scritti argan

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E' sempre difficile parlare della pittura di un amico, si sanno troppe cose della sua vita. Però, nel caso di Brajo Fuso, bisogna saperle e, sapendole, non si può che essergll amico. Non si può capirlo come artista senza sapere che fa il medico o lo fa benissimo, da tanti anni, con tutto l'impegno scientifico e umano che la professione richiede; è anche docente nell'Università. L'arte, per lui, non è riposo né sfogo; è un altro lavoro e vi si dedica con lo stesso tipo d'impegno, magari la mattina avanti giorno o in sera tardi. Non ha dunque due vite, ne vive bene, interamente, una sola. Fa anche altre cose, per esempio scrive racconti fantastici per ragazzi e li illustra; poi, magari, non si dà la pena di pubblicarli. Pratica inoltre un suo curioso tipo di giardinaggio, e qui davvero si potrebbe credere d'aver finalmente scoperto il suo divertimento del tempo libero; ma tempo libero non ne ha, e anche il suo giardinaggio rientra nel circolo della sua attività, è il punto d'arrivo dal bricolage o dello assemblage. Di giardini ne ha due: uno sulla collina di Perugia e l'altro ad Ansedonia. Li tira su con una tecnica tutta sua, lasciando crescere la vegetazione spontanea ed operando gli innesti più stravaganti, disseminandoli di pezzi di scultura e di ceramica, di costruzioni bizzarre e burlesche di sassi e di ferro, di rottami e di cocci di tutti i colori. Nel giardino di Perugia ha costrulto alla rustica un basso padiglione, seminascosto nel verde e tutto disarticolato per non disturbare le piante; e vi ha raccolto una larga scelta di quello che, in pittura, scultura e ceramica, va facendo da più di vent'anni. E' il racconto della sua vita, ma senza il minimo senso autobiografico, ed é il ricordo che vuole lasciare di sé alla nobile citta’ di provincia dov'é nato e vissuto. A visitarlo facendo attenzione alle date si trasecola tante sono le cose che Brajo ha trovato e sperimentato, senza farne un gran caso, prima degli altri. Del resto, se gli altri non hanno mostrato di accorgersene, la colpa è un po’ sua: quello che ha fatto non lo ha tanto fatto per fare, dell'arte quanto per assistere, un pò da dentro e un po’ da fuori al fenomeno di se stesso. Nella matassa della sua esistenza l'arte é il filo rosso che spiega tutto: è l'invenzione, la descrizione, qualche volta la presa in giro della propria persona. Come prima, provvisoria definizione, si può dire che Brajo e’ anzitutto un curioso. La più piccola cosa richiama il suo interesse: quanto basta perche’ la raccatti e la metta da parte con l'idea che potrà sempre servire. Per lui, niente e’ insignificante, non c'è cosa che non sia un segno. Può darsi che sia il tipico attteggiamento del medico, per cui tutto fa sintomo; ma v'è piuttosto ragione di credere che l’interesse del medico e quello dell’artista siano lo stesso interesse verso la vita, propria ed altrui. Le prime cose che ha fatto in pittura, subito dopo la guerra, sono illustrative, narrative, commentarie, con una vena mista di malinconia e d'umorismo: scene di ospedale, di campo di concentramento, di folla cittadina. Il modo del racconto è espressionistico, vagamente ensoriano, non senza un certo gusto di fare l'ingenuo, il pittore della domenica. Brajo racconta, insomma, la condizione


curiosa e fastidiosa del medico che non può andare in mezzo alla gente senza cogliere in ciascuno dei suoi simili - nel colorito del volto, nell'ansia dello sguardo, in una smorfia repressa, in un tic represso - il sintomo certo di una malattia, che probabilmente quelli non sanno di portarsi addosso. L'ironia diventa allora una necessità, una difesa professionale, come il camice bianco. Ora sappiamo, e non è una scoperta, che la curiosità è solo la manifestazione esterna di una sensibilità in continuo allarme. Il passaggio ad un altro livello, in cui quel disagio psicologico potesse sublimarsi, era indispensabile per non cadere nell'abusata aneddotica della letteratura professionale. Già verso il '50 alle figurazioni ironiche ed amare cominciano ad alternarsi i primi saggi non-figurativi, materici e di gesto. Brajo non è arrivato all'informale per reazione ad un astrattismo geometrico e costruttivo. Che cosa conoscesse, allora, della pittura contemporanea è difficile dire: probabilmente quello che ne sapevano le persone discretamente informate, in Italia; non certo quanto bastasse per fondare la propria attività su una meditata esperienza delle nuove correnti. Se, e non si può contestarlo, certe cose Brajo le ha sperimentate prima di altri, è soprattutto perchè, per lui, la sperimentazione è un abito mentale prima ancora che un'attitudine e una consuetudine professionale. Non aveva un programma una linea da mantenere, non un passato d'artista da difendere o, quanto meno, da non compromettere. Non si è mai proposto di portare acqua al mulino della pittura; ma al suo mulino, di acqua, la pittura ne ha portata molta. Era il mezzo di rivelarsi, di spiegarsi a se stesso: uno specchio. Ora il suo interesse sperimentale si rivolge specialmente alla materia fisica della pittura, al tessuto: la sua è ormai una curiosità biologica, istologica. Se ne avvede, chiama i suoi dipinti "straticromie", perchè il metodo della ricerca è essenzialmente stratigrafico. Il tessuto pittorico non è l'immagine, la proiezione del tessuto organico; è un tessuto artificiale che può benissimo comportarsi con un tessuto organico, sostituirlo anche soltanto in parte, determinare con esso qualcosa di nuovo e di diverso, nè naturale, nè artificiale, che tuttavia funziona. Studia il comportamento della materia plastico-colorata, il suo modo di scorrere e di coagulare, di alterarsi al contatto di certi agenti chimici, di rivelare all'analisi qualità celate, che tuttavia diventano di colpo, clamorosamente evidenti. Tratta la materia secondo tecniche diverse, che vanno dal collage al dripping; sa benissimo che, nell'esperimento, chi lo fa non è soltanto un osservatore. Tutto dipende dal tempo e dal modo dei suoi interventi. Sorveglia, pur cercando di lasciarla libera, la manipolazione dei suoi ingredienti: se l'operatore non si mette all'unisono con l'oggetto, l'esperimento non può riuscire. Passando così dalla corsia al laboratorio, il suo atteggiamento di fondo non muta: solo che ormai la pittura non è più nota o commento a margine dell'esperienza medica, ma la stessa ricerca su un piano diverso, il piano dei fenomeni visivi. Il fenomeno bisogna


