L' angolo azzurro prima del cielo

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BRUNO MAGLIOCCHETTI

L’ANGOLO AZZURRO PRIMA DEL CIELO

Fondazione Piergiorgio Magliocchetti


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PRESENTAZIONE di Lino Di Stefano

Quando nell’antica Grecia, nell’antica Roma e in altre nazioni civili, del tempo passato e moderno e contemporaneo, un uomo politico per diverse ragioni – spesso a causa di serrate lotte per il potere o, più semplicemente, per ragioni contingenti legate, però, a problemi determinati da polemiche, invidie, ingratitudini e miserie varie – usciva di scena perché costrettovi oppure “sua sponte”, si diceva che si ritirava a vita privata. La locuzione è di largo uso ancora oggi. Ma, il ritorno alla vita civile quasi sempre ha rappresentato, per i grandi uomini, i famosi filosofi e i non meno celebri scrittori, scienziati ed artisti, un momento felice della loro esistenza per il semplice motivo che essi si sono immersi di nuovo negli studi – o addirittura li hanno intrapresi “ex novo” – producendo, di frequente, opere degne di considerazione o nientedimeno dei capolavori. La casistica, al riguardo, è ampia, ma a noi piace ricordare, in questa sede, l’esempio di due grandi dell’antichità classica romana: Cicerone e Seneca, entrambi obbligati, segnatamente il secondo, a rifugiarsi nella quiete interiore per poter meglio riflettere, attraverso gli scritti, sugli enigmi dell’esistenza, sulla caducità della vita e, infine, sulle disgrazie umane. Anche se, alla fine, l’Arpinate dovette offrire la testa ai sicari di Antonio e il filosofo latino fu costretto a tagliarsi le vene “Neronis iussu”. Non è sfuggito a tale regola il Sen. Bruno Magliocchetti il quale - dopo più legislature a Palazzo Madama - è stato costretto a rinunziare al laticlavio - simbolo della dignità senatoria – per giochi di potere, cinismi, invidie, malvagità, egoismi e rancori vari anche da parte di chi era al vertice di una bene individuabile compagine politica. Atteggiamenti e risentimenti

rafforzati, altresì, dalle precarie condizioni di salute, temporanee, dello

stesso. Prima, però, che l’ex Sindaco di Isola del Liri e Senatore della Repubblica desse alle

stampe la sua

ultima fatica – ‘L’angolo azzurro prima del cielo’ (Fondazione Piergiorgio Magliocchetti, Isola del Liri, 2011), vera e propria autobiografia, fatta di confessioni, memorie e ricordi – si era già cimentato con la storia e la letteratura mercé la pubblicazione di lavori quali ‘Lirinia, progetto glocale’(1999), ‘Discorsi parlamentari’(2001) e ‘La Cascata Grande e il ramo sinistro del Liri’(2004). Quest’ultimo, ricostruzione ragionata non solo della storia del corso d’acqua - che Orazio chiamava, giustamente, “placidus amnis”- e


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della celebre cascata che “in passato fu più volte celebrata da artisti italiani e stranieri (numerose stampe e disegni ritraggono la cascata come sfondo di un paesaggio con la visione del borgo)” (Città di Isola del Liri, 2002, p. 11), ma anche del Castello fatto costruire dalla famiglia Boncompagni (XVI sec.) meritevole, tra l’altro, di aver assicurato ad Isola “un periodo di benessere, di pace e di progresso”(Ivi, cit., p. 22) Nel libro sulla ‘Cascata Grande’, il Sen. Magliocchetti ha, inoltre, ripercorso, da una parte, la storia della sua città – con ricerche d’archivio, sempre di prima mano - e ricostruito, dall’altra, l’’humus’ socioeconomico che, prima della recente crisi, ha fatto della vecchia ‘Insula filiorum Petri’, approdo di poveri pescatori, una realtà con un denominatore comune di pura estrazione popolare e, come tale, una comunità laboriosa, con una genuina coscienza sindacale proiettata in difesa dei propri sacrosanti diritti. Ciò premesso, veniamo all’analisi dell’autobiografia in questione con l’avvertenza, beninteso, che il termine ‘autobiografia’ risulta molto riduttivo giacché, come osserva l’Autore nell’Avvertenza, il volume ‘L’angolo azzurro prima del cielo’ si prospetta come “un saggio di storia relativo agli avvenimenti che in qualche misura hanno condizionato le mie scelte politiche e la mia visione del mondo e della vita”. E si tratta di una amplissima parabola che, dalla Premessa iniziale relativa ad un’immaginaria conversazione dell’Autore col poeta francese Robert Brasillach, fucilato dai gollisti il 6 febbraio 1945 – dialogo in cui si affrontano ciò che i filosofi chiamano ‘i massimi problemi’ e ciò che per i due interlocutori rappresentano le questioni più scottanti del nostro tempo; visto, per fare un esempio, che per il poeta transalpino “i moderni poteri imperiali non favoriscono l’autogoverno delle comunità, non si preoccupano della distribuzione di proprietà e ricchezze, né di sviluppare le idee e le opinioni che costituiscono i requisiti fondamentali della democrazia” – si proietta fino ai nostri giorni. Il tutto, intervallato da una serie impressionante di vicissitudini, generalmente dolorose, che hanno colpito l’intera famiglia dell’Autore. Famiglia, secondo lo stesso Magliocchetti, incentrata, ‘more mathematico’, su un’equazione avente come estremi Oscar e Gilberto e come medi Enza e Bruno; impianto rivelatore di tante disgrazie puntualmente registrate dal titolare del libro in questione il quale, segnatamente nella presente opera, ha dimostrato di possedere insospettabili doti di scrittore e di sensibilità umana e cristiana. Per averne contezza e, lungi da ogni piaggeria, basti leggere il menzionato lavoro che si protende lungo un arco di tempo che attraversa sia il secolo XX, sia il XXI, ad iniziare dalle vicende del padre, onesto lavoratore, che per tener fede ai propri ideali politici venne relegato, nel 1944, dagli Anglo-americani, nel campo di concentramento di Padula dove, a detta sempre del genitore dell’Autore – com’è scritto in una lettera dalla prigionia – “quando c’erano i tedeschi bisognava stare nascosti per non fare il lavoro obbligatorio, ora che ci sono gli Alleati è concessa la libertà dell’ozio obbligatorio!”. Il libro in questione presenta la scansione ‘Anni ’40, ’50, ’60, ’70, ’80 e ’90’, attraverso la quale Magliocchetti ha rivissuto – e fa rivivere al lettore – tutti gli eventi della sua storia personale nonché di quella italiana, europea e mondiale. Insomma, la storia del cosiddetto ‘secolo breve’ che, secondo gli studiosi più accreditati, in particolare Eric J. Hobsbawm, comincia nel 1914 – con il primo conflitto mondiale - e termina nel 1991 – con la guerra nei Balcani. E si va dalla ‘Rivolta ideale’ dei giovani militanti nel MSI e dalla milizia dell’Autore in questa compagine politica – quando non era facile schierarsi in quel partito – al ritorno della città di Trieste all’Italia; dai sommovimenti libertari a Berlino e in Ungheria al muro della vergogna, fatto erigere dai


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comunisti a Berlino Est; dalla cosiddetta ‘beat generation’ - nata, scrive l’Autore, “dall’incontro di alcuni giovani legati da una forte amicizia e un gruppo di coetanei sconfitti e disincantati” – alla tragedia di Cecina. Allorquando, nella fattispecie, una crudele fatalità stabilì che proprio in quel terribile incidente stradale dovessero perdere la vita Enza, il marito Sergio e la cognata Anna, tutt’e tre accomunati in un destino, prodromo di altri avvenimenti luttuosi volti a scardinare il quadrilatero geometrico o il rapporto d’uguaglianza della famiglia Magliocchetti. Ma al di là delle citate scansioni – il famigerato ’68, la primavera di Praga, il movimento ‘New Age’, e altre vicissitudini focali della storia – la nascita e la breve vita di Piergiorgio, figlio di Bruno e Luisa, sono i centri d’interesse attorno ai quali ruota l’intera impalcatura di un libro che, a tratti, presenta le sembianze di un romanzo avente come filo conduttore la cosiddetta ‘eterogenesi dei fini’ secondo cui le azioni umane possono raggiungere scopi differenti da quelli programmati da chi li effettua. E, non a caso, l’Autore fa spesso riferimento, nelle sue descrizioni, a tale categoria che, non raramente, presiede ai comportamenti degli individui. Un atroce destino attende Piergiorgio. Mentre dorme tranquillo nella sua culla, un rigurgito lo fa diventare cianotico; il padre se ne accorge subito - perché si trova in una stanza attigua per non disturbarlo - e mette in atto, insieme con la moglie, tutti gli interventi del caso, riuscendo a salvare la vita del bambino. Ma, come egli osserva sconsolato, inizia, da questo momento, per entrambi i genitori, una “Via crucis durata trent’anni che continuerà per sempre nel ricordo della tragica esistenza di Giorgino”. Ma l’esistenza ha le sue leggi inesorabili ed essa continua perché, come suona un adagio, ognuno di noi, volente o nolente, ha il dovere di vivere, anche nella bufera. A questo punto, la vita non è più la stessa ed ecco l’Autore che si tuffa sia nell’attività sindacale che nell’agone politico, fermo restando che egli continua a narrare i fatti storici più salienti del momento, come, ad esempio, la caduta del muro di Berlino. Ma l’attività sindacale, si sa, è quasi sempre foriera di impegni politici sicché il passaggio dalla prima alla seconda attività – ad onta di qualche perplessità da parte dell’interessato – avviene in maniera indolore mediante la nomina, prima, a Senatore della Repubblica, per più legislature, e, in seguito, a sindaco della cittadina nativa, Isola del Liri. I successi non sono privi di amarezze - a conferma della massima di Epicuro secondo cui il saggio deve restare lontano dalla politica perché essa è solo fonte di preoccupazioni e dell’opinione di Platone il quale dovette ritirarsi dalla vita politica per l’impossibilità, son sue parole, di “partecipare all’amministrazione dello stato, restando onesto” (Lett. VII) – e Bruno Magliocchetti ne ha la conferma durante la prassi politica quotidiana. Prassi, come abbiamo affermato, ricca di riconoscimenti e di apprezzamenti sia nel ruolo di politico nazionale, sia nelle vesti di primo cittadino. Basti pensare, al riguardo, al gemellaggio di Isola con la città di New Orleans e ai successi dello stesso come senatore; professionalità attestate anche dalla menzionata raccolta ‘Discorsi parlamentari’, opera in cui le competenze sindacali dell’Autore ben si coniugano con quelle più squisitamente politiche, vista la consapevolezza, egli chiosa nell’Introduzione, “di aver dato il mio contributo al cambiamento della politica italiana”. Dopo aver ricostruito, documenti alla mano e con dovizia di particolari, le vicende che portarono alla sua defenestrazione dal nuovo mandato parlamentare – per pravità e ingratitudine degli uomini – eccoci


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arrivati ad un momento cruciale della vita di Bruno Magliocchetti; circostanza che, come una spada di Damocle, grava sulla vita degli esseri umani: la malattia. Malattia che, quando arriva, sconvolge il vivere di chiunque e che lo scrittore cattolico Francesco Grisi – che ne fu affetto – chiamò ‘dolce compagna’, come suona il libro omonimo redatto, com’egli scrisse, “quasi in un anno” per rendersi conto, son sempre sue parole, “di come una malattia grave potesse trasformare un uomo”. Bruno supera la dura prova dell’intervento quantunque prima di quest’ultimo gli

avversari politici

diffondano non solo la notizia della sua imminente scomparsa, ma “qualcuno – son sue parole - si incaricò addirittura di stabilire, in quattro al massimo cinque giorni la notizia della mia imminente morte”. Ma, ad onta di ciò, non mancano, da parte di persone perbene, attestati di stima e di solidarietà per il senatore il quale dedica gli ultimi capitoli del volume – i migliori, a nostro giudizio – alla figura del figlio Piergiorgio la cui vita dura, come dice il poeta francese Malherbe, “l’espace d’un matin”. Nel clima tranquillo delle Dolomiti, durante un’escursione, a quota 3000, dopo aver inserito un santino in una cavità della roccia, avverte una insopprimibile presenza del figlio. Questi – in un’atmosfera di alto afflato partecipativo - non solo gli parla, ma gli impartisce pure una saggia lezione di vita, in particolare laddove così si esprime:”Capisco perfettamente il tuo disagio. Utilizzerò una metafora per farmi comprendere nel modo migliore: io sono sceso dal Piano eccelso, tu hai deciso di ascendere verso le supreme vette, perciò ci siamo incontrati in un punto intermedio che si chiama Angolo azzurro”. L’ideale e lungo colloquio padre-figlio presenta toni di alta commozione spirituale ed esso si conclude con tale ammonimento del secondo al primo. Infatti, alla domanda paterna: “Allora per me non c’è salvezza?”, la risposta filiale è la seguente:”Ti resta ancora del tempo, caro papà, per la tua totale conversione. Il legame che ti unisce alle cose del mondo ti impedisce di accedere subito al Piano eccelso”. Da qui, una serie di considerazioni - sollecitate anche da una certa Vanessa - dell’Autore sul significato dell’esistenza e sul ruolo dell’uomo sulla terra non senza puntuali riferimenti, neo e vetero-testamentari, culminanti in citazioni dal celebre Cantico dei Cantici, attribuito a Salomone, il cui, significato, come esplica don Ennio Innocenti, nell’Introduzione alla recente edizione dell’opera (Sacra Fraternitas Aurigarum, Roma, 2010), se, da una parte, è erotico e nuziale, dall’altra, mette in luce come “l’amore di Dio verso l’uomo e dell’uomo verso Dio è, in ambito cristiano, manifestato dalla rivelazione divina, già a partire dal Vecchio Testamento”. Ma dopo tante disgrazie, come la morte di altri congiunti, è, adesso, il dramma del fratello Gilberto, ad agitare la vita di Bruno. In preda a problemi esistenziali – presenti in ogni uomo perché esprimenti la tragedia della “condizione umana”, direbbe Malraux – tenta il suicidio tagliandosi le vene, ma il destino decide diversamente sicché egli si salva riuscendo a dare un senso alla propria vita. Prima, entrando in una comunità per soccorrere i più bisognosi, e, in un secondo momento, trovando la pace nell’amore di una donna. Significativo, in merito, l’osservazione di Gilberto, in una lettera al fratello, in cui egli, tra l’altro, osserva compiaciuto:”E così, caro Bruno, proprio quando il viale del tramonto appariva come l’inesorabile cammino delle nostre vite, è iniziata una nuova primavera”. L’epilogo del libro, di grande interesse spirituale ed umano e dal sintomatico titolo, ‘La ricerca del volto di Dio’,

si traduce in una serie di argomentazioni meditative dell’Autore – anche con citazioni di studiosi


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del calibro di Hans Küng e Gianfranco Ravasi – il quale, per un verso confessa:”Ero alla ricerca del senso da dare alla mia vita, stretta a tenaglia tra il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà” e, per l’altro, esprime tale professione di fede :”A mano a mano che si entrava nel vivo delle problematiche, mi era sempre più chiara l’importanza del mistero della sofferenza nella concezione cristiana dell’esistenza. (…) Soltanto la mia cecità non mi aveva consentito di capire che per circa trent’anni avevamo, io e Luisa, avuto vicino Gesù Cristo”. Un interessante libro, in definitiva, a nostro giudizio, ‘L’angolo azzurro prima del cielo’; un volume ben meditato, ben scritto e, felicemente, portato a termine; saggio sul cui sfondo si stagliano, con discrezione, sia la bella figura di Piergiorgio, sia la personalità di Luisa - apparentemente ai margini delle vicende, ma in realtà, al centro dell’intricata trama, tracciata dal marito – convinta dell’imperativo categorico, rivolto al consorte:”Non arrenderti mai!”.


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"Siamo andati avanti cosĂŹ rapidamente in tutti questi anni che ora dobbiamo sostare un attimo per consentire alle nostre anime di raggiungerci".

Michael Ende

A Luisa e Piergiorgio


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PREMESSA Il sogno del Circeo: conversazione con Robert Brasillach

Mio padre, a forza di ripeterlo a tutti, si era veramente convinto che la passione per la matematica e l’innato senso dell’ordine fossero stati i migliori ingredienti per concepire i suoi figli con perfetto spirito geometrico: il primo e l'ultimo, Oscar e Gilberto, messi al mondo il 15 febbraio rispettivamente del 1931 e del 1946, il secondo e il terzo, Enza ed io, nati l’11 maggio del 1934 e del 1940. Egli poteva vantare tante benemerenze, tuttavia non perdeva occasione per enfatizzare questo sincronismo, che, ovviamente, non era scaturito da specifici atti di volontà, ma da un imperscrutabile disegno del destino, il quale con il passare degli anni è apparso sempre più definito. Misteriose cause mi inducono a credere, attraverso un esame retrospettivo, che queste esoteriche circostanze non avrebbero avuto alcuna probabilità di realizzarsi, se una immane tragedia non avesse coinvolto la famiglia nella sua drammatica e ingiusta deportazione nel campo di prigionia di Padula. Prima di quella data, un caldo giorno di fine maggio 1944, la suddetta geometria anagrafica aveva riguardato soltanto me e mia sorella Enza, perché Edda e Oscar erano nati in anni e giorni diversi. Insomma, una famiglia a geometria variabile, come tante altre. La morte di Edda, avvenuta la vigilia di Natale del 1944, durante la prigionia di mio padre, e la successiva nascita di Gilberto consentirono le suddette simmetrie. Una tragedia sopportata con nobiltà e la nascita di un altro figlio, accolta come speranza di un futuro migliore, stabilirono un nuovo assetto familiare; pertanto gli estremi – Oscar e Gilberto – ed i medi – io e Enza – diventammo simmetricamente omologhi. Edda, anima bella e sensibile, non ebbe la forza necessaria per superare il grande dolore, perciò, appena quindicenne, morì dopo breve malattia. Io fui costretto dalle circostanze ad assistere a ogni fase di quel tragico avvenimento che indubbiamente ha segnato i momenti più importanti della mia vita. Ricordo il cielo azzurro di quel caldo giorno di fine maggio 1944; una strada bianca in leggero pendio; un sidecar entro il quale fu incatenato mio padre; il grido di dolore di mia madre che, aggrappata a quello


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strano veicolo, si fece trascinare per un lungo tratto di strada, per condividere fino in fondo il destino del suo uomo. Ogni qualvolta che la storia diventa dramma, sono sempre le donne e i bambini a pagare il prezzo più alto. Uno dei più noti giornalisti ha recentemente scritto che a Belgrado, mentre infuriavano i bombardamenti e suonava la sirena d’allarme, una madre trascinava via dalla strada il figlio. “Corri” – gridava - “scappiamo”. E il bambino: “Ma io che cosa ho fatto?”. Questo triste episodio della guerra in Jugoslavia, mi riportò alla mente La lettera a un soldato della classe 1960 che il poeta francese Robert Brasillach scrisse ad un immaginario bambino qualche giorno prima di essere fucilato dai gollisti il 6 febbraio 1945. La lettera si legge nel libro che Giorgio Almirante ha dedicato al poeta con un pensiero che ha forgiato la mia vita politica: “Vivi come se dovessi morire presto, pensa come se non dovessi morire mai”. Durante la “calda” estate del 2001, nella quiete di una villa del Circeo, dove mi ritirai con mia moglie Luisa per un periodo di meditazione, dopo la morte di nostro figlio Piergiorgio, rilessi nel libro di Almirante la lettera di Robert Brasillach.

“Mio caro ragazzo, è una lettera quella che ho cominciato, o si tratta di annotazioni in disordine? Mi sembra che si tratti di una lettera, perché ad ogni riga che scrivo io vedo il volto di un bimbo di quattro anni, che è nato quando le truppe tedesche sbarcarono in Norvegia, preludio della grande offensiva del 1940. Finora, egli ha conosciuto nulla della pace. Ha trascorso i suoi giorni prima sotto l’occupazione tedesca, poi sotto l’occupazione americana. E’ sceso in cantina durante gli allarmi, ha appreso cosa erano i bombardamenti, i paesaggi delle stazioni sconvolte, il crepitio delle mitragliatrici degli aeroplani. Qualche mese fa, egli credeva che la bandiera francese fosse bianca, perché l’aveva vista sventolare sui camion di rifornimento, parchè speravano così di evitare le bombe americane. Conosceva le canzoni dei soldati tedeschi. Egli ignorava cosa fosse un’arancia, una banana, una tazza di cioccolato. Ha subito l’esodo del 1940 e ha lasciato il suo alloggio nel 1944. Sa che la sua casa è stata occupata. Quando lo si invita ad andare a giocare, sebbene per natura egli sia molto allegro, trova un pretesto ingegnoso e grave se non ne ha voglia: “Non ho il tempo, mio padre è in prigione”. Perché ha visto in prigione il padre, gli zii, la nonna, il padrino. Tale è il bimbo al quale io penso. Egli compirà vent’anni nel 1960. Nel gergo militare, si chiama la classe 1960… Io penso a quel bimbo, che sarà un giorno un soldato della classe 1960, quando scrivo queste pagine a proposito della guerra, e nel bel mezzo di una prigione…


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Comincio dunque queste righe, in un pomeriggio di novembre, assai limpido e dolce, nella cella 344 della prima divisione, nella prigione di Fresnes… Egli compirà vent’anni nel 1960… In quel momento, ciò che io scrivo da Fresnes, sedici anni prima, avrà ancora qualche interesse? Il fascismo, la Francia e la Germania saranno ancora elementi di un universo anche soltanto ipotetico? Non lo so. L’esperienza, del resto, non serve a gran cosa quando la si fa direttamente, non serve a nulla quando la fanno gli altri. Non importa. Io penso a quel bimbo, che sarà un giorno un soldato della classe 1960…

Il bimbo destinatario della lettera di Robert Brasillach era ovviamente francese, ma da quando l’avevo scoperta, proprio per le circostanze descritte dall’autore con dovizia di particolari, in essa ho sempre visto, fotogramma per fotogramma, la mia infanzia. I ricordi si affollarono nella mia mente, e come accade nei momenti in cui ci si affida alla memoria per rimuovere la triste realtà di un tragico presente, persi la cognizione del tempo. Era scesa silenziosamente la notte. E nel vasto giardino della villa del Circeo, il silenzio era impercettibilmente interrotto dal dolce ritmo delle onde del mare. La luna era così vicina da consentirmi con il suo chiarore di leggere; ma forse la confondevo con l’ultimo lampione del viale, posto nei pressi della sedia a sdraio che con il suo dondolio rendeva Morfeo sempre più aggressivo. Fu a questo punto che caddi in un profondo sonno…

“Toh! Chi si vede, Bruno, il soldato italiano della classe 1960”. Con queste parole si rivolse a me un bel giovane dall’apparente età di trentacinque anni; occhi intelligenti cerchiati da un occhiale molto in voga tra gli intellettuali francesi degli anni ’30; una capigliatura nera divisa perfettamente a metà da una riga ben curata; un viso aperto e buono.

“Con chi ho il piacere di parlare?”, risposi con garbo allo sconosciuto.

“Diamine, Bruno, possibile che non mi riconosci? Sono Robert Brasillach. Ho atteso dal 1960 una risposta ai miei interrogativi posti a un giovane francese nato nel 1940. Ma, la mia attesa è stata delusa; ho deciso perciò di rivolgermi a te, caro Bruno, soldato italiano della classe 1960”. “Ma sì, perbacco, come ho fatto a non riconoscerti subito? La tua immagine fa bella mostra di sé proprio sulla copertina del libro a te dedicato da Giorgio Almirante, che sto rileggendo in questi giorni” - risposi con infantile stupore.


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Robert mostrò con un sorriso la sua soddisfazione per questo specifico riferimento e, con un italiano che metteva in evidenza la sua origine francese, mi fece intendere che voleva iniziare con me una lunga conversazione sui quesiti posti nel lontano 1944. Sul fascismo mi fece subito capire di avere seguito puntualmente tutti i dibattiti e di aver letto tutti i libri pubblicati nel dopoguerra. Ma, senza peccare di presunzione, con tono pacato e con la forza di chi è profondamente convinto delle sue idee, mi richiamò quel passo della sua Lettera a un soldato della classe 1960, che – a mio avviso – contiene la più bella e precisa descrizione del fascismo.

“Il fascismo italiano è stato un’opera di venti anni, straordinariamente caduca. Un uomo di genio, malgrado i suoi errori, Mussolini, ha tentato di plasmare il popolo italiano secondo una immagine romana; ha bonificato le paludi, tracciato strade, restituito una dignità apparente a gente che talora ne era priva; spezzato il nascente disordine rivoluzionario. Ma ha avuto il torto di voler far fare la guerra ad un popolo che non voleva quella guerra (e che sentiva, inoltre, quanto la guerra contro la Francia fosse ingiusta), e ha avuto il torto, credo, di sviluppare oltre misura l’apparato poliziesco e burocratico. Tutto è crollato in qualche settimana. Ne resterà un ricordo prestigioso, ma non credo che per l’italiano dell’avvenire il ricordo di Mussolini sarà esaltante, dinamico, generatore di nuove energie. Non più di quello di un Medici, per esempio. Non ci saranno, mi sembra, le possibilità di rinascita, perché Mussolini ha voluto andare troppo lontano per il suo popolo, questo popolo italiano gentile e delicato nei suoi ceti artigiani e contadini, ma il più delle volte insopportabile nella sua borghesia. Il nostro fascismo, non è l’Italia. Il fascismo, abbiamo pensato da molto tempo che fosse una poesia, la poesia stessa del ventesimo secolo. Io dico a me stesso che ciò non può morire. I bambini che diventeranno giovani di vent’anni, in avvenire, apprenderanno con una oscura meraviglia l’esistenza di quella esaltazione di milioni di uomini, i campi della giovinezza, la gloria del passato, le sfilate, le cattedrali piene di luce, gli eroi colpiti in combattimento, l’amicizia tra le gioventù di tutte le Nazioni ridestate, Josè Antonio, il fascismo immenso e rosso… Nella rivoluzione fascista, mi si darà atto, la Nazione ha avuto il suo posto più violento, più profondo. E anche la Nazione è una poesia. Tutto ciò può essere vinto dal liberalismo apparente, dal capitalismo anglo-sassone, ma ciò non morirà, come la rivoluzione dell’89 non è morta con il ritorno dei re. E io che in questi ultimi mesi mi sono così fortemente distaccato dai tanti errori del fascismo italiano, dal nazionalismo tedesco, dal falangismo spagnolo, non potrei dire che sarò mai nella condizione di dimenticare lo splendido irradiarsi del fascismo universale della mia giovinezza, il fascismo, il nostro male del secolo.


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Voglio dunque essere sincero con il fascismo, dire quello che forse non sapevamo prima della guerra, parlare di questa nostalgia della libertà che il confronto con esso ci ha ispirato. Ma nondimeno la sua poesia straordinaria ci è vicina; ed esso rimane la verità più esaltante del ventesimo secolo, quella che gli avrà dato il colore. Ciò che gli rimproveriamo per amore di verità deriva talora da insufficienze nazionali, talora da errori passeggeri, talora da condizioni di vita difficili, talora dalla guerra stessa (e in questo senso le democrazie hanno commesso gli stessi errori, se errori ci sono stati). Ma il suo calore, la sua grandezza, il suo fuoco meraviglioso, tutto ciò gli appartiene. Un accampamento di giovinezza nella notte, l’impressione di essere tutt’uno con la propria Patria, il collegarsi ai santi e agli eroi del passato, una festa totalitaria, ecco taluni elementi della poesia fascista, in cui è consistita la follia e la saggezza del nostro tempo. Ecco, a ciò, ne sono sicuro, la gioventù tra vent’anni, dimentica di tare e di errori, guarderà con oscura invidia e con inguaribile nostalgia…”.

Seguii Robert con un sentimento frammisto di condivisione e di meraviglia, senza interromperlo. Lui ne approfittò, per proseguire.

“Ora che vedo le cose sub specie aeternitatis, non posso non prendere atto delle intuizioni mussoliniane che, definendo l’Italia la “grande proletaria”, spostarono lo scontro di classe tra le nazioni povere e quelle ricche, anticipando di mezzo secolo l’odierna contestazione contro la globalizzazione. Dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo del comunismo, si era diffuso la convinzione che il liberismo e l’american way of life avessero avuto la meglio su tutte le ideologie della prima modernità, aprendo le porte al postmoderno e al pensiero unico. Non ti sembra, caro Bruno, che i marxisti, i radicali, i cattolici progressisti, sconfitti dalla Storia abbiano ripreso pedissequamente le posizioni di Mussolini, dimenticando la lezione marxiana secondo la quale la ripetizione del dramma diventa farsa?

Il forte interesse per l’attualità mi fece capire che Robert non volesse affatto ripercorrere la storia del periodo che intercorre dalla fine della guerra ai nostri giorni: la sconfitta della Germania e degli altri paesi dell’Asse, la morte di Hitler e Mussolini, i Patti di Yalta che decretarono la spartizione del mondo in due sfere di influenza, la guerra fredda, la fine del comunismo. Dal suo osservatorio privilegiato aveva potuto, meglio di me, seguire passo passo i tanti avvenimenti che hanno caratterizzato la storia contemporanea.

“E’ vero – risposi fortemente convinto – costoro più contestano la globalizzazione, più condividono il suo fine ultimo. Del resto il Manifesto di Marx ed Engels è uno schietto elogio della globalizzazione e del pensiero unico.


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Esso, infatti, elimina ogni forma di appartenenza e di radicamento, spezzando i vincoli territoriali e etnici, religiosi e familiari”.

Gli occhi di Robert brillarono di soddisfazione: segno evidente che avevo esattamente interpretato il suo pensiero.

“E’ il comunitarismo che da sempre avversa ogni forma di mondialismo e la politica di distruzione delle identità nazionali e locali. Non si può escludere che l’alternativa futura sarà tra particolarismo e universalismo, tra le molteplici differenze e gli imperativi del mercato globale, tra Cosmopolis (governo mondiale) e le comunità. Da tempo, un’articolata letteratura critica la globalizzazione e i suoi scopi diretti a subordinare i valori della politica e della religione al dominio della tecnica e dell’economia. Conservatori, nazionalisti, tradizionalisti e antimoderni sono stati i primi ad innalzare la bandiera del comunitarismo contro le oligarchie transnazionali”.

Appariva sempre più evidente l’interesse di Robert che ritenne, a questo punto, di intervenire.

“La mia fede politica, per la quale ho conservato la coerenza fino al martirio, è ancora oggi basata sulle tradizioni e sulla spiritualità europea in contrasto con il pensiero unico di una società uniforme e senza anima. Per queste profonde convinzioni, io non potevo non schierarmi con l’alleanza militare che ha tentato inutilmente di fermare questo devastante processo. Per le mie idee, ho subito un duro processo e la fucilazione. Oggi, la sinistra internazionalista denuncia la globalizzazione soltanto perché realizza l’arricchimento di pochi, escludendo dai benefici gran parte dell’umanità”.

