avevo visto per tante volte, senza mai soffermarmi accuratamente sui particolari di quei luoghi, quando tornai a casa avevo una sola convinzione: volevo saperne di più, volevo osservare i cambiamenti apportati a quei posti di cui mi aveva narrato con passione e nostalgia. Scesi dalla macchina con addosso ancora quell’odore pungente di acetone che avevo usato poco prima per togliermi lo smalto, tutta infreddolita a causa della pioggia scrosciante che ormai cadeva da tutto il giorno; eravamo le prime, mi appostai sotto una pergola cercando di ripararmi dall’acqua, e attesi... Certo che poteva scegliere un posto meno sperduto per festeggiare un compleanno, pensai, quella salita è veramente ripida e difficile da percorrere al buio. Era fine settembre, io me ne stavo sdraiato sul prato, quando vedo una bellissima fanciulla venirmi incontro e pestarmi una mano facendo finta di niente… Chissà, forse era proprio quella la salita un tempo erbosa, dove mio nonno la vide, un anno dopo il loro ultimo incontro, mi sporsi per guardare meglio la strada, un piccolo madonnino a lato di questa catturò la mia attenzione. “Torno subito”, dissi a Selene, noncurante dell’acqua che mi stava increspando i capelli appena lavati e sistemati, mi avvicinai alla strada asfaltata. …Io la fissai e sorrisi, aveva degli occhi bellissimi, sembravano due grandi nocciole, e i capelli neri corvini le scendevano sulle spalle, lasciati al vento, sembravano morbidi come seta…
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Una luce accecante mi distolse dai miei pensieri, me ne tornai al riparo e mi accorsi di essere tutta bagnata: era veramente cominciato Gennaio. Entrammo nella pizzeria, ad accoglierci un grande specchio ci obbligò a compiere uno slalom tra i tavoli prima di arrivare al nostro, disposto a ferro di cavallo con sopra i tovagliolini accuratamente ripiegati e i bicchieri riposti all’ingiù. Chissà un tempo cosa c’era al posto di questa pizzeria, forse soltanto qualche albero o un piccolo casottino che veniva adibito a bar durante l’estate. Le chiacchiere rumorose dei miei amici divennero un brusio leggero, quasi
impercettibile, mentre io mi rivedevo all’Ardenza: jeans strettissimi, tacco 8cm, e camicia bianca a body, capelli accuratamente piastrati e trucco impeccabile, attendevo di entrare in quel posto che mi aveva sempre suscitato curiosità e che non avevo mai visto all’interno. Pensavo ci ballassero il liscio, invece quella sera Gabriele era pronto a farci scatenare al ritmo della sua musica controllata da una complicata consolle. … La rividi di nuovo, a ballare al giardinetto Ardenza, la squadrai per tutta la sera, non la persi di vista un attimo, e lei lo sapeva, sentiva i miei occhi sul suo corpo, pronti a captare ogni suo movimento, sentiva il mio battito accelerare o diminuire in rapporto alla nostra vicinanza, e tutto questo le piaceva, i suoi occhi luminosi come gemme sorridevano di soddisfazione… Finalmente entrammo, presentai la mia prevendita e ci avviammo al guardaroba per lasciare i nostri caldi giubbotti; la ghiaia che circondava la pista circolare strideva sotto i miei tacchi, ma i piedi ancora non accennavano a lamentarsi: energiche come non mai, io e le mie amiche ci buttammo nel nostro ballo sfrenato, composto da movimenti convulsi e anomali per chiunque non faccia parte della nostra così contestata generazione. Il volume altissimo e invadente della musica sovrastava il rombo delle macchine che sfrecciavano nella strada al di fuori delle mura dalle quali eravamo circondati, il fiume subito sotto di noi contribuiva a rendere tutto l’ambiente simile ad un piccolo giardino tagliato fuori dalla cittadina. A San Giovanni non c’è mai stata una vera e propria discoteca, l’unico piccolo locale adibito a ciò era questo: all’inizio della pineta, sulla destra del ponte