provocarlo e poi disturbarlo, deviarlo, dirigerlo. Se tutto si riducesse a osservare come un tessuto si organizzi, si complichi, proliferi, si irrori o inaridisca, si nutra o languisca, saremmo ancora nell'ambito della documentazione scientifica; mentre qui la ricerca è tutt'altra, forse quella dello apprenti sorcier che interviene nell'ordine dei fenomeni e non ha paura di scompaginarlo, di combinare un monte di guai. Di fronte ai materiali, alle tecniche, agli strumenti, Brajo non ha inibizioni; non ha il gusto dell'aleatorio, ma gli piace sorprendere il caso, rilanciarlo o imbrigliarlo. Nulla è più lontano dalla sua mentalità che la ricerca di contenuti profondi, di significati simbolici; la sua pittura è apparentemente divagata e leggera, una scaltra schermaglia tra il comportamento spontaneo delle cose ed il proprio. Arriva prestissimo a far pittura con tutto quello che gli capita tra le mani o gli cade sotto gli occhi; ma ogni nuovo ingrediente è giocato come una carta, e c'è sempre una regola del gioco. Il giro mentale è tutt'altro che semplice. L'ironia come difesa c'è ancora: e vale per la professione pittorica non meno che per la medica. Nell'una e nell'altra non c'è nulla, proprio nulla, di trascendentale; nè la scienza nè l'arte si scrivono con la lettera maiuscola. Hanno qualcosa in comune, qualcosa che non appartiene in proprio nè all'una nè all'altra: sono un modo di essere nel mare profondo e agitato del reale e di annaspare per non farsi sommergere. Empirismo sempre; e all'empirismo corrisponde una sorta di artigianato, abbastanza semplice nei suoi strumenti, ma complicato e agilissimo nei procedimenti. Il medico non cerca di ricondurre l'ammalato ad una condizione ideale, all'inesistente archetipo dell'essere perfettamente sano: constata che nel quadro delle sue funzioni organiche ci sono dei guasti e cerca, come può, di ripararli. Allo stesso modo, l'artista constata che nel quadro dei fenomeni percepiti c'è qualcosa che non va, qualcosa con cui non si riesce a trovare o si è smarrito il rapporto, la possibilità di adattamento; e cerca di rimetterlo a posto senza affatto proporsi di ristabilire un ordine assoluto, naturale o matematico che sia. Si sa benissimo, del resto, che quest'ordine non c'è, è un'astrazione esattamente come l'archetipo umano ideale. E, infine, l'immaginazione è ancora. qualcosa che si produce in noi e che può facilmente ammalarsi, funzionare a rovescio; ma forse si può accomodare, entro certi limiti, l'apparato dell'immaginazione come si può riparare l'apparato digerente o il sistema nervoso. Se non c'è attività umana che non miri a migliorare ii rapporto con l'ambiente (col rischio, naturalmente, di peggiorarlo), ogni lavoro umano, sia quello dello scienziato o quello dell'artista, si riduce, in pratica, a un accomodare alla meglio: districando grovigli, riannodando legami saltati, rimettendo a posto cose spostate. inserendo un pezzo di ricambio dove proprio non può farsene a meno. Chi sa poi se il medico guarisca la nostra. malattia o ci abitui a vivere con essa e, magari, di essa? E che l'artista non ci abitui a vivere con la realtà che ci circonda, anche se non è l'ideale? Certo è che tutto l'interesse di Brajo, medico pittore, non è rivolto a creare ipotetiche strutture ed immagini dei mondo, ma a ritoccare, a mettere in grado di funzionare, la realtà che la nostra mente, sana o malata che sia, percepisce. Tessuti malati sono sempre tessuti vivi, la malattia può anche essere un'intensificazione della vita: l'importante, in ogni caso, è di


lavorarci sopra e forse la vita è proprio questo continuo riprendere, rassettare, rimettere in funzione quelle che, col tempo, si logora. Molto presto Brajo passa dal polimaterismo all’assemblage: col solito anticipo sulle scoperte "ufficiali". L'inventario delle cose che preleva dal contesto della realtà non finirebbe mai; si tratta sempre, però, di una realtà vicina, a portata di mano: listelli di legno, imballaggi, paglia di vetro, tessuti di tutti i tipi, pezzi di ricambio per automobili e biciclette, matasse di filo metallico, oggetti da pochi soldi comperati sotto casa all’Upim, barattoli, imbuti, piattini, posate, tappi, bottoni. E poi, quasi sempre, il colore. la pittura: un ingrediente che qualche volta può sembrare fuori posto, come se rompesse l'unità del contesto, ed è invece necessario perchè, nel miscuglio, costituisce il reagente o il catalizzatore. Brajo si è ormai accorto che la sua vera vocazione è quella del bricolage; e certo, quando se n'è accorto, non aveva letto Levi Strauss. Evidentemente il bricolage, oggi come nelle cu!ture primitive e selvagge, implica una concezione della realtà: un interesse immediato ed eminentemente pratico per le cose, un bisogno di stabilire con esse un rapporto di possesso, di utilizzazione dilazionata. Si prende qualcosa per metterla in qualche posto, qualche volta soltanto per nasconderla, per farsene una proprietà esclusiva: Brajo, le cose che raccatta le ripone nella pittura, è il suo modo di toglierle dalla circolazione del consumo, dove non possono avere alcun significato. Gli oggetti che entrano in gioco non sono, per se stessi, molto significativi: è roba che si trova dappertutto, magari nei bidoni dei rifiuti. L'atto del raccattarle non implica una scelta, un'attribuzione di valore simbolico: è certamente escluso ogni riferimento, ammirativo o deprecatorio, al cosiddetto "mondo tecnologico". In fatto di tecnologia, siamo decisamente al livello dell'officina del ciclista o dello stagnaro, dove s'accomoda alla meglio un pò di tutto. Sarebbe troppo facile fare dell'ironia sulla "perfezione" tecnologica, sul congegno lucido e perfetto che può aver bisogno d'esser riparato da un meccanico di paese; piuttosto, è simpatia sincera per l'inventiva e la bravura di quel piccolo artigianato che vive ai margini della grande industria e, in certo senso, la integra e la contraddice ad un tempo, perchè utilizza tutto ciò che, in una perfetta società industriale, andrebbe a finire nella spazzatura. L'ironia, semmai, è rivolta proprio a quelle attività che si vantano di essere strettamente scientifiche e, in definitiva, non sono nulla di diverso dall'artigianato empirico. Ma si rivolge anche, intenzionalmente o no, a quell'arte che si chiama di reportage e va sempre in cerca di simboli sociali altamente significativi. Che mai si potrà trovare prelevando un campione d'ambiente e analizzandolo con il vecchio processo della pittura? Ancora tutte quelle cose, per lo più logore e deteriorate, che gremiscono il nostro spazio vitale e che finiamo di assorbire con gli occhi, così come respirando assorbiamo la polvere e i microbi della strada o il gas delle automobili. C'è da stupirsi se, all'analisi, si ritrovano nei tessuti e nel sangue, invece di cellule vive, tappi di bottiglie di birra, bottoni, fil di ferro? E' evidente, negli assemblages di Brajo, un carattere tra anatomico e istologico, ma senza il minimo accento scientifico: l'accento cade piuttosto sul da fare che si dà l'operatore per trovare una coerenza tra tutte quelle cose disparate. E la coerenza