“Concordo pienamente, – aggiunsi – le sinistre non contestano il processo di omogeneizzazione e lo sradicamento delle differenti culture nazionali e locali, ma soltanto gli effetti della globalizzazione che in fondo condividono. Infatti, Marx, nel Manifesto del partito comunista del 1848, a proposito della portata rivoluzionaria del capitale, aveva affermato con enfasi che tutto quello che risponde agli antichi ordini sociali, tutto ciò che è tradizionale, tutto quello che è fossilizzato e incrostato, svanisce”.

Oggi, infatti, la società mondiale che, in seguito alla globalizzazione, si è sviluppata in molte direzioni, non solo in quella economica, sfugge, relativizza lo Stato-nazione, perché una pluralità di sfere sociali, reti di comunicazione, rapporti di mercato, modi di vita, non legate necessariamente ad un luogo, avviluppa i confini territoriali dello Stato-nazione.


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Si era intanto creata una totale sintonia tra me e Robert, in quanto il pensiero dell’uno coincideva con quello dell’altro. Ci soffermammo, allora, sulla prepotente avanzata della concezione imperiale, scaturita dalla spartizione del mondo in due sfere di influenza, sancita dai Patti di Yalta alla fine del secondo conflitto mondiale. Il riferimento, quindi, all'american way of life ci consentì di rilevare una forte analogia tra l’impero romano e gli imperi attuali. La riflessione su questo importante aspetto della storia contemporanea ci spinse a stabilire che l’Europa sta agli Stati Uniti come la Grecia stava a Roma. L'Europa rappresenta l’eredità di un forte peso culturale, ma esprime un peso politico-militare assai modesto. I primi venti minuti del film Il Gladiatore, realizzato dagli americani, sono una straordinaria ricostruzione visiva della forza militare di Roma. Stiamo, pertanto, montando la guardia allo Stato-nazione e alla sua forma di rappresentanza parlamentare.

“Infatti – precisò Robert - è proprio il sistema della rappresentanza nella democrazia parlamentare che non funziona più, perché è nato in un’epoca in cui i meccanismi della comunicazione erano rarefatti. Dovrebbe essere sostituito da un sistema risultante dall’intreccio fra delega e democrazia diretta”.

“Insomma – chiesi – mi sembra di aver capito che la politica tradizionale è in crisi, perché la piazza telematica ha sostituito il mito della piazza dell'antica Grecia?”.

“Esattamente! – rispose – In buona sostanza, che cosa è il mito greco della democrazia? Una piazza al cui centro sta il potere e tutt’intorno sono radunati i cittadini che lo controllano. La globalizzazione, invece, ha portato il potere, non solo della politica, ma anche della scienza, in zone remote dov’è impossibile controllarlo”.

La conversazione entrò sempre più nel vivo dell’attualità politica, perciò pensai di interrompere Robert, per dare il mio modesto contributo. Ma lui mi fece cenno di aspettare.

“Adesso, ci si illude di riportarlo al centro della piazza con un processo di democratizzazione basato sulla tecnologia dell’informazione. Per l’appunto, la piazza telematica”.

“Credo, però, - ritenni di precisare – che questa rivoluzionaria concezione non farà altro che accentuare il pericolo di un potere mondiale fortemente accentrato, lontano dalle reali esigenze delle popolazioni. Le moderne èlite, da cui dipende il dibattito politico e nelle cui mani si trova il flusso internazionale del denaro e dell’informazione, hanno già annullato ogni contatto con la gente; sono ormai sempre più cosmopolite e migratorie, sempre meno legate alle collettività che governano”.


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“E' proprio così – aggiunse il poeta – i moderni poteri imperiali non favoriscono l’autogoverno delle comunità, non si preoccupano della distribuzione di proprietà e ricchezze, né di sviluppare le idee e le opinioni che costituiscono i requisiti fondamentali della democrazia”.

Fino a questo punto, tra me e Robert c'era stata la più ampia concordanza di idee. Le divergenze emersero quando iniziò a trattare gli aspetti più reconditi della finanza internazionale.

“Considera che la finanza è diventata sempre più transnazionale e apolide. Sarebbe sufficiente considerare, giusto per fare un esempio, che a differenza del Trattato di Roma, quello di Maastricht ha ridotto tutto in termini finanziari e monetari, facendo così svanire i principi etici che restano soltanto declamati. Io ho sempre guardato alla spiritualità delle nostre cattedrali. L’Europa mercantile, invece, è incapace di esprimere una precisa volontà politica”.

“In effetti – dissi interrompendo il mio interlocutore – per quanto concerne il nostro continente, non si cerca di costruire l’Europa dei popoli, nazionale e sociale, vaticinata dal tuo affettuoso amico Drieu La Rochelle, autore di Fuoco fatuo, che preferì il suicidio all’onta della sconfitta”.

“Non si vuole, caro amico mio – aggiunse l’intellettuale francese - l’Europa libera dai condizionamenti delle lobbies massoniche, per la quale uno dei più grandi poeti contemporanei, l’americano Ezra Pound, fece una scelta ben precisa a difesa dell’Europa contro l’usura, per essere condannato alla “follia” dai suoi connazionali “liberatori”.

“Devo, allora, credere che è in atto un processo politico inarrestabile? – gli chiesi, manifestando una forte preoccupazione.

“Non ti sarà sfuggito ciò che il politologo americano di origine giapponese, Francis Fukujama, con una notevole onestà intellettuale, ha affermato diversi anni fa nel suo libro La fine della storia. Senza mezzi termini, riprendendo le tesi care ai

mondialisti, ha sostenuto che dopo il crollo delle

ideologie che hanno insanguinato il XX secolo, il liberismo resta il pensiero unico e rappresenta il Novus Ordo Seclorum, frase latina (testuale) che si legge sulla banconota di un dollaro degli U.S.A., sotto un simbolo massonico e la data dell’indipendenza americana. Probabilmente tratta da un frammento di un verso delle Bucoliche di Virgilio “magnus ab integro saeclorum nascitur ordo"(nasce di nuovo una grande serie di secoli", Ecloga, IV,5)con l’omissione del dittongo (seclorum)dovuta forse a mancanza di spazio o ad una svista”.


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Questo fatto non mi era del tutto nuovo; negli ambienti della destra radicale, dove alberga un antiamericanismo di maniera, non sempre però immotivato, e un malcelato antisemitismo, avevo ascoltato questa storia connessa perlopiù alla propaganda del regime fascista contro le democrazie plutocratiche e massoniche, alle quali non avevo mai prestato particolare attenzione. In effetti, sulla moneta U.S.A. da un dollaro è raffigurato un simbolo, denominato The Great Seals, composto da una piramide tronca sul cui vertice figura un triangolo con all’interno di esso un occhio onniveggente (“l’Occhio di Dio ti vede sempre, ovunque tu sia”) e la scritta Annuit Coeptis e Novus Ordo Seclorum. La piramide, che è formata da 72 mattoni disposti su tredici livelli, è il simbolo degli Illuminati e fu stampato sul dollaro per disposizione del Presidente Roosevelt, massone del trentaduesimo grado. L’Ordine degli Illuminati fu fondato l’1 maggio 1776 dal principe bavarese Jean Adam Weishaupt, professore ventottenne di giurisprudenza dell’Università dei Gesuiti in Baviera, il quale organizzò una potente società segreta, con il fine occulto di distruggere la società mondiale fondata sulle ingiustizie sociali, per poi riorganizzarla su altre basi. La regola principale di Weishaupt era che “ogni uomo capace di trovare in sé stesso la Luce interiore……diventa eguale a Gesù, ossia Uomo-Re…”. Cadet de Gassicourt, nel suo libro Le Tombeau de Jacques de Malay, trascrisse il terribile giuramento degli Illuminati che, tra l’altro, ribadiva l’impegno di “sterminare tutti i re e la razza dei Capeti; di distruggere la potenza del Papa; di predicare la libertà dei popoli…di fondare una repubblica universale…”. Haugwitz e Wollerner denunciarono in seguito il “vasto complotto degli Illuminati contro le Monarchie e contro le Chiese”. Mentre nella mia mente tornavano i ricordi di alcune letture alle quali non avevo mai prestato soverchia importanza, Robert mi guardava con aria divertita, interrompendomi di tanto in tanto, per fornirmi ulteriori elementi di conoscenza.

“Se osservi attentamente la banconota statunitense da un dollaro, noterai che il numero tredici è raffigurato ossessivamente. Nel bagliore, a forma di cerchio, sopra l’aquila vi sono tredici stelle; le strisce sullo scudo sono tredici; nell’artiglio destro dell’aquila è stretto un ramo d’olivo con tredici rami e tredici olive; con l’artiglio sinistro l’aquila tiene tredici frecce; la scritta “E pluribus Unum” è formata da tredici lettere; la piramide è costituita da tredici strati di pietre; l’altra scritta “Annuit Coeptis” contiene pure tredici lettere”.

In verità, i simboli massonici che appaiono sulla banconota americana sono molteplici, e tutti inseriti in modo organico e coerente, per credere a delle pure coincidenze. Chiesi allora una dettagliata spiegazione sulle diverse iscrizioni in latino.

“La scritta “Annuit Coeptis” - rispose - sopra la piramide, significa che “la divinità ha acconsentito” o “approva le cose iniziate”, come dire che è d’accordo sui disegni dell’Ordine degli Illuminati.


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La scritta “E pluribus unum” (Da molti, uno), impressa sul nastro che l’aquila stringe col becco significa che il verbo degli Illuminati sarà diffuso a tutte le nazioni per costituire un Novus Ordo Seclorum, secondo l'imperativo categorico scritto sotto la base della piramide”.

E la data, sempre in latino?

“La data MDCCLXXVI (1776), inscritta anch'essa alla base della piramide, è l’anno in cui Jean Adam Weishaupt fondò in Baviera l’Ordine degli Illuminati, ma è anche quello della proclamazione dell’indipendenza americana”.

Ma allora, qual è il messaggio che si coglie dall'insieme di questi simboli che celano ovviamente un preciso pensiero politico?

“Fatte queste precisazioni, è bene che tu sappia che la banconota americana è così pregna di simbolismi massonici perché l’uso del potere finanziario per la realizzazione del grande complotto è uno dei metodi utilizzati dagli Illuminati, per dominare il sistema politico di ogni paese e l'economia del mondo nel suo insieme”.

Ritenni, per avere più concrete conferme,

di chiedere a Robert, se coloro che idearono e vollero

l'inserimento dei simboli fossero illuminati o massoni.

Senza esitazione, precisò: “La proposta di stampare il suggello degli Illuminati sul dollaro americano fu avanzata dai Presidenti degli Stati Uniti d'America Benjamin Franklin e Thomas Jefferson; quest’ultimo era un Illuminato. Ma il suggello The great seals fu stampato sul dollaro nell’anno 1933 per ordine del 32° presidente, Franklin Roosevelt, che come è noto era massone”.

Mentre continuava a sostenere queste tesi, il mio stupore aumentava a dismisura, perché di questa vasta e controversa problematica storica mi sono interessato solo tardivamente ed episodicamente. Ho sempre ritenuto che in questa materia ci fossero molte pubblicazioni, ma poche prove documentali. Soltanto recentemente ho avuto la possibilità di leggere alcune opere che hanno destato la mia attenzione, soprattutto perché i loro autori sono molto accreditati negli ambienti specialistici internazionali. Questi libri contengono informazioni di notevole interesse, e la materia è così vasta che si perde sovente il filo conduttore. I dettagli sono come l'albero che nasconde la foresta e rendono poco credibili talune convinzioni. Una chiara contraddizione, però, sembrò emergere

dalle affermazioni di fondo del mio illustre

interlocutore. Se l'umanità è da tempo immemorabile sottoposta alla manipolazione di un network di Illuminati; se anche i protagonisti che si sono fronteggiati nelle tragiche vicende del XX secolo sono stati espressione


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degli Illuminati, perché Robert Brasillach

avrebbe

immolato la sua giovane vita per sostenere

intellettualmente le posizioni di una delle parti in campo? Davvero paradossale! Perciò, riesce veramente difficile dare un minimo di credito ai teoremi di David Icke sulla cospirazione globale o a quelli che hanno dato la stura a romanzi di successo come Il codice da Vinci di Dan Brown, anche se devo confessare che spesso sono suffragati da una certa documentazione e che sono efficacemente suggestivi e intriganti. Mi sono sempre chiesto, insomma, come è possibile credere che sia in atto da millenni una cospirazione condotta da una fitta rete di società segrete, al cui vertice esiste un numero ristretto di Illuminati, i quali, legati da un ramo di sangue che proviene addirittura dall'antica Babilonia, perseguono la manipolazione della coscienza globale, per realizzare un governo mondiale. Questi autori, con nonchalance, riescono addirittura a sostenere che, nel secolo scorso, gli Illuminati hanno dato luogo alla nascita del Nazismo e del Comunismo, perché dal caos conseguente al loro inevitabile scontro potesse nascere il Nuovo Ordine Mondiale. Per queste fondate ragioni, seguivo con malcelata incredulità le argomentazioni di Robert che ritenne di dovermi fornire ulteriori elementi.

“Purtroppo, questa è la realtà che il mondo sarà costretto a vivere nei prossimi secoli. Un processo storico iniziato proprio con l’indipendenza americana dall’Europa, continuata con la dottrina di Monroe, l’America agli americani, che inibiva ogni intromissione europea negli affari interni americani e proseguita con l’influenza esercitata dalla rivoluzione del Nuovo Mondo su quella francese. Personaggi illustri, come il marchese francese La Fayette, parteciparono alla Rivoluzione americana, per rappresentare successivamente la parte moderata del giacobinismo dei Danton, Marat e Robespierre. Un processo proseguito senza sosta contro l’autoritarismo e il totalitarismo del vecchio Continente, prima contro Napoleone, in seguito contro Hitler e Stalin, per l’affermazione della libertà degli uomini e dei diritti civili”.

A mano a mano, però, che la conversazione procedeva con toni gravi e talora appassionati, mi accorgevo che Robert sosteneva alcune idee alla stregua di un'intellettuale provocazione. Pertanto, ebbi l'impressione che si era soffermato su certi controversi argomenti non perché ne fosse convinto, ma solamente per arricchire le mie conoscenze. Era la più palese dimostrazione della sua innocenza dall'ingiusta accusa di aver collaborato con il nazionalsocialismo. Eppure la sua giovane vita era stata stroncata dal plotone di esecuzione. Nemmeno la richiesta di grazia firmata dai più noti Accademici di Francia lo aveva salvato dalla prematura morte. Compresi, allora, che era necessario spostare la conversazione su temi prettamente letterari, per confermargli che la mia cultura politica era molto lontana da queste posizioni.


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Gli chiesi, perciò, se le poesie da lui scritte nella prigione di Fresnes volessero rappresentare, a pochi giorni dalla sua fucilazione, un testamento politico e spirituale da affidare alle nuove generazioni. Improvvisamente mutò il suo stato, e, dopo aver assunto un comportamento ieratico, mentre tutt'intorno aleggiava un'atmosfera di alta spiritualità, cominciò a declamare i versi della Canzone per Andrea Chénier, il poeta ghigliottinato dai giacobini nel 1794, scritta nella prigione di Fresnes il 15 novembre 1944.

“Diritto sulla pesante carretta attraverso Parigi bruciante, in fronte col pallore delle prigioni, nel cuore con l’ultimo canto di Orfeo, tu andavi verso il patibolo, o mio fratello dal collo mozzo!

Tu speravi nelle nere notti ancora un’alba per illuminarti, per potere intenerire la storia sulla sorte di tanti giusti massacrati, per imbarcare nella memoria tanti tesori pronti ad affondare.

Con le onde dell’avventura, attraverso i giorni diversi, le ore chiare e scure, un secolo e mezzo è passato. La stagione è ancora meno sicura, ecco il tempo di Andrea Chénier.

Sulla prigione chiusa e colma ancora un mondo è scomparso. O nero sole della nostra pena, un’altra folla è nella strada, come nell’antica settimana, sempre chiedendo che si uccida.

Questi versi mi fornirono la certezza che Robert Brasillach, alla vigilia della sua morte, aveva ormai rimosso le ragioni che lo avevano spinto ad assumere una netta posizione a favore dello schieramento ritenuto indispensabile per fermare la dilagante sovversione materialistica, e che per Lui, proprio in quelle ore, era iniziato un cammino di profonda conversione.


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Convinto che, dopo un secolo e mezzo dalla esecuzione di Andrea Chénier, toccasse ora ad un altro poeta francese cadere per mano dei suoi connazionali, Robert aveva scritto una struggente poesia, Il mio Paese mi fa male, che volle declamare quasi per convincermi della consapevolezza della sua fine imminente.

“Il mio Paese mi fa male per le sue vie troppo piene, per i suoi ragazzi gettati sotto le aquile insanguinate, per i suoi soldati che sparano nelle vane sconfitte, e per il cielo di giugno sotto il sole bruciante…..

Il mio Paese mi fa male per tutti i suoi doppi giochi, per l’oceano aperto ai neri vascelli carichi, per i suoi marinai morti per placare gli dei, per i suoi legami troncati da una forbice troppo leggera….

Il mio Paese mi fa male per tutta la sua giovinezza, gettata ai quattro venti sotto bandiere straniere, perdendo il suo giovane sangue per mantenere le promesse che lasciavano indifferenti coloro che le facevano”.

E a riprova della sua conversione, nella consapevolezza che un mondo migliore stava per accoglierlo, affidò il suo testamento spirituale ai versi della sua ultima poesia Salmo settimo, scritta il 3 febbraio 1945, tre giorni prima del suo martirio.

“Ho passato questa notte sul monte degli ulivi: ero accanto a voi, anche se indegno, o Signore? Non lo so, ma la catena era pesante ai miei piedi e io sudavo anche, come voi, il mio sudore.

Non è senza un grande dolore, vedete, che si strappa il nostro cuore ai soli beni cui fu votato, e l’Angelo viene a troncare, più che a sciogliere, il filo di quel battello che voi avete legato.

Voi avete troppo conosciuto questa terra in cui siamo, voi avete troppo amato l’aria che respiriamo, per non avere sofferto quel che soffrono gli uomini e non aver lanciato gemiti nella vostra Passione.


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Ah!, se domani, Signore, dal giardino degli Olivi, potessi ripartire verso il mondo che si vede, lasciatemi bere ancora alle fontane di acqua viva e lasciate che questo calice si allontani da me.

Ma se vi serve ancora la mia attesa, Signore, se vi serve la nera alba e la pena più dura, prendete lo strazio e prendete il dolore, sia fatta la vostra volontà e non la mia!

La profonda commozione che traspariva dai miei occhi e la mia condivisione fornirono a Robert la certezza di avere finalmente trovato l’interlocutore dotato della giusta sensibilità per comprendere il suo testamento spirituale. Spinto da questa assoluta consapevolezza, quasi a suffragare la forza delle sue certezze, mi ricordò la conclusione della sua Lettera ad un soldato della classe 1960.

“Alle domande che questa lettera pone, solo il futuro potrà rispondere. Tu che la leggerai, e che forse sarai vivo in un mondo in cui l’onestà intellettuale sarà scomparsa, avrai senza dubbio fatto la tua scelta, e guarderai i nostri disordini, che avranno attorniato la tua infanzia, con lo sguardo storico che noi abbiamo ricercato alla prima tra le grandi guerre del secolo. Ti chiedo di non disprezzare le verità che abbiamo ricercato, le intese che abbiamo voluto al di là di tutti i contrasti, e di conservare le due sole virtù alle quali io credo, la nobiltà e la speranza”.

Mentre queste parole risuonavano nel profondo della mia coscienza, l’immagine di Robert Brasillach cominciò a sfocarsi, come negli effetti di dissolvenza usati nell’arte televisiva per trasmettere messaggi subliminali, con lo scopo di eliminare gradualmente la suggestione delle immagini e per consentire al significato delle parole di scavare come un raggio laser nel cuore e della mente dello spettatore. Allungai allora le braccia per trattenerlo. Avrei voluto chiedergli qualche previsione circa il futuro di un mondo alla deriva, pieno di contraddizioni. Nel silenzio assordante che avvolgeva la villa, una ghiandaia marina si posò delicatamente sulla mia spalla e con il suo dolce cinguettio mi costrinse ad aprire gli occhi…

Era stato un sogno in una notte di mezza estate, vissuto in una villa del Circeo, a pochi mesi dalla morte di mio figlio Piergiorgio. Gli albori di un nuovo giorno filtravano attraverso le antiche colonne del Tempio di Giove sull’omonimo monte di Terracina e il sole, nell’annunciare un’altra cocente giornata, irradiava il lampione, rimasto acceso tutta la notte, e un secolare pino, gli unici testimoni di un sogno che in una rappresentazione


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scenica multimediale richiederebbe l’appassionata esecuzione dei Notturni di Chopin come naturale sottofondo musicale.

Anni '40


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Mio padre e il fascismo

Poiché dall'interno della villa non proveniva alcun rumore, tenuto conto che a quell'ora sia Luisa che Matteo, Alba e Riccardo non si erano mai alzati per la colazione, decisi di rimanere sdraiato con gli occhi chiusi quasi per voler dare continuazione al sogno. Ma il pensiero per una comprensibile associazione di idee andò a mio padre e alla sua adesione al fascismo. “Ragazzo del 99”, come giustamente soleva definirsi, mio padre, primo di tredici figli, nacque ad Isola del Liri il 10 luglio 1899. Dopo gli

studi tecnici, partì appena diciassettenne per la Grande Guerra, per essere arruolato

nell’arma aeronautica. Conobbe l’ardimentoso Francesco Baracca. Tutte le volte che entravamo in argomento, mi spiegava con dovizia di particolari le manovre che bisognava effettuare per poter decollare con quegli aerei primordiali, i quali finivano sovente con lo schiantarsi a terra. Come la stragrande maggioranza dei reduci, riteneva che era stata tradita la Vittoria, conseguita con il sacrificio di seicentomila morti, sostenuto in questi convincimenti dal padre, uno dei fondatori del movimento nazionalista nella Media valle del Liri, anche se disapprovava alcuni aspetti della sua politica classista dei suoi adepti. Il Caffè Libico, di proprietà di mio nonno, infatti, era il luogo di incontro della borghesia isolana, notoriamente legata al movimento delle “camicie azzurre” di Corradini. Anche mio padre ne fece parte fino alla unificazione dell'Associazione Nazionalista Italiana con il Partito fascista avvenuta nel 1923. Conservo ancora la sua tessera di iscrizione all'A.N.I. n° 2990 dell'anno 1922. Fu affascinato dalla predicazione di D’Annunzio, De Ambris, Corridoni, Mussolini. Perciò, assunto dalla Cartiera Questa con la qualifica di tecnico cartaio, appena conquistata l’indipendenza economica, iniziò il suo impegno politico in una città dove il massimalismo di sinistra aveva da tempo lo strapotere, soprattutto perché la presenza di molte industrie alimentava notevolmente il movimento operaio e classista. A questo punto, la storia di un altro isolano si intrecciò con quella di mio padre: Ettore Valente, nato ad Isola del Liri il 16 ottobre 1888.


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Papà me ne aveva sempre parlato, ma non avevamo avuto mai l’occasione di intrattenerci sulla sua tragica esistenza. Cosicché, quando in occasione del centenario della sua morte, nel 1988, in un periodo che mi vide appassionato ricercatore storico, nel consultare una gran mole di documenti nei diversi archivi, scoprii la complessa personalità del Valente. Quando nacque, erano passati appena sei anni dal primo grande sciopero nella Cartiera del Liri, organizzato spontaneamente dai lavoratori, inalberando “una bandiera che fu improvvisata con carta di colori nazionali”. Trascorse l’infanzia in un ambiente caratterizzato da fervore culturale e sociale. Era vicino di casa del famoso scienziato Giustiniano Nicolucci, già membro conservatore, nel 1861, del primo Parlamento nazionale. Il padre Michele, cassiere della Cartiera del Liri, fu eletto consigliere comunale nel 1895 e fu contrastato dal socialista massimalista Vincenzo Giovannone che, successivamente, esercitò una notevole influenza politica sul giovane Ettore Valente. Studiò prima al Visconti di Roma per licenziarsi con ottimi voti al Liceo Tulliano di Arpino il 20 luglio 1907. Era universitario, quando nel 1909, per aver duramente condannato l’uccisione dell’anarchico spagnolo Francisco Ferrer, la direzione della cartiera decise il licenziamento del padre. Questo fatto, definito “pietoso” e “scandaloso” dal Commissario Prefettizio Guido Calcagni, determinò nella coscienza del giovane Ettore il contrastante sentimento “della vendetta e del rimorso”. L’avvenimento si verificò nel periodo storico segnato dalle polemiche “rivoluzionarie” di Vincenzo Giovannone che alimentarono la passione del Valente, socialista, avvocato, tribuno, dotato di un’efficace oratoria. Ettore Valente fu eletto consigliere comunale nel 1914. Prima di partire per il servizio militare, nella seduta consiliare del 5 agosto 1914, quando infuriava lo scontro tra interventisti e neutralisti, rievocando la figura di Jean Jaurès, assassinato da un esaltato, affermò che “anche i socialisti italiani si stringeranno per la difesa della Patria nel giorno del pericolo”. Svolse un’intensa attività pubblicistica come corrispondente dell’ Avanti e fu eletto Sindaco di Isola del Liri e Consigliere provinciale nelle elezioni amministrative del 1920. Nel periodo successivo al “biennio rosso”, Ettore Valente guardò sempre con maggiore attenzione al contrasto tra i nazionalisti di Paolo Greco in “camicia azzurra” e i fascisti di Aurelio Padovani in “camicia nera”. I nazionalisti obbedienti, malleabili, senza un’ideologia e programma politico, venivano preferiti ai fascisti, i quali non erano disposti a cedimenti totali al padronato e si dedicavano ad esempio ad organizzare sindacati operai autonomi proprio mentre i nazionalisti garantivano le squadre antisciopero agli industriali cartai. Il movimento fascista di Padovani trovò così ampi spazi tra i lavoratori, tanto che il Prefetto scrisse il 16 settembre 1922 che “le Amministrazioni socialiste sarebbero disposte a lasciare senza contrasto il potere, però, per neutralizzare l’azione del fascismo (nazionalista) indurrebbero le masse a passare nei fasci con l’indirizzo repubblicano”.


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Tra i più attivi in tal senso fu il giovane avvocato isolano, il quale, nel corso di un convegno tenutosi al Teatro comunale, esplicitò il suo pensiero. Fu, però, aggredito dai massimalisti del partito socialista e costretto al più completo isolamento. Subito dopo la Marcia su Roma, trascorsi appena due mesi, il trasformismo indusse i “rossi”, compresi i suoi denigratori, a diventare “neri”. Il 6 novembre 1922, Ettore Valente, la cui breve vita politica evidenzia notevoli elementi di “socialismo nazionale”, si uccise con un colpo di fucile alla testa. Il 21 giugno 1923, dopo soli sette mesi dalla sua morte, il Consiglio comunale di Isola del Liri, composto esclusivamente da consiglieri socialisti, deliberò il conferimento della cittadinanza onoraria a Benito Mussolini. Mio padre mi parlava spesso di quegli appassionanti momenti che lo vedevano, coerente con i suoi convincimenti e con la storia politica della famiglia, attestato su posizioni diametralmente opposte rispetto a quelle di Ettore Valente, in una città dove da tempo infuriava la violenza rivoluzionaria. La situazione diventò estremamente pericolosa durante il “biennio rosso” (1919-1921), quando per raggiungere la Cartiera Questa era costretto ad attraversare la città “con la pistola in pugno e con la pallottola in canna”. Mio padre fu, perciò, “interventista interventore” e “marcia su Roma”, per ritrovarsi dopo il 1929 a regime fascista consolidato, e a seguito del fallimento della Cartiera Questa, senza lavoro con moglie e due figli a carico. Per qualche anno fece il guardaboschi e il disegnatore, per essere poi assunto dalla Ippolito e Pisani, il cui titolare era il Podestà di Isola del Liri. Vi rimase per circa quarant’anni. Questo rapporto di lavoro gli costò, nel 1944, la deportazione nel campo di concentramento di Padula, probabilmente al posto del Podestà. Come è noto i comunisti quando devono scegliere tra un capitalista e un lavoratore salvano sempre il primo. Disinteressatamente. Come la storia ha dimostrato ampiamente.


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Mio padre internato nel campo di concentramento di Padula

Primo di tredici figli, mio padre era cresciuto in un'atmosfera familiare dove si erano combinati in una perfetta osmosi il rigore morale di mio nonno Costantino, vecchio conservatore legato ai valori della Destra storica, e la fede religiosa di nonna Carmela, alimentata dalla presenza del fratello sacerdote, zio Don Domenico, da sempre impegnato a difendere Cristo contro l'ateismo diffuso a piene mani dalle sinistre locali. La religione del dovere, pertanto, aveva talmente condizionato la sua vita che egli, legatissimo a mia madre, ai suoi figli e al lavoro, aveva sempre temuto che le circostanze un giorno l'avrebbero posto nella condizione di sacrificare tutto il suo mondo per essere estremamente coerente con i suoi principi politici. Tuttavia, durante il regime fascista, non aveva mai rivestito importanti incarichi, anche perché la pressante attività lavorativa non glielo avrebbe giammai permesso. Era impiegato presso l' importante feltrificio per cartiere del podestà Francesco Pisani che gli aveva concesso in uso un appartamento all'interno dello stabilimento, ove ha vissuto con la famiglia fino al suo pensionamento. Una porticina gli consentiva l'accesso all'ufficio, sicché la sua vita si svolgeva nei pochi metri che da casa lo separavano dal posto di lavoro. Da quando Loreto Gerardi, ex guardia del Duce, passato poi al servizio degli Alleati, gli aveva comunicato che gli inglesi lo cercavano, ebbe la sensazione che si stavano preparando momenti drammatici per lui e per la famiglia. Il CNL (Comitato di Liberazione Nazionale) zonale

l'aveva denunciato agli Alleati, accusandolo

ingiustamente di essere stato “un fascista violentissimo, manganellatore e collaborazionista”. Seppe in seguito da uno dei membri del CNL, noto con il nomignolo di “galeotto”, che l'inserimento nella lista delle persone da internare era stato preteso da Fernando Mancinelli, da sempre conosciuto per il suo stalinismo. Vivevamo in una stanza di una piccola e misera casa in località Collecarino, ridente località collinare posta tra Isola e Arpino, dove eravamo sfollati dopo il bombardamento del 13 gennaio 1944. Una enorme scheggia della bomba esplosa a pochi metri dalla camera dove in quel momento io e papà, seduti a


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contatto di gomito, ascoltavamo le ultime notizie, passò tra noi due, distruggendo l'apparecchio radiofonico. Ne conservo ancora il vivido e pauroso ricordo. Per la caccia che gli stavano dando gli inglesi, trascorse la notte insonne. Si girò continuamente nel letto, pensando agli addebiti che gli sarebbero stati contestati. E quale tragica sorte attendeva lui, la giovane moglie e i figli ancora piccoli. Avevo proprio in quel mese di maggio compiuto quattro anni! Per quanto si sforzasse di trovare qualsivoglia motivazione, arrivava alla conclusione che l'unica accusa possibile era quella di aver aderito al movimento fascista, come la stragrande maggioranza degli italiani, e di essersi dedicato al lavoro e alla famiglia. Però, le notizie provenienti dall'Alta Italia erano tragiche: continuava spietatamente il massacro dei fascisti, o presunti tali, e dei loro familiari, perlopiù innocenti vittime dell'odio di parte e di vendette personali. E ciò gli suscitava gravi presentimenti. Alcuni giorni prima, si era salvato miracolosamente dalla rappresaglia nazista in cui trovò la morte anche il ragazzo di tredici anni Lino Iafrate che tanta influenza ebbe nella mia adolescenza. Infatti, per pochi minuti non si era trovato sul posto della strage. Lino era stato la decima vittima della furia nazista. Sicché quando mio padre si trovò a passare, il povero ragazzo era disteso a terra, a braccia aperte come Gesù Cristo crocifisso, con il cervello che era fuoriuscito dal cranio spappolato da una raffica di mitra e con gli occhi aperti a guardare il rosso orizzonte di quella sera di fine maggio. I soldati tedeschi, che imbracciavano le loro armi ancora fumanti, si congratularono con mio padre, perché nella loro contabilità non c'era più posto per un'altra vittima. Con il massacro di Lino, la decimazione era stata completata! All'epoca dei drammatici fatti, mio padre non era ancora a conoscenza dell'esistenza dei campi di sterminio nazisti, ma gli fu sufficiente assistere a quella tragica scena, e, soprattutto, osservare il cinico comportamento dei soldati tedeschi di fronte al corpo inanimato di Lino, per comprendere l'errore dell'alleanza con la Germania di Hitler. Nella sua mente, quella notte, si affastellarono contrastanti pensieri e trovò spazio anche il ricordo di Lino al quale si era affezionato, perché, amico e coetaneo di mio fratello Oscar, frequentava assiduamente la nostra casa. Alle prime luci dell'alba, si alzò, facendo in modo di non svegliarci, ma mia madre non aveva chiuso occhio, per tutta la notte, per condividere in silenzio le sue preoccupazioni. Si preparò di tutto punto. Aveva sempre creduto che la forma è sostanza. Mi baciò delicatamente, come faceva abitualmente prima di uscire. Accostò delicatamente l'uscio della modesta abitazione e si incamminò per la strada bianca e polverosa che conduceva alla via provinciale, per raggiungere Tavernanova, diretto alla villa Pisani scelta dagli inglesi per ubicarvi il loro Comando. Ironia della sorte la villa era di proprietà di Antonio Pisani, fratello e socio del suo datore di lavoro, dal quale veniva chiamato spesso, allorquando doveva essere collocato un quadro, conoscendo la sua precisione e il suo spiccato senso delle proporzioni.