vecchio e subito prima dell’Arno, un luogo transitato, ma uno dei più verdi di tutto il paese. Qui circa una o due volte l’anno è possibile passare una piacevole serata ballando e affidandoci al gusto del dj in carica. …Sai, un tempo era tutto diverso da come è adesso, andavamo lì il Giovedì sera e ballavamo il liscio, noi piccoli uomini di solito accompagnavamo la nostra “dama”, ma io quella sera ero solo, pronto per provare a conquistarla di nuovo: vestito elegante, colonia nuova, scarpe lucidate il giorno stesso, non avrebbe potuto resistermi a lungo… Il liscio, prima di andare a ballare il liscio io me ne sto volentieri a casa a guardare la televisione, o addirittura a letto… Improvvisamente Ilenia, con degli strani gesti, cercò di richiamare la mia attenzione per dirmi che il suo cellulare stava squillando, dopo aver compreso quello strano segnale mi allontanai dalla consolle e mi avviai verso l’uscita… grazie al timbro sulla mano destra che mi permetteva di entrare e uscire facendo il mio comodo raggiunsi Marco, Nicola, Matteo e il loro gruppo, per salutarli, le macchine sfrecciavano veloci, la musica era ben udibile anche all’esterno e gruppi sparsi di ragazzi e ragazze tirati a lucido attendevano di entrare o semplicemente si intrattenevano a scambiare due chiacchiere strofinandosi nervosamente la mani sulle braccia per il freddo. “Non entrate?” “No, non possiamo, dobbiamo tornare a casa tra poco” “E dai! Non potete chiamare e dire che fate più tardi?” “E no… mi dispiace, sarà per un’altra volta, com’è la musica?” “Non male, poi tanto il Brandi lo conosciamo quindi cerca di accontentarci un po’!” “Avete preso qualcosa da bere?” 79
“Solo un beautiful a metà con Ari, è buono, sa di fragola.” “Allora domani che si combina? Cinema?!” “Non saprei non so se ce la faccio a studiare latino, semmai esco solo un’oretta, te Marco che dici?” “Mah, risentiamoci meglio domani ok?” “Ok, torno dentro che comincio ad avere freddo, a domani allora, ciao!” “Ciao! Divertiti mi raccomando, ma non troppo!” … Dopo aver dovuto osservarla che ballava davanti a me con numerosi spasimanti, avendo passato tutto il tempo con dei miei amici facendo finta di niente e cercando di non cadere nei suoi tentativi di ingelosirmi, mi avvicinai alle sue amiche con le quali danzai un poco… Tornai dentro, la folla era triplicata e strano ma vero, c’erano anche loro: il gruppo che in quel momento ritenevo il più figo, proprio perché c’era lui, già, Andrea, non riuscivo a togliermelo dalla testa ormai da circa 8 mesi, e pensare che adesso mi sembra solo uno stupido; raggiunsi alcuni miei amici e cominciai a ballare con loro, sperando di farmi notare da lui, finalmente mi vide, un bacio sulla guancia, un classico come va? E via, ognuno per la sua strada. Chissà che cosa pensò di me, mi riterrà ancora carina? Questa domanda mi si poneva davanti ogni volta che lo vedevo, ormai era solo una curiosità, poiché ero già impegnata. Tornai dalle mie amiche, erano tutte insieme tranne una: Ilenia, di nuovo in compagnia di Enrico. … Per l’ultimo ballo della serata, però, volevo solo lei al mio fianco, perciò mi avvicinai e con una voce alquanto galante le chiesi “signorina le andrebbe di ballare con me?” e lei non rispose, mi fissava con quei suoi occhi furbi e un volto così radiante e solare che poteva dirmi tutto e niente. Con delicatezza le presi le mani e cominciammo a danzare... Contenta lei, pensai un po’ disgustata all’idea di poter stare con Enrico, contenti tutti, la serata stava terminando e alcuni ragazzi stavano già abbandonando la pista lasciando maggior respiro a noi, che imperterrite continuavamo ad esibirci nella nostra particolare danza. … Dopo un po’ che ballavamo guidati dal riflesso dei nostri occhi in quelli dell’altro e fantasticando con le nostre menti ubriache di felicità, io la strinsi