non si trova applicando principi compositivi o ritmici a priori, ma lavorando sul tessuto a forza di pinze e di chiodi, isolando quello che va isolato, raccordando quello che va allacciato. Gli organismi che ne risultano sono stranamente ambivalenti, biologici e meccanici insieme: da far pensare, mutatis mutandis, a quei dipinti dell'Arcimboldi che sono, tutt'insieme, una testa e un mazzo di frutti e legumi. E' ancora, ma su tutt'altro piano, il gioco di maschera e volto che già si notava nei primi quadri. L'artigianato di Brajo è, quanto a strumenti, un povero artigianato: martello, tenaglie, colla. Ma abile, pieno d'inventiva, di stregoneria perfino: alle volte serissimo, altre burlesco. Bravissimo nel far più parti in commedia, si diverte a fare insieme la parte del medico e quella dell'ammalato spaurito, che arriva dalla campagna per farsi accomodare qualche organo che non funziona. Non ha rinunciato all'umorismo dei primi quadri, ma l'ha spostato sul piano della tecnica: scaltra e sapiente, di certo, ma anche ironica e popolaresca. Per capire i suoi assemblages serve di più l'arte popolare degli aborigeni del Nordeste brasiliano che la Pop-art nord-americana. Ma non si arriverà a capirli se non si metteranno a confronto con la pura geometria degli "intrecci di legni", che a loro volta non si potranno mai spiegare con il costruttivismo e le strutture primarie. Quelle strutture hanno infatti un carattere puramente emblematico, stanno a significare che il simbolo o il distintivo delle tribù civilizzate è lo schema razionale o geometrico, come quello delle tribù selvagge è il totem. Riemerge da tutto quello che si fa, sia pure una cassetta di listelli di legno per spedire la frutta; e, benchè sostenuto da una scienza, non per questo è meno magico. Ciò che prova ancora una volta (non bastassero le grandi ceramiche, d'un chiarissimo accento "negro") che Brajo guarda il mondo delle città moderne con un interesse essenzialmente etnologico: è un esploratore alla scoperta del proprio paese. Si spiega così perchè la più recente opera di Brajo sia un assemblage grandeur nature: il suo curioso museo in campagna, con tutt'intorno un bosco-giardino fitto d'interpolazioni plastiche, solo vagamente narrative e allegoriche, con molti riferimenti, questa volta chiarissimi, alle più attuali ricerche artistiche: sculture fatte di pezzi di macchina o di tubi di cemento, ceramiche dalle forme aggressive e dai colori violenti. Sono, evidentemente, i feticci del mondo tecnologico in una versione bonariamente burlesca, che li riporta in seno alla negata, disintegrata eppur sempre risorgente, incancellabile realtà naturale. Nella natura, appunto, il loro carattere originariamente maligno diventa bonario: il feticcio diventa immagine mitica, il dio rustico e modesto dei boschi e dei campi, e lo assemblage si estende senza limiti fino a comprendere i colli, l'orizzonte, il cielo. AI tramonto di una lunga ed alacre esperienza, vissuta senza drammi nè sublimi ideali ma con l'assidua cura di un lavoro da sbrigare giorno per giorno, si dimostra così, ancora una volta che, per ritrovare e mantenere l'accordo tra l’uomo e il suo ambiente, basta un pò d'inventiva e un'onesta, assidua, persuasa fatica.

1967 GIULIO CARLO ARGAN


Il dottor bricoleur

(L’Espresso – 17/08/1980 – pag 63)

di GlULlO CARLO ARGAN

Da qualche settimana Perugia possiede una nuova e originale struttura culturale, tra il museo e il parco attrezzato, che da una parte guarda verso la città e dall'altra fa le smorfie alla ridicola Disneyland della grande industria perugina. Questo contraltare l'ha inventato, costruito e regalato Brajo Fuso, un anziano e reputato stomatologo, che nei ritagli di tempo ha trafficato con pinze tenaglie e saldatore a fabbricare quadri, sculture, ceramiche, collages, assemblages e gli oggetti più strani. Non è un artista professionale, ma certamente non è un dilettante, è al corrente di tutto quel che succede nel mondo dell'arte e di suo ha un cervello bizzarro e geniale, il gusto dell'invenzione, il senso dell'umorismo e un mestiere perfetto. Avendo raramente esposto e poco venduto, s'è ritrovato da vecchio con migliaia di pezzi, non tutti dello stesso livello qualitativo, ma ciascuno con una sua trovata. Veduti tutti assieme intasati nel rustico museo o sparpagliati nel selvatico giardino della donazione sorprendono per la prodigalità, la spregiudicatezza, l'allegria del racconto figurativo. Non c'è dubbio che presto o tardi, di questo inaspettato artista di provincia si farà un caso nazionale redarguendo la critica che, per correr dietro alla Biennale, non se n'è tempestivamente accorta. Ma potrà farlo senza timori: Fuso ha ottant'anni, del suo lavoro ha fatto un museo e l'ha regalato, non darà fastidio al mercato. Si badi però che non è un artista della domenica, ha letto Duchamp e Schwitters, Pollock e Dubuffet, ha punti di contatto con Arman, Burri, i pop. E non gli interessa sapere che cosa sia stato fatto prima e che cosa dopo: Fuso, da persona colta, non si vergogna di quello che ha letto. E' un tipico bricoleur, svelto d'occhio e di mano. Prende su rottami, relitti, rifiuti dove li trova, e poi frequenta l'Upim e la Standa, fa incetta di una quantità di cose che l'industria produce in grandi serie. Come ha spiegato Lévi-Strauss, il bricoleur è l'opposto dell'ingegnere; non progetta, ma non è detto che lavori a casaccio. E' accorto, ciò che non scarta manipola, e poiché non c'è di mezzo una fase progettuale, il gesto del manipolare si salda al gesto del raccogliere e lo continua. L'artigianato del bricoleur, non essendo preordinato, è ad un tempo rozzo, inventato, scaltrissimo. Fuso maneggia tenaglie e scalpelli con la destrezza di un meccanico di periferia, che ogni volta deve trovare la soluzione di un problema; e non è affatto improbabile che questo artigianato sia un compenso ironico, quasi un ribaltamento, della tecnologia raffinata ed asettica del chirurgo che opera. Dal bricolage, naturalmente, non si passa alla costruzione ma all'assemblaggio; e qui Fuso non ha paura di far violenza ai suoi materiali: si tratta di obbligarli con la forza e l'astuzia non ad un ordine, ché non è il caso, ma ad un ritmo. Fa geometria con pezzi di legno, ritmi sincopati con le cose che l' industria ha prodotte per l'aritmetica della serialità. E gli piace vedere gli oggetti in serie che rompono le righe e ritrovano imprevedutamente uno stato di natura. C'è anche una componente ludica ed oggi, si voglia o no, quando si parla del gioco si parla del bello. Fuso, in sostanza, crede ancora nel bello dell'arte, ma poiché lo sa insidiato dalle tecniche industriali, lo dissimula sotto i suoi meccanismi vistosi e chiassosi. A parlare del bello si evoca la natura. Nel parco di Montemalbe, quasi un Kindergarten, le brulicanti immagini di Fuso tornano alla natura: per chi sa quale metamorfosi o metempsicosi, gli oggetti dell'industria sembrano felici di mescolare al naturale la propria artificialità; ma poiché c'è sempre un filo d'ironia, le cose artificiali con le loro materie e i loro colori rendono più naturale la natura.


Il museo-giardino di Montemalbe oltre tutto, ha salvato una deliziosa collina dalla speculazione all'attacco; dunque ha anche meriti urbanistici ed ecologici. Ma c'è un altro fatto, meno appariscente:il lato linguistico. Quegli strani oggetti-immagini hanno quasi sempre dei nomi altrettanto strani, fatti come loro di tronconi e frammenti (di parole, però) ricuciti o saldati come in un grottesco assemblaggio. Ritornano alla natura portandosi dietro un nome anch'esso artefatto: ed anche qui c'è un fondo di umorismo, come nei nomi che si danno ai cani o ai gatti. E Fuso, va detto, è anche uno scrittore di fiabe. E' stato civilissimo gesto, per un artista che non s'è mai vergognato di fare arte divertente, regalarla ai concittadini affinché si divertano. Anche il divertimento può avere una morale: l' industria pretende di essere la sola cosa con cui non si scherza, ma nelle vecchie città c'è anche un vecchio, arzillo artigiano che fa cose che premiano chi le fa. O non sarà .che, rivolto ad una città insieme medievale e industriale, il discorso di Fuso sia non soltanto ironico, ma beffardo? Sono cose che possono succedere in provincia, dove biennali e quadriennalì non ce ne sono.