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Era perfettamente consapevole del fatto che alla fine di uno scontro immane, i vincitori cercano sempre i capri espiatori per soddisfare il loro spirito di vendetta, a prescindere dalla verità e dalla giustizia, ma aveva ormai maturato la certezza di avere sempre operato per il bene del prossimo, e ciò cancellava all'origine ogni pensiero negativo. Perciò, il tragitto fu caratterizzato dall'alternarsi di antitetici sentimenti, ma la sua profonda fede cristiana gli consentì di essere forte e sereno. La villa gli era familiare, soprattutto in considerazione della cordiale ospitalità con cui veniva accolto dalla signora Pisani. Sotto il cielo sereno ed il sole già caldo, contornata da cespugli di rose rosse sparsi qua e là, la villa gli apparve incantevole in quella odorosa mattinata di fine maggio. Gli auspici erano buoni! Fu introdotto, al piano terra, in quello che era stato il lussuoso salotto di villa Pisani, dove un segaligno colonnello inglese seduto alla scrivania era intento a leggere alcuni documenti. Alla vista di mio padre, si alzò rispettosamente, sovrastandolo. Era altissimo e con fare bonario guardò papà dall'alto in basso. Ma egli non si fece intimorire. Tra i tanti eroi del Risorgimento, Amatore Sciesa era quello che ricorreva più frequentemente tra le sue citazioni. “Tiremm innanz”, infatti dichiarò tacitamente all'ufficiale britannico che lo interrogò, contestandogli gravissime responsabilità politiche. Non gli fu difficile respingere le menzogne artatamente costruite contro di lui dai comunisti, che per tanti anni rosi dall'invidia, avevano aspettato quel momento per rovinarlo. La Storia insegna, però, che la verità è costretta a soccombere quando la menzogna è costruita dai vincitori contro i vinti. Tuttavia, il colonnello, convinto della buona fede di mio padre, gli consentì di tornare in famiglia, ma gli ordinò di tenersi a disposizione di quel Comando, chiedendogli la parola d'onore d'italiano. Il completo disfacimento dell'Italia e i tanti tradimenti non gli consentirono di esprimere questo impegno, l'unica parola d'onore che credette di poter affermare, nonostante tutto e con grande convinzione, fu quella di fascista. Rispose così mio padre, sia perché era convinto della benevolenza del suo interlocutore, sia perché, nei momenti di forte passione politica, la coerenza annulla irrazionalmente la prudenza che si richiede al buon padre di famiglia. Egli, comunque, non si rese conto che con quella assurda dichiarazione, considerato che gli inglesi erano venuti in Italia per combattere il fascismo, aveva convalidato il cumulo di accuse costruite contro di lui. L'ufficiale, fortemente turbato da quella che probabilmente ritenne una grave provocazione, sollevò il braccio per schiaffeggiarlo. Fu un attimo che durò un'eternità.


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Mio padre restò impassibile e, considerato che quel gesto sarebbe stato più grave della sua uccisione, invidiò i tanti fascisti massacrati dai partigiani nel “triangolo della morte”, in Alta Italia. Di fronte a tanta dignità, l'inglese abbassò il braccio e, con toni burberi, lo licenziò. Tornò a casa con il cuore pieno di speranza, ritenendo l'esito dell'interrogatorio fortemente positivo. Se fosse stato animato dal sentimento prevalente negli italiani alla fine della guerra, sarebbe fuggito per cercare un più sicuro rifugio in attesa di momenti migliori. Non era forse stato questo il tacito consiglio del colonnello, quando gli aveva ordinato di rimanere a disposizione? Invece, attese in casa, per tre lunghi giorni, le decisioni che lo riguardavano. Una pattuglia di soldati britannici venne nella nostra povera abitazione, presenti io, mamma e Edda. Con modi bruschi incatenarono mio padre, lo condussero all'esterno per introdurlo dentro un sidecar, mentre mia madre, invocando l'aiuto di Dio, si era aggrappata a quello strano veicolo, facendosi trascinare per un lungo tratto di strada, in quanto voleva a tutti i costi condividere il destino del suo uomo. Conservo ancora intensamente il ricordo di quel drammatico momento avvenuto sotto il cielo azzurro di un odoroso giorno di fine maggio. Edda, quindicenne, abbastanza matura per capire l'accaduto e le sue conseguenze subì un profondo trauma che la condusse a prematura morte l'antivigilia di Natale del 1944, senza poter rivedere mio padre, internato nel campo di concentramento di Padula. Per diversi mesi, non fu possibile conoscere le sue condizioni, perché la corrispondenza tra lui e mia madre veniva bloccata pretestuosamente dalle autorità inglesi. Infatti, le rispettive lettere venivano inviate al P/W Camp Algiers, Algeri dove erano lette e censurate secondo criteri puramente discrezionali, per poi rispedirle in Italia. La seguente lettera del 30 agosto 1944, arrivò ad Isola del liri il 17 ottobre, come evidenzia il relativo timbro postale.

“Mia Ersilia carissima, eccomi ancora a te, sempre in ansiosa attesa di tue notizie a tutt'oggi non pervenutemi. Questo tuo silenzio – non certamente imputabile a te – rende più duro ed insopportabile questi interminabili giorni di prigionia. Vi penso sempre a tutti, mi siete costantemente nel cuore e nei momenti di sconforto guardo le vostre fotografie, pregando Iddio che mi dia la forza di sopportare con rassegnazione e fiducia l'immenso dolore della vostra lontananza e che vi faccia risentire il meno possibile le terribili ripercussioni della mia prigionia. Il destino ha voluto privarvi di me in un momento in cui ne avevate più bisogno, ma ho fiducia in te, e quando la disperazione mi avvince, mi consola il pensiero che tu – assistita dai miei e dai tuoi – non farai mancare ai nostri bambini il puro necessario. La mia è un po' la situazione della grande maggioranza dei miei compagni, e questo stato ci dà la possibilità di poterci vicendevolmente confortare, augurandoci l'un l'altro la fine prossima di questa tormentata vita.


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Spesso impreco all'atroce destino che ha voluto riserbarmi tanti dolori e tanti tormenti, ma poi penso al martirio di Gesù Cristo e con rassegnazione sopporto le mie sofferenze, nella dolce speranza di essere presto restituito a voi, per cancellare con una nuova vita questa triste parentesi della mia esistenza. Purtroppo la limitazione di spazio mi impedisce di continuare; mi limito ad esortarti ancora di farmi pervenire al più presto notizie tue e dei bambini, che tanto anelo. Frattanto, con i miei più affettuosi saluti per i miei e per i tuoi, abbiti un forte abbraccio e bacioni cari con i bimbi.

Pietro

Puntuale arrivò, invece, la lettera del 3 settembre, tramite i nostri parenti di Napoli.

“Mia carissima Ersilia, ho ricevuto la tua attesissima del 22 scorso. Essa mi è pervenuta in un momento di grande sconforto. Ho pianto nel leggerla, non saprei dirti se di dolore o di gioia. Ho letteralmente divorato quei pochi righi, li attendevo con ansia; essi son valsi a rasserenarmi, a fugare molte nubi che si addensavano nella mia mente, a rincuorarmi, a darmi la certezza che la mia vita non è finita, a ridare al mio spirito depresso la speranza. Ho infinitamente gioito nel leggere che i nostri compaesani imprecano ai miei ingiusti accusatori e che il Comm. Pisani è addolorato della mia sorte. A Iddio il resto....... Ti ho indirizzato a Isola parecchie lettere, credo nel frattempo l'avrai ricevute. Mi addolorano indicibilmente i sacrifici cui sei sottoposta per tirare innanzi la vita, ma purtroppo il destino ha voluto riserbarci una immeritata sorte, quando la tranquillità e la felicità sembravano dar posto alle ansie ed ai tormenti derivateci dalla guerra. Ma occorre molta forza e rassegnazione per superare questa triste parentesi della mia vita. Mi è pervenuta gradita la notizia di una tua venuta qui; vorrei averti vicina, anche per pochi istanti; ma vale la pena sottoporti ad un incomodo viaggio per stare insieme pochi minuti? Lascio a te la decisione. Ringrazia per me gli zii, i cugini ed Irma per le affettuose parole ed i saluti che ricambio affettuosamente con l'augurio di presto vederci. Baciami fortemente i bambini e dì a Brunetto che papà presto ritornerà. A te un forte abbraccio e bacioni cari, tuo

Pietro


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Il 5 settembre 1944, Edda scrisse a papà la seguente lettera, che anticipa la sua prossima prematura morte.

“Carissimo babbo,

dopo due lunghi e sospirati mesi di attesa, abbiamo saputo per mezzo di mamma tue notizie. Caro papà, ti prego di stare tranquillo perché mi trovo in convalescenza e il mio stato di salute va migliorando. In questo momento io, mamma e zio Vincenzino stiamo partendo per Napoli dove zia Assuntina mi aspetta con ansia per curarmi con la massima attenzione, in quanto a Isola c'è molta fame, mentre a Napoli c'è molta roba. C'è Bruno che, tutti i giorni, domanda di te e dice: “Quando torna papà? Che sta facendo lì? Non possono farlo tornare da me? Sa che l'aspetto con ansia perché voglio andare anch'io a Napoli a fare i bagni al mare insieme con lui?”. Papà carissimo, non puoi immaginare le gentilezze che si ricevono dai cugini e dagli zii di Napoli. Mamma dice che non si potranno più dimenticare. Zio Michele ha raccomandato molto alla mamma che quando tu sarai liberato la festa dovrà essere fatta a Napoli. Da quando mamma riceve le tue lettere è più calma e più buona; mentre prima era nervosa e non aveva più un minuto di calma. Speriamo che Iddio conceda presto il tuo ritorno così in casa potrà tornare l'allegria e la pace. Qui siamo sempre in attesa della tua sospirata liberazione. Tanti saluti dai nonni, zio Don Domenico, zio Ninuccio, zia Teresa, zia Rosina, zio Donato. bacetti da Oscar, Enza, Bruno, Manlio, Leda. Un forte abbraccio da tua figlia

Edda

Tanti bacetti forti forti sono il tuo

Brunetto

Papà carissimo, ti mando tanti bacetti e un forte abbraccio: sono tua figlia

Enza

Tanti


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Pietro caro, l’allegata lettera è tornata indietro, perché probabilmente l'indirizzo non conteneva la dizione camp. Tu non pensare a noi, perché se non tornerai presto, verrò io e ti porterò tutto quello che ti necessita.

Ti abbraccio e ti bacio

Ersilia

Papà mi parlava spesso della sua prigionia, senza scendere mai a descrivere i dettagli, anche perché alle sue richieste di poter rivedere la Certosa di Padula non avevo mai aderito, soprattutto perché volevo rimuovere il tragico evento. Mi affido allora al diario di un insigne internato: il conte Valentino Valentini Cencelli, noto per aver diretto i lavori di bonifica delle paludi pontine. Dal suo libro Padula 1944-1945, riprendo la seguente annotazione:

“6-7 aprile 1945. La scorsa notte il senatore Paolo Orano ha avuto una perforazione all'ulcera duodenale; l'hanno trasportato d'urgenza a Nocera nella notte stessa. L'hanno operato; è morto oggi. E' una pagina d'infamia. Aveva settantadue anni; per due mesi l'anno trascinato da campo in campo; l'hanno fatto dormire per terra, senza coperte. Arrivò, mi sembra, in novembre. Faceva pena; vedere un vecchio, in fila, con una gamella a prendere il rancio, avvolto in una coperta; piccolo, macilento, si reggeva a malapena in piedi; sbattuto per giorni e giorni nella vita infernale dei “wings” e poi fatto discendere nei “flats”. Uomo di eccezionale cultura, conosciuto all'estero forse più che in Italia, scrittore, brillante oratore e conversatore tra i più interessanti. Vivace, pronto, aveva attraversato la vita politica prima nel socialismo, poi nel fascismo, portando in entrambi l'impulso della sua intelligenza vulcanica. Era stato con me nella 27a – 28a – 29a legislatura. Poi, nel 1939, quando fu fatta la trasformazione in Camera dei Fasci e delle Corporazioni, fu nominato Senatore. La sua fine è una delle tante pagine nere di questo campo di concentramento. Un vecchio tenuto qui, nonostante le sue riconosciute condizioni fisiche, fino a che lo si è fatto morire, solo, lontano da sua moglie, in un ospedale; sepolto in un cimitero, senza nemmeno la cassa. Lo hanno gettato, avvolto in una coperta, in una fossa comune, senza una persona amica che dicesse un “Requiem” alla sua salma. Questa è la civiltà? Questa è la libertà? Forse il Signore ha voluto risparmiare a lui, così profondamente italiano, i dolori e le amarezze che questo Paese, ora così aspro, inacidito e fazioso, sta riservando a sé e ai suoi figli.


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E anche questa ignominia passerà in silenzio; non una parola sarà detta e nessuno oserà sollevare il velo sull'assurdo e sull'immoralità di questi campi di concentramento, dove sono rinchiusi civili strappati alle loro case senza riguardo per l'età e per le condizioni fisiche, senza un interrogatorio o la possibilità di contestare; buttati qui, come bestie, da mesi o da anni. Politici e spie, ladri e spogliatori di cadaveri, sabotatori ed ergastolani, contadini e professori universitari, onesti e disonesti, fascisti e comunisti, giovani di sedici e vecchi di ottantadue anni; mutilati, invalidi, ciechi! Tutti mescolati in un cortile o in una camerata. Nessun regolamento, nessuna norma giudiziaria: siamo tenuti così, a capriccio, ignari del domani, che potrebbe essere un giorno o un anno! In gran parte, me compreso, senza sapere perché siamo qui, bollati sotto la generica formula “per la sicurezza delle forze armate alleate”. A un ladro, a un assassino si fa un processo, si assolve o si condanna. A noi no. Arrestati, siamo condotti in campo di concentramento. A molti, prima di giungere qui, furono rubati orologi, denari, penne stilografiche, in una parola, tutto quello che avevano indosso. Finte fucilazioni con colpi sparati in aria, scavo di fosse, molte persone pestate a sangue con i calci dei fucili. La guerra ha i suoi orrori ma queste cose segnano l'apice; la tortura, in questi campi, è senza sevizie ma fine, intelligente, lenta, perseverante, secondo un sistematico desiderio di farla durare il più a lungo possibile. Perché tanta stupida cattiveria? A quale scopo? Uno stornello del campo dice che quando c'erano i tedeschi bisognava stare nascosti per non fare il lavoro obbligatorio, ora che ci sono gli Alleati è concessa la libertà dell'ozio obbligatorio! Essere inutili a se stessi e al Paese: ecco la più grande mortificazione e l'esasperazione che ci tormenta. E in più, essere causa di dolore alle persone che ci sono care! Questa sera invidio il mio caro amico Orano! E' morto! Ha finito di soffrire e di far soffrire. Oggi mi hanno nuovamente chiamato per una visita di controllo, tra gli invalidi e i cronici del campo. Credo sia la quinta o la sesta volta! Si riconoscono le condizioni della mia gamba, si riconosce che è necessario farmi costruire un nuovo apparecchio ortopedico e, dalla fine di luglio 1944, sono nell'elenco dei cronici da dimettere dal campo; ma intanto sono ancora qui e si continua a farmi camminare con le stampelle. Mentre il nuovo capitano parlava con l'interprete, ho capito che non è “possibile” mandarmi a Roma! A me hanno detto che il capitano ne avrebbe parlato al colonnello, poiché è “una cosa artificiale” alla quale, qui, non si può provvedere! Su duecentosessantasette giorni di campo qui a Padula, centosessantuno giorni sono stato immobilizzato a letto con la gamba piagata o costretto a camminare con le stampelle. E tutto questo senza essere stato mai, ripeto mai, interrogato. Domani comincia il decimo mese d'arresto! Viva la libertà!”.


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Queste erano le condizioni in cui mio padre era costretto a trascorrere i suoi giorni, mentre Edda moriva! Il 23 dicembre 1944, l'antivigilia di Natale, la poverina spirò a Napoli, dopo alcuni giorni di agonia, assistita amorevolmente dai nostri parenti napoletani. Mio padre, mia madre ed io rivedemmo soltanto i suoi resti, diciotto mesi dopo, quando furono esumati dal cimitero di Napoli per essere trasportati ad Isola del Liri. Andammo con una vettura a noleggio di proprietà di Alberto Pizzuti, detto “gl'padrone”. Si partì di buon mattino. Non so perché nei momenti tragici della storia della mia famiglia il cielo è sempre stato di un azzurro profondo. Non ricordo altri particolari se non quello dell'esumazione alla quale mi fu consentito di assistere, perché probabilmente i miei genitori avevano sottovalutato il macabro spettacolo che si stava preparando ai nostri occhi. All'epoca, nel cimitero di Napoli, le bare venivano sepolte verticalmente con un grande foro all'estremità inferiore, e ciò per consentire la rapida consumazione dei corpi, entro venti mesi, probabilmente per liberare gli spazi. Quando apparve il cranio di Edda con i lunghissimi capelli neri ancora attaccati, l'urlo di mia madre riempì il silenzio del camposanto. E mentre mio padre piangeva a singhiozzi, lei agguantò quel cranio e lo baciò con amore. Il dopoguerra fu durissimo, anche perché i “liberatori” non vollero “autorizzare” la riassunzione di mio padre alla Ippolito e Pisani. Per alcuni interminabili mesi, ci nutrimmo anche con la frittata di ghianda. Poi, con il ritorno alla normalità, dopo il processo in Corte d'Assise che si concluse con l'amnistia, mio padre fu riassunto nel precedente impiego, diventando l’elemento propulsore della ripresa produttiva dell’Ippolito e Pisani, tanto che gli fu concesso l’uso dell’appartamento, ubicato all’interno dello stabilimento, dove la mia famiglia ha vissuto fino al 1963. I dolorosi avvenimenti che si erano susseguiti, l’avevano duramente provato. Ma, dopo la prematura scomparsa della sua fedele compagna, che con lui aveva condiviso tutte le scelte, perse la voglia di vivere e morì il 30 aprile 1979.


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Anni '50


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La “Rivolta ideale” dei giovani missini del dopoguerra ed il mio impegno politico

Dalla villa del Circeo non proveniva ancora nessun segnale. Dormivano tutti. Io invece ero sveglio ormai da qualche ora, e dopo aver trascorso la notte in giardino, disteso sulla sedia a sdraio, sognando il poeta francese Robert Brasillach, mi ero lasciato sommergere dall'onda dei ricordi. Quando, ad un tratto, Luisa mi richiamò alla drammatica realtà di quei giorni:

“Bruno, corri. Il giornale radio sta trasmettendo una grave notizia. Sembra che a Genova, nel corso degli incidenti provocati dai contestatori dei G8 e della globalizzazione, sia rimasto ucciso un giovane di venti anni”.

In effetti si trattò di una morte annunciata, perché nei dibattiti che avevano preceduto la riunione dei G8, tutti i commentatori politici avevano sostenuto che la presenza a Genova di mezzo milione di contestatori no global avrebbe determinato una serie di gravissimi incidenti. Luisa, intanto, si era avvicinata alla mia sedia, nella quale ero rimasto impietrito, portando con sé una di quelle radioline che sulla spiaggia svolgono la funzione di turbare un sospirato riposo, ma che in quel momento stava trasmettendo i particolari di una tragica giornata di sangue. Dai commenti apparve chiaro che una parte del mondo politico si sforzava di sostenere cinicamente che, a fronte delle apocalittiche previsioni, un solo morto rappresentava un bilancio positivo. Ci guardammo senza parlare, ma dalla costernata espressione di mia moglie, apparve chiaro che il ricordo della recente morte di Piergiorgio faceva passare in secondo piano l’importanza dell’avvenimento politico, per dare centralità alla tragedia e al dolore dei genitori del povero Carlo Giuliani. Luisa si sedette premurosamente accanto a me; il nostro silenzio faceva credere che ascoltassimo la radio, ma i nostri pensieri erano altrove. Da tempo guardavo con apprensione al dilagante relativismo


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morale dei giovani, chiedendomi insistentemente se ciò derivasse dall’assenza di consapevolezza della drammaticità della morte, espressa manifestamente dalle nuove generazioni. Credono di rimuovere il fine ultimo, inseguendo l’illusione di una felicità eterna da perseguire ad ogni costo, anche con la ricerca di paradisi artificiali o con la violenza ammantata di false ideologie. Come era diversa la concezione del mondo e della vita di Wolfgang Amadeus Mozart, espressa in questa lettera che il più grande genio della musica scrisse al padre quattro anni prima della sua morte; alla stessa età di Robert Brasillach: 35 anni.

“Carissimo padre, ho appena ricevuto una notizia che mi ha profondamente scosso: Lei sarebbe molto malato. Quanto vorrei ricevere da Lei notizie consolatorie non ho bisogno di dirglielo. Ed è quello che mi auguro, sebbene non abbia perso l’abitudine di aspettarmi sempre il peggio. Perché saper accettare la morte è il vero scopo della nostra vita. Così da un paio di anni questa grande amica dell’umanità mi è diventata così familiare che il suo volto non mi fa più paura, anzi mi rasserena e mi consola. E io ringrazio il mio Dio per avermi concesso la felicità di procurarmi, Lei mi capisce, l’occasione di conoscere la morte come la chiave per la nostra vera beatitudine. Io non mi corico mai la sera senza pensare che forse, per quanto sia giovane, non vedrò il nuovo giorno. Ma nessuno di quelli che mi conoscono può dire che io sia scontroso o triste. E per questa beatitudine ringrazio ogni giorno il mio Creatore e la auguro di cuore ad ognuno dei miei simili”.

Mi capita spesso di pensare che la fiction televisiva riesca il più delle volte ad essere preferita dal grande pubblico, anche ad un buon libro di narrativa, perché la multimedialità consente con l’espressione musicale di mettere in maggiore evidenza i sentimenti. Se si prova infatti a leggera la lettera di Mozart, quando si ascolta il Requiem, non è difficile comprendere come Dio si esprima attraverso la genialità dell’uomo. Assorto in questi pensieri, non mi accorsi del tempo trascorso: era terminato il giornale radio e la quiete mattutina, prima interrotta dalle tragiche notizie, si apprestava a consegnare il testimone ad una calda e confusa giornata con le dolci note della musica dei mitici anni ’60, che con accorta regia la radio stava trasmettendo, quasi per rimuovere la tristezza prima suscitata. Già, il 1960: l’anno centrale della mia vita. Mi volsi verso Luisa; aveva gli occhi chiusi, ma ero sicuro che non dormisse, anche se le sue notti insonni potevano farlo pensare. Allorché ne fui sicuro, le dissi:

“Che strano, nonostante la scomoda posizione, ho dormito tutta la notte, cosa che non mi capitava da molto tempo. Un dolce sogno mi ha tenuto incatenato a questa sedia.


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Si è trattato di un incontro e di una lunga conversazione con il poeta francese Robert Brasillach. E’ stato, senza ombra di dubbio, suscitato dalle pagine di un libro, che ho iniziato a rileggere proprio ieri sera, ma la connessione degli argomenti trattati con la mia vita e con l’attualità politica, mi lasciano pensare che esso sia stato un sogno rivelatore. Insomma, oggi più che mai, grazie al sogno di questa notte, sono in grado di ripercorrere, fotogramma per fotogramma, come attraverso una moviola, il film della mia esistenza. Con sorprendente frequenza, il fermo immagine è stato posto sul 1960 che, a ben vedere, segna anche l’inizio della nostra storia d’amore”. Il desiderio di riferire i particolari del sogno fu forte e non compresi che questa mia esigenza potesse essere un atto violento in un momento di profonda meditazione. Luisa, invece, come se fosse in attesa di rievocare i momenti più significativi della nostra vita in comune, mi fece capire che l’argomento non le dispiaceva affatto.

“Sì, tutto iniziò una sera di novembre del 1960 al termine di un comizio da te tenuto in piazza Boncompagni. Prima di quella circostanza, chissà quante volte ti avevo incontrato. D’altra parte, l’amicizia con mio fratello Paolo ti consentiva di frequentare casa mia. Ma dovevi essere così insignificante, se furono indispensabili la giovane fierezza e la forte oratoria a suscitare il mio innamoramento”.

Il precedente mese di luglio di quell'anno, mentre a Genova infuriavano i disordini contro il Governo Tambroni sostenuto dal MSI, conseguii il diploma di ragioniere, una meta ambita da mio padre, che a sua immagine voleva fare di me un perfetto impiegato. Non era certamente questa la mia ambizione, pertanto l’iscrizione all’Università fu da tutti ritenuta necessaria. Successivamente fui cooptato nella Direzione provinciale del MSI, che dopo i fatti di Genova subì una lunga e ingiusta politica di discriminazione e di emarginazione. Le elezioni amministrative d’autunno mi videro fortemente impegnato a sostenere il Segretario federale, Cesare Squadrelli, candidato al Consiglio provinciale nel collegio di Isola del Liri-Arpino-Castelliri. Fu proprio durante quella campagna elettorale che si svolse il comizio ricordato da Luisa. In realtà, il mio impegno politico era cominciato nel 1952, quando chiesi l'adesione al MSI, un partito di chiara ispirazione neofascista, ma per ragioni di età fu respinta la domanda. Allora, era segretario del Raggruppamento giovanile studenti lavoratori di Isola del Liri, Cesare Natalizio, che alcuni anni dopo passò nelle file del PSI. Persona onestissima e, oggi, uno dei più affermati avvocati della provincia di Frosinone. Presi questa decisione, certamente non per nostalgia di un regime che per motivi anagrafici non mi apparteneva; quasi sicuramente fu determinante il trauma che nella prima infanzia avevo subito per la persecuzione di mio padre e della mia famiglia.


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Ero poco più che un fanciullo, quando, dal 1946 al 1951, la gioventù missina dette luogo ad un notevole movimento di contestazione che per certi versi anticipò in Italia quella che si sviluppò nel '68. Nelle Università, nelle scuole e nelle piazze irruppero migliaia e migliaia di giovani che alimentarono le più affollate manifestazioni dell'epoca, riprendendo alcune intuizioni del fascismo e cantando gli inni del periodo tra le due guerre. La gran parte di essi erano reduci della Repubblica sociale, alla quale si erano arruolati quando erano ancora adolescenti, altri non avevano fatto in tempo ad aderire per ovvie ragioni anagrafiche. Tutti vissero quella contestazione nazionale come un mito generazionale, ponendosi contro la vecchia classe dirigente e rifiutando la politica nostalgica dei dirigenti del MSI, i quali in contrasto con le motivazioni che avevano spinto migliaia di giovani ad aderire alla RSI, sostenevano una linea atlantista e compromissoria. Furono anni di lotta nelle piazze e negli atenei, ma anche di studio e di confronto con i loro coetanei del PSI e del PCI. Un lungo periodo politico, denso di grande fervore culturale, caratterizzò interessanti riviste e pubblicazioni, animate da maestri come i pensatori spiritualisti Massimo Scaligero e Julius Evola. E non fu un mondo monolitico, in quanto il movimento giovanile si divise prevalentemente in due correnti, entrambe schierate in modo molto critico nei confronti del gruppo dirigente del MSI che cercava di imbrigliarle. Quella spiritualista, capeggiata da Erra e da Romualdi, era ispirata alle idee di Julius Evola, Massimo Scaligero e Rudolf Steiner. L'altra, era composta dai cosiddetti fascisti di sinistra, teorizzatori di un fascismo ispirato ai principi del socialismo tricolore. In quegli anni si sviluppò un fitto dibattito attraverso le pagine di quotidiani e periodici di area che uscirono a getto continuo. In particolare, il periodico La Sfida, fortemente critico verso i “vecchi” del MSI, fu fondato nel gennaio '48, e diretto da Enzo Erra. Ospitò per un lungo periodo interventi di Julius Evola, dietro gli pseudonimi di Chirone e Arjuna. Nella Redazione entrarono giovani giornalisti, per lo più della classe 1926, come Egidio Sterpa e Pino Rauti, che dettero vita a dibattiti di grande spessore culturale. Con il passar dei giorni, tutte queste pubblicazioni diventarono delle vere e proprie tribune di confronto e di discussione, al punto che anche gli oppositori politici dovettero prenderle in seria considerazione. Diversi dirigenti comunisti, che vedevano nei neofascisti dei “fratelli” vittime di un malinteso senso patriottico, ingannati, secondo loro, dal fascismo, aprirono le braccia a questi giovani intellettuali, un po' per arginarli e un po' per risucchiarli nelle file del PCI. In tal senso rappresenta una indiscutibile testimonianza il periodico Il Pensiero nazionale, diretto da Stanis Ruinas, che si spinse talmente a sinistra da essere accusato di ricevere finanziamenti occulti dal PCI.