ancor di più a me e con uno sguardo accattivante ed un sorriso ammaliante le chiesi “che ne dici allora di provare a stare insieme?” Questa volta mi rispose e il suo sì riecheggiò nella mia testa così tante volte che ancora riesco a percepire la sua voce così flebile e delicata da un lato ma forte ed energica dall’altro che in quel momento mi regalava una gioia immensa. E fu così che ci fidanzammo, passammo giorni felici, e dieci anni dopo ci sposammo… “Ehi, bella addormentata, come la vuoi la pizza?” dopo un tempo che mi sembrò un’eternità tornai seduta al mio tavolo, circondata dai miei chiassosi coetanei “panna e prosciutto grazie”, me ne pentii subito, dovevo restare leggera, o i miei jeans superstretti non mi sarebbero più entrati. — Virginia Vanni
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finito di stampare nel febbario 2009 a Montevarchi dalla Tipolitografia “La Zecca�
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La scuola di Kanougou Kanougou è un villaggio del Burkina Faso che viene conosciuto dai volontari italiani nel 1992, quando un certo Ascille Belemsigri chiede alle Suore Camilliane di aprire un dispensario nel suo villaggio, che è appunto Kanougou. Le suore rigirano l’idea ai volontari che periodicamente si recavano là, ospiti nel convento stesso, per trovare i finanziamenti necessari e il gruppo di Don Carlo Donati, con l’interesse di Don Gabriele Marchesi, si prende carico di questa idea. Nel 1993 viene costruito il dispensario con il contributo dell’associazione di Don Carlo e del Comune di Montevarchi, con l’allora Sindaco Massimo Gregorini che nel dicembre 1993 si reca in Burkina per l’inaugurazione della scuola. Infatti, in questo stesso villaggio, il Comune di Montevarchi ha finanziato la costruzione di tre aule per la scuola elementare, essendone presenti solo tre, per offrire una classe per ogni anno visto che in Burkina la scuola elementare dura 6 anni. Durante l’estate del 1993 a Montevarchi viene effettuata allo Stadio “Brilli Peri” una partita di beneficenza tra preti e polizia municipale con don Pasquale in porta… per l’acquisto di una Jeep Land Rover da destinare alle Suore Camilliane per recarsi a Kanougou ad aprire il dispensario almeno una volta la settimana. Questa jeep è ancora là, anche se non più efficiente, con la scritta sulla portiera: “dono della comunità di Montevarchi”. Nel dicembre 1994 Paolo Turini si reca a Kanougou, con il viaggio aereo pagato dal Comune di Montevarchi, per mettere le mattonelle nelle tre sale di cura del dispensario, rendendo la struttura attiva e pochi mesi dopo, appena ultimato il muro di recinzione, avviene l’inaugurazione. Nel febbraio 2002 Paolo Turini e Caterina Piu iniziano a seguire lo sviluppo del progetto Song-taaba, destinato alla formazione e sostegno dei giovani (per lo più orfani) per evitare la fuga fuori dal villaggio. Nei vari anni al Comune di Montevarchi veniva chiesto un aiuto per il mantenimento di queste strutture, cioè i medicinali per il dispensario e i libri per la scuola. Grazie anche all’impegno di Don Gabriele, i primi anni sono arrivati aiuti per i medicinali e poi con il Centro missionario Bakonghe gli aiuti si sono rivolti soprattutto alla scuola. Infatti, dal 2004 l’associazione cattolica americana che sosteneva la mensa della scuola ha cessato i suoi aiuti. Il direttore della scuola, senza più mensa, si è presentato a noi del Song-taaba chiedendo aiuto e noi abbiamo risposto: faremo quello che è possibile…ci vogliono due sacchi di riso (30 euro l’uno) al giorno e un pò di condimento. Centro Missionario Bakonghe
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Euro 15,00 Il ricavato della raccolta fondi realizzata con questo libro verrà interamente devoluto all’acquisto di riso per sostenere la mensa della scuola di Kanougou, in Burkina Faso.