Intervista rilasciata da Giulio Carlo Argan alla RAI-TV 8 maggio 1980 La mia lunga amicizia con Brajo non c'entra assolutamente niente con la valutazione che io do del suo lavoro; una valutazione che da oggi, da quando l'ho visto tutto riunito, è molto cresciuta perchè esiste tra tutte queste cose un filo conduttore, un discorso, lo sviluppo di una fantasia, di una vita vissuta con la fantasia, che costituisce un fatto unico, non esito a dirlo, nella storia dell'arte di questo secolo, e non soltanto in Italia. Credo di poter dire che il lavoro artistico di Brajo Fuso autorizza oggi i paragoni al massimo livello. Visitando queste sale io ho pensato sopratutto a Schwitters, cioè un uomo che registrava tutto quello che gli accadeva, tutto quello che viveva, in un'opera in sviluppo, veramente un "work in progress" che registrava giorno per giorno i suoi istanti di fantasia. Lo stesso ha fatto Brajo. La sua opera ha oggi una importanza storica, innanzi tutto come uno dei massimi esempi della cosiddetta arte del bricolage, cioè di scoperta improvvisa di un qualche oggetto della realtà e della sua immediata assunzione ad un livello estetico. Inoltre il vederlo in questo ambiente costituisce una esperienza importante di rapporto tra fatto artistico e interpretazione, lettura della natura; è una delle cose che mi ha maggiormente colpito, tanto che io penso che verrà il momento in cui l'opera di Brajo Fuso verrà valutata sul piano estetico generale per quello che realmente rappresenta: la capacità di reazione creativa all'ambiente in cui si vive. Il fatto di raccogliere oggetti qualsiasi, cocci, magari mozziconi di sigaretta e riabilitarli in una immagine di valore estetico, non può essere interpretato altrimenti che in questo modo: saper vivere positivamente, creativamente, quell'ambiente urbano e naturale che oggi viene considerato alienante. Per cui al di là della valutazione critica, pienamente positiva, che io do di questo lavoro, come uno dei fatti importanti nella storia artistica europea del nostro tempo, vorrei aggiungere qualche cosa: Brajo con la sua opera è un benefattore dell'umanità perchè ha insegnato una visione non tanto ottimistica quanto fantastica, immaginaria del mondo. È un benefattore dell'umanità e questo percorso di benefattore dell'umanità comincia oggi con questo suo dono a Perugia, questo suo legare l'opera ad una città che ha sempre amato e che con ogni probabilità la sua presenza qui servirà a restituire ad una frequentazione internazionale.


Introduzione alla Monografia BRAJO FUSO – Argan – Tomassoni – Verdet Editalia 1976 Débrisart, o "arte del rottame", può definirsi l'opera di Brajo Fuso, un artista perugino che da più di trent'anni lavora nella sua città natale con costanza tenacia ed entusiasmo, proteso a continue ricerche attraverso le quali intende rappresentare il mondo "dopo il 1940". Giulio Carlo Argan scrive dell'opera di Brajo Fuso (interamente riprodotta nella pagine di questo libro) che per ben intenderne l'importanza bisogna porre giusta attenzione alla datazione delle opere. Si scoprirà così come questo artista, chiuso e isolato nel suo mondo di provincia, abbia anticipato nella propria sperimentazione idee e motivi più tardi da altri scoperti e proposti. Del resto se il mondo della critica e dell'arte viene tardi ad occuparsi di Brajo Fuso la colpa è tutta dell'Artista, il quale, chiuso in se stesso, ha operato non tanto per fare dell'arte, quanto per meglio assistere, un pò da dentro e un pò da fuori, al fenomeno di "se stesso". "Sì spiega pertanto perchè la più recente opera di Brajo sia un assemblage grandeur nature: il suo curioso museo in campagna, con tutt'intorno un bosco-giardino fitto d'interpolazioni plastiche, solo vagamente narrative e allegoriche, con molti riferimenti, questa volta chiarissimi, alle più attuali ricerche artistiche: sculture fatte di pezzi di macchina o di tubi di cemento, ceramiche dalle forme aggressive e dai colori violenti. Sono, evidentemente, i feticci del mondo tecnologico in una versione bonariamente burlesca, che li riporta in seno alla negata, disintegrata eppur sempre risorgente, incancellabile realtà naturale. Nella natura, appunto, il loro carattere originariamente maligno diventa bonario: il feticcio diventa immagine mitica, il dio rustico e modesto dei boschi e dei campi, e lo assemblage si estende senza limiti fino a comprendere i colli, l'orizzonte, il cielo."


Mostra maggio 1980 GIULIO CARLO ARGAN ...Come prima, provvisoria definizione, si può dire che Brajo è anzitutto un curioso. La piu piccola cosa richiama il suo interesse: quanto basta perché la raccatti e la metta da parte con l'idea che potrà sempre servire. Per lui, niente è insignificante, non c'è cosa che non sia un segno. Può darsi che sia il tipico atteggiamento del medico, per cui tutto fa sintomo; ma v'è piuttosto ragione di credere che l'interesse del medico e quello dell'artista siano lo stesso interesse verso la vita, propria ed altrui. Le prime cose che ha fatto in pittura, subito dopo la guerra, sono illustrative, narrative, commentarie, con una vena mista di malinconia e d'umorismo: scene di ospedale, di campo di concentramento, di folla cittadina. Il modo del racconto è espressionistico, vagamente ensoriano, non senza un certo gusto di fare l'ingenuo, il pittore della domenica. Brajo racconta, insomma, la condizione curiosa e fastidiosa del medico che non può andare in mezzo alla gente senza cogliere in ciascuno dei suoi simili - nel colorito del volto, nell'ansia dello sguardo, in una smorfia repressa, in un tic represso - il sintomo certo di una malattia, che probabilmente quelli non sanno di portarsi addosso. L'ironia diventa allora una necessità, una difesa professionale, come il camice bianco. Ora sappiamo, e non è una scoperta, che la curiosità è solo la manifestazione esterna di una sensibilità in continuo allarme. Il passaggio ad un altro livello, in cui quel disagio psicologico potesse sublimarsi, era indispensabile per non cadere nell'abusata aneddotica della letteratura professionale. Già verso il '50 alle figurazione ironiche ed amare cominciano ad alternarsi i primi saggi non-figurativi, materici e di gesto. Brajo non è arrivato all'lnformale per reazione ad un astrattismo geometrico e costruttivo. Che cosa conoscesse, allora, della pittura contemporanea è difficile dire: probabilmente quello che ne sapevano le persone discretamente informate, in Italia; non certo quanto bastasse per fondare la propria attività su una meritata esperienza delle nuove correnti. Se, e non si può contestarlo, certe cose Brajo le ha sperimentate prima di altri, è soprattutto perché, per lui, la sperimentazione è un abito mentale prima ancora che un'attitudine e una consuetudine professionale. Non aveva un programma una linea da mantenere, non un passato d'artista da difendere o, quanto meno, da non compromettere. Non si è mai proposto di portare acqua al mulino della pittura; ma al suo mulino, di acqua, la pittura ne ha portata molta. Era il mezzo di rivelarsi, di spiegarsi a se stesso: uno specchio. Ora il suo interesse sperimentale si rivolge specialmente alla materia fisica della pittura, al tessuto: la sua è ormai una curiosità biologica, istologica. Se ne avvede, chiama i suoi dipinti "straticromie", perché il metodo della ricerca è essenzialmente stratigrafico. Il tessuto pittorico non è l'immagine, la proiezione del tessuto organico; è un tessuto artificiale che può benissimo comportarsi con un tessuto organico, sostituirlo anche soltanto in parte, determinare con esso qualcosa di nuovo e di diverso, nè naturale nè artificiale, che tuttavia funziona. Studia il comportamento della materia plasticocolorata, il suo modo di scorrere e di coagulare, di alterarsi al contatto di certi agenti chimici, di rivelare all'analisi qualità celate, che tuttavia diventano di colpo, clamorosamente evidenti. Tratta la materia secondo tecniche diverse, che vanno dal col/age al dripping; sa benissimo che, nell'esperimento, chi lo fa non è soltanto un osserVatore. Tutto dipende dal tempo e dal modo dei suoi interventi. Sorveglia, pur cercando di lasciarla libera, la manipolazione dei suoi ingredienti: se l'operatore non si mette all'unisono con l'oggetto, l'esperimento non può riuscire.