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Un dialogo spesso infruttuoso, denso di palesi contraddizioni, ma che dimostrava ampiamente come le nuove generazioni uscite da una guerra fratricida volessero ancora combattere per degli ideali, giusti o sbagliati, sovente strumentalizzati dalle classi dirigenti. Si trattò, in buona sostanza, di un vero e proprio Sessantotto nero ante litteram; una sorta di contestazione anticipata, che inciderà notevolmente sui futuri sviluppi della destra italiana. I giovani del MSI, protagonisti di quel tormentato periodo storico, egemonizzarono le prime grandi manifestazioni studentesche nell'Italia del dopoguerra, occupando gli Atenei, per protestare contro le eccessive tasse e i pochi appelli d'esame. Non fu, perciò,

un ribellismo fine a se stesso, ma una totale contestazione caratterizzata da

intemperanze e da discutibili miti e condivisibili eresie derivanti da un'intensa elaborazione. Tra i tanti filoni culturali, assunse una fondamentale importanza quello del filosofo Julius Evola che Almirante, molto distante dal pensiero evoliano, definì “il nostro Marcuse”. Però Evola era già il punto di riferimento della contestazione giovanile missina, quando il filosofo tedesco-americano Herbert Marcuse non aveva ancora scritto Eros e Civiltà e L'uomo ad una dimensione. E ciò è la riprova che il Sessantotto nero si è verificato dieci anni prima rispetto a quello che successivamente venne egemonizzato dai comunisti. Insomma, dopo il 25 aprile, questi ragazzi non vollero affatto accettare la crisi dei valori e degli ideali nazionali, ma soprattutto non furono disposti ad accettare il tradimento dell'Italia perpetrato con il “vile armistizio” dell'8 settembre. Fu, pertanto, il bisogno di affermare nelle piazze un'irrinunciabile identità, quella cioè di neofascisti, che le forze politiche resistenziali, in modo particolare quella comunista, volevano decisamente stroncare dalle prime manifestazioni, perché la contestazione giovanile evidenziava un fascismo latente. Le manifestazioni contro Tito, per il ritorno all'Italia dell'intero Territorio libero di Trieste, fornirono ai giovani missini la possibilità di coagulare il forte sentimento nazionale, molto diffuso nella coscienza del popolo italiano, al quale i partiti antifascisti, specie quello comunista, non prestavano alcuna attenzione. Tuttavia, l'atteggiamento del partito di Togliatti nei confronti dei giovani missini fu ambivalente. Da una parte, appunto, il PCI non ostacolò le spinte della base in direzione di un “antifascismo militante”, necessariamente violento; dall'altra fu lo stesso segretario a condividere la strategia dell'attenzione nei confronti dei reduci di Salò messa in atto soprattutto da Ruggero Zangrandi, che nel febbraio 1947 riconobbe loro “un malinteso e tuttavia non troppo facilmente discutibile amor di Patria”. Qualche anno dopo, anche il segretario della FGCI, Enrico Berlinguer, fece propria la strategia dell'attenzione di Togliatti. Nell'immediato dopoguerra l'esigenza del PCI fu quella di recuperare gli ex fascisti, cosa che in rilevante misura avvenne con l'amnistia Togliatti, a patto di una totale abiura della loro fede. Successivamente, negli anni '50, il PCI si dichiarò disposto alla collaborazione con i fascisti che continuavano a dichiararsi tali. Infatti, Pattuglia, il giornale dei giovani comunisti, ospitò un articolo di Pino Rauti.


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Ciò fu possibile, perché alcuni eventi di politica internazionale, connessi prevalentemente alla guerra di Corea, fecero apparire i giovani missini come possibili alleati nella lotta all' imperialismo americano, condotta in tutto il mondo dal comunismo filosovietico. La maggioranza dei giovani neofascisti, infatti, fu risolutamente antiamericana, e si scontrò decisamente con i dirigenti del MSI che era orientata verso la scelta occidentale e atlantica del nostro Paese. Infatti, i giovani missini contestarono aspramente l'apertura alle forze moderate e conservatrici, monarchiche, liberali e democristiane. Perciò, quando, nel 1949, Almirante parlò alla Camera dei Deputati di accettazione integrale del metodo democratico, avvenne la ribellione dei giovani all'interno del MSI. In particolare, la posizione più dura fu assunta dalla corrente spiritualista, che aveva una forte influenza tra i giovani di estrema destra, i quali, indottrinati da Evola, consideravano americanismo e bolscevismo come due facce dello stesso male, contestando, perciò, il capitalismo e la società di massa e rifiutando in blocco la modernità in quanto irrimediabilmente edonistica. Il loro radicalismo, che ripropose confusamente un ritorno alla Tradizione, li portò a prendere le distanze perfino da certi aspetti del fascismo in quanto frutti anch'essi della aborrita modernità. In quei giorni, Fausto Gianfranceschi, giovane liceale e futuro dirigente missino, nel corso di una manifestazione, comprese da che parte doveva stare: “Nella confusione (...) m'impressionò un particolare: gli aggressori sceglievano e picchiavano ferocemente i ragazzi che portavano una bandiera italiana, strappata dalle loro mani e fatta a pezzi. (...). Il mio anticomunismo viscerale nacque lì, perchè capii che il PCI era una forza antinazionale”. E' ormai da tutti riconosciuto il fatto che se il MSI ha potuto affermarsi e svilupparsi per tutto l'arco della Prima repubblica, senza dissolversi all'interno di uno schieramento moderato, come è successo ai monarchici ed ai liberali, ma soprattutto se non si è ridotto a un semplice serbatoio di “voti democristiani in libera uscita”, come disse Giulio Andreotti, lo si deve all'impegno attivistico e intellettuale dei giovani missini. La Destra deve molto a questi giovani se non è apparsa mai come una forza residuale del passato fascista, destinata ad essere rapidamente fagocitata dal nuovo sistema politico. Infatti, le risorse identitarie rappresentate da questi giovani, legate al lascito fascista e non riducibili ad un generico conservatorismo, hanno conferito al MSI un forte radicamento nella società italiana. In mancanza di tale impegno, il MSI avrebbe seguito la stessa parabola discendente e lo svuotamento sistematico operato dalla DC nei riguardi degli altri soggetti operanti alla propria destra. Insomma, se il MSI è apparso sin dall'origine come una realtà irriducibile,

sia alle estreme destre

populiste che al conservatorismo, lo si deve proprio alla sua capacità di rappresentanza delle giovani generazioni. Per ovvie ragioni anagrafiche, non mi fu possibile partecipare a queste vicende animate dal fervore dei giovani missini.


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Nel 1953, però, le tragiche giornate che si svilupparono in occasione del ritorno di Trieste all'Italia, mi spinsero ad essere tra gli organizzatori delle grandi manifestazioni giovanili di Sora e Isola del Liri e a richiedere l'iscrizione al Raggruppamento Giovanile Studenti Lavoratori del M.S.I.


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Il ritorno di Trieste all'Italia

Fin dal giugno 1945, dopo un mese di occupazione della città da parte dell' esercito titino, Trieste e il resto della zona A erano rimaste saldamente sotto il controllo di un contingente alleato. Nel 1947, l'Italia tornò a far valere la propria giurisdizione su gran parte della zona A del Territorio libero di Trieste, allargando i propri confini fino a Tarvisio e a Monfalcone e riconquistando le città di Udine e Gorizia. La zona B, con sede a Capodistria, era rimasta invece sotto il controllo delle truppe di occupazione jugoslave: essa comprendeva gran parte del territorio giuliano-veneto, includendo l' Istria, Fiume e le isole del Quarnaro. Restava tuttavia irrisolto il problema di Trieste, rimasta sotto l' amministrazione militare alleata. In assenza di un accordo multilaterale tra le potenze vincitrici e tra i due Stati confinanti, l' Italia e la Jugoslavia, la situazione venne lasciata decantare in attesa che potesse maturare una soluzione di compromesso. La rottura tra Tito e Stalin, nel 1948, e la fuoriuscita di Belgrado dal blocco delle nazioni del Cominform, paradossalmente allontanò i tempi di un' intesa; il peso politico della Jugoslavia, Stato comunista ma non più filosovietico, divenne molto più consistente agli occhi degli angloamericani. All’inizio degli anni ’50 in tutte le più importanti città italiane la gioventù nazionale dette luogo a vivaci manifestazioni per l’italianità di Trieste. L’episodio che ebbe un rilievo internazionale avvenne l’8 marzo 1952. Durante un corteo organizzato dai giovani del M.S.I. scoppiò una bomba che ferì gravemente Fabio De Felice e Cesare Pozzo che riportarono gravissime invalidità. L’anno dopo furono candidati ed eletti alla Camera dei Deputati. Ho avuto la fortuna di conoscere Cesare Pozzo, perché diventato successivamente senatore lo ebbi collega nella Commissione Affari esteri del Senato. In considerazione del fatto che la passione per Trieste era stata nella mia adolescenza uno dei motivi fondamentali del mio impegno politico, non persi occasione per chiedere ad un eccellente testimone come si svolsero i fatti che entusiasmarono la gioventù nazionale.


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L’indimenticabile Sen. Cesare Pozzo iniziò con malcelata commozione la storia di quei lontani giorni di passione patriottica. “Il 3 novembre 1953, nel 35° anniversario dell'ingresso degli italiani a Trieste avvenuto alla fine della guerra vittoriosa del 1918, e nella ricorrenza della festa di San Giusto, patrono della Città, gli angloamericani rimossero la bandiera italiana dal Municipio. Il Tricolore era stato innalzato anche per manifestare la soddisfazione dei triestini per la Dichiarazione Bipartita dell'8 ottobre, premessa indispensabile per il ritorno di Trieste all'Italia, dopo l'occupazione degli alleati e dei comunisti titini”. “Fu questo atto inconsulto degli anglo-americani ad indignare i triestini?” – gli chiesi per avere migliori delucidazioni. “Certamente. Si formarono, perciò, spontaneamente numerosi cortei di protesta di cittadini di ogni età e senza distinzione di parte. Uno studente innalzò nuovamente la bandiera italiana sul monumento a Domenico Rossetti davanti al Giardino Pubblico, ma la folla venne dispersa, e la polizia della zona A, reclutata dagli inglesi tra gli elementi sloveni o filoslavi, rimosse la bandiera” – rispose come se stesse rivivendo in quel momento quei tragici fatti. E continuò: “Il 4 novembre, il generale inglese filoslavo Sir Thomas Winterton, Governatore di Trieste, di fronte al netto e coraggioso rifiuto del sindaco Bartoli, fece rimuovere per la terza volta il vessillo tricolore nuovamente in vetta al Municipio di Trieste, scatenando così l'incontenibile protesta dei triestini, che formarono un grandioso corteo composto anche da migliaia di persone tornate dal Sacrario di Redipuglia, dove si era svolta l'annuale cerimonia commemorativa”. “In poco tempo la folla si ingrossò e un grande corteo arrivò in Piazza Unità e cercò di issare ancora una volta il Tricolore sul Municipio, ma la polizia disperse i dimostranti, che reagirono con un fitto lancio di pietre”. “Il 5 novembre, alla riapertura delle scuole, gli studenti triestini formarono un corteo che arrivò fino a Piazza S. Antonio, ma furono costretti a rifugiarsi all'interno dell'omonima chiesa, perché la Polizia appena sopraggiunta, accolta con lancio di pietre, tentò di disperderli con idranti e manganelli”. A questo punto cominciai a ricordare i fatti più importanti di quelle giornate che mi videro tra gli animatori delle imponenti manifestazioni di solidarietà. Cesare mi confermò che nel pomeriggio del 5 novembre 1953 il Vescovo di Trieste Antonio Santin si recò in processione a riconsacrare il tempio di S.Antonio, ma la polizia, intervenuta massicciamente al comando di ufficiali inglesi, accolta a pietrate, aprì il fuoco ad altezza d'uomo e uccise due triestini: Francesco Paglia e il quattordicenne Pierino Addobbati. In città si verificarono tumulti e assalti alle sedi anglo-americane, incendi e devastazioni di automezzi della polizia. Nella tarda mattinata del 6 novembre, un'enorme folla raggiunse Piazza Unità, assaltò la Prefettura e innalzò la bandiera italiana sul Municipio e sul Palazzo del Lloyd Triestino. Intervennero truppe inglesi in assetto di guerra, mentre gli americani si chiusero nelle caserme; la polizia filoslava aprì il fuoco ad altezza d'uomo e uccise quattro triestini: Leonardo Manzi, Erminio Bassa, Saverio Montano e Antonio Zavadil.


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“Quale fu il comportamento del Governo italiano di fronte a questo gravissimo comportamento della polizia alleata?” – mi sembrò opportuno chiedergli. “Il Governo italiano inviò una dura nota di protesta al Governo inglese ed americano, e in tutta Italia furono organizzati grandiosi cortei per manifestare lo sdegno di tutto il popolo italiano, che costrinsero gli americani a prendere le distanze dagli inglesi. Si seppe, infatti, che la polizia civile triestina, notoriamente filoslava, aveva agito sotto ordini britannici. L'eroica azione della gioventù nazionale fu determinante nel ricongiungere Trieste all'Italia, occupata dai comunisti titini e dalle truppe anglo-americane, a seguito della sconfitta bellica”. Ma, la testimonianza di Cesare Pozzo fu importante anche per portarmi a conoscenza degli aspetti più reconditi delle gravi conseguenze che i tragici avvenimenti triestini stavano per determinare, anche sotto il profilo militare. La riconosciuta serietà del senatore Cesare Pozzo, noto per la specifica competenza in materia, rese senza ombra di dubbio fondata la esposizione dei fatti. “Soltanto recentemente si è saputo che l'Italia, nel secondo semestre del 1953, era pronta a scatenare una guerra-lampo contro la Jugoslavia di Tito per riconquistare Trieste. La sconcertante verità emerge da una documentazione inedita uscita dagli archivi dell' Ufficio storico dell' esercito italiano. I dossier - desecretati e resi consultabili dopo i canonici cinquant' anni - sono stati analizzati da un ricercatore, Filippo Cappellano. Il piano di riconquista manu militari di Trieste è oggi ricostruibile fin nei minimi dettagli grazie alle carte relative all' operazione top secret - coordinata dallo Stato maggiore della Difesa - che assunse il nome in codice di “Delta”. Gli scenari bellici prevedevano la fulminea espugnazione del capoluogo giuliano, da attuarsi sorprendendo nelle caserme le guarnigioni angloamericane. Un colpo di mano ideato per spiazzare gli Alleati, colpevoli di aver tergiversato troppo nel dare definitivamente per acquisita l' italianità di Trieste”. Ricordai, infatti, che il governo guidato da Giuseppe Pella, mobilitando tredicimila riservisti, pensò davvero, per un momento, di risolvere il problema di Trieste attraverso un colpo di mano non concordato con i vincitori della guerra e garanti, con l' Unione Sovietica, del nuovo status quo europeo uscito da Yalta. Questa mancanza di adeguate coperture internazionali avrebbe potuto far sfuggire di mano l' operazione, determinando un' estensione del conflitto oltre la dimensione locale. Cesare Pozzo continuò la sua esposizione, senza essere più interrotto.

“Dopo le elezioni del 1953 e la liquidazione di De Gasperi, l' avvento del nuovo premier Pella diede subito il segnale di un brusco cambiamento di rotta. Pochi giorni dopo aver ottenuto la fiducia in Parlamento, con i voti determinanti di monarchici e missini, Pella e il ministro della Difesa, Paolo Emilio Taviani, accelerarono la preparazione di una soluzione militare del problema Trieste.


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Il dossier riservatissimo che circolava tra i palazzi romani era intitolato: “Esigenza T”. Quella “T” stava, ovviamente, per Trieste. L' offensiva fu attuata tanto sul piano politico-diplomatico quanto su quello militare. Sotto il primo profilo, Pella dichiarò categoricamente che, in assenza di un impegno formale degli Alleati a favore dell' italianità della Venezia Giulia, Roma non avrebbe ratificato il Trattato della Comunità europea di difesa, né avrebbe concesso alla Nato alcuna base militare sul proprio territorio nazionale. La sera del 28 agosto 1953, Taviani convocò il Capo di Stato maggiore dell' esercito, generale Giuseppe Pizzorno, per predisporre a tappe ravvicinate un piano di occupazione a sorpresa della zona A del Territorio libero di Trieste. Le strategie militari di attacco vennero elaborate nei minimi dettagli: non si trattava soltanto di cogliere alla sprovvista la guarnigione alleata (forte di circa diecimila uomini), ma anche di prepararsi ad affrontare una prevedibile reazione jugoslava. Ciò che accadde dalla fine di agosto al novembre del 1953 non furono semplici esercitazioni al confine orientale, sul modello di quelle che, nei decenni seguenti, si svolsero sotto l' egida della Nato. Fu qualcosa di estremamente diverso. L' operazione “Delta” si configurava come un triplice attacco terrestre, aereo e marino fondato sull' azione di sfondamento della fanteria e dell' artiglieria. Il blitz sarebbe stato coperto da unità di combattimento scelte come il battaglione “San Marco”, i paracadutisti e reparti di cavalleria blindata. Alla fine di agosto del 1953, quando si determinò un movimento di truppe al confine orientale italiano, si comprese che la situazione avrebbe potuto rapidamente degenerare in un conflitto armato. L' escalation di tensione continuò dopo che, l' 8 ottobre, Stati Uniti e Gran Bretagna annunciarono la disponibilità a ritirare le loro truppe dalla zona A. Il vero fattore critico era costituito dal tipo di reazione contraria degli jugoslavi. Infatti, di fronte al deciso comportamento del Governo italiano, Tito affermò che considerava il movimento delle truppe italiane come un tentativo di aggressione e che avrebbe contrastato militarmente lo sconfinamento delle forze armate tricolori nella zona di occupazione alleata. Le dichiarazioni del dittatore jugoslavo, indussero lo Stato maggiore italiano a pianificare opere di sbarramento delle comunicazioni, minando i ponti del Tagliamento, nel timore di un’azione militare preventiva delle le truppe titine in merito all’occupazione dell’intero territorio della zona “A” . A metà novembre, il clima di tensione cominciò a calare. Da Tito giunse un primo segnale di apertura, cui venne fatto corrispondere un identico messaggio di buona volontà da parte del governo Pella. Iniziò il ripiegamento delle truppe che si sarebbe concluso il 20 dicembre. Nel febbraio 1954, il nuovo premier, Mario Scelba, nel frattempo succeduto a Pella, rappresentò l' Italia ai negoziati con Usa, Regno Unito e Jugoslavia.


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Il 5 ottobre successivo, dietro la garanzia di ulteriori aiuti economici e militari americani, Tito accettò il ritorno di Trieste sotto la sovranità italiana. Solo oggi, leggendo i documenti, apprendiamo che Italia e Jugoslavia, mezzo secolo fa, giunsero davvero sull' orlo di un conflitto”.

Sui gravi avvenimenti di quelle tragiche giornate pesò certamente il ricordo delle “foibe”, dove furono massacrati migliaia di italiani (tra cui un mio parente di Monfalcone) dai partigiani “titini”, e l’esodo forzato di oltre trecentomila istriani e dalmati che ebbe le caratteristiche di una vera e propria “pulizia etnica”. Fui tra gli organizzatori delle storiche manifestazioni che si svolsero nella Valle del Liri: il mio battesimo del fuoco. Da allora iniziò senza soluzione di continuità il mio impegno politico nel Movimento Sociale Italiano. Nella battaglia per il ritorno di Trieste all'Italia emerse senza ombra di dubbio il mio forte risentimento contro gli inglesi e il comunismo slavo, ma soprattutto il mio appassionato amor di Patria.


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La rivolta di Berlino e la rivoluzione ungherese

In quegli anni, un'altra passione infiammò la mia prima gioventù: Berlino. Poco prima della fine della seconda guerra mondiale, nel febbraio del 1945, durante la Conferenza di Yalta, Stati Uniti d'America, Unione Sovietica, Regno Unito e Francia decisero di dividere la Germania e la capitale tedesca in quattro settori da loro controllati e amministrati. Il settore russo di Berlino era il più esteso e occupava la maggior parte della metà orientale della città. Nel 1948, l'Unione Sovietica decise il "Blocco di Berlino", determinando conseguentemente l'attuazione di un Ponte aereo da parte delle potenze occidentali, per rifornire di viveri e generi di prima necessità i loro tre settori, i quali, anche se sulla carta erano indipendenti e parte integrante della Germania Ovest, dal 1949, furono completamente circondati dalla Germania Est. Con lo sviluppo della Guerra Fredda, pertanto, ai cittadini di Berlino, che inizialmente godevano di una limitata libertà di circolazione fra tutti i settori, i movimenti furono drasticamente limitati. Nel 1952, con la chiusura del confine tra le due Germanie si accentuò il flusso dei tedeschi verso i settori occidentali, tanto che in circa dieci anni oltre due milioni di cittadini passarono dall'est all'ovest. Nell'estate di quell’anno, Walter Ulbricht, leader della Repubblica Democratica Tedesca, aveva deciso di accelerare la costruzione del comunismo. Le misure adottate nei mesi seguenti furono l'inasprimento delle norme di produzione, la soppressione dell'artigianato e del commercio al minuto, la collettivizzazione dell'agricoltura. Queste misure ebbero l'effetto di aumentare sensibilmente il numero dei tedeschi in fuga verso la Germania occidentale. I profughi che passarono il confine per trovare rifugio a Berlino Ovest, furono prevalentemente operai specializzati con le loro famiglie. All'inizio del 1953, si determinò una grave crisi degli approvvigionamenti; per circa un anno le autorità comuniste si trovarono nell'impossibilità di distribuire la quantità di carbone, carne, grassi e patate prevista dal razionamento.


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Tutti i tentativi posti in essere dalla dirigenza sovietica per frenare gli arditi programmi di Ulbricht, risultarono vani, in quanto il comunista tedesco percepì quelle pressioni come una congiura contro il suo potere personale. Il 5 marzo morì Giuseppe Stalin e in tutta l'Europa sottoposta al dominio comunista dell'Unione Sovietica iniziò una importante politica di liberalizzazione e rivendicazioni operaie che portarono a forti manifestazioni popolari tali da alimentare grandi speranze nella gioventù europea anticomunista. A Berlino Est, la rivolta scoppiò il 16 giugno 1953, quando un centinaio di operai edili di un cantiere della Stalinallee interruppero il lavoro. Ma, rapidamente il numero dei manifestanti diventò sempre più rilevante, tanto da travolgere gli sbarramenti della polizia, raggiungendo tutti i quartieri della città. A quel punto il Governo decise di ritirare i provvedimenti impopolari. Ma fu troppo tardi. Intervennero, allora, i russi con due divisioni motorizzate e repressero nel sangue la rivolta, che, nel frattempo, si era estesa a Dresda, Lipsia, Jena, Halle, Rostock. Era durata quarantotto ore! Il grande drammaturgo tedesco Bertold Brecht, che in contro tendenza aveva deliberatamente scelto di vivere nella Germania comunista, disse ironicamente: “Quando il popolo sbaglia occorre eleggerne un altro”. Il primo scricchiolio nell'edificio costruito dall'URSS in Europa centro-orientale, si udì, perciò, a Berlino nel giugno 1953, e alimentò la speranza e la passione politica della gioventù nazionale per l'unità del continente dall'Atlantico agli Urali. Il mio anticomunismo si accentuò fortemente, tre anni dopo, nel 1956, quando il segretario del PCUS Nikita Krusciov, il 25 febbraio di quell'anno, al termine dei lavori del 20° congresso del partito, il primo avvenuto dopo la morte di Stalin, presentò il famoso rapporto segreto con il quale denunciò una parte dei crimini di Stalin e condannò il culto della personalità del dittatore georgiano.

“È estraneo allo spirito del marxismo-leninismo – disse tra l'altro - esaltare una persona e farne un superuomo fornito di qualità soprannaturali a somiglianza di un Dio. Questo sentimento per un uomo, e precisamente per Stalin, l’abbiamo tenuto vivo in mezzo a noi per lunghi anni. Stalin non agiva con la persuasione, con le spiegazioni e la paziente collaborazione con gli altri, ma imponendo le sue idee ed esigendo una sottomissione assoluta. Chiunque si opponesse ai suoi disegni e si sforzasse di far valere il proprio punto di vista e la validità della sua posizione era destinato a essere estromesso da ogni funzione direttiva, e in seguito, liquidato moralmente e fisicamente… Arresti e deportazioni in massa di parecchie migliaia di persone, esecuzioni senza processo e senza la normale istruzione, crearono condizioni di insicurezza, di paura e financo di disperazione. È stato accertato che dei 139 membri e supplenti del comitato centrale del partito, eletti al XVII Congresso, 98 erano stati arrestati e fucilati”.


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Giuseppe Stalin, vincitore della guerra e creatore dell'impero comunista, dopo essere stato divinizzato quale padre dei popoli, difensore degli oppressi e della pace fu giudicato dal 20° congresso del Partito alla stregua di un comune criminale, di un sadico assassino, responsabile della Guerra fredda. Fu un momento cruciale, non solo per il partito comunista sovietico, ma per tutto il movimento marxleninista internazionale. Il documento scosse profondamente i seguaci di tutto il mondo e privò il comunismo del suo carattere fideistico. Pertanto, nel 1956, appena sedicenne, in occasione della Rivoluzione ungherese, fui tra gli organizzatori delle indimenticabili giornate di protesta contro la repressione sovietica dell'eroico popolo magiaro, il cui prologo fu determinato dalla rivolta di Poznan, in Polonia. Nella città polacca, il 28 giugno 1956, circa 100 mila persone scesero nelle strade per chiedere “pane, Dio e libertà”. Erano in prevalenza operai dei grandi stabilimenti metallurgici denominati allora “J.Stalin”. I sanguinosi scontri che seguirono provocarono 74 morti (il ragazzo più piccolo aveva 13 anni), circa 600 feriti, 700 arresti, interrogatori e torture. Intervennero per reprimere la rivolta 8 mila soldati, 300 carri armati, dei quali numerosi furono incendiati e distrutti dai rivoltosi. Senza la rivolta di Poznan non ci sarebbero stati i cambiamenti nel regime con l'avvento di W. Gomulka nell'ottobre 1956, e non si sarebbe realizzata la tanto sospirata liberalizzazione che dette un po' di respiro al popolo polacco. Ma, soprattutto, non ci sarebbe stata la rivoluzione ungherese. Infatti, verso le 15 del 23 ottobre 1956, studenti del Politecnico si riunirono a Pest di fronte alla statua di Petofi, il poeta che nel 1848 scatenò la rivoluzione declamando i versi di una sua poesia, per inscenare una manifestazione pacifica di solidarietà a favore del premier polacco Gomulka. A poca distanza, Ulderico e Christina, abbracciati e intenti ad osservare dal terrazzo panoramico di Buda la sottostante Pest, furono improvvisamente interrotti dal fragore della manifestazione studentesca. Ulderico aveva conosciuto Christina nel corso di uno dei suoi viaggi in Ungheria, affascinato dalle belle donne magiare e dalla travolgente musica zigana. Dopo alcuni anni, si sposarono e, superate le tante traversie burocratiche imposte dalle autorità ungheresi, si riunirono in Italia, stabilendosi nella parte bassa di Frosinone, al quinto piano di Palazzo Azzoli. Io e Luisa, appena sposati, andammo ad occupare il terzo piano dello stesso stabile, e la circostanza mi consentì di incontrare Ulderico, che avevo conosciuto diversi anni prima in una riunione di partito. Invitati a cena, ritenni di fare dono del disco Budapest di Leo Valeriano alla dolcissima Christina che restò profondamente turbata. Per comprensibili motivi, l'intera serata fu dedicata alla rievocazione dei drammatici fatti del '56.


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Ulderico fece un lungo excursus storico, per poi descrivere dettagliatamente i prodromi che portarono alla rivoluzione magiara contro il comunismo stalinista.

“Imre Nagy, reclamato dal popolo, pronunciò un breve discorso in Parlamento. La folla si ingrossò e la pacifica dimostrazione nel giro di poche ore assunse i connotati di una clamorosa protesta. Molti soldati ungheresi di servizio in città si unirono ai dimostranti, strappando le stelle rosse sovietiche dai loro berretti e dalle bandiere magiare. Da quel momento la bandiera con il “foro” diventò il simbolo della rivoluzione ungherese”.

Christina, la cui tragica storia familiare conobbi successivamente, con un incerto italiano, si inserì nella conversazione:

“La folla, cresciuta a dismisura e incoraggiata anche dalla massiccia presenza dei soldati magiari, decise di attraversare il Danubio che divide in due Budapest e di muoversi verso il Palazzo del Parlamento. Io e Ulderico ci unimmo ai manifestanti. I più decisi demolirono l'enorme statua di Stalin e dettero alle fiamme alcune biblioteche sovietiche. L'esultanza fu generale. Da anni aspettavamo quel momento”.

Ulderico, interrompendo cortesemente Christina, conscio della difficoltà che la moglie incontrava per il suo italiano approssimativo, continuò:

“Giunti nel piazzale antistante la sede della radio ungherese, chiedemmo che venisse trasmesso un comunicato stilato in 16 punti. La direzione della radio fece finta di accettare, ma i componenti della delegazione accolti nella sede della radio vennero arrestati. Al diffondersi della notizia, fortemente indignati, assaltammo il palazzo e chiedemmo l'immediata liberazione dei nostri amici. Per tutta risposta, la polizia di sicurezza AVH (Autorità per la protezione dello Stato) aprì il fuoco sulla folla, dando luogo ad una vera e propria battaglia”. “Fu a questo punto che il Comitato centrale del partito decise di chiedere l'intervento delle truppe sovietiche in caso di necessità? - Chiesi con interesse, ritenendo ciò l'elemento centrale di quei fatti che tanta parte ebbero nella mia adolescenza, e che a distanza di anni mi venivano riferiti da due testimoni oculari. “Sì, - rispose prontamente Ulderico - quella grave decisione aggravò rapidamente gli scontri e le manifestazioni assunsero un carattere insurrezionale. Le auto della polizia furono rovesciate e date alle fiamme, mentre dai lavoratori delle fabbriche d'armi e degli arsenali furono distribuite armi agli insorti. Il 23 ottobre, l'Unione sovietica attivò i piani di emergenza, impiegando le forze già presenti in Ungheria”.

Proseguì Christina profondamente scossa dalla conversazione:


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“I soldati russi, però, presi alla sprovvista, non repressero la protesta, perché da tempo familiarizzavano con noi magiari, tenuto anche conto che la loro missione era esclusivamente quella di difendere l'URSS da un'eventuale invasione della NATO. Pertanto, questo primo intervento fu politicamente caratterizzato dalla più completa confusione, al punto che una colonna di carri armati accompagnò la folla di insorti verso il Parlamento”.