Passando così dalla corsia al laboratorio, il suo atteggiamento di fondo non muta: solo che ormai la pittura non è piu nota o commento a margine dell'esperienza medica, ma la stessa ricerca su un piano diverso, il piano dei fenomeni visivi. Il fenomeno bisogna provocarlo e poi disturbarlo, deviarlo, dirigerlo. Se tutto si riducesse a osservare come un tessuto si organizzi, si complichi, proliferi, si irrori o inaridisca, si nutra o languisca, saremmo ancora nell'ambito della documentazione scientifica; mentre qui la ricerca è tutt'altra, forse quella dello apprent; sorc;erche interviene nell'ordine dei fenomeni e non ha paura di scompaginarlo, di combinare un monte di guai. Di fronte ai materiali, alle tecniche, agli strumenti, Brajo non ha inibizioni; non ha il gusto dell'aleatorio, ma gli piace sorprendere il caso, rilanciarlo o imbrigliarlo. Nulla è piu lontano dalla sua mentalità che la ricerca di contenuti profondi, di significati simbolici; la sua pittura è apparentemente divagata e leggera, una scaltra schermaglia tra il comportamento spontaneo delle cose ed il proprio. Arriva prestissimo a far pittura con tutto quello che gli capita tra le mani o gli cade sotto gli occhi; ma ogni nuovo ingrediente è giocato come una carta, e c'è sempre una regola del gioco. Il giro mentale è tutt'altro che semplice. L'ironia come difesa c'è ancora: e vale per la professione pittorica non meno che per la medica. Nell'una e nell'altra non c'è nulla, proprio nulla, di trascendentale; nè la scienza nè l'arte si scrivono con la lettera maiuscola. Hanno qualcosa in comune, qualcosa che non appartiene in proprio nè all'una nè all'altra: sono un modo di essere nel mare profondo e agitato del reale e di annaspare per non farsi sommergere. Empirismo sempre; e all'empirismo corrisponde una sorta di artigianato, abbastanza semplice nei suoi strumenti, ma complicato e agilissimo nei procedimenti. Il medico non cerca di ricondurre l'ammalato ad una condizione ideale, all'inesistente archetipo dell'essere perfettamente sano: constata che nel quadro delle sue funzioni organiche ci sono dei guasti e cerca, come può, di ripararli. Allo stèsso modo, l'artista constata che nel quadro dei fenomeni percepiti c'è qualcosa che non va, qualcosa con cui non si riesce a trovare o si è smarrito il rapporto, la possibilità di adattamento; e.cerca di rimetterlo a posto senza affatto proporsi di ristabilire un ordine assoluto, naturale o matematico che sia. Si sa benissimo, del resto, che quest'ordine non c'è, è un'astrazione esattamente come l'archetipo umano ideale. E, infine, l'immaginazione è ancora qualcosa che si produce in noi e che può facilmente ammalarsi, funzionare a rovescio; ma forse si può accomodare, entro certi limiti, l'apparato dell'immaginazione come si può riparare l'apparato digerente o il sistema nervoso. Se non c'è attività umana che non miri a migliorare il rapporto con l'ambiente (col rischio, naturalmente, di peggiorarlo), ogni lavoro umano, sia quello dello scienziato o quello dell'artista, si riduce, in pratica, a un accolJlodare alla meglio: districando grovigli, riannodando legami saltati, rimettendo a posto cose spostate, inserendo un pezzo di ricambio dove proprio non può farsene a meno. Chi sa poi se il medico guarisca la nostra malattia o ci abitui a vivere con essa e, magari, di essa? E che l'artista non ci abitui a vivere con la realtà che ç:i circonda, anche se non è l'ideale? Certo è che tutto l'interesse di Brajo, medico pittore, non è rivolto a creare ipotetiche strutture ed immagini del mondo, ma a ritoccare, a mettere in grado di funzionare, la realtà che la nostra mente, sana o malata che sia, percepisce. Tessuti malati sono sempre tessuti vivi, la malattia può anche essere un'intensificazione della vita: l'importante, in ogni caso, è di lavorarci sopra, e forse la vita è proprio questo continuo riprendere, rassettare, rimettere in funzione quello che, col tempo, si logora. Molto presto Brajo passa dal polimaterismo all'assemblage: col solito anticipo sulle scoperte "ufficiali". L'inventario delle cose che preleva dal contesto della realtà non finirebbe mai; si tratta sempre, però, di una realtà vicina, a portata di mano: listelli di legno, imballaggi, paglia di vetro, tessuti di tutti i tipi, pezzi di ricambio per automobili