Per alcune ore, Ulderico e Christina continuarono a rievocare i tragici fatti ungheresi, precisando che, in seguito alla comparsa dei blindati sovietici, si estese l'insurrezione. Il 25 ottobre s'insediò il governo di Imre Nagy, senza stalinisti, in cui comparse il filosofo marxista Lukàcs assieme ad altri moderati, mentre Kadar divenne segretario del partito al posto di Gerò. La Polizia politica, però, sparò dai tetti del Ministero dell'Agricoltura e uccise un centinaio di persone che manifestavano pacificamente in piazza Kossuth, dietro il Parlamento. Nagy fu costretto a scegliere tra il preciso desiderio del popolo di avere un sistema democratico ed il suo dovere di comunista sostenitore del regime a partito unico. Preferì un governo moderato, proclamando l'Ungheria stato neutrale e sperando nell'aiuto delle Nazioni Unite, nel vano tentativo di scongiurare un vero e proprio intervento sovietico. Sorsero allora in tutto il Paese Consigli operai che richiesero il ritiro dei sovietici e libere elezioni. La Polizia, invece, continuò a sparare sulla folla, innescando in vari punti del Paese dei cruenti combattimenti. Nelle province di Borsod e Gyor-Sopron il potere passò nelle mani dei Consigli e l'AVH fu sciolta.

“Il 28 ottobre – disse Christina che per un lungo tempo era rimasta in silenzio - le truppe sovietiche assieme ad elementi dell'esercito ungherese fedeli al vecchio regime posero in atto un piano di contrattacco, ma la maggior parte degli ufficiali dell'esercito si rifiutarono di partecipare all'iniziativa e di sparare sui rivoltosi. Una buona parte della polizia, capeggiata dal generale Maleter, si schierò con i rivoltosi con il risultato che l'esercito ungherese restò sostanzialmente passivo. Nagy intervenne per scongiurare una carneficina e iniziò febbrili trattative con Khruscev che fino a quel momento considerava Nagy un elemento prezioso per trovare una via d'uscita pacifica, “alla polacca”.

A mano a mano che procedeva l'esposizione dei fatti, i miei ricordi diventavano sempre più nitidi. Mi tornarono alla mente le entusiastiche manifestazioni

organizzate in Occidente, quando

si venne a

conoscenza che, mentre erano in corso le trattative, le quali prevedevano tra l'altro, il ritiro delle truppe, i sovietici posero in atto maldestre operazioni militari e vennero sostanzialmente battuti dagli uomini di Maleter. Nagy negoziò con i russi il cessate il fuoco,

annunciò il riconoscimento del carattere nazionale e

democratico dell'insurrezione e l'avvio di negoziati con gli insorti.


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Nel contempo, annunziò anche l'imminente ritiro delle truppe sovietiche e lo scioglimento della Polizia politica, la famigerata AVH. Rinacquero i sindacati, i giornali e le associazioni culturali abolite da Rakosi. A Roma 101 intellettuali comunisti firmarono un appello di solidarietà con gli insorti. Il 1° novembre i movimenti di truppe corazzate dell'Armata rossa alle frontiere e all'interno dell'Ungheria diventarono evidenti. Nagy chiese spiegazioni ad Andropov, ma ricevette risposte scarsamente credibili. Pertanto, ribadì la neutralità e chiese all'ONU di mettere all'ordine del giorno la questione ungherese, con la previsione di una garanzia internazionale dei quattro grandi (inclusa quindi l'URSS) della neutralità ungherese. La questione che allarmò il Presidium del Comitato Centrale dell'Unione Sovietica fu l’espressa volontà di istituire la democrazia parlamentare dei partiti e il Consiglio Nazionale Democratico dei Lavoratori, in contrasto con la predominanza del Partito comunista sovietico nell'Europa Orientale e forse nella stessa URSS. Nel frattempo, però era iniziata la crisi di Suez. L'aviazione anglo-franco-israeliana aveva attaccato in forze l'Egitto che aveva nazionalizzato il canale. Perciò, mentre Regno Unito e Francia erano impegnate militarmente e politicamente in Egitto nella crisi di Suez, gli Stati Uniti espressero il 27 ottobre la loro posizione per bocca del Segretario di Stato dell'amministrazione Eisenhower, John Foster Dulles:

“Non guardiamo a queste nazioni (Ungheria e altre del Patto di Varsavia) come a potenziali alleati militari”.

A questo punto, Ulderico, visibilmente commosso, proseguì, dicendo: “Con questa combinazione di considerazioni di politica interna e di politica estera, il Presidium dell'URSS, il 31 ottobre, decise di rompere il cessate il fuoco e di spazzare via la rivoluzione ungherese. Il 4 novembre l'Armata rossa arrivò alle porte di Budapest e iniziò l'attacco, trovando un'accanita resistenza nei centri operai. La sproporzione delle forze in campo fu tale che le resistenze ebbero comunque vita breve. Questa volta inoltre le truppe, composte in prevalenza da mongoli, erano preparate e non si fecero cogliere di sorpresa”. Aggiunse Christina, mentre apriva un libro di storia edito in Francia: “In serata Kadar raggiunse l'Ungheria e annunciò dalla città di Szolnok, con un messaggio radio, la formazione di un “governo rivoluzionario operaio e contadino”.

Anche Nagy fece trasmettere tramite Radio Kossuth Libera (radio di Stato) alle ore 4,20 il seguente messaggio, che venne ripetuto anche in inglese, russo e francese:


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“Qui parla il Primo Ministro Imre Nagy. Oggi all'alba le truppe sovietiche hanno aggredito la nostra capitale con l'evidente intento di rovesciare il governo legale e democratico di Ungheria. Le nostre truppe sono impegnate nel combattimento. Il Governo è al suo posto. Comunico questo fatto al popolo del nostro Paese ed al mondo intero”.

Imre Nagy e diversi suoi compagni trovarono rifugio nell'ambasciata jugoslava, dopo aver avuto assicurazione sulla possibilità della concessione dell'asilo politico. Il 22 novembre i rifugiati dell'ambasciata jugoslava uscirono con un salvacondotto di Kadar per “fare ritorno a casa”, ma in realtà vennero consegnati ai sovietici. Si rifiutarono di riconoscere il nuovo governo e vennero deportati a Snagov, in Romania, dove Nagy e Maleter, gli eroi della Rivoluzione ungherese, repressa nel sangue dai sovietici, furono impiccati, due anni dopo, nel 1958. Non vi furono particolari reazioni occidentali. I governi democratici stettero a guardare chiedendosi se quegli eventi fossero sporadiche manifestazioni di malumore o le prime crepe sulle mura della fortezza che l'URSS aveva costruito in Europa centro orientale. La rivoluzione ungherese, durata alcune settimane, vista e raccontata da molti giornalisti occidentali, suscitò emozioni e speranze. In un libro di Victor Sebestyen si legge che qualche mese dopo la tragica conclusione della vicenda, alcuni studiosi degli Stati Uniti chiesero a un migliaio di esuli ungheresi quali fossero state, durante gli eventi, le loro speranze e attese. Il 96% rispose che il contenuto delle trasmissioni radio provenienti da emittenti americane “era stato tale da far pensare che un aiuto sarebbe venuto dall'Occidente”. Le accuse concernevano soprattutto Radio Free Europe, colpevole di avere incitato gli insorti alla resistenza. Un intellettuale liberale ungherese, Jozsef Kobo, riassunse perfettamente la situazione con queste parole:

“Quando finalmente l'America si fece sentire (....) fu con un messaggio di condoglianze. Ovviamente nessun ungherese pensava che si sarebbe scatenata una guerra atomica per venirgli in aiuto, ma probabilmente abbiamo dato ascolto a una retorica da campagna elettorale che non si pensava avremmo preso sul serio”.

Le presidenziali americane ebbero luogo il 6 novembre, due giorni dopo l'ingresso delle truppe sovietiche a Budapest. Alcuni anni dopo, la tragedia magiara venne rappresentata dal canzone Budapest:

cantautore Leo Valeriano,

con la


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Sto sul monte e guardo giù, dove stava una città: sulle torri delle chiese strilla forte il gallo rosso! Rosso è il cielo dalla fiamme, rosse le strade di sangue, rossi sono i carri armati: sta bruciando Budapest! Oh Budapest, Oh Budapest! Soli abbiamo perduto, erano in tanti a parlare, quando non costava niente ma adesso chi c’è a morire con noi? Oh Budapest... Oh Budapest... Tu borghese d’occidente, tu hai moglie figli e amante, le tue case sono calde e non ti va di rischiare per Budapest. Tu borghese d’occidente hai raccolto sacchi d’oro nati dal sangue magiaro e poi ci hai incatenato al gigante dell’est! Ed io ti accuso Occidente, domani anche tu piangerai come il pezzente magiaro da te abbandonato a Budapest. Oh Budapest... Oh Budapest... qui sul monte sto guardando la fine di un’illusione nata lungo il nostro fiume e che muore assassinata con Budapest!

Con il nostro definitivo trasferimento ad Isola del Liri, dopo la morte di mio suocero avvenuta il mese di aprile del 1969, persi i contatti con Ulderico e Christina. In una sola occasione mi fu possibile incontrarlo. Erano trascorsi circa due anni da quella indimenticabile conversazione sulla rivoluzione ungherese del '56. Quando gli chiesi notizie di sua moglie, dall'espressione del suo viso capii che dietro la loro apparente tranquillità si celava una vita drammatica. Christina, era una bellissima donna, le cui origini aristocratiche si coglievano chiaramente dai suoi modi gentili e dai tratti distintivi della sua figura. Quasi eterea. Impalpabile. Infatti, il padre, professore universitario, era stato membro di un importante casato con il titolo di conte.


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Dopo la seconda guerra mondiale, quando i comunisti presero il potere in Ungheria, furono aboliti tutti i titoli nobiliari e confiscate tutte le proprietĂ . Pertanto, la famiglia di Christina, vissuta da sempre negli agi, con il misero stipendio del padre fu costretta a condurre una vita grama e a subire inenarrabili vessazioni. Dopo il matrimonio con Ulderico, per trasferirsi in Italia, le autoritĂ ungheresi fecero il conto delle spese sostenute dallo Stato per l'istruzione di Christina, dalla scuola elementare all'UniversitĂ , e per autorizzare l'espatrio pretesero il pagamento di una ingente somma. Successivamente, durante la gravidanza di Christina, tutte le volte che chiedeva la presenza della madre in Italia, la povera donna ormai anziana e piena di acciacchi veniva sottoposta a defaticanti interrogatori prima della partenza e al suo ritorno in Ungheria. L'amore di Ulderico e la conquistata libertĂ non furono sufficienti a lenire il dramma esistenziale di Christina, che fu costretta a continui ricoveri in una clinica psichiatrica. Abbracciai Ulderico con il cuore gonfio di dolore. Qualche mese dopo, da un loro vicino di casa seppi che Christina era morta.


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Anni '60


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Il muro della vergogna

La mia passione politica aumentò di intensità, fino a raggiungere l'apogeo, per le tragiche vicende di Berlino: il cuore infranto d'Europa. Da molto tempo il giovane muratore Peter Fechter e Helmut Kulbeik preparavano la fuga dall'oppressione comunista. Finalmente giunse il momento. Era il 17 agosto 1962. In Zimmerstrasse, nei pressi del “muro della vergogna”, si nascosero all'interno di una falegnameria, al primo piano di un vecchio palazzo, per osservare i movimenti dei “vopos”, i famigerati soldati comunisti. Dalla finestra saltarono nella cosiddetta “striscia della morte” (il terreno che divideva i due muri paralleli), e l'attraversarono con il cuore pieno di speranza. Si arrampicarono, quindi, sul secondo muro (alto due metri e sormontato da filo spinato) per saltare nell'area del quartiere di Kreuzberg a Berlino Ovest, vicino a Checkpoint Charlie. Però, quando Peter e Helmut raggiunsero il secondo muro le guardie iniziarono a sparare. Helmut riuscì a scavalcare l'ostacolo, mentre Peter fece appena in tempo a percepire il dolce alito della libertà sul suo giovane viso, prima di essere colpito alla schiena da una raffica di mitra. Centinaia di testimoni, cittadini di Berlino Ovest e giornalisti, videro per pochi istanti, al di sopra del muro, quel viso raggiante, poi Peter cadde all'indietro nella “striscia della morte”, risucchiato dall'abisso comunista. Morì dopo circa un’ora di agonia, solo e abbandonato. Centinaia di persone a Berlino Ovest si riunirono in una dimostrazione spontanea, gridando ai vopos: “assassini!”. La diplomazia occidentale sostenne che ogni tentativo di soccorrere Peter era stato impedito dai vopos con la minaccia delle armi. Però, alcuni organi di informazione riferirono che un ufficiale americano presente alla scena avrebbe ricevuto l'ordine perentorio di non intervenire.


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Era stato così rispettato l'ordine draconiano delle autorità della Repubblica Democratica Tedesca (RDT): “Se dovete sparare, fate in modo che la persona in questione non vada via ma rimanga con noi”. Peter Fechter fu la prima vittima ad irrorare con il suo sangue il “muro della vergogna”. Era nato a Berlino il 17 gennaio 1944. Aveva appena diciotto anni. Una croce fu subito posta a Berlino Ovest vicino al luogo dove fu colpito e lasciato morire dissanguato e, dopo la riunificazione della Germania, fu posta una stele in memoria del giovane martire della libertà. Lo scrittore Cornelius Ryan dedicò a Peter Fechter il suo libro L’ultima battaglia e il compositore Aulis Sallinen scrisse un pezzo per orchestra intitolato Mauermusik per commemorare il giovane muratore. Per fermare la fuga dalla dittatura il regime comunista della Germania Est aveva iniziato la costruzione del muro attorno ai tre settori occidentali nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961. Inizialmente, fu realizzato uno sbarramento di filo spinato, ma già il 15 agosto iniziarono ad essere utilizzati gli elementi prefabbricati di cemento per costruire la prima generazione del “muro della vergogna”. Il muro divideva fisicamente la città e, quando circondò completamente Berlino Ovest, trasformò in pratica il settore occidentale della città, in un'isola rinchiusa entro i territori orientali. Inizialmente, il Muro di Berlino (Berliner Mauer) era una barriera in cemento alta circa tre metri e lunga 155 Km. che separava Berlino Ovest da Berlino Est e dal resto della Repubblica Democratica Tedesca. Nel giugno 1962 fu costruito un secondo muro, parallelo al primo, per rendere più difficile la fuga verso la Germania Ovest. Fu così creata la cosiddetta "striscia della morte". Per gli stranieri e per i turisti esisteva un solo punto di attraversamento, in Friedrichstrasse, mentre per le potenze occidentali erano stati costruiti altri due checkpoint: a Helmstedt sul confine tra Germania Est e Ovest e a Dreilinden sul confine sud di Berlino Ovest. All'inizio, i berlinesi ebbero a disposizione tredici punti di attraversamento, di cui nove tra le due parti della città e quattro tra Berlino Ovest e la Repubblica Democratica Tedesca. Successivamente, l'attraversamento della porta di Brandeburgo fu chiuso, dando al provvedimento un forte significato simbolico. Il muro ha diviso in due la città di Berlino per 28 anni, dalla sua costruzione, iniziata il 13 agosto 1961, fino al suo smantellamento avvenuto il 9 novembre 1989, ed era considerato un simbolo della Cortina di Ferro. La Germania Est sostenne che si trattava di un "muro di protezione antifascista", inteso ad evitare un'aggressione dall'Ovest. Una risibile giustificazione per coprire la pervicace volontà di impedire ai cittadini della Germania Orientale di entrare a Berlino Ovest e, conseguentemente, nella Germania Ovest, considerata l'impossibilità di controllare i flussi tra i due settori.


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In effetti la RDT soffriva di una fuga in massa di professionisti e lavoratori specializzati che si spostavano all'ovest, per non parlare delle diserzioni dall'esercito. Con la costruzione del muro le emigrazioni passarono da 2.500.000 tra il 1949 ed il 1962 a 5.000 tra il 1962 ed il 1989. Dal punto di vista propagandistico la costruzione del muro fu un disastro per la RDT e, in generale, per tutto il blocco filosovietico; divenne infatti un simbolo della tirannia comunista, specialmente dopo le uccisioni di chi aspirava alla libertà. Dalla costruzione del muro vi furono circa cinquemila tentativi di fuga verso Berlino Ovest coronati da successo, mentre, nello stesso periodo, oltre duecento cittadini della Germania Est furono uccisi dai vopos mentre tentavano di raggiungere l'ovest. Finché il muro non fu completamente edificato e fortificato, i tentativi di fuga furono messi in atto da principio con tecniche casalinghe, come passare con una macchina sportiva molto bassa sotto le barricate o gettandosi dalla finestra di un appartamento prospiciente il confine, sperando di "atterrare" dalla parte giusta. Con il tempo le tecniche di fuga si evolsero fino a costruire lunghe gallerie, scivolare lungo i cavi elettrici tra pilone e pilone o utilizzare aerei ultraleggeri. Il romanziere e storico russo Viktor Suvorov scrisse nel suo libro L'ombra della vittoria: «L’obiettivo del muro: evitare che il popolo della Germania socialista potesse scappare nel mondo normale. Il muro fu costantemente perfezionato e rinforzato, trasformato da un normale muro in un sistema insormontabile di ostacoli, trappole, segnali elaborati, bunker, torri di guardia, tetraedri anti carro e armi a sparo automatico che uccidevano i fuggitivi senza bisogno di intervento da parte delle guardie di confine. Ma più lavoro, ingegnosità, denaro e acciaio i comunisti mettevano per migliorare il muro, più chiaro diventava un concetto: gli esseri umani possono essere mantenuti in una società comunista solo con costruzioni impenetrabili, filo spinato, cani e sparandogli alle spalle. Il muro significava che il sistema che i comunisti avevano costruito non attraeva ma repelleva”.

Il 26 giugno 1963, John F. Kennedy, presidente degli Stati Uniti d'America, in visita ufficiale alla città di Berlino, nello storico discorso tenuto a Rudolph Wilde Platz, di fronte al Rathaus Schoneberg, pronunciò la famosa frase “Ich bin ein Berliner” (Io sono un berlinese). Con quella visita, ma soprattutto con quel discorso, Kennedy volle comunicare ai berlinesi, in particolare, e all'intero popolo tedesco, così drammaticamente diviso, la vicinanza e l'amicizia degli Stati Uniti dopo il sostegno dato dall'Unione Sovietica alla Germania Est nella costruzione del “muro della vergogna”, per impedire la fuga dei cittadini dal blocco comunista.


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Ma esso rappresentò anche un grande incoraggiamento di speranza per gli abitanti di Berlino ovest, che vivevano in una enclave all'interno della Germania comunista e temevano, perciò, da un momento all'altro, un' invasione da parte dell' esercito sovietico, come del resto era avvenuto qualche anno prima in Ungheria. Parlando dal balcone del Rathaus Schoneberg, a quell'epoca sede dell'amministrazione comunale dell'intera Berlino Ovest, Kennedy disse: “Duemila anni fa, il più grande orgoglio era dire "civis Romanus sum." Oggi, nel mondo libero, il più grande orgoglio è dire "Ich bin ein Berliner”. Tutti gli uomini liberi, dovunque essi vivano, sono cittadini di Berlino, e quindi, come uomo libero, sono orgoglioso delle parole “Ich bin ein Berliner!”. Sono orgoglioso di venire in questa città ospite del vostro onorevole sindaco, che ha simboleggiato per il mondo lo spirito combattivo di Berlino Ovest. E sono orgoglioso di visitare la Repubblica Federale con il vostro onorevole Cancelliere che da così tanti anni guida la Germania nella democrazia, nella libertà e nel progresso, e di essere qui in compagnia del mio concittadino americano Generale Clay che è stato in questa città durante i suoi momenti di crisi, e vi tornerà ancora, se ce ne sarà bisogno.

Duemila anni fa, il più grande orgoglio era dire "civis Romanus sum." Oggi, nel mondo libero, il più grande orgoglio è dire "Ich bin ein Berliner."

Ci sono molte persone al mondo che non capiscono, o che dicono di non capire, quale sia la grande differenza tra il mondo libero e il mondo comunista

Che vengano a Berlino! Ce ne sono alcune che dicono che il comunismo è l'onda del progresso. E ce ne sono alcune che dicono, in Europa come altrove, che possiamo lavorare con i comunisti. Che vengano a Berlino! E ce ne sono anche certe che dicono che sì il comunismo è un sistema malvagio, ma permette progressi economici. Lass' sie nach Berlin kommen! (Che vengano a Berlino!)”.


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Il forte discorso di John Kennedy, dopo la tragica conclusione della rivoluzione magiara, riaccese le speranze nei cuori della giovent첫 nazionale che vedeva nella riunificazione della Germania la rinascita dell'Europa. Ma fu di breve durata. Presto i fatti si incaricarono di apportare un nuova cocente delusione. John Kennedy fu assassinato a Dallas, nel Texas, il 22 novembre 1963.


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La beat generation

Le fallite rivolte di Berlino, Poznan, Budapest, la costruzione del “muro della vergogna” e la passiva acquiescenza delle potenze occidentali nei confronti della tirannide comunista, che almeno moralmente sfiorava la complicità, mi convinsero sempre più che la spartizione del mondo stabilita a Yalta nel 1945 dall'America e dalla Russia non avrebbe giammai consentito ai popoli dell'Est europeo di riconquistare la libertà e che il pensiero unico dell'american way of life si imponeva sempre più sul nostro sistema di vita, annullando gradualmente la nostra identità nazionale e europea e le nostre radici culturali. Il ritorno di Trieste all’Italia e le manifestazioni contro l’imperialismo sovietico mi videro sempre impegnato in prima linea. Si accentuò, allora, il mio impegno politico, nazionale e sociale, e il '56 fu l'anno di profonde scelte, influenzato anche dalla beat generation che dal dopoguerra caratterizzava il sistema di vita della gioventù americana. Una corrente letteraria e culturale fiorita negli anni Cinquanta negli Stati Uniti, caratterizzata da una netta posizione di protesta nei confronti della società conformistica del secondo dopoguerra: una generazione stanca, battuta, senza la speranza di poter lasciare qualcosa al mondo contemporaneo. Fu Jack Kerouac, l'autore di On the road (ritenuto il manifesto della Beat generation), a parlare per la prima volta di beat (beaten=battuto, sconfitto), riprendendo il topos dell'uomo moderno battuto appunto e sconfitto di fronte alla società di massa, alla falsa comunicazione, al materialismo, all'avidità per il denaro, alla violenza, alla sete di potere. La beat generation nacque dall'incontro di alcuni giovani legati da una forte amicizia e un gruppo di coetanei, sconfitti e disincantati, dando vita a movimenti pacifisti e a molteplici associazioni per il riconoscimento dei diritti civili e delle libertà sessuali.


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Una generazione che bruciò in fretta, e per questo spesso accomunata alla lost generation, la generazione "perduta" del primo dopoguerra che continuava ad alimentare la diffusa tendenza di rompere gli schemi stereotipati e di lottare contro il conformismo dei puritani. In estrema sintesi, le nuove generazioni, sopravvissute ai drammi della seconda guerra mondiale, credettero che essere beat significava prevalentemente ribellarsi alla società dell'opulenza che svuotava le loro coscienze. Il movimento beat descriveva uno stato d'animo contrario ad ogni sovrastruttura, interessato alle contraddittorie vicende del mondo, ma insofferente delle banalità del consumismo dilagante. Insomma, essere beat significava essersi calati nell'abisso della personalità per osservare la realtà dal profondo. Inizialmente apparve lo hipster, l'esistenzialista americano, “l'uomo che sa che se il nostro destino è quello di vivere sotto la continua minaccia di una morte istantanea per una guerra atomica o di una fine lenta ma certa per consumismo, essendo soffocato ogni istinto di creazione e di rivolta, allora l'unica risposta vitale è accettare la morte come pericolo costante, divorziare dalla società e imbarcarsi in un viaggio misterioso negli imperativi ribelli del proprio "io". Accanto a una siffatta figura si formò il beat, un giovane intellettuale deciso a far sentire la sua voce, accanito ricercatore di verità nel cristianesimo, nel misticismo, nelle filosofie orientali, nel sesso e nelle lunghe improvvisazioni del be bop. Lo hipster gelido, irraggiungibile, chiuso nella sua letale eroina, e il beat straziato dall'amore mistico per l'umanità, poeta respinto e incompreso, perennemente sull'orlo della pazzia e fumatore di marijuana, vivevano fianco a fianco accomunati dal be bop di "Bird" Charlie Parker ascoltato nei locali del Greenwich Village o della North Beach. Fu il beat a sopravvivere e diede voce alla propria angoscia e a scrivere il proprio “Urlo” (Allen Ginsberg). I Beats - quelli di On the Road di Keruac, per intenderci - continuarono a scrivere, a dipingere, a viaggiare e a fumare la marijuana, nascondendosi in modo tale da far calmare le ansie e i timori di polizia e gente, che raramente si curarono di leggere ciò che questi "buffoni-delinquenti" avevano scritto. Non furono professori o scrittori professionisti, che cambiavano lavoro continuamente ed erano perennemente in bolletta, ma giovani disperati che credevano nella vita ma che rigettavano i sistemi morali precostituiti. Bevevano molto, fumavano parecchia marijuana e giravano il mondo in autostop ascoltando e improvvisando jazz, ma soprattutto scrivevano romanzi e poesie.


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Il romanzo On the road, scritto nel 1951 da Jack Keruac, cattolico educato dai Gesuiti, è la storia di un lungo vagabondaggio, in cui i protagonisti – Sal Paradise e Dean Moriaty – appaiono in un'esperienza morale prima ancora che fisica. Sal e Dean percorrono gli Stati Uniti da costa a costa, mettendo alla prova se stessi e il mondo circostante, alla ricerca disperata di un nuovo valore morale, di una nuova ragione del mondo, di una nuova spiegazione della vita. Ciò che ai critici sembrò una fuga affannosa, in realtà fu una corsa entro se stessi: droga, alcool, sesso, musica jazz e velocità furono mezzi per far emergere la propria individualità. Non ci fu degradazione in questo abbandonarsi con spontaneità alle leggi naturali e all'istinto individuale, ma una patetica aspirazione all'innocenza perduta, una ribellione al conformismo che soffoca la creatività umana.

“Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati” - dice Dean a Sal - “Dove stiamo andando, Dean” - chiede Sal a Dean - “Non lo so, ma dobbiamo andare” - risponde Dean. E' stato facile quindi scambiare il loro stile di vita con una semplice rivolta antiborghese. “Ora, però, che le rabbie ideologiche si sono sopite, le invidie sono state appagate, il disprezzo è stato placato, il minuscolo gruppo di poeti-scrittori degli anni Cinquanta può essere visto non tanto come un semplice e curioso soggetto sociologico, ma come un motore creatore di utopia. E l'utopia era quella di ottenere con una rigorosa non violenza la soluzione dei conflitti di classe e la liberazione da ogni tabù e soprattutto di proporre un nuovo e originale legame tra gli uomini e il Tutto”. In Italia, mentre i giovani che si erano collocati al centro o alla sinistra dello schieramento politico avevano accettato con entusiasmo il nuovo status quo, i giovani missini, figli della sconfitta, emarginati e vilipesi, avevano sin dall'immediato dopoguerra posto in essere forme vere e proprie di ribellismo, sia per conquistare il diritto alla cittadinanza, fortemente negato dai comunisti, sia soprattutto per respingere il conformismo dilagante e la mentalità borghese fatta di tradimenti e di compromessi. Tra il 1957 e 1958, ero già da qualche anno impegnato politicamente con il MSI, per le ragioni già descritte, accadde occasionalmente un fatto che mi fece conoscere il mondo della beat generation e la musica jazz. Mi capitò di visitare lo studio di uno strano personaggio che aveva da qualche tempo attirato la mia curiosità, perché era solito indossare camicie a fiori variopinti e sandali bizzarri. All'ingresso dello studio, un cartello anticipava le sue preferenze musicali: “Charlie Parker è il mio paradiso”. Fu un incontro affettuoso quello che ebbi con Fernando Rea, per gli amici Nandone, diventato successivamente un pittore di fama nazionale.


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Era iscritto al PCI, ma anche lui andava alla ricerca di una nuova dimensione morale. Però mentre Nando propendeva per una visione libertaria e anarchica che con il tempo lo portò in contrasto con il PCI, io ero portato a trovarla nei valori della Tradizione, rappresentati, in quel momento, dai giovani del MSI e alimentati dai libri del filosofo Julius Evola, tra i quali “Rivolta contro il mondo moderno” diventò la Summa theologica della gioventù nazionale. Nell'estate del 1958, appena diciottenne, partecipai al Campo scuola organizzato dalla Federazione romana del MSI nella faggeta di Soriano nel Cimino. Era la prima volta che uscivo dalla ristretta visione politica locale, ed ebbi modo di constatare di persona che la gioventù missina esprimeva la sua ribellione ricorrendo ai riti propri del fascismo, ma sostanzialmente le motivazione erano le stesse che animavano la gioventù americana: la ribellione contro i nuovi assetti mondiali, il materialismo, il conformismo, la società di massa, la ricerca di una nuova concezione del mondo e della vita. Secondo il regolamento del campo scuola, era d'obbligo indossare la camicia nera o azzurra, ma con mia somma sorpresa al mio arrivo constatai che il capo campo Mario Gionfrida, detto “il gatto”, aveva una fiammante camicia rossa. Nel corso delle lezioni tenute da insigni esponenti del mondo della cultura e della politica, tra cui i massimi esponenti del MSI, si instaurò un rapporto di amicizia tra me e Gian Maria Volonté, diventato in seguito uno dei più famosi attori del cinema internazionale, che prima di convertirsi all’ideologia comunista (con il fratello Claudio, anche lui attore con il nome di Claudio Camaso) frequentava apertamente gli ambienti neofascisti.

“Cerca di raggiungere quel pazzo e di farlo ragionare” - mi disse Mario Gionfrida - “E' armato ed è alla ricerca del figlio del Sindaco di Soriano”.

La sera precedente, nel centro del paese c'era stata una rissa tra alcuni missini, ospiti del campo, e un gruppo di ragazzi di Soriano, capeggiato dal figlio del Sindaco, il quale, secondo quanto fu riferito, con un morso aveva staccato il lobo di un orecchio a un nostro ragazzo. Gian Maria Volonté si armò di un machete e dalla faggeta iniziò una veloce corsa in discesa per raggiungere il centro di Soriano. Lo rincorsi e lo chiamai. Si fermò, si voltò e mi gridò: “Che cazzo vuoi, ciociaro. E' ora di finirla con questi mascalzoni”. Ebbi l'impressione che fosse sotto l'effetto di qualche droga. Riuscii comunque a dissuaderlo dai suoi propositi e a ricondurlo al campo. Facemmo la salita per raggiungere la faggeta, con lui che, molto più alto di me, mi teneva il braccio sulla mia spalla quasi per essere sostenuto. La mia sensazione diventò certezza: era drogato. Appena fummo al cospetto del “gatto”, questi senza profferire parola gli sferrò un fortissimo pugno al mento con la mano sinistra, perché la destra gli era stata amputata dallo scoppio di una bomba nel corso di un attentato ad una sezione del PCI, e lo stese a terra.


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Fu una brutta esperienza che insieme a tante altre mi portò ad allontanarmi da ogni forma di estremismo e di violenza. Nell'autunno dello stesso anno, in occasione della chiusura della campagna elettorale, furono invitati ad Isola del Liri l'on. Pino Romualdi e donna Rachele Mussolini, che all'ultimo momento furono condotti, con un colpo di mano, a Latina. La città fu invasa da migliaia di persone, tanti erano curiosi di vedere la vedova del Duce. I responsabili della sezione del MSI decisero di far sfilare comunque un gruppo di giovani in camicia nera per il Corso Roma. Partecipai anche io alla sfilata, che non fu gradita dalla città perché il mancato arrivo degli illustri ospiti fu ritenuto un espediente per inscenare una manifestazione fascista in un paese dove il PCI godeva della maggioranza assoluta dei consensi. Uno dei giovani missini, nel ritornare a casa nella vicina Castelliri, fu atteso nottetempo nella periferia di Isola del Liri, e aggredito selvaggiamente. Maturai sempre più la convinzione che non fosse questo il metodo per manifestare la nostra appassionata ricerca di un dignitoso spazio politico. Fautore di una sorta di sincretismo culturale, la mia adolescenza era stata influenzata anche dall’esistenzialismo francese e dalla calda voce di Juliette Grèco. Ma l'entusiastica scoperta del be bop di Charlie Parker, anche lui morto a trentacinque anni come Mozart e Robert Brasillach, e il sound del sax di Stan Getz mi convinsero a studiare musica, iniziando con il clarinetto, probabilmente perché era stato lo strumento suonato da Lino Iafrate, il ragazzo di tredici anni fucilato per rappresaglia dai tedeschi a Collecarino, dove erano sfollate le nostre famiglie. Per queste “contraddizioni” sono stato sempre ritenuto un’anomalia nell’ambito del partito, per le origini e per gli stereotipi che la Destra pigramente si porta ancora appresso. Furono quelli gli anni delle mie due grandi passioni: la politica e la musica. A cavallo tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60: il boom economico, il buon gusto, l’immensa voglia di vivere intensamente, il sax che mia madre mi donò per la promozione al terzo anno di ragioneria,la curiosità intellettuale, il vigore della giovinezza e l’affermazione come sassofonista, prima con gli Isolan Boys e dopo con I Delfini, caratterizzarono gioiosamente la mia giovinezza. Un successo dopo l’altro mi fece sempre più amare la vita. Qualche tempo dopo, descrissi la nostalgia di quei lontani anni nella prefazione al meraviglioso libro di poesie di Nino Cellupica La Cattedrale dell'Anima:

“Nino Carissimo, mentre leggo in anteprima i versi della tua ultima raccolta La Cattedrale dell'Anima, mi giunge dalle finestre aperte della mia stanza di lavoro in Municipio la voce della cascata. L'acqua canta, passa e va lontano..... Non posso allora non pensare alla poesia della nostra giovinezza quando le tirreniche spiagge di Gaeta, Formia, Sperlonga, Fondi, Terracina e San Felice Circeo ci aspettavano con la nostra notissima orchestra


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The Isolan Boys e tu, con la tua voce confidenziale, sussurravi alle dorate sirene italiane e straniere: Anema e core, Polvere di stelle, Abat-jour, Accarezzame, Fascination, Blue Moon, Voce 'e notte, Legata a un granello di sabbia e altre canzoni del repertorio internazionale.... Di quel lontano brontolio di mare, di quelle grida di gabbiani e di quelle canzoni sulla sabbia c'è rimasto così poco che, a rimettere insieme quelle voci, è dolce fatica. Sul mio sassofono è caduta la patina degli anni che ha coperto il suo scintillante e sinuoso corpo d'oro e quei suoi bottoni lucidi. Ora è là, dipinto in un quadro che custodisco caro nel mio ufficio al Comune, appoggiato ad un lampione, a guardare la cascata che da esso sgorga con metri cubi d'acqua spumeggiante. Siamo due cuori: il mio e il suo, con un vento di note. Per lui e per me Isola è diventata, però, la Città della musica, del jazz, del blues, degli spirituals, concerti gremitissimi di gente... Ora, tra noi, ci si incontra di tanto in tanto ma conosco i tuoi successi, i moltissimi premi letterari che hai accumulato negli anni, i tuoi apprezzati “recitals” in molte regioni d'Italia e fuori. Amo la tua poesia e, in particolare, quella che di solito affronta grossi problemi umani e quella dove apri l'anima alla nostra comune Terra e alle nostre genti....”.

Il destino, però, si apprestava a bussare nuovamente alla porta della mia esistenza, ponendo drammaticamente fine alla più spensierata parentesi della mia giovinezza.


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La tragedia di Cecina

Nel mese di aprile del 1964, a Palermo, dove prestavo il servizio militare, la primavera stava per dare le consegne ad una estate torrida arrivata con largo anticipo, mentre sulla mia famiglia si addensavano le nubi di una nuova tragedia. La decisione di anticipare il servizio di leva, rinunciando alla concessione del rinvio accordato agli studenti universitari, fu determinata dalla necessità di soddisfare questo obbligo prima del conseguimento della laurea, per meglio organizzare il futuro, dopo l’abbandono di ogni velleità come musicista. Fui prima destinato a Trapani. Dopo il periodo di addestramento, a Palermo, nonostante avessi richiesto di essere trasferito a Roma, sede degli studi universitari. Ero giunto ormai alla fine della mia esperienza militare, affrontata con il mio abituale senso del dovere, con la convinzione di servire in armi la Patria e con qualche sofferenza di troppo, quando, due giorni dopo il rientro in caserma dall’ultima licenza, mi fu comunicato di recarmi dall’ufficiale di picchetto per gravi comunicazioni che mi riguardavano personalmente. Mi fu ordinato di prepararmi con estrema urgenza per tornare a casa, perché mia madre aveva avuto un malore; fu ritardata la partenza della Freccia del sud; mi fu precluso ogni contatto telefonico con i miei familiari; una jeep mi trasportò alla stazione, mentre continuavo a cambiarmi la divisa. Come in un’opera lirica, l’ouverture preannunciava un’immane tragedia. Durante l’interminabile viaggio, cercavo di immaginare una serie di ipotesi che potessero giustificare la drammaticità di una realtà che avevo percepito dal grave comportamento delle autorità militari. Nella solitudine dello scompartimento del treno, con lo sguardo fisso sui sedili vuoti, provavo ad immaginare la realtà che mi attendeva a Isola del Liri e quale decisione questa volta avesse assunto il destino che da sempre tesse e annoda la storia della mia famiglia. Ero completamente preso da questi pensieri, quando alla stazione di Messina vidi salire ed entrare nello scompartimento una donna meravigliosa; indossava un tailleur grigio chiaro così attillato da far trasparire un corpo che nella cattività della caserma avevo sempre desiderato, immaginando avventure erotiche che ad un militare, per giunta in terra siciliana, era difficile concretizzare se non ricorrendo alle cure di qualche passeggiatrice.


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Prese posto proprio dirimpetto a me, accavallando le sue gambe affusolate con uno stile che sembrava volesse avere riguardo per la mia tristezza che si leggeva facilmente sul mio volto. Aprì un libro, l’Amante di Lady Chatterly, e si immerse nella lettura. Ne conoscevo il contenuto, perché, quando ancora non infuriava l’odierna squallida stampa pornografica, era la lettura proibita della nostra adolescenza. Guardavo quel corpo, senza provare quelle sensazioni che in circostanze diverse mi avrebbero indotto a prendere qualche iniziativa. Era da poco passata la mezzanotte, e la giovane donna aveva smesso di leggere. La luce soffusa, l’incalzante dondolio del treno sulle rotaie, i martellanti pensieri e l’atmosfera surreale, quasi impalpabile, che si era creata nello scompartimento, mi privarono di ogni resistenza.

“Sei sempre così serio e triste?”, mi chiese senza preamboli, guardandomi con i suoi passionali occhi neri.

Queste inattese parole, ebbero l’effetto di un elettroshock, e, seppure per qualche attimo, servirono per uscire da un ossessionante situazione.

“No, abitualmente sono simpatico e di buon umore. In occasioni come queste, ho sempre provocato una piacevole conversazione. Ma i motivi che mi hanno indotto a tornare improvvisamente a casa devono essere di una tale gravità che nemmeno la tua dolce apparizione mi ha consentito di recuperare un attimo di serenità”, così risposi amabilmente alla mia interlocutrice, precisando le cause della mia tristezza e accettando subito il suo tono confidenziale.

Senza venir meno allo stile che aveva destato la mia ammirazione dal momento del suo ingresso nello scompartimento, sollevò la gamba sinistra che con grazia teneva accavallata sull’altra, mettendo in evidenza delle stupende cosce. Ebbi l’impressione che non indossasse le mutandine. La scena mi ritornò alla mente, quando nel film Basic Instinct, Sharon Stone si mostrò proprio allo stesso modo, per condizionare la volontà dei suoi interlocutori. La donna riesce con facilità, specialmente se non perde la grazia, a trasmettere con immediatezza i suoi forti messaggi erotici. Il mio turbamento fu totale. Mi mancarono le parole; la conversazione, durante la quale avevamo affrontato una serie di problematiche esistenziali, si interruppe improvvisamente. La guardai profondamente negli occhi, come per cercare la necessaria conferma. Ero completamente sottoposto al suo dominio. Giovanna, questo era il nome della giovane donna, che mi aveva confessato di essere la moglie di un noto professionista di Catania, approfittò senza ulteriori indugi della mia eccitazione, che lei aveva lungamente preparata con un’accorta regia, e venne a sedersi accanto a me.


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“Vedi, caro ragazzo, l’erotismo sta alla sessualità, come il pensiero sta alla intelligenza. Sono partita con la speranza di incontrare un militare sul treno, per un irrefrenabile desiderio di avventura. Non avrei mai creduto che dopo tanti tentativi propria questa volta si potessero creare le migliori condizioni”.

Mi prese dolcemente la mano, se la portò fra le gambe, chiedendomi con voce suadente di accarezzarla. Non mi ero sbagliato, in effetti era nuda. Mi lasciai andare e presi l’iniziativa: dalla caviglia risalii delicatamente fino all’inguine. Era già tutta bagnata, ma nel delirio dei sensi non assunse mai comportamenti volgari; mi baciava sul collo, sussurrandomi dolci parole. Giovanna fece scivolare la sua gentile mano tra le mie gambe e, con deliziosa grazia, si chinò verso di me….. Lo stordimento fu completo; per un tempo incommensurabile avevo dimenticato i motivi del triste viaggio. Si alzò, si ricompose, mi baciò, riprese il suo libro e uscì dallo scompartimento, con nonchalance, come se nulla fosse avvenuto. Mi ritrovai nuovamente solo con il mio bagaglio di sofferenze, che si accentuarono dopo quella piacevole e imprevedibile esperienza. Il treno con un forte stridore di freni si fermò alla stazione di Napoli. Dal finestrino rividi per l’ultima volta Giovanna, mentre con un portamento da donna di gran classe si dirigeva verso l’uscita della stazione. Scomparve tra le persone che freneticamente si accalcavano, e tutto mi sembrò un’onirica illusione. Durante le ore che restarono per raggiungere Roma, ripensando ai momenti trascorsi con Giovanna, fui assalito da tanti scrupoli. Mi chiedevo in base a quali incomprensibili pulsioni, una donna di buona famiglia, ricca, bella, colta e apparentemente senza problemi, potesse decidere di viaggiare sola alla ricerca di simili avventure? Come mi era stato possibile quel totale abbandono in una situazione che si preannunciava con tutto il suo carico tragico? Era stata abile Giovanna o la mia condivisione era stata dettata dalla necessità di rimuovere una condizione che era ormai diventata insostenibile? Avevo così tradito anche Luisa che in quei momenti, invece, soffriva un dramma a me sconosciuto? In simili circostanze, quando il furore dei sensi invade in modo totalitario il nostro essere e si è privi di qualsivoglia potere volitivo, si tradiscono i sentimenti della donna che si ama? Questi pensieri mi distolsero dalle tante preoccupazioni, che tuttavia erano sempre presenti, come il tema dominante ritorna ossessivamente, dopo momenti di relativa serenità, nella Patetica di Tchaikovsky o nella sinfonia Del Destino di Beethoven. Si racconta che il grande musicista russo, mentre viaggiava in treno per raggiungere San Pietroburgo, componeva nella sua mente la struggente sinfonia e piangeva. Mi sono sempre chiesto perché il buon Dio si serva della sensibilità di questi grandi geni per manifestare la sua esistenza, costringendoli ad una vita connotata da inimmaginabili sofferenze.


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Il treno aveva raggiunto la sua ultima fermata. Ero finalmente arrivato a Roma, dove Enza, la mia omologa secondo la geometria simmetrica di mio padre, viveva da quando aveva sposato Sergio. Ogni qualvolta che venivo in licenza e ripartivo per la Sicilia, passavo da lei, per fare una doccia ristoratrice, per indossare gli abiti borghesi e per proseguire il viaggio in autobus fino a casa. L’avevo fatto anche qualche giorno prima, per l’ultima licenza, quella che in gergo militare è denominata “ordinaria”: dieci giorni più il viaggio. Abbandonai subito l’idea di telefonarle, la stanchezza e la solitudine non mi consentivano di affrontare la realtà, senza l’immediato sostegno ed il conforto di una persona cara. Decisi, allora, di raggiungere Enza; del resto la sua abitazione non era lontana dalla stazione Termini. Viveva con Sergio e la figlia Donatella nel quartiere Prenestino, dove arrivai per chiedere notizie al portiere dello stabile.

“I signori sono partiti due giorni fa per un viaggio di piacere, ma non sono ancora tornati”, mi rispose con toni gentili.

Ma il suo volto manifestava chiaramente i segni di una grande sofferenza. Due isolati più giù, vivevano i suoceri di Enza; arrivai dopo pochi minuti; non erano in casa. Il mosaico della tragedia si era arricchito di due ulteriori elementi, ma il solo pensiero di telefonare ai miei, mi terrorizzava. Raggiunsi, in via Principe Amedeo, l’Agenzia di viaggio Forletta & Polsinelli che da anni serviva la linea Roma-Sora, per prendere l’autobus diretto a Isola del Liri. In quel momento nell’agenzia, oltre al bigliettaio, era presente una contadina con il tipico vestito ciociaro e un mio concittadino, che stava leggendo un quotidiano. Alzò lo sguardo, mi riconobbe, mi venne incontro con il giornale aperto e mi chiese semmai conoscessi quella signora “originaria di Isola del Liri”, rimasta vittima con il marito Sergio e la cognata Anna in un incidente stradale, avvenuto sull’Aurelia nei pressi di Cecina. L’articolo, che occupava mezza pagina, sotto il titolo “Uno schianto nella notte”, riportava al centro una sconvolgente fotografia dell’incidente: la Giulia “Quadrifoglio” di mio cognato letteralmente divisa in due, alla quale facevano da cornice le immagini dei tre giovani che insieme non raggiungevano i novanta anni. Si era salvato soltanto Aldo, il marito di Anna, che in quel momento guidava la veloce auto, per raggiungere la Fiera di Milano, dove avevano deciso improvvisamente di andare dopo avere cenato in un ristorante di Trastevere. Durante il lungo viaggio, avevo cercato di ipotizzare anche la più tragica delle realtà, aiutato

da

Giovanna, nel corso della lunga conversazione che aveva affrontato anche questo argomento. Ma la realtà superava ogni razionale immaginazione; e le modalità che il destino mi aveva riservato per conoscerla erano degne di una tragedia greca. La mia disperazione fu incontenibile.


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Mi strappai il berretto e lo lanciai lontano con tutta la mia forza e, piangendo, uscii dall’agenzia e mi misi a correre, inseguito dal mio concittadino, esterrefatto perché non pensava mai che la signora “originaria di Isola del Liri” fosse mia sorella. Piangevo e correvo. Spinto soltanto dalla disperazione, attraversai la stazione Termini, via Principe Amedeo è una sua parallela, e fui raggiunto in Piazza Indipendenza. A questo punto, il mio paesano, appena venuto a conoscenza del legame di parentela con le vittime, si abbandonò ad un pianto irrefrenabile, perché si riteneva responsabile della causa della mia disperazione. Ciò ebbe per me un effetto parzialmente consolatorio, a dimostrazione che la solidarietà del prossimo è indispensabile per lenire i grandi dolori. Facemmo insieme il viaggio fino ad Isola del Liri. Un’atmosfera cupa gravava sul mio paese. Ebbi la sensazione che tutta la città fosse convenuta alla fermata dell’autobus per manifestarmi affetto e solidarietà, perché si era sparsa la notizia delle modalità con cui ero stato informato. Non ho mai saputo come questo sia potuto accadere. Ma è la dimostrazione che le brutte notizie trovano immediatamente la strada della loro propagazione. Arrivato a casa, stracolma di amici e parenti, si aprì tra le persone, come per effetto di una silenziosa disposizione, un corridoio nel grande salone, in fondo al quale sedeva in una poltrona mia madre, affranta. Aveva perduto, in tragiche circostanze, le sue due figlie. Siamo rimasti abbracciati per un tempo che non sono in grado di misurare, confondendo le nostre copiose lacrime. Erano incredibilmente ancora abbondanti. Qualcuno mi accarezzava amorevolmente la testa; il tocco delicato era inconfondibile. Lasciai affettuosamente mia madre, mi alzai e, voltandomi, fui stretto in un abbraccio indimenticabile dalla mia amata Luisa che non riuscì a trattenere un grido lancinante, accompagnato da un inconsolabile pianto. Ebbi in quel momento la certezza che il nostro amore sarebbe durato per tutta la nostra vita. Mio padre era impietrito. Era stata sconvolta, tragicamente, la geometria simmetrica della famiglia. La mia omologa mi aveva lasciato solo. Lo abbracciai teneramente, sapendo che il suo dolore non era immanente come il nostro. Da tempo si era convinto che il destino aveva predisposto un disegno che lui, nell’arco di tempo, vedeva realizzarsi a scadenze precise. Ora che la geometria simmetrica della nostra famiglia si era infranta, quale sarebbe stata la prossima mossa del destino? Spettava forse a me, per conservare l’omogeneità degli estremi, Oscar e Gilberto, o ad uno di loro per porre fine a questo arcano disegno?


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Verso il '68

Dalla “tragedia di Cecina” il mio mondo non fu più come prima. O meglio, la consapevolezza di essere predestinato ad affrontare coraggiosamente ulteriori prove di singolare durezza, si consolidò. Abbandonai la residuale parte di ideologismi che ancora mi portavo appresso senza però una qualsivoglia convinzione, imboccai la strada di un sano realismo senza mai indulgere a sostanziali svolte pragmatiche, e fortemente condizionato dalle ristrettezze economiche della mia famiglia, lasciai gli studi universitari per cercarmi un dignitoso lavoro, ma anche perché alcune avvisaglie mi fecero intravedere cosa era e cosa sarebbe diventata l'Università da lì a pochi anni. Appena tornato dal servizio militare, partecipai e vinsi un concorso all'INAIL e fui assegnato alla sede di Frosinone. Si determinò così una situazione ottimale, sia per continuare a svolgere l'attività politica, sia per programmare il matrimonio con Luisa, tenuto conto che il mancato consenso della sua famiglia al nostro fidanzamento derivava, come i fatti hanno in seguito dimostrato, dall'incertezza che i miei comportamenti facevano percepire. E non avevano tutti i torti. Dopo i sanguinosi fatti di Genova, avvenuti nell’estate del 1960, il MSI subì un profondo stato di crisi, e mi fu possibile riaprire la sezione locale del Partito grazie all'aiuto di Luisa e di Carletto Galante, in quanto una consistente diaspora mi aveva costretto al più completo isolamento politico. Intanto, si erano verificati fatti di portata storica, mentre altri rappresentavano i prodromi di un epocale sconvolgimento. Nel 1963, in Italia ci fu la “svolta a sinistra” con l'inserimento dei socialisti nel governo nazionale; fu assassinato John Kennedy; Papa Giovanni con l'enciclica Pacem in terris rivolse un appello a tutto il mondo, cristiani e protestanti, credenti e non credenti, Occidente e Oriente, perchè alla logica folle della guerra si sostituisse la dialettica della pace. L'anno dopo, morì Palmiro Togliatti che con il suo testamento politico, il Memoriale di Jalta, frantumò la concezione monolitica del comunismo internazionale e sostenne che ogni partito comunista doveva perseguire una sua specifica via nazionale. L'impetuosa voglia di cambiamento interessò anche la Chiesa cattolica, nota per il suo conservatorismo.


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Il Concilio ecumenico Vaticano II, indetto da papa Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959, si svolse nei successivi cinque anni; apportò sostanziali modifiche alla secolare politica della Chiesa, anticipando quel clima rivoluzionario che portò alla contestazione giovanile del '68. Nel 1965, il Vaticano stabilì che la messa si poteva celebrare non più in latino ma nelle lingue nazionali e, nel 1967, Paolo VI ricevette in udienza Nikolai Podgorny: il primo capo di uno Stato comunista che entrava in Vaticano. I programmi spaziali avvicinarono sempre più gli uomini alla Luna, tanto che un cosmonauta russo e un cosmonauta americano provarono, con successo, a camminare nello spazio. Elvis Presley e il rock and roll avevano da tempo creato un nuovo modo di far musica e i Beatles, dal 1962, dilagarono in tutto il mondo. Milioni di donne trovarono imprevedibili spazi di libertà nell'uso della “pillola”, mentre la moda femminile fece crollare secolari tradizioni con le sue regole rigide, consentendo ad ogni donna di vivere secondo i propri desideri e le proprie inclinazioni. La minigonna rappresentò con forza l'icona della rivoluzione femminile, al punto che a Milano una ragazza fu fermata dalla Polizia e poi rilasciata perchè il questore stabilì che una gonna “dieci centimetri sopra il ginocchio” non attentava alla morale. Negli Stati Uniti, dove la ribellione giovanile, iniziata sin dagli anni '50 con il movimento della beat generation, crebbe a dismisura contro la guerra del Vietnam; nel contempo una cantante dalla voce incredibilmente dolce e musicale, Joan Baez, diventò uno degli idoli della gioventù di tutto il mondo per le sue canzoni contro la violenza. Nel 1967, in una boscaglia della Bolivia, fu ucciso Ernesto Guevara, il “Che”, la cui figura di intellettuale impegnato, venata di romanticismo, diventò un mito e una bandiera per milioni di giovani. Nella Cina comunista, milioni di ragazzi e di ragazze, denominate “Guardie rosse”, richiamati dalla “rivoluzione culturale proletaria”, lasciarono le loro case e percossero lo sconfinato paese, distruggendo ogni segno del passato per “fare la rivoluzione nella rivoluzione” al grido: “Bombardate il Quartier Generale”. Nelle università italiane cominciò a circolare qualche berretto di cotone grigio-azzurro, come quello indossato da Mao e anche qualche libretto con la copertina di plastica rossa, il “libretto rosso” di Mao. Con queste premesse, in Italia, nella seconda metà del 1968, si allargarono, come una grande macchia d'olio, le occupazioni delle università. Il movimento di contestazione iniziò a Milano con l'occupazione dell'aula Gemelli dell'Università cattolica e, successivamente, a Torino con l'occupazione di palazzo Campana al grido di: “Contro l'autoritarismo accademico, potere agli studenti”, lanciato dalla rivista Quindici, diretta da un gruppo di intellettuali di sinistra che per primo si era fatto portavoce della contestazione. Il 15 gennaio, a Roma, un centinaio di studenti, maschi e femmine, dell'università cattolica del Sacro Cuore si sedettero per cinque ore in piazza San Pietro e distribuirono manifestini ciclostilati sui quali campeggiava in grande evidenza lo slogan: “Dio ci ha dato la libertà, la “Cattolica” ce l'ha tolta”.


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Seguirono, entro lo stesso mese, le occupazioni delle università di Padova, Pisa, Firenze, Siena e, in particolare, della facoltà di sociologia di Trento, la quale diventò l'epicentro del movimento capeggiato da quel Renato Curcio che in seguito fu tra i più importanti esponenti delle “Brigate rosse”. Si venne a conoscenza di analoghe agitazioni in corso alla università di Berkeley in California (in verità erano cominciate diversi anni prima, ma pochi in Italia ne avevano parlato) come pure a Berlino, mentre a Nanterre, in Francia, gli studenti scatenarono una vera e propria rivolta. In quei giorni, a Roma, avvennero i primi violenti scontri tra la polizia e gruppi di studenti che volevano raggiungere la facoltà di architettura a Valle Giulia: candelotti lacrimogeni, automezzi incendiati, caroselli di camionette; 150 feriti tra le forze di polizia e 478 fra gli studenti. Nella protesta c'era un po' di tutto: c'era Cuba e Fidel Castro, i Beatles, la minigonna di Mary Quant, i pensieri di Mao, “Blowin' in the wind” di Bob Dylan, l' “I have a dream” di Martin Luther King, Premio Nobel per la Pace (assassinato il 4 aprile del 1968), e i diritti civili dei neri d'America. C'erano i film d'avanguardia, come i “Pugni in tasca” (1965) di Marco Bellocchio e la “La Chinoise” (1967) di Jean-Luc Godard. C'era anche il testo sacro, che tanto appassionò i giovani universitari di sinistra, in genere senza averlo mai letto: “L'uomo a una dimensione” del tedesco-americano Herbert Marcuse, fortemente critico della società industriale avanzata. C'era anche “Lettera a una professoressa” di don Lorenzo Milani, un sacerdote che era morto nel giugno dell'anno prima e non avrebbe mai immaginato di diventare un autore di cult di un movimento rivoluzionario. “No alla scuola dei padroni” e “No all'università di classe” furono prevalentemente le scritte di molti striscioni issati nei cortei che attraversarono le città italiane. Le statistiche di quegli anni affermavano, però, che solo il 15 per cento degli studenti universitari apparteneva a famiglie di operai. A dimostrazione di ciò, subito dopo gli scontri a Valle Giulia, Pier Paolo Pasolini, notoriamente intellettuale di sinistra, scrisse in una sua poesia: “Avete facce di figli di papà...Quando ieri avete fatto a botte coi poliziotti / io simpatizzavo coi poliziotti / perchè i poliziotti sono figli di poveri”. Un giorno, all'università di Roma, sul portone principale del rettorato apparve un cartello: “L'immaginazione al potere”, “Vietato vietare”, “Stiamo inventando un mondo nuovo”, “Siamo realisti; chiediamo l'impossibile”. Tra il 10 e l'11 maggio il Quartiere Latino, a Parigi, conobbe una notte di fuoco e di sangue; la polizia assalì con brutalità le migliaia di giovani che protestavano contro l'”imperialismo” e il “potere borghese”, contro De Gaulle e il “gollismo”. Due giorni dopo, mezzo milione di francesi sfilò nel centro di Parigi e gli studenti, il 14 maggio, occuparono la Sorbona, mentre gli operai cominciarono ad occupare le fabbriche. L'arcivescovo di Parigi, monsignor Marty, parlando nella chiesa di Notre Dame, disse: “I tempi sono gravi, ma carichi di speranza. Uomini fra gli uomini, noi partecipiamo a questo movimento che trascina la Francia verso un profondo cambiamento”.


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In Italia accaddero cose che lasciarono sconcertato anche chi non era pregiudizialmente contrario alla protesta giovanile. A Milano, gli studenti delle facoltà umanistiche dell'Università statale approvarono una carta programmatica in cui si chiedeva “l'abolizione della figura tradizionale del docente e della lezione cattedratica, così come degli esami di profitto e di laurea e la loro sostituzione con una valutazione pubblica complessiva”. A Roma, nella facoltà di lettere, all'esterno dell'aula di storia dell'arte, fu affisso il seguente proclama:

“1) Lo studente ha il potere di respingere il voto. 2) Il voto di esame va discusso pubblicamente con gli studenti presenti. 3) A richiesta dello studente l'esame può avvenire su argomenti non in programma”.

In alcune università gli esami furono sostituiti con dibattiti sulla rivoluzione culturale cinese o sulla guerra del Vietnam. Sempre a Roma circolò un documento ciclostilato in cui si sosteneva che non era sufficiente distruggere la “scuola dei padroni”, in quanto per realizzare una società di eguali era indispensabile annullare anche lo studio. Intanto, nelle occupazioni delle facoltà universitarie intervennero anche studenti di estrema destra, come, per esempio a Roma, nella facoltà di giurisprudenza dove apparve la scritta: “C'è un solo modo di migliorare il sistema: distruggerlo”. Alcuni gruppi si dichiararono addirittura “nazimaoisti”. I fatti successivi si incaricarono di dimostrare che non aver capito in tempo le complesse motivazioni di tanta rabbia e di tanta ribellione fu un errore, anche per un altro motivo. Il 31 maggio, sempre del 1968, l'Ansa trasmise una notizia, a cui, lì per lì, non fu dato peso. Si parlò di due nuove scritte apparse a Roma sui muri di un edificio universitario: “Il potere sta sulle canne dei fucili” e “Armi agli operai e agli studenti”. Avevo previsto in tempo questo epilogo, perchè non era difficile capire che certo estremismo (malattia infantile) avrebbe portato i giovani così indottrinati al terrorismo degli “anni di piombo”. Ecco perché, dieci anni prima, mi ero allontanato da ogni forma di sterile contestazione, per aderire sempre più alla politica di inserimento democratico del MSI. La rinuncia agli studi, determinata prevalentemente dalle precarie condizioni economiche della mia famiglia, ma anche dalla atmosfera avvelenata che da tempo si respirava negli atenei, mi tenne lontano dalla università e mi consentì di dedicarmi seriamente al lavoro così faticosamente conquistato e di pensare intensamente al mio matrimonio con Luisa che venne celebrato a Roma il 1° luglio 1968. La sera stessa, con la nostra scomoda “cinquecento”, acquistata con i miei primi stipendi, partimmo per un lungo viaggio di nozze da tempo programmato, ma il caldo torrido ci consigliò di trascorrere la prima notte in un piccolo albergo sul lago di Nemi. Il giorno dopo proseguimmo per Firenze, per poi raggiungere Genova, dove fummo accolti dalla affettuosa ospitalità di zia Gina e dove fummo costretti a rimanere qualche giorno per una indisposizione di Luisa.


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A questo punto il programma fu completamente sconvolto, perché riprendemmo il viaggio, dirigendoci verso Milano dove arrivammo a tarda sera in una città infuocata. Dopo una notte insonne, decidemmo di fuggire dal caldo milanese per raggiungere il clima più mite del lago di Garda, soggiornando a Salò, Gardone, Sirmione e Riva del Garda. Dopo una breve visita a Predappio e alla Rocca delle Caminate, tornammo a Isola del Liri, quando ancora su tutto il Paese incombevano gli effetti di una violenta contestazione giovanile animata da scelte esistenziali in netto contrasto con i valori di cui eravamo portatori. Nella completa e colpevole indifferenza dei contestatori e della sinistra italiana, Praga, in quella torrida estate del '68, così come era avvenuto per Budapest nel '56, si preparava inconsapevolmente ad essere invasa dai carri armati dell'Unione sovietica.