e biciclette, matasse di filo metallico, oggetti da pochi soldi comperati sotto casa all'Upim, barattoli, imbuti, piattini, posate, tappi, bottoni. E poi, quasi sempre, il colore, la pittura: un ingrediente che qualche volta può sembrare fuori posto, come se rompesse l'unità del contesto, ed è invece necessario perché, nel miscuglio, costituisce il reagente o il catalizzatore. Brajo si è ormai accorto che la sua vera vocazione è quella del bricolage; e certo, quando se n'é accorto, non aveva letto Levi Strauss. Evidentemente il bricolage, oggi come nelle culture primitive e selvagge, implica una concezione della realtà: un interesse immediato ed eminentemente pratico per le cose, un bisogno di stabilire con esse un rapporto di possesso, di utilizzazione dilazionata. Si prende qualcosa per metterla in qualche posto, qualche volta soltanto per nasconderla, per farsene una proprietà esclusiva: Brajo, le cose che raccatta le ripone nella pittura, è il suo modo di toglierle dalla circolazione del consumo, dove non possono avere alcun significato. Gli oggetti che entrano in gioco non sono, per se stessi, molto significativi: è roba che si trova dappertutto, magari nei bid,oni dei rifiuti. L'atto del raccattarle non implica una scelta, un'attribuzione di valore simbolico: è certamente escluso ogni riferimento, ammirativo o deprecatorio, al cosidetto "mondo tecnologico". In fatto di tecnologia, siamo decisamente al livello dell'officina del ciclista o dello stagnaro, dove s'accomoda alla meglio un pò di tutto. Sarebbe troppo facile fare dell'ironia sulla "perfezione" tecnologica, sul congegno lucido e perfetto che può aver bisogno d'esser riparato da un meccanico di paese; piuttosto, è simpatia sincera per l'inventiva e la bravura di quel piccolo artigianato che vive ai margini della grande industria e, in certo senso, la integra e la contraddice ad un tempo, perché utilizza tutto ciò che, in una perfetta società industriale, andrebbe a finire nella spazzatura. L'ironia, semmai, è rivolta proprio a quelle attività che si vantano di essere strettamente scientifiche e, in definitiva, non sono nulla di diverso dall'artigianato empirico. Ma si rivolge anche intenzionalmente o no, a quell'arte che si chiama di reportage e va sempre in cerca di simboli sociali altamente significativi. Che mai si potrà trovare prelevando un campio.ne d'ambiente e analizzandolo con il vecchio processo della pittura? Ancora tutte quelle cose, per lo più logore e deteriorate, che gremiscono il nostro spazio vitale e che finiamo di assòrbire con gli occhi, così come respirando assorbiamo la polvere e i microbi della strada o il gas delle automobili. C'è da stupirsi se, all'analisi, si ritrovano nei tessuti e nel sangue, invece di cellule vive, tappi di bottiglie di birra, bottoni, fil di ferro? È evidente, negli assemblages di Brajo, un carattere tra anatonlico e istologico, ma senza il minimo accento scientifico: l'accento cade piuttosto sul da fare che si dà l'operatore per trovare una coerenza tra tutte quelle cose disparate. E la coerenza non si trova applicando principi compositivi o ritmici a priori, ma lavorando sul tessuto a forza di pinze e di chiodi, isolando quello che va isolato, raccordando quello che va allacciato. Gli organismi che ne risultano sono strananmente ambivalenti, biologici e meccanici insieme: da far pensare, mutatis mutandis, a quei dipinti dell'Arcimboldi che sono, tutt'insieme, una testa e un mazzo di frutti e legumi. È ancora, ma su tutt'altro piano, il gioco di maschera e volto che già si notava nei primi quadri. L'artigianato di Brajo è, quanto a strumenti, un povero artiganato: martello, tenaglie, colla. Ma abile, pieno d'inventiva, di stregoneria perfino: alle volte serissimo, altre burlesco. Bravissimo nel far più parti in commedia, si diverte a fare insieme la parte del medico e quella dell'ammalato spaurito, che arriva dalla campagna per farsi accomodare qualche organo che non funziona. Non ha rinunciato all'umorismo dei primi quadri, ma l'ha spostato sul piano della tecnica: scaltra e sapiente, di certo, ma anche ironica e popolaresca. Per capire i suoi assemblages serve di più l'arte popolare degli aborigeni del Nordeste brasiliano che la Pop-art nord-americana. Ma non si arriverà a capirli se non si metteranno a confronto con la pura geometria degli "intrecci di legni", che a loro volta non si potranno mai spiegare con il costruttivismo e le strutture primarie...


"Presentazione" del Fuseum - Montemalbe 16 Giugno 1983 Conferenza di Giulio Carlo Argan Sono venuto alcuni anni or sono, quando questo complesso di costruzioni e di opere veniva inaugurato, vivente Brajo Fuso. Ora, grazie alla generosità di Bettina Fuso, all'interesse del Sodalizio di San Martino e del Comune di Perugia e di tutte le autorità umbre, il Fuseum diventa una nuova struttura culturale che si aggiunge al grande patrimonio artistico della città e della regione. È opportuno che premetta quale fosse l'intenzione profonda dell'artista (gli ero amico, tanti discorsi si sono fatti insieme) nel raccogliere le sue opere come in rustico museo in questo punto dei dintorni di Perugia. Ebbene penso che Brajo volesse conservare intatta e soprattutto trasformare in bene di pubblico godimento l'intera zona, paesisticamente bellissima, altrimenti minacciata, come il resto del nostro territorio, di sfruttamento edilizio. Brajo Fuso aveva bisogno di costruirsi un luogo, di dare al suo lavoro di artista un ambiente, di caratterizzare anzi artisticamente questo ambiente. Non era 'artista di professione': è stato un medico, e come medico ha compiuto la sua carriera. Ha sentito nella sua maturità il bisogno di svolgere questa attività che poi è risultata così intensa se si guarda la quantità delle opere, e la facilità, immediatezza, generosità con cui si è espresso. Oltre tutto il lavoro di artista era collegato ad un altro letterario - di letteratura infantile - che procedeva quasi parallelamente. Dunque Brajo sentiva il bisogno d'integrarsi nell'ambiente attraverso operazioni manuali di tipo artigianale... Si sa che negli studi contemporanei, nella costruzione teorica di colui che indubbiamente è il maggiore antropologo del secolo - Lèvy-Strauss - sono nettamente distinti due tipi di attività umana, che pure si integrano l'uno con l'altro. Il primo è quello che Lèvy-Strauss chiama 'attività dell'ingegnere', il congiungere secondo un progetto vari elementi in modo che ne risulti una costruzione funzionale. L'altro è quello del 'bricolage': attività caratteristica dei primi stadi della civiltà - la società dei cacciatori-raccoglitori - in cui si tende a stabilire individualmente rapporti con l'ambiente (attraverso determinati oggetti) per aumentarne l'agio e la comprensione. Ora prendere delle cose e darle un significato nuovo era precisamente l'impaziente attitudine di Brajo Fuso. Pezzi di legno, lamiere, oggetti rotti e abbandonati, persino mozziconi di sigarette e cerini usati: con simili oggetti l'artista costruiva opere più o meno piccole e grandi, e usava per unire fili di ferro o incementava o faceva rapide saldature o altro. Così combinava più materiali e diversi nello stesso quadro, non tanto per un interesse costruttivo (ingegneristico appunto) quanto per avere oggetti personalizzati con cui impostare un rapporto di simpatia, dialogo, scherzo. Brajo Fuso si muoveva in una agitazione continua dentro un ambiente che trovava interessante sempre, senza preoccuparsi, ad esempio, se fosse deposito o scarico o altro. E queste cose depositate o abbandonate prenderle, appropriarsene con gesto rapace, avvicinarle insieme e sentirne la contraddizione o l'accordo possibile, immaginare che diventassero qualcosa di diverso da ciò che erano state o servite (ruote, pezzi di macchinari, bottiglie, stracci, ecc.): tutto ciò attraeva enormemente e continuamente Brajo Fuso. Metteva in questo lavoro una dote di umorismo e di ironia. Soprattutto era preoccupato di restituire a questi oggetti una possibilità di esistenza in uno spazio dove già esistono le cose della natura, e lì poterli acclimatare e dargli un principio di rinascita e di nuovo funzionamento. Così ricordo la sua casa di Ansedonia, e la casa che abitava a Perugia a