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La primavera di Praga

A Praga, il 1968 era iniziato sotto buoni auspici. Il 3 gennaio, Jan Palach uscì di casa di buon mattino. Il cielo era di una azzurro terso e la città si presentava con un volto insolito. Aveva come per incanto dismesso i suoi caratteri esoterici, magici, kafkiani, per assumere l'aspetto di una città umanamente gioiosa che aveva recuperato come d'incanto tutti i diritti civili e ogni libertà. Jan, giubbino sbottonato e mani in tasca nonostante il freddo, attraversò Mala strana (la città vecchia) a passo sostenuto; tutti i conoscenti si avvidero della sua felicità, ma non fu in grado di fornire qualsivoglia spiegazione, perché lui stesso non sapeva darsi ragione di tanta gioia. Lo aspettavano all'Università alcuni colleghi slovacchi per comunicargli non meglio precisate notizie di notevole importanza sui cambiamenti al vertice del partito comunista cecoslovacco. Si fermò quando aveva percorso oltre la metà del Ponte Carlo, sotto la statua di S.Antonio da Padova, si appoggiò alla balaustra, si sporse per guardare la Moldava come se volesse avere qualche segno dal suo fiume. Era esattamente come lo aveva descritto nelle sublimi note dell'omonimo poema sinfonico il grande musicista boemo Bedrich Smetana. Il fiume scorreva placidamente, sotto un cielo splendido; la dolce melodia di Smetana invase in modo ossessivo la sua mente. Ricevette così la conferma che quell'anno a Praga la primavera sarebbe arrivata con largo anticipo sul calendario. Nel tardo pomeriggio, si venne a conoscenza che il Segretario generale del Partito comunista cecoslovacco Antonin Novotny aveva ceduto il mandato al giovane Alexander Dubcek, esponente moderato del partito comunista slovacco. Erano proprio queste le informazioni che gli erano state anticipate in un paese dove non era possibile conoscere nulla delle intenzioni degli organi politici. Novotny conservò la carica simbolica di Presidente della Repubblica, ma perse l'effettivo potere, che, per lunghi tredici anni, aveva esercitato dispoticamente, imponendo una impenetrabile cappa poliziesca e repressiva anche quando tutti gli altri paesi del blocco sovietico si stavano liberando dallo stalinismo. L'avvento di Dubcek sancì lo svecchiamento della precedente politica stalinista e dette vita alla Primavera di Praga.


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Sostenuto dall'ala moderata del partito, che però non era ancora pronta a sostenere un programma di svolta radicale, e pressato dagli intellettuali riformisti, Dubcek fu costretto a procedere con estrema cautela, perché era sottoposto al controllo spietato di Breznev, che non era affatto intenzionato a consentire eccessivi cambiamenti. Poco dopo la sua elezione dovette infatti incontrare Breznev per rassicurarlo dei suoi intenti moderati e della prudenza che si proponeva di adoperare nei confronti di un non più rinviabile ammodernamento della politica e delle istituzioni. Nel contesto, però, di una completa fedeltà al Patto di Varsavia e nel solco della tradizione che vedeva nel partito comunista l'unico depositario di ogni trasformazione. Le prime e fondamentali proposte di riforma che caratterizzarono La Primavera di Praga, si leggono nell'autobiografia di Alexander Dubcek “Il socialismo dal volto umano. Autobiografia di un rivoluzionario”: “...il 25 gennaio proposi alla presidenza un mutamento radicale della pubblicità da dare ai lavori dei massimi organismi del partito, con la pubblicazioni di informazioni sistematiche su tutte le riunioni della stessa presidenza e della segreteria.(...) Ai primi di marzo ottenni, in sede di presidenza del partito, la revoca della decisione con la quale nel 1966 era stata legalizzata la censura”. Fu proposta la riabilitazione di tutte le vittime delle purghe volute da Stalin negli anni Cinquanta e si decise, inoltre, su pressione slovacca, di rivedere la costituzione del 1960 per dare al paese un assetto federale. A marzo diversi esponenti politici dell'ala conservatrice furono destituiti; Novotny stesso, che di quella ala era stato leader, si dimise dalla carica di Capo dello Stato. I “liberali” Cernik e Smrkovky, insediati alla guida del governo e dell'Assemblea, proposero subito un rimpasto del Comitato centrale per depurarlo dei residui stalinisti fedeli a Novotny. Ma i più gravi contrasti con il regime moscovita si ebbero in occasione del 20° anniversario della presa del potere comunista in Cecoslovacchia. Sulla base di una prassi ormai consolidata, Breznev pretese che il testo del discorso che Dubcek avrebbe dovuto tenere ai rappresentanti degli altri paesi comunisti,

dovesse essere supinamente

sottoposto in via preventiva all'esame della censura russa che, per mano dello stesso Breznev, provvide ad apportare alcune significative censure e “correzioni”. Questa, in particolare: “Negli ultimi anni era tornata a dominare da noi una visione del partito, residuata dal passato, come gestore universale della società, come quella forza che invece di essere la direzione politica della società decide autoritariamente molte volte di questioni incongrue, minime, non sostanziali (....)”. “Molti atti della nostra vita sono diventati una formalità. L'inevitabilità di un ampio sviluppo dei rapporti democratici esige che noi, oggi, assumiamo un atteggiamento chiaro e di principio verso i diritti civili, i doveri sociali, verso la posizione del cittadino e dell'individuo. Pensiamo al contenuto reale e alle garanzie formali della libertà e dei diritti civili, di cui non dobbiamo sopportare la minima violazione”. Queste parole davanti a quel consesso non furono mai pronunciate; ai delegati e al mondo intero fu servita una versione decisamente più edulcorata.


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Il 23 marzo Dubcek fu convocato a Dresda assieme agli altri membri del Patto di Varsavia. Il pretesto fu quello di un esame congiunto della cooperazione economica dei paesi del blocco sovietico, ma in realtà costituì un significativo momento per lanciare un duro monito a Dubcek da parte di Breznev, del tedesco Ulbricht, del polacco Gomulka, dell'ungherese Kadar e del bulgaro Zivkov, preoccupati che la primavera praghese potesse esercitare una grave influenza anche sugli altri paesi comunisti, evocando il pericolo di una controrivoluzione. Dubcek difese con coraggio leonino le sue scelte: in particolare, l'abolizione della censura, la libertà di espressione e di stampa. Questa coraggiosa posizione fu percepita dall'uditorio composto da bolsi e grigi funzionari di partito come una vera e propria eresia e fece apparire il giovane leader praghese alla stregua di un moderno Jan Hus, teologo e riformatore boemo condannato al rogo e morto arso dalle fiamme il 6 luglio 1415. Fu più che sufficiente per creare a Mosca un vero e proprio timor panico, soprattutto quando, nel successivo mese di aprile, il Comitato centrale cecoslovacco approvò il documento che è passato alla storia come Programma d'azione. “Il documento – ha scritto Dubcek – sanciva la fine dei metodi dittatoriali, settari e burocratici. Vi si affermava che essi avevano dato luogo a tensioni artificiali nella società, avevano provocato antagonismo tra i diversi gruppi sociali, le nazioni e le nazionalità. Non dovevano più esserci privilegiati interessi strettamente corporativi o di gruppo. Doveva essere tradotta in pratica la libertà di riunione e di associazione, garantita dalla Costituzione, ma non rispettata in passato. Non doveva più esistere alcuna limitazione illegale delle libertà”.

Il documento, composto da più di sessanta pagine, proclamò anche il ritorno alla libertà di stampa, tramite l'abolizione della censura preventiva, e alla libertà di movimento all'interno e fuori del Paese, la riparazione di tutte le ingiustizie giudiziarie e politiche, la federalizzazione della repubblica, e, infine, in campo economico l'autonomia imprenditoriale per le grandi aziende e la legalizzazione delle piccole imprese private. Per motivi prudenziali, al fine di evitare reazioni inconsulte da parte del “fratello” sovietico, gli estensori del documento evitarono ogni riferimento alla democrazia pluripartitica: “Agli occhi dei sovietici – ha scritto Dubcek – ciò avrebbe significato la liquidazione del socialismo, perché il monopolio del potere, eufemisticamente definito “ruolo dirigente del partito”, era il principio fondamentale di ogni partito comunista nella dottrina sovietica”. I paesi del Patto di Varsavia decisero di anticipare da settembre a giugno le manovre militari previste in Cecoslovacchia, per esercitare una forte pressione sui riformatori e per attuare una prova generale in vista di una probabile invasione. Dubcek inizialmente si oppose, ma alla fine fu costretto a subire lo svolgimento delle esercitazioni, anche se in forma ridotta.


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Il 5 maggio, convocato nuovamente a Mosca, fu pesantemente redarguito da Breznev che gli imputò la responsabilità di aver perduto il controllo sui mezzi di informazione e stroncò la sua politica di riforme economiche che rappresentava la premessa alla restaurazione del capitalismo. Il giovane leader praghese replicò che il suo partito invece di perdere il ruolo guida stava guadagnando consensi nella società e che le riforme economiche erano compatibili con il socialismo. Era ormai un dialogo tra sordi!. Nella sua biografia Il socialismo dal volto umano, Dubcek scrive che fu proprio dopo quel colloquio che Breznev decise definitivamente l'invasione della Cecoslovacchia. Ma il processo di liberalizzazione si era avviato ed era diventato incontenibile, anche se prudenzialmente i riformisti avevano riconosciuto il ruolo guida del partito e l'esclusione di ogni forma di opposizione organizzata, facendo però passare la proposta di convocare per il 9 settembre un congresso in cui, grande novità, i delegati sarebbero stati eletti e non nominati dai membri del partito. Un ulteriore tentativo di mettere in discussione il sistema si ebbe in giugno con il cosiddetto Appello delle 2000 parole, sottoscritto da numerosi intellettuali liberali cecoslovacchi e stranieri. Il preambolo definiva la strategia per realizzare un socialismo dal volto umano, mentre la parte più consistente dell'Appello chiariva la tattica per realizzare effettive riforme nei tempi brevi. Queste decisioni alimentarono, però, le preoccupazioni degli alleati del Patto di Varsavia (Unione Sovietica, Polonia, Ungheria, Germania Orientale e Bulgaria), che, riuniti in seduta nella capitale polacca, inviarono pesanti ammonimenti al Comitato centrale cecoslovacco. Riaffermarono, insomma, che la via maestra era rappresentata dal comunismo imposto dall'alto, dalla “dittatura del partito unico e dalla censura, e che non era possibile conciliare la libertà di stampa, quindi la libertà di critica, con la funzione guida del partito comunista”. I riformisti cecoslovacchi, infervorati dal desiderio di riconquistare la libertà repressa dal comunismo e sostenuti da un grande entusiasmo popolare, probabilmente non si rendevano conto che il sistema monolitico sovietico, per sua natura, non poteva essere riformato, ma soltanto distrutto, con il rischio di immolarsi epicamente ma senza risultato, come aveva insegnato Budapest dodici anni prima. La situazione era giunta ad un punto di non ritorno e lo scontro perciò era ormai nella logica delle cose; Dubcek cercò inutilmente di opporsi alle assillanti richieste dei sovietici, ma fu costretto ad acconsentire ad incontrare Breznev, Kosygin e Suslov. Un primo incontro avvenne a Cierna tra il 29 luglio e il 1° agosto 1968 e “finì presto – scrisse poi Dubcek – in un vicolo cieco. Il dissenso tra le due parti era assoluto, come prima. Breznev e io ci limitammo a riaffermare le rispettive opinioni”. Si diedero però un ulteriore appuntamento a Bratislava per il 6 agosto, assieme a tutti gli altri Paesi del Patto di Varsavia; il convegno si concluse con un documento sibillino che, successivamente, ognuno interpretò secondo le proprie finalità. Infatti, l'affermazione “che ogni partito comunista avrebbe risolto in maniera creativa i problemi dell'ulteriore sviluppo del socialismo e che restavano validi i principi dell'uguaglianza, del rispetto della


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sovranità, dell'indipendenza statale e dell'intangibilità territoriale” fu accolta da Dubcek e dai riformisti con comprensibile entusiasmo. Ma, Breznev, che già pensava ad invadere la Cecoslovacchia, pretese di inserire il principio secondo il quale “la difesa e il consolidamento delle conquiste realizzate dagli Stati del blocco sono un dovere internazionalista degli Stati stessi”, riaffermando così la teoria della “sovranità limitata”. “Martedì 20 agosto fu un tipico giorno estivo, caldo, con un sole velato. Praga era piena di turisti, intere famiglie passeggiavano o sedevano nei parchi. La città, anzi l'intero paese era tranquillo...era inconcepibile pensare che nel giro di poche ore i carri armati sovietici ci avrebbero assalito”. Così Alexander Dubcek, leader della Primavera di Praga, ricorda quel giorno del 1968 nella sua autobiografia Il socialismo dal volto umano. Fu un giorno che segnò l'apertura di una ferita lunga più di vent'anni e che vide i carri armati dei paesi aderenti al Patto di Varsavia, U.R.S.S., Bulgaria, Ungheria, Polonia e Germania Est (la Romania non aderì), calpestare le strade di Praga, per mettere la parola fine a un processo politico il cui obiettivo, sempre secondo Dubcek, doveva essere “la creazione delle condizioni necessarie a ogni individuo per auto affermarsi in tutte le sfere del lavoro e della vita”. Era stato convocato proprio in quel giorno la riunione dell'ufficio di presidenza del Partito comunista cecoslovacco, presieduto da Dubcek, per fare il punto sulle conquiste della Primavera di Praga e per esaminare le possibilità concrete di realizzazione del Programma d'azione, per aprire la strada alle riforme e per preparare le risoluzioni per l'imminente XIV congresso del partito. Ma la riunione si interruppe poco prima di mezzanotte, quando il premier Cernik fu avvisato telefonicamente dell'invasione. Dubcek è onesto nell'ammettere che la sua interpretazione dei disegni sovietici si era dimostrata del tutto errata: “Quella notte compresi quanto profondo fosse stato il mio sbaglio – scrive – le esperienze drastiche dei giorni e dei mesi che seguirono mi fecero capire che avevo a che fare con dei gangster”. Infatti...... Jan Palach avvertì in tutta la sua tragica intensità quell'evento. E sceso in piazza con migliaia di concittadini dette sfogo ad un incontenibile pianto. Quella notte del 20 agosto, si erano infranti tutti i suoi sogni, le aspirazioni democratiche dei riformisti liberali e del popolo boemo e slovacco. Dubcek e i riformatori più in vista furono sequestrati e portati al Cremlino, dove cominciarono le “trattative” per ristabilire la situazione politica nel paese invaso, naturalmente alle condizioni sovietiche che vedevano il nemico principale nella politica riformista del nuovo corso, apertosi nel gennaio 1968 con l'elezione di Dubcek a capo del Partito. Dieci anni dopo, nel 1978, Vaclav Hevel, destinato a diventare il primo presidente della Repubblica Ceca libera, nel suo libro Il potere dei senza potere, scrisse “il tentativo di riforma politica non fu la causa del risveglio della società, ma il suo esito ultimo. La Primavera di Praga è stata la proiezione finale di un lungo dramma nell'ambito dello spirito e della coscienza della società”.


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Il dolce tepore della primavera praghese, arrivata con molto anticipo rispetto a quella del calendario, riuscì appena a scuotere il monolitico regime comunista sovietico che, nei giorni successivi alla stabilizzazione dell'ordine a Praga, dette luogo ad una rilevante epurazione. Infatti, oltre mezzo milione di persone furono costrette alle dimissioni o furono espulse dal partito, particolare quest'ultimo che nei regimi comunisti rappresentava un marchio d'infamia e precludeva ogni possibilità di impiego in lavori qualificanti. Gli intellettuali, i giornalisti e gli esponenti politici artefici della Primavera di Praga diventarono operai, camerieri, muratori. Dubcek finì a lavorare come manovale in una azienda forestale della Slovacchia. Ma perché quell'invasione e soprattutto in cosa consistevano le ambizioni di quel paese satellite, così bruscamente calpestate dall'Urss e dai carri armati degli altri paesi del Patto di Varsavia? Il popolo cecoslovacco non fu mobilitato dai miti che invece caratterizzarono la contestazione dei giovani dell'Occidente: il maoismo, la rivoluzione cubana di Fidel Castro e di Che Guevara, il terzomondismo delle variegate sinistre; il sessantotto cecoslovacco fu semplicemente la lotta di un popolo per la conquista della libertà e dei diritti civili, per ricollocare l'uomo al centro della società, subordinando alla sue scelte gli interessi economici o del Partito. Ma per tutta la Cecoslovacchia quelli furono i giorni dell'umiliazione e della resa che si protrassero fino alla primavera del 1969, quando la Primavera di Praga fu definitivamente schiacciata. Il popolo cecoslovacco fu duramente fiaccato nell'animo e il rogo del 19 gennaio di quell'anno, in cui si spense volontariamente il giovane Jan Palach, fu la più tragica testimonianza del dolore per la definitiva perdita di libertà, ma soprattutto di speranza che colpì quel popolo. Jan decise di suicidarsi morendo carbonizzato, lasciando però intatti, come un testamento politico, i suoi scritti, conservati in uno zainetto, tenuto volutamente lontano dalle fiamme. Tra le dichiarazioni trovate nei suoi quaderni, spicca questa: "Poiché i nostri popoli sono sull'orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l'onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l'abolizione della censura e la proibizione di Zpravy (il Notiziario delle forze d'occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s'infiammerà". Per celebrare l'eroico gesto di Jan Palach e per esprimere la solidarietà della gioventù nazionale all'eroico popolo cecoslovacco, organizzai ad Isola del Liri una pacifica manifestazione. Un corteo di auto sulle quali svettavano le bandiere italiane e cecoslovacche e una grande immagine di Jan Palach si snodò lungo il Corso Roma per raggiungere il Monumento ai Caduti per la Patria. Sedevo a destra del conduttore della prima auto che trasportava, legata strettamente sul cofano, una grande corona di fiori.


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Era una bella domenica di gennaio e, lungo il corso Roma, si erano formate due ali di folla. Diverse persone applaudivano, altre osservavano ammutolite. Ma prima di arrivare sul Ponte Napoli, mi avvidi che sulla destra in un punto non affollato, un concittadino, detto “coscia”, custode del mattatoio comunale, invalido,

comunista e noto per la sua

violenza, stava posizionando le sue pesanti stampelle, come se avesse intenzione di usarne una alla stregua di una forte clava. Fu vera la mia percezione, perché feci appena in tempo a piegarmi sotto il cruscotto, per sentirmi sfiorare la testa da un colpo violentissimo che mi avrebbe senza dubbio spaccato il cranio, in quanto fu talmente forte da piegare il montante del parabrezza. Franco Ceci di Alatri, che guidava l'auto, accelerò e riuscimmo ad evitare altri colpi. Così fecero la seconda e terza vettura, la quarta non fece in tempo perché fu bloccata da un gruppo di comunisti che estrassero violentemente dall'abitacolo Giovannino Mainella, lo aggredirono selvaggiamente e lo costrinsero ad essere ricoverato in ospedale. Comunque, evitammo gli scontri per raggiungere il Monumento ai Caduti per la Patria, dove fu collocata la corona di fiori e dove svolsi un commovente intervento. Dopo la caduta del comunismo, il mio viaggio a Praga, insieme a Luisa, fu un vero e proprio pellegrinaggio. Quando ci recammo in Piazza San Venceslao per visitare il luogo del martirio di Jan Palach, non riuscimmo a contenere la commozione. Sotto il monumento, proprio nel punto dove Jan si fece divorare dalle fiamme, giovani italiani avevano deposto un mazzo di fiori ed esposto un manifesto che riportava, scritto a pennarello, il testo della canzone di Francesco Guccini Primavera di Praga.

Di antichi fasti la piazza vestita grigia guardava la nuova sua vita, come ogni giorno la notte arrivava, frasi consuete sui muri di Praga, ma poi la piazza fermò la sua vita e breve ebbe un grido la folla smarrita quando la fiamma violenta ed atroce spezzò gridando ogni suono di voce...

Son come falchi quei carri appostati, corron parole sui visi arrossati, corre il dolore bruciando ogni strada e lancia grida ogni muro di Praga. Quando la piazza fermò la sua vita,


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sudava sangue la folla ferita, quando la fiamma col suo fumo nero lasciò la terra e si alzò verso il cielo, quando ciascuno ebbe tinta la mano, quando quel fumo si sparse lontano, Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava all'orizzonte del cielo di Praga...

Dimmi chi sono quegli uomini lenti coi pugni stretti e con l'odio fra i denti, dimmi chi sono quegli uomini stanchi di chinar la testa e di tirare avanti, dimmi chi era che il corpo portava, la città intera che lo accompagnava, la città intera che muta lanciava una speranza nel cielo di Praga,

dimmi chi era che il corpo portava, la città intera che lo accompagnava, la città intera che muta lanciava una speranza nel cielo di Praga, una speranza nel cielo di Praga, una speranza nel cielo di Praga...

Durante la nostra permanenza a Praga chiesi se con il ritorno alla democrazia fosse stata intitolata una via o una piazza alla memoria del giovane martire boemo. E' la piazza antistante la facoltà di filosofia da lui frequentata in vita: Namesty Jana Palacha, dove ci avviammo con l'intento di scattare qualche foto. Era una splendida mattinata e la segnaletica della piazza di metallo color rosso con una cornicetta bianca rifletteva i raggi del sole, rendendo difficile mettere a fuoco la mia Minolta. Mi spostavo, perciò, da un punto all'altro, per trovare la posizione migliore, quando avvertii la pressione di un corpo sul mio lato destro. Allontanai la macchina fotografica e mi voltai: un uomo di circa settant'anni mi sovrastava e mi guardava con un'espressione carica di odio. Per la prima volta nella mia vita ho conosciuto lo sguardo di un assassino. Enzo Bettiza fu il corrispondente da Praga del Corriere della Sera e su quei tragici eventi ha scritto il libro La Primavera di Praga. Quando gli è stato fatto presente che Luciana Castellina su Il Manifesto ha messo in evidenza il fatto che chi occupava le università europee si era dimenticato della vicenda praghese, ha risposto: “La Castellina


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mi da ragione. Il '68 fu monopolizzato dai movimenti studenteschi occidentali, dimenticando completamente il vero e unico movimento studentesco dell'Est. Da un lato avevamo un rivoluzionarismo velleitario che parlava di una non meglio comprensibile “tolleranza repressiva”. Dall'altra avevamo la repressione intollerante e assoluta rappresentata dai carri armati. I movimenti studenteschi che affollavano le piazze per il Vietnam, non vedevano il Vietnam che avevano in casa. Per Praga non si fece una dimostrazione. Manifestavano solo per un Vietnam lontano”. Alla osservazione che i “sessantottini” avevano già capito che l'Urss non realizzava il vero comunismo, Bettiza ha precisato: “Se il comunismo non realizzato manda i carri armati, perché tacere? La violenza è stata tuttavia comprovata dall'assenza di reazione della masse studentesche occidentali. Perché inneggiare a Mao e tacere su Breznev? Diciamo la verità. La democrazia era venuta a noia ai figli di papà occidentali. La libertà aveva stufato perché non sapeva di guerra. Sapeva troppo d'olivo e di pace in un'Europa abituata a farsi la guerra ogni venti anni. C'era una certa noia in giro. Da questo era nata la possibilità di improvvisare sceneggiature

rivoluzionarie inesistenti. A Praga, invece, non c'era alcuna

rivoluzione in corso, bensì un riformismo liberaleggiante che desiderava un ritorno alla democrazia calpestata”. E con riferimento al suicidio del giovane Jan Palach, così ha risposto Bettiza: “Ricordo che mi avvicinai ad un sacerdote della comunità evangelica cui apparteneva Palach e gli dissi: “Per voi lui è sicuramente un grande patriota, ma è un suicida e, quindi, non meritevole di sepoltura cristiana”. Mi rispose: ”No, quello di Palach non è un caso di suicidio, ma di sacrificio personale non soltanto per la nostra Patria, bensì per l'Europa” e concluse:”Dio non può non accettarlo. Si ricordi che le Sacre Scritture distinguono tra il suicidio di Giuda e quello di Sansone”.


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New Age

Ancora una volta, la constatata impossibilità di vedere modificati, con ogni mezzo, gli assetti del mondo, così come erano stati configurati con i Patti di Yalta, sottoscritti dalle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, mi procurò una profonda crisi esistenziale.

Per un breve periodo di tempo, pertanto, fui influenzato dalle teorie del movimento New Age, forse perché ogni forma di religione organizzata non soddisfaceva le mie esigenze spirituali. La tesi principale del New Age è che il sole cambia di segno zodiacale ogni 2150 anni circa, per cui all'Età dei Pesci, sorta nell'anno 1 dopo Cristo, dovrebbe subentrare l' Età dell'Acquario verso l'anno 2150. L'Età dei Pesci coincide con quella di un cristianesimo gerarchico e politico (sotto il segno di S. Pietro), mentre l'Età dell''Acquario rappresenterà un cristianesimo spirituale ed esoterico (sotto il segno di S. Giovanni). L'acrostico formato dalle parole greche che indicano Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore ha delle iniziali che in greco danno la parola "pesce". L'Età dei Pesci è determinata da razionalità, conformismo, paura, dolore, fanatismo, violenza; l'Età dell'Acquario invece è caratterizzata da emotività, espressività del corpo, energia di mente-spirito, visione magica del mondo. I seguaci del movimento New Age vengono detti anche Acquariani.

Pertanto, era forte l'illusione che il New Age comportasse una profonda svolta storica, in quanto era fortemente coinvolgente la suggestiva previsione di alcuni astrologi, secondo la quale l'attuale Età dei Pesci dovesse essere sostituita, all'inizio del terzo millennio, dall'Età dell'Acquario.

L'Età dell'Acquario rivestiva un posto centrale nel movimento New Age per l'influenza della teosofia, dello spiritismo, dell'antroposofia e dei loro precedenti esoterici, e rappresentava il desiderio di un globale e imminente mutamento nella nostra cultura e nel modo di rapportarsi al mondo.


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Le generalizzate previsioni del futuro, rappresentate però moderatamente, facevano intravedere una spiritualità planetaria confusa con le religioni separate; le istituzioni politiche planetarie a completamento di quelle nazionali; le entità economiche globali più democratiche e partecipative; la forte enfasi sulla comunicazione e sulla educazione; la combinazione della medicina ufficiale con l'auto guarigione; la totale integrazione di scienza, misticismo, tecnologia ed ecologia.

Tra le tradizioni che confluirono nel New Age vi furono antiche pratiche occulte egiziane, la cabala, il primo gnosticismo cristiano, il sufismo, la sapienza dei druidi, il medievale, il cristianesimo celtico, l'alchimia, l'ermetismo rinascimentale, il buddismo zen, lo yoga”.

Insomma, un “sincretismo di elementi esoterici e secolari”, collegati gli uni agli altri dalla diffusa percezione che i tempi fossero maturi per un cambiamento fondamentale degli individui, della società e del mondo.

In questo contesto, venne spesso utilizzata l'espressione “mutamento di paradigma”, e si diffuse la forte convinzione che tale passaggio non fosse solo desiderabile ma inevitabile.

Il rifiuto della modernità, che stava alla base del desiderio di cambiamento, non era nuovo, ma poteva essere descritto come un risveglio moderno di religioni pagane mescolato con influssi delle religioni orientali, della psicologia moderna, della filosofia, della scienza e della controcultura sviluppatasi negli anni '50 e '60.

Il New Age non fu altro che il testimone di una rivoluzione culturale, una reazione complessa alle idee e ai valori dominanti della cultura occidentale e tuttavia il suo criticismo idealista fu paradossalmente tipico proprio della cultura che combatteva.

I primi simboli di questo “movimento” che penetrarono nella cultura occidentale furono il famoso festival di Woodstock nello Stato di New York nel 1969 e il musical Hair, che espose i temi principali del New Age nell'emblematica canzone Aquarius.

Tuttavia, essi furono soltanto la punta di un iceberg, le cui reali dimensioni sarebbero apparse solo in seguito.

L'idealismo degli anni '60 e '70 sopravvive ancora in alcuni ambienti, ma ora non sono coinvolti in modo predominante gli adolescenti.

Sono svaniti i legami con l'ideologia politica di sinistra e le droghe psichedeliche non sono affatto importanti come una volta.

Sono accadute talmente tante cose da allora che tutto ciò non sembra più rivoluzionario.

Le tendenze “spirituali” e “mistiche”, prima limitate alla controcultura, sono ora parte della cultura dominante e riguardano aspetti diversi della vita quali la musica, la medicina, la scienza, l'arte e la religione.


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Il mutamento culturale apportato dal movimento New Age ha avuto delle enormi conseguenze sulla cultura occidentale e sullo stile di vita delle persone, accentuando la sensibilità sulle più urgenti necessità del mondo contemporaneo per “un modo di vita decisamente migliore”.

E’opportuno però precisare che le manifestazioni

spirituali che coinvolgevano i soggetti più predisposti non

provenivano da Dio, nonostante venisse utilizzato quasi sempre un linguaggio d'amore e di luce, ma da autosuggestione collegabile più a forme di spiritismo che a vere e proprie manifestazioni di spiritualità.

L'influenza che la New Age ebbe sulla mia cultura, dettata più che altro dalle mode di quegli anni, fu di breve durata, perché le teorie che sono alla base del movimento New Age le avevo già respinte, quando nei dibattiti interni al partito, gli “spiritualisti” che si rifacevano al pensiero dei filosofi tradizionalisti, in particolare di Julius Evola, ne facevano l'elemento di forza del loro impegno.


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Anni '70


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La nascita di Piergiorgio

Questo tonfo nel passato aveva interrotto la conversazione con Luisa che stava ricordando l’occasione del nostro primo incontro. Dalla morte di Piergiorgio mi capitava sovente di perdere il contatto con la realtà effettuale. Luisa lo aveva capito e ritenne di non intervenire ulteriormente, mi guardava con una certa curiosità, come se volesse carpire i miei pensieri. Compresi questa sua esigenza e ritenni, perciò, di aggiungere alcuni particolari, tornando indietro nel tempo a quella serata brumosa del novembre 1960. Fu il mio primo comizio. L’emozione di quella prima esperienza oratoria fu paragonabile a quella che provai un’ora dopo, quando fummo presentati da Leandro Iafrate nella stessa piazza, al termine della manifestazione. Da quel momento iniziò il nostro amore, ma anche una lunga collaborazione politica. Io, come braccio destro del federale Cesare Squadrelli, e Luisa, nella qualità di segretaria femminile provinciale del MSI. Alcuni anni prima avevo subito l’influenza della contestazione, generata dalla lettura di On the road di Keruack, dalla beat generation, e, more solito, dai fermenti intellettuali dei campus universitari americani; così come negli anni precedenti ero stato affascinato dal mito della Gioventù bruciata di James Dean. Vinsi finalmente un concorso pubblico; e con la mia definitiva sistemazione, decidemmo di sposarci il 1° luglio 1968, proprio quando, per effetto della contestazione giovanile, anche l’istituto familiare cominciava a vacillare. Le mie impegnative battaglie, svolte in un ambiente difficilissimo come Isola del Liri, dove da sempre dominavano i comunisti, furono premiate nel 1970 dal primo successo politico con la elezione a consigliere comunale. La tanto attesa notizia che eravamo in attesa di un figlio completò il quadro di un momento felice, dopo tante traversie. Ma le nubi nere di una nuova bufera avanzavano minacciosamente. Questi ricordi esercitarono un doloroso effetto su Luisa che scoppiò in un pianto struggente e coinvolgente.