Palazzo Cesaroni nelle cui soffitte passava il tempo che la sua professione medica gli consentiva. Poi finalmente la costruzione di questa 'cosa'. Che da un lato è una specie di museo (lui stesso chiamandolo 'Fuseum' ci ha ironizzato) e dall'altro una specie di parco abitato e frequentato da oggetti in modo che improvvisamente si noti che ciò che sembra un sasso è in realtà una scultura o una ceramica, e quindi vi si trovino continuamente motivi di sorpresa e di riflessione. Ambiente animato da infinite 'figure', 'persone', 'animali' (quasi costruito con una mentalità da pittore fiammingo come Bosch, che vedeva la natura animarsi di infinite bizzarre presenze invitanti); ambiente insomma carico di attrattiva che rifiuta il convenzionale, lo stanco, il sempre uguale, quindi l'insopportabile. Può sembrare che Brajo cercasse soprattutto di divertirsi sapendo quanto questo abbia importanza in un mondo che tende a meccanizzarsi. Ma Brajo era anche perugino: conosceva perfettamente il valore della sua città nella storia dell'arte, e come ogni oggetto eserciti una forza di appello su chi vi passa e guarda: città come prodotto di una cultura artigiana, ossia di tecniche che lui stesso indagava e cercava, basate sull'inventiva, non puramente ripetitive come le tecniche industriali. Per cui in questo suo divertirsi c'era anche una ragione d'interesse storico verso la città e la sua artigianalità. Dunque, questi oggetti-opere del Fuseum sono dei tramiti per ristabilire rapporti con le cose che sembrano finite, abbandonate, morte, e che invece vivono, o meglio rinascono (non come però in un riciclaggio industriale) in una rievocazione mnemonica e fantastica insieme. Certo Brajo Fuso non è stato il solo ad esercitarsi nell'arte del bricolage, della 'caccia e raccolta' degli oggetti. Ce ne sono altri: Colla in Italia, Dersmith in America. E lo stesso Picasso: di quest'ultimo, ad esempio, ci si trova davanti ad un manubrio e sellino di bicicletta che avvicinati ed appesi al muro diventano muso e corna di cervo. Nella 'Grande capra' che è uno dei capolavori della scultura moderna ci si accorge che c'è materia raccattata, un pezzo di rubinetto, una grossa scheggia di legno, ecc., tutti oggetti ricaricati di significato dalla vitalità dell'artista. Per questo Brajo Fuso non ha fatto soltanto il regalo di un museo-parco attrezzato alla sua città ma ha concepito soprattutto un luogo educativo, di valore didattico, quindi altamente sociale; il quale racchiude oggetti che ci consentono di riconciliarci con la devastazione del mondo industriale ed alienante in cui l'individuo ha perso il senso dell'ambiente, l'ambiente gli muore addosso o gli è morto intorno, o semplicemente gli è divenuto ostile. Un museo, in conclusione, concepito nella direzione di una riattivazione o rianimazione del rapporto ambiente-individuo. Brajo Fuso ha regalato questo alla sua città: glielo ha lasciato in eredità. Chiedo qui al mio collega vicesindaco, Raffaele Rossi, se un uomo possa regalare in epoca come la nostra ai suoi concittadini qualcosa di meglio che tanta creatività ed ottimismo, la grande vivacità della propria intelligenza, opere di siffatto valore.


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Modulo 1 LA CRISI DELL'ARTE COME "SCIENZA” EUROPEA

Brajo Fuso Le prime cose che ha fatto in pittura, subito dopo la guerra, sono illustrative, narrative, commentarie, con una vena mista di malinconia e d'umorismo: scene di ospedale, di campo di concentramento, di folla cittadina. Il modo del racconto è espressionistico, vagamente ensoriano, non senza un certo gusto di fare l'ingenuo, il pittore della domenica. Brajo racconta, insomma, la condizione curiosa e fastidiosa del medico che non può andare in mezzo alla gente senza cogliere in ciascuno dei suoi simili - nel colorito del volto, nell'ansia dello sguardo, in una smorfia inespressa, in un tic represso - il sintomo certo di una malattia, che probabilmente quelli non sanno di portarsi addosso. L’ironia diventa allora una necessità, una difesa professionale, come il camice bianco. Ora sappiamo, e non è una scoperta, che la curiosità è solo la manifestazione esterna di una sensibilità in continuo allarme. Il passaggio a un altro livello, in cui quel disagio psicologico potesse sublimarsi, era indispensabile per non cadere nell'abusata aneddotica della letteratura professionale. Già verso il 1950 alle figurazioni ironiche e amare, cominciano ad alternarsi i primi saggi non-figurativi, materici e di gesto. Brajo non è arrivato all'Informale per reazione a un astrattismo geometrico e costruttivo. Che cosa conoscesse, allora, della pittura contemporanea è difficile dire: probabilmente quello che sapevano le persone discretamente informate, in Italia; non certo quanto bastasse per fondare la propria attività su una meditata esperienza delle nuove correnti. Se, e non si può contestarlo, certe cose Brajo le ha sperimentate prima di altri, è soprattutto perché, per lui, la sperimentazione è un abito mentale prima ancora che un'attitudine e una consuetudine professionale. Non aveva un programma, una linea da mantenere, non un passato d'artista da difendere o, quanto meno, da non compromettere. Non si è mai proposto di portare acqua al mulino della pittura; ma al suo mulino, di acqua, la pittura ne ha portata molto. Era il mezzo di rivelarsi,.di spiegarsi a se stesso: uno specchio. Ora il suo interesse sperimentale si rivolge specialmente alla materia fisica della pittura, al tessuto: la sua è ormai una curiosità biologica, istologica. Se ne avvede, chiama i suoi dipinti "straticromie", perché il metodo della ricerca è essenzialmente stratigrafico. il tessuto pittorico non è l'immagine, la proiezione del tessuto organico; è un tessuto artificiale che può benissimo comportarsi con un tessuto organico, sostituirlo anche soltanto in parte, determinare con esso qualcosa di nuovo e di diverso, né naturale, né artificiale, che tuttavia funziona. Studia il comportamento della materia plastico-colorata, il suo modo di scorrere e di coagulare, di alterarsi al contatto di certi agenti chimici, di rivelare all'analisi qualità celate, che tuttavia diventano di colpo clamorosamente evidenti. Tratta la materia secondo tecniche diverse, che vanno dal collage al dripping; sa benissimo che, nell'esperimento, chi lo fa non è soltanto un osservatore. Tutto dipende dal tempo e dal modo dei suoi interventi. Sorveglia, pur cercando di lasciarla libera, la manipolazione dei suoi ingredienti: se l'operatore non si mette all'unisono con l'oggetto, l'esperimento non può riuscire [...].


Regione Umbria - 8 maggio1980 Tavola rotonda: Brajo Fuso e l'arte del bricolage G.C.Argan - Tomassoni - Gatt Non c'è bisogno che io faccia delle clamorose affermazioni di stima a Brajo Fuso del quale sono amico da molti, moltissimi anni; come sono amico di Bettina Fuso, la dolce compagna che lo ha assistito anche col suo lavoro d'artista nel suo percorso,ma vorrei limitarmi a dire alcune cose, direi quasi di carattere pratico.. Oggi Perugia ha acquistato una struttura culturale di tipo nuovo e di un reale e non soltanto locale importanza.Vorrei permettermi in questa occasione di dare niente di più che qualche istruzione per l'uso. lo stesso .vedendo stamane il complesso dell'opera di Brajo Fuso. in questo ambiente che lui stesso ha creato di Monte Malbe, ho concepito del suo lavoro una stima maggiore di quella che gia non le avessi testimoniato quando scr si una monografia su di lui.Perchè? Perchè la continuità e l'abbondanza di questi oggetti permette una lettura a puntate, col seguito, si passa da una cosa all'altra, si segue un discorso. Questo discorso è importante non soltanto sul piano italiano ma sul piano dell'arte contemporanea nel mondo perchè non soltanto riafferma il valore dell'immaginazione in un momento di crisi delle attività immaginative, ma tocca una serie di problemi importanti per l'arte contemporanea. E' molto facile classificare Brajo Fuso in quella categoria dei bricoleur dell'arte di bricolage, cioe' di raccolta che Levi Strauss ha contrapposto all'arte di progetto all'arte di carattere costruttivistico. Brajo Fuso si può sopratutto avvicinare tra gli artisti di questo nosto secolo, a Schwitters. Come quest'artista raccoglieva gli oggetti che incontrava e che costituivano la cronaca oggettuale della sua giornata ne incrostava la famosa costruzione, il famoso merz-bield che avrebbe dovuto essere la storia della sua giornata terrena un po'come l'Ulysse di Joyce, cosi' Brajo e' un raccoglitore, e un uomo che raccoglie le cose gettate, le cose buttate, le cose morte e dà loro un'altra esistenza. Naturalmente non è il solo in questo, e' una corrente, e per questo considero molto importante l'attività di Fuso; e' una corrente in cui parecchi artisti contemporanei, anche di prima grandezza, hanno dato dei contributi di ricerca estremamente importanti. Questi oggetti che Fuso ha raccattato,ha iserito in una spazialità che era ancora ed è rimasta sempre la spazialità del quadro; nel quadro acquistano un significato,un'evidenza come segni in cui l'artista si è identificato e si è espresso. In questa attività di bricolage Fuso ha dimostrato, credo che i miei colleghi critici lo riconosceranno, una capacità inventiva, una capacità di recupero, una capacità di riutilizzazione, di risignificazione, che credo dipenda dal fatto che non ha voluto rinunciare alla dimensione quadro, riflettendo probabilmente, non so se consciamente o non, che il quadro in tutta la sua storia è un luogo della immaginazione, per cui trasferendo una vecchia bottiglia di plastica sfondata o dei mozziconi di sigaretta dalla pattumiera o dal marciapiede, dove sono, nella dimensione quadro, queste cose che hanno cessato di esistere nell' ordine dell'utile e cominciano ad esistere nell' ordine della immaginazione. C'è un fatto che ritengo anche più importante: questa quantità enorme di cose che Fuso ha fatto, quasi da meravigliarsi che sia riuscito a farne tante esercitando un'altra attività professionale, questa quantità stessa dimostra il carattere di diario che ha quest' opera e che comprende un atteggiamento come dicevo di simpatia nei comfronti di questi oggetti gettati, scartati; comprende un interesse come dicevo prima per il quadro; comprende un interesse di discorso e comprende un programma, lasciatemelo dire, educativo, pedagogico. Perchè? Perchè noi viviamo, come voi sapete, in un mondo, in una società che è molto gravemente insidiata, forse più che insidiata, dal pericolo della alienazione, cioè dal rigetto nei confronti dell'ambiente. Ora, il recuperare da un ambiente dato per morto, elementi morti e riattivarli, significa rianimare, riattivare questo ambiente. Significa, sviluppando, portando avanti delle idee, che


risalgono molto indietro nella storia dell'arte contemporanea, risalgono vorrei dire fino a Duchamp, che la differenza tra le correnti costruttivistiche e le correnti antecostrut-tivistiche, le correnti dirò di bricolage, è precisamente questa: le correnti costruttivistiche vogliono fare degli oggetti che noi possiamo accettare come oggetti di valore estetico. Le correnti di bricolage, al contrario, vogliono dare a ciascuno di noi la capacità di assume-re, qualificare e vivere come estetico cio' che a priori non lo è e non lo sarebbe se noi non fossimo educati a vederlo. Ecco perchè l'attività di Brajo Fuso che passa sempre però con una linearità ben precisa,attraverso stadi diversi, materici, di lavoro sui materiali, di lavoro di costruzione di oggetti, di raccolta e costruzione degli oggetti, ha due sviluppi divaricati e integranti: uno è nei confronti dell'ambiente reale della vita, si tratti di ambiente urbano, si tratti di ambiente naturale. Il discorso immaginario o immaginativo di Fuso passa attraverso la realtà esterna come una scarica elettrica,vivificando immagini, sembianze che altrimenti sarebbero inespressive. Vi dicevo stamane, ed era effettivamente la sensazione che avevo, che guardando ormai gli alberi del suo giardino, di questo suo parco di Monte Malbe dopo essere stato abituato alla ritmica, alla sonorità delle sue immagini visive, vedendo un albero mi sembrava fatto da lui. Ed allora mi sono veramente ricordato di una frase di Oscar Wilde che diceva che non è l'artista che imita la natura ma è la natura che imita l'artista; poi oltre a questo bagno di natura in cui vengono rigenerati questi oggetti scartati, eliminati, distrùtti, uccisi, dall'altra parte c'è, e questo ancora non sufficientemente esplorato, il lato del linguaggio. Le definizioni attraverso delle parole non inventate,ma dedotte da una trasformazione anche questa immaginativa della parola, del lessico comune. Un processo di tipo Joiciano che per me deve considerarsi integrativo; quei nomi, quei titoli che Fuso ha scritto in calce agli oggetti esposti, soprattutto quelli esposti all'aperto, costituiscono una integrazione immaginativa, una operazione rivivificante portata nel linguaggio. A questo punto guardate che larghezza di orizzonte; un orizzonte che avendo, al centro, un nucleo, una massa in agitazione, una massa estremamente animata di volontà artistica, si espanda da un lato fino a comprendere l'ambiente visivo rappresentato dalla città, dal paesaggio e l'ambiente verbale rappresentato dal linguaggio. Quindi badate, questo acquisto, questa struttura culturale che Perugia ha acquistato oggi, è qualcosa che io credo non abbia un parallelo nel mondo. Credo che sia qualche cosa che può dare oggetto a dei discorsi molto seri, molto impegnati sul valore dell'immagine, dell'immaginazione, della fantasia sul valore di una raccolta, come potrei dire, per improvvise e inconsapevoli attività elettive con gli oggetti, di una volontà ricostruttiva che interviene in questo inventario o elenco di oggetti, appoggiandosi alla eredità storica del quadro, e finalmente, e qui finisco, diramandosi in quelle che erano due aree proprie dell'arte, specialmente della pittura nel passato. Da un lato l'area dell'ambiente e della natura da cui l'artista deduceva i propri temi di immagine, e dall'altra il tema del linguaggio, ut pictura poesis, che trova un significato nuovo e attuale, perchè per Fuso non è che la poesia e come la pittura, è la parola che è come l'arte, e questo ci riporta in pieno in una linea strutturalistica che risale a De Saussure, addirittura sulla origine poetica del linguaggio. Quindi voi avete qualcosa di unico oggi a Perugia; qualcosa di unico che non è semplicemente un gesto di generosità, di amicizia da parte di un vostro concittadino, che non è semplicemente l'acquisto di un parco di piacevole intrattenimento. Brajo Fuso è un artista perfettamente organizzato nelle sue strutture. Non è il perugino spirito bizzarro come è stato per qualche tempo creduto dalla critica. Ecco perchè io penso che Perugia abbia fatto un acquisto importante, penso che quest'acquisto debba avere uno sviluppo, cioè debba sviluppare un attività culturale che la città potrebbe ampiamente utilizzare.


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