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La strinsi a me con tenerezza; capii che la conversazione, provocata dalla uccisione del giovane Giuliani, stava per aprire un capitolo doloroso: la vita e la morte di Piergiorgio. Alla dolcezza di Luisa, alla sua grazia, alla sua devozione, ma soprattutto al suo stoicismo devo la mia rinnovata e giusta considerazione per le donne. Appena adolescente, mi era successo di conoscere gli aspetti più deteriori della personalità dell’altro sesso, tanto che neanche l’amabilità e la serietà di mia madre riuscivano a farmi cambiare opinione, forse perché, a causa della mia timidezza, le mie passioni romantiche giammai venivano condivise dalle coetanee di cui ero solito innamorarmi. Purtroppo, le conoscenze che caratterizzarono la mia esperienza di musicista non fecero altro che confermare questa errata convinzione; probabilmente perché non mi rendevo conto che le donne che frequentavo negli ambienti dove si svolgeva la mia attività artistica avevano una particolare predisposizione: un’insaziabile voglia di bruciare la vita.

“Capisco a che cosa stai pensando. Ne parliamo spesso. Certo non è stato facile superare le prove difficilissime alle quali sono stata sottoposta. Ma, con il cuore affranto, ringrazio il buon Dio e la Vergine Santissima per la missione che mi hanno assegnato per nobilitare la mia esistenza”.

Le sofferenze sopportate con rassegnazione e con amore per circa trent’anni, dalla malattia alla morte di Piergiorgio, le conferivano spesso un aspetto mistico. In molte occasioni, specialmente quando teneva in braccio Piergiorgio, ormai adulto, la visione della Pietà di Michelangelo, si sovrapponeva a quella che sovente, giorno dopo giorno, si manifestava ai miei occhi.

“A volte, quando penso di averti coinvolta nel mio destino, sento come se fossi stato io la causa delle tue immani sofferenze. Poi la tua serenità, che promana da una profonda Fede, mi convince che tutto era scritto”.

Luisa aveva deciso di partorire in una clinica di Roma, Villa Bianco, consigliata da zia Caterina, ginecologa. Alle prime doglie, partimmo accompagnati premurosamente dalla madre. La bella giornata del 16 febbraio 1972 pareva essere il preludio di un avvenimento che si presentava sotto buoni auspici. Arrivammo verso la tarda mattinata; dopo il ricovero di Luisa, mia cognata Cia mi invitò a casa, per mettere qualcosa sotto i denti. Avevo appena consumato il primo piatto, quando mi fu comunicato che era nato un bel bambino. Interruppi il pranzo, per raggiungere con urgenza la clinica, ubicata all’EUR. Percorrendo la Cristoforo Colombo, non riuscii ad evitare una buca profonda che fece sobbalzare il mio Maggiolino Wolkswagen. L’ autoradio, anch’essa tedesca, che apprezzavo molto per la chiarezza del suono e che avevo subito acceso per sottolineare con un po’ di buona musica la mia felicità, non resistette al forte impatto e si spense per sempre. Avvertii una brutta sensazione, come un cattivo presagio. Era già accaduto altre volte di non aver potuto gustare per un lungo periodo le parentesi di felicità che non sono mancate nel corso della mia esistenza, perché una particolare attitudine mi consentiva di sentire che la quiete non succedeva alla tempesta, come nella Pastorale di Beethoven, ma preannunciava un altro dramma di più grandi dimensioni. E ciò anche se per natura non sono affatto un pessimista. Battezzammo nostro figlio, chiamandolo Piergiorgio: l’unione del nome di mio padre, Pietro, con quello di Giorgio Almirante.


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Alcuni mesi dopo, in un pomeriggio di novembre, io e mio figlio, che aveva compiuto otto mesi, eravamo soli in casa. Ascoltavo musica classica, a basso volume, per non disturbare Piergiorgio che dormiva poco distante nella sua culla. Mi risuonano spesso nella mente le trascinanti e struggenti note del primo concerto per pianoforte e orchestra di Tchaikosky suonato dal più grande pianista di tutti i tempi, Arthur Rubinstein. La dolce atmosfera domestica e la tranquillità dei miei pensieri mi davano un senso di totale completezza. La musica, a volte travolgente e talora espressione di toni soffusi, riempiva la serenità di quel momento, alimentando l’armonia dell’ambiente familiare. Improvvisamente, uno strano rumore proveniente dalla camera da letto ebbe l’effetto del tuono che preannuncia la tempesta. Mi alzai, corsi, entrai nella stanza: Piergiorgio era cianotico; un rigurgito di latte lo stava soffocando. Lo presi per le caviglie, mettendolo a testa in giù, mentre ancora una volta chiedevo l’intervento della Provvidenza. Intanto, Luisa era tornata a casa. La sua serenità fu drammaticamente stroncata dallo spettacolo che apparve ai suoi occhi. Piergiorgio era vivo, ma una violenta convulsione mise in evidenza la sua gravità. Non era il momento delle spiegazioni. Non perdemmo nemmeno un minuto di tempo. Avvolgemmo Piergiorgio in una coperta di lana e, con i cuori gonfi di disperazione, corremmo in ospedale. Salvammo la vita di nostro figlio, ma da quel momento iniziò per noi una Via crucis durata trent’anni che continuerà per sempre nel ricordo della tragica esistenza di Giorgino, come spesso lo chiamavamo, forse perché volevamo ricordarlo sano e bello, con i suoi grandi occhi azzurri, così come era da bambino, prima di quel maledetto 6 novembre del 1972. Era troppo. Decisi, perciò, di abbandonare l’ attività politica, per dedicarmi esclusivamente a mio figlio.

“No, Bruno, non devi farlo. Sarebbe la tua fine, ma anche quella mia e di Piergiorgio, perché senza gli stimoli e gli interessi dell’impegno politico, la tua vita diventerebbe sempre più arida. E se l’amore per nostro figlio potrà sicuramente compensare ogni tua rinuncia, è comunque necessario conservare una molteplicità di interessi, perché l’immane impegno che ci aspetta richiede una forza d’animo smisurata e un grande equilibrio”. Luisa aveva compreso la mia condizione. Ero avvilito e senza speranza. In un solo momento, era venuta meno ogni prospettiva. Non intravedevo più la linea dell’orizzonte. Avevo perduto la definizione del futuro, mentre il presente richiamava un triste passato.

“Come potrò mai affrontare le asperità della politica, con il suo cumulo di invidie e cinismo, la prepotenza dei suoi protagonisti che spesso celano dietro un falso idealismo l’arrivismo più spietato? Il mio galantomismo mi ha sempre reso vulnerabile, anche se il forte intuito, che sfiora la preveggenza, mi ha consentito di non essere schiacciato. Ma ora che gran parte delle risorse fisiche e morali dovrò dedicarle a Giorgino, come potrò difendermi dalle prevedibili aggressioni? Non farti illusioni, cara Luisa, nessuno avrà pietà per questa mia dolorosa condizione, perché nella politica, che è la continuazione della guerra con armi diverse, mors tua vita mea è il principio prevalente”.

Questo insolito pessimismo era alquanto comprensibile, avevo sempre dichiarato a Luisa che la nascita di un figlio, per continuare le mie battaglie politiche, rappresentava il massimo delle mie aspirazioni. Ora, la consapevolezza che Giorgino non sarebbe stato autosufficiente per tutta la vita, mi negava il diritto alla speranza.


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“E’ comprensibile il tuo stato d’animo. Dobbiamo riorganizzare la nostra esistenza, così come avviene dopo un’atroce sconfitta. Ti sarò vicina, accentuando il mio amore, e mi farò carico della maggior parte degli impegni che richiederà l’assistenza di nostro figlio. Ma il destino ti ha riservato anche la conquista di alte mete; conosco molto bene le tue capacità. Non ti arrendere. Mai”.

Consultammo i migliori specialisti. Un ricovero dietro l’altro impegnò massimamente Luisa. Come la Madonna addolorata la si vedeva con il figliolo crocifisso in braccio salire in macchina e andare a Frosinone, per un lungo ciclo di riabilitazione psicomotoria. A me era riservata l’assistenza notturna. Dividevo le mie notti insonni con il lavoro e con l’impegno politico, cercando di non apparire mai depresso e senza scopi. Soltanto oggi, dopo la morte di mio figlio, ho maturato la certezza che l’Onnipotente abbia voluto sottoporci ad un’immane prova, per farci conquistare una dimensione sempre più alta. Il mio spirito si rafforzava e, mentre continuava senza sosta il mio impegno politico, mi preparavo ad affrontare altre sofferenze.


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La morte di mamma e di papà

A distanza di pochi mesi, si ammalò mia madre. In un primo momento, il medico curante diagnosticò una banale influenza. La lunga cura antibiotica non sortì alcun effetto. Si decise finalmente di effettuare un esame istologico. Esito: reticolosarcoma. Le restava qualche mese di vita. Da tempo, dopo aver razionalizzato il senso drammatico dell’esistenza, cercavo di prepararmi a questo evento che rientrava nell’ordine naturale delle cose. Allontanavo da me questo doloroso pensiero, pensando alla forte tempra e alla giovane età di mia madre. Non poteva il buon Dio privarmi proprio in quel momento della sua affettuosa condivisione. Nei momenti più difficili avevo fatto sempre ricorso a lei, come mi capitava di fare da bambino, quando, svegliato da un incubo notturno, correvo nel suo letto per accoccolarmi ai suoi piedi. “Ho quella brutta bestia, vero? Potete anche dirmelo, sono pronta a tutto”, mi disse, alludendo al tumore, dopo tanti mesi di sofferenze, durante i quali dovetti dividermi tra mamma, Giorgino, il lavoro e l’impegno politico. Avevo ormai deciso di continuare, sopportando qualsiasi prova, con la nobiltà di un indomito cavaliere medioevale. L’accompagnavo settimanalmente a Roma dal Prof. Mandelli, per una cura antiblastica. L’ultima volta, un triste presentimento mi indusse a girare verso di me lo specchietto retrovisore della mia Maggiolino, per osservarla, senza essere visto, durante tutto il viaggio. Il suo viso, un tempo bello e dolce, era sfigurato dal male. Non c’era più speranza. Riuscii, comunque, a smorzare il pianto in gola. Mi riservai di lasciargli ogni sfogo in un momento di solitudine. Il Prof. Mandelli decise l’immediato ricovero. Riuscimmo a trovare un posto nel 5° padiglione del Policlinico, per l’affettuoso interessamento di Alberto. Non c’era altro. Le condizioni di mia madre erano disperate. Aveva bisogno di cure urgenti.


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Uno squallido camerone con una settantina di malati terminali. Mia madre fu posta in fondo, nell’angolo sinistro; era stato liberato poco prima da un ammalato appena deceduto. Quasi tutti i giorni, dopo l’orario di lavoro, correvo a Roma, per accertarmi delle sue condizioni. Pensavo alle ore notturne trascorse vicino a Giorgio e alla trasfigurata immagine di mia madre, ricoverata in fondo ad uno squallido camerone. Un intermittente gioco di dissolvenze, sovrapponeva i due volti. Da un Golgota all’altro. Ogni volta, per raggiungere il letto di mia madre, dovevo attraversare tutto il camerone. Un percorso interminabile tra inenarrabili sofferenze che evocava la via dolorosa del Calvario. Ad interrompere il coro dei lamenti, di qua e di là, ogni tanto la mia attenzione veniva richiamata dal corpo di una inferma, appena morta, coperta da un lenzuolo. Se ne intravedevano le forme, talune anche belle, probabilmente appartenenti a qualche giovane. La pietosa copertura nascondeva la fissità di quei corpi e rendeva più sopportabile un contesto struggente. Raggiunsi mia madre. Si era strappata la flebo e delirava. La chiamai ripetutamente, ma non ebbi risposta. La scossi e invocai l’aiuto degli infermieri. Nessuno interveniva. Dovetti constatare che nell’anticamera della morte, come era definito in quei tempi il 5° padiglione del Policlinico, proprio la consapevolezza della fine imminente accentuava l’indifferenza del prossimo. Medici, infermieri e i pochi familiari degli altri pazienti, probabilmente perché erano irretiti dalla rassegnazione e dalla consapevolezza dell’inutilità di ogni intervento, non erano solleciti all’invocazione di aiuto. Anche l’abitudine li aveva privati di ogni umana sensibilità. Telefonai, allora, a mio fratello Oscar; raggiunse Roma da Terni in poco più di un’ora. Chiedemmo l’urgente presenza del primario che arrivò subito, dopo aver minacciato però l’intervento del sottosegretario alla sanità, amico di Oscar. Ci chiese premurosamente di seguirlo nel suo studio.

“Sento, prima di ogni cosa, il dovere di porgervi le mia scuse. Questo è un luogo di morte. Mi dispiace non avervi dato prima questa informazione. Voi siete due figli meritevoli della mia alta considerazione. Quasi tutti gli altri familiari portano qui i loro cari allo stato terminale e, lasciando il loro recapito, ci chiedono di informarli a decesso avvenuto. E’ raro un interessamento come il vostro; segno evidente che è smisurato l’amore che nutrite per la vostra mamma”.

Non riuscimmo a comprendere se il primario si esprimeva in questi termini per smorzare le nostre motivate proteste o se invece stava rappresentando onestamente una sconvolgente realtà. Ascoltammo, però, il suo consiglio: con un’ambulanza della Croce Verde riportammo nostra madre a Isola del Liri, ricoverandola nel locale ospedale. Le fu riservato una confortevole cameretta. La efficace assistenza sanitaria, ma soprattutto la costante presenza dei familiari, la fece rinascere a nuova vita. Cominciammo a sperare. Per qualche settimana Giorgino fu privato della mia assistenza notturna. Il vistoso miglioramento di mia madre richiedeva la mia presenza.


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Decisi di dormire in ospedale, collocando vicino al suo letto uno sgangherato lettino da campeggio, sul quale trascorrevo scomodamente la notte, per partire di mattino presto e raggiungere puntualmente la sede dell’INAIL, a Frosinone. Tra Luisa e mamma si era creata sin dal primo momento una grande e reciproca simpatia; quasi sicuramente perchè la presenza in famiglia di Luisa colmava il vuoto lasciato da Edda e da Enza. Ma soprattutto perchè, come i fatti dimostreranno, erano legate, senza esserne consapevoli, da una predestinata affinità elettiva che rendeva parallele le loro vite. Pertanto, a Luisa non costò soverchia fatica addossarsi completamente l’assistenza di Piergiorgio. Fu proprio allora che compresi il ruolo centrale della Madonna e dell’Incarnazione nel cristianesimo: Dio si fa uomo attraverso la donna, per salvare l’umanità. Il miglioramento di mia madre era quello tipico che precede la morte. Ebbe, però, il tempo di abbracciare tutti e di organizzare i suoi funerali. Chiese di collocare fiori dappertutto, particolarmente lungo le scale. Aveva sempre amato la bellezza. La stima e l’affetto che le avevano procurato la sua bontà e la sua generosità fu dimostrata da una folla immensa e dalla presenza ai funerali del mio leader politico e maestro di vita: Giorgio Almirante. Per un lungo periodo mi chiusi in casa, dove ebbi l’amorevole conforto di Luisa e di Giorgino, che non poteva capire le motivazioni di tanto dolore, ma mi guardava con i suoi profondi e intensi occhi azzurri; l’angolo azzurro della mia vita. L’esistenza di mio padre si trascinò per qualche anno. Non si era mai allontanato da mia madre, se non per le ore di lavoro e per il tempo del suo internamento nel campo di prigionia di Padula. La malattia di Giorgino e la morte di mamma lo convinsero definitivamente dell’ineluttabilità di un destino atroce, che lui riteneva addebitabile ad una maledizione. Dopo una breve malattia, morì. Il 30 aprile 1979.


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Anni '80 e '90


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Il sindacato

Quasi a dimostrare che nei grandi progetti sono i piccoli elementi che contribuiscono notevolmente a dare ad esso il giusto senso, ripensai ad un fatto, accaduto alcuni mesi dopo la morte di mio padre, che mi era apparso di scarsa importanza o al limite dettato da una fortuita circostanza, ma che a ben vedere aveva determinato una svolta fondamentale nella mia vita. Avvenne nel corso di una delle frequenti riunioni organizzative del sindacato, quando il sanguigno segretario nazionale, Bernardo Salvini, che ricordo sempre per l’ amabilità e per la competenza, al termine della sua relazione, mi fece per l’ennesima volta la richiesta di impegnarmi a tempo pieno nell’attività sindacale, per la quale mostravo una particolare attitudine.

“Devi finalmente prendere una decisione. Non puoi passare il resto della tua vita dietro una scrivania. Sono trascorsi ormai molti anni dalla mia prima proposta di distacco sindacale. Perciò, anche in considerazione delle ingiustizie che tu hai dovuto patire per i mancati riconoscimenti delle mansioni superiori, ti invito ancora una volta a valutare positivamente l’opportunità che ti viene insistentemente offerta”.

Non mi fu difficile ribadirgli i motivi del mio rifiuto.

“Ti ringrazio affettuosamente per le tue continue attestazioni di stima, ma ho vinto un impegnativo concorso, perché ho sempre aspirato ad una brillante carriera nella pubblica amministrazione. E’ lontana da me ogni tentazione di venirmi ad imboscare nella struttura del sindacato, sia pure per una comprensibile reazione alla ingiustizia subita. Sono in grado di conciliare le mie aspirazioni con le esigenze del sindacato, come del resto ho finora fatto”.

Contrariato, Bernardo mi rispose che l'attività politica non mi avrebbe portato molto lontano. Comunque ogni sua ulteriore insistenza risultò vana, fino a quando, per aver sollevato uno scandalo perpetrato ai danni dell’INAIL dal responsabile del Servizio Meccanizzazione, la mia posizione diventò sempre più difficile.


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Accettai di essere distaccato presso il sindacato; mi fu affidato il delicato compito delle vertenze collettive, che, nell’epoca delle ristrutturazioni aziendali, mi consentì di conseguire importanti e significativi risultati a difesa dei lavoratori della provincia di Frosinone. Alla FIAT di Piedimonte S.Germano, nel corso di un’assemblea di fabbrica, mi fu concesso di prendere la parola, dopo che a Bertinotti, all'epoca dei fatti segretario generale aggiunto della CGIL, era stato addirittura precluso l’ingresso nello stabilimento. Il fatto fece scalpore, perché la Fiat era da sempre il feudo del sindacato socialcomunista. Nello stesso periodo, affrontai con molto entusiasmo la vertenza della Pennitalia di Roccasecca; un’importante multinazionale americana all’interno della quale la triplice sindacale aveva da sempre spadroneggiato, determinando un crisi di vasta portata. Riuscii, dopo un duro confronto sostenuto con i vertici aziendali, capeggiati dal massimo esponente europeo della Vernante Pennitalia, a sottoscrivere l’accordo che evitò la chiusura dello stabilimento, scatenando le ire degli altri sindacati, i quali scrissero una infuocata lettera di protesta alla sede centrale di Pittsburg, con la quale significarono che, per la prima volta in Italia, erano stati esclusi da una trattativa a favore di un’organizzazione, a loro dire, neofascista. Nelle centinaia di assemblee di fabbrica, caratterizzate da una forte passione sociale, convinto sostenitore dei principi fondamentali del Sindacalismo nazionale, ebbi modo di propagandare con successo la partecipazione dei lavoratori alla gestione ed alla ripartizioni degli utili aziendali. La mia notorietà aumentò a dismisura; non ci fu vertenza che non mi vide protagonista. Piaceva la mia determinazione e la mia moderazione che contrastavano spesso con l’estremismo della organizzazione sindacale, di cui ero diventato dirigente nazionale. Fu quella anche la stagione degli anni di piombo instaurata nelle fabbriche e nelle piazze dal terrorismo delle Brigate rosse. Il mio attivismo mi espose a gravi pericoli e non mancarono anche minacce di morte, tenuto conto che nel 1980 su incarico di Giorgio Almirante, assunsi il compito di riorganizzare la federazione provinciale del MSI. E’ risaputo che in quel contesto politico i sindacati erano le cinghie di trasmissione dei partiti; la mia organizzazione non faceva eccezione. La svolta si verificò con la crisi della più importante azienda di Isola del Liri: le Cartiere Meridionali. La cartiera era sorta nell’ottocento ad opera di un finanziere francese, Charles Lefebvre, che per le notevoli benemerenze acquisite fu nominato conte di Balsorano dal Re di Napoli. Inizialmente fu chiamata Cartiera Fibreno, dopo, a seguito della costruzione della “fabbrica nova”, divenne la Cartiera del Liri. Per oltre un secolo e mezzo, questa “cattedrale del lavoro”, con il rumore delle sue numerose macchine continue, aveva scandito ogni momento della vita cittadina. Il suo rapido sviluppo l’aveva resa una delle cartiere più importanti d’Europa. Aveva superato tutte le crisi cicliche del settore; nemmeno due conflitti mondiali ne avevano minato l’esistenza. Ma l’ultima crisi del mercato della carta ne decretò la lenta e graduale fine. La vertenza delle Cartiere Meridionali, che per tanti anni caratterizzò le relazioni industriali del territorio, e il forte impegno che mi richiedeva il ruolo di capo dell’opposizione di destra nel Consiglio comunale di Isola del Liri, dominato da una larga maggioranza di sinistra, fecero sì che Isola del Liri diventasse il luogo principale della mia attività quotidiana. Soltanto in seguito mi resi conto che il motivo principale della scelta, che segnò definitivamente il mio futuro, fu quello di essere più vicino a Piergiorgio.


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Dedicai a mio figlio tutto il tempo che riuscivo a strappare ai miei impegni e ricevetti amore e incoraggiamento dalla sua dolcezza. Il trauma non gli aveva consentito l’uso della parola, ma parlavano i suoi sorridenti e profondi occhi che nemmeno la morte riuscÏ a chiudere completamente, lasciando aperto quell’angolo azzurro che dà ancora oggi colore e calore ai miei giorni.


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Il crollo del muro di Berlino e la fine del comunismo

Mentre, in Italia, gli anni ’80 furono caratterizzati dalla forte personalità di Craxi, da un diffuso e asfissiante conformismo e dalla follia terroristica, nel mondo e in Europa, in particolare, si determinarono eventi di portata storica: il crollo del muro di Berlino e la fine del comunismo. Come la storia insegna, sono sempre gli intellettuali a determinare i presupposti dei grandi cambiamenti. Nei mesi successivi al secondo conflitto mondiale, quando nell'Unione Sovietica si celebrava Giuseppe Stalin come il padre della patria e il difensore della pace dei popoli, Boris Pasternak scrisse il suo primo e unico romanzo, Il dottor Zivago. Il regime comunista proibì la pubblicazione di un libro che in buona sostanza è una autobiografia, ma che contiene la condanna senza mezzi termini degli aspetti più tragici della Rivoluzione d'Ottobre. Il libro fu, pertanto, messo all'indice dal Governo sovietico e, per logica conseguenza, determinò pesanti persecuzioni ai danni di Pasternak, costretto al più completo isolamento e ad una vita di stenti. Nel 1957, il manoscritto, attraverso ineffabili vie, uscì dal territorio sovietico e arrivò in Italia, dove venne pubblicato a cura della casa editrice Feltrinelli che lo diffuse in tutto il mondo libero, facendolo diventare il simbolo della tragica realtà sovietica per tanto tempo decantata come una sorta di paradiso terrestre. Nel 1958, a Boris Pasternak, per questo libro, venne assegnato il Premio Nobel per la letteratura, ma le rocambolesche vicende che precedettero la relativa assegnazione richiesero l'intervento dei servizi segreti occidentali. Poiché il regolamento dell'Accademia Svedese, preposta a scegliere il vincitore del Premio Nobel, prevede che ai fini del riconoscimento, l'opera letteraria debba essere preliminarmente pubblicata nella madrelingua dell'autore, l'assegnazione non era possibile, in quanto Il dottor Zivago non possedeva questo requisito.


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Però, a pochi giorni dalla cerimonia che come è noto si svolge a Stoccolma, un numero imprecisato di agenti della Cia e dell'Intelligence inglese riuscì ad entrare in possesso, all'interno di un aereo in volo per Malta, di un manoscritto in lingua russa. Gli agenti segreti disposero l'immediata deviazione dell'aereo, entrarono in possesso del manoscritto, lo fotografarono con urgenza in ogni sua parte e lo pubblicarono su carta intestata russa con le tecniche tipografiche in uso in Unione Sovietica. In un primo momento, Pasternak, sorpreso e incredulo, inviò un telegramma all'Accademia Svedese, per esprimere la sua più viva gratitudine. Però, a seguito delle gravi minacce cui fu sottoposto dal KGB, famigerato servizio segreto comunista, che lo minacciò anche di espulsione dalla Russia, comunicò a Stoccolma, suo malgrado, la rinuncia al Premio Nobel per la letteratura, dimostrando così che l'amore per la Patria superava ogni umano desiderio di fama e di riconoscimento. Fino alla sua morte, avvenuta nel 1960 nei pressi di Mosca, fu perseguitato e sottoposto al più completo isolamento, senza perciò avere la possibilità di ritirare il Premio Nobel. Nel 1965, da Il dottor Zivago, uno dei più importanti capolavori del Novecento, fu tratto l'omonimo film interpretato magistralmente da Omar Sharif e Julie Christie. Si dovette attendere la politica di riforma promossa da Gorbaciov, nel 1988, per consentire la legale pubblicazione in Russia del romanzo di Pasternak e per autorizzare, nel 1989, il figlio dell'autore Evgenij a recarsi a Stoccolma, per ritirare il premio Nobel assegnato al padre trentuno anni prima. Una sorte peggiore toccò all'altro grande scrittore dissidente Aleksandr Isaevic Solgenitsin. Le sue traversie iniziarono già nel febbraio del 1945, dopo l'intercettazione di una sua lettera in cui criticava duramente la politica di Stalin. Solgenitsin fu arrestato, rinchiuso alla Lubjanka, famigerata prigione moscovita, condannato a otto anni di campo di concentramento e al confino a vita. Cominciò una vera e propria via crucis da un lager all'altro, fino a quando, nel 1953, nel domicilio coatto di Kok-Terek, nel Kazakistan, gli fu permesso di insegnare. Finalmente, nel 1961 la rivista Novyj Mir pubblicò il suo primo capolavoro “Una giornata di Ivan Denissovic”: un appassionante e durissimo atto di accusa contro i lager staliniani e contro ogni visione liberticida. In esso Solgenitsin descrive con dovizia di particolari le terribili giornate trascorse dal deportato Ivan Denissovic, dando un'immagine veritiera e tragica delle condizioni dei campi di concentramento della Siberia, dove la vita di ogni uomo era legata ad un esile filo e dove coloro che riuscivano a sopravvivere venivano sottoposti a inaudite torture fisiche e psicologiche, per cui non era soltanto il corpo a subire le sevizie degli spietati carcerieri, ma anche i pensieri, i sentimenti, l'anima venivano sottoposti a dolorosi tormenti. Successivamente, scrisse altri due fondamentali romanzi Divisione Cancro e Arcipelago Gulag che gli fecero acquisire un'enorme popolarità. Iniziò, quindi, una lotta serrata contro il sistema di potere comunista. Ma, nel 1970 dopo l'assegnazione del Premio Nobel per la letteratura fu espulso dalla Russia e, nel 1974, ebbe perciò la possibilità di recarsi a Stoccolma per ritirare il Premio, dove pronunciò un memorabile discorso con il quale ricordò al mondo i suoi compagni massacrati nei gulag sovietici.


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Con la seconda moglie, sposata nel 1973, e i tre figli da lei avuti, si stabilì in America, per tornare infine in patria nel 1994, atterrando con l’aereo a Kolyma, simbolo dei lager staliniani, e far rientro a Mosca da Vladivostok in treno, attraversando tutta l’immensa landa russa. Solo dopo il 2000, malgrado la diffidenza con cui i suoi connazionali continuarono a trattarlo, Alexander Solgenitsin si riconciliò con il suo amato Paese, dal quale è stato a lungo perseguitato come dissidente, incontrando il presidente Vladimir Putin. Il critico letterario Antonio D’Orrico ha scritto a lettere di fuoco parole definitive sullo scrittore russo e sul suo ruolo nel Novecento: “L’importanza di Solzenicyn, non solo per la storia della letteratura ma per quella del mondo, è immensa. Spesso si dice, e con qualche ragione, che è stato Karol Wojtyla a far cadere il Muro di Berlino. Con molte ragioni in più va detto che è stato lo scrittore russo ad abbattere quasi da solo il socialismo reale e, addirittura, la filosofia da cui traeva ispirazione. Un’impresa titanica. Vi sarete chiesti in qualche momento della vostra vita a che serve la letteratura. Ecco, la letteratura in alcune occasioni può servire a questo, ad abbattere un regime, piegare un impero. E non è un’esagerazione. Basta pensare alla vita di Solzenicyn, prima ancora che leggere la sua opera, basta guardare i suoi libri, messi su un tavolo come i modelli per una natura morta, per capire quello che semplicemente è successo. Solzenicyn è una forza, come si dice in fisica ma anche nei film di fantascienza di Lucas. Ricordate il ragazzo di Tienanmen davanti al carro armato? Solzenicyn è un po’ come lui, con l’aggiunta che il carro armato l’ha smontato a mani nude. Ci sono mani più nude di quelle di uno scrittore? Però Solzenicyn non è conosciuto quanto dovrebbe essere conosciuto, in Italia specialmente.“. Alexander Isaevich Solgenitsin, morì a causa di una insufficienza cardiaca all’età di 89 anni, la sera del 3 agosto 2008. Con Pasternak e Solgenitsin anche il famoso fisico Andrej Dmitrievic Sacharov, famoso per aver messo a punto la prima bomba all'idrogeno, fu perseguitato, per la sua coraggiosa attività a favore dei diritti civili che gli valse il conferimento del premio Nobel per la pace. Nel 1947 conseguì il dottorato in fisica, intraprese ricerche sulla fusione nucleare e partecipò, tra il 1948 e il 1953, al progetto e alla sperimentazione delle prime bombe atomiche di fabbricazione sovietica. Però, nel periodo tra il 1957 e il 1958, nella sua qualità di membro dell'Accademia delle Scienze dell'Unione Sovietica, contestò gli esperimenti nucleari a scopo bellico. Negli anni '70 lottò contro la politica di repressione del regime comunista e fondò il Comitato per i diritti civili, prendendo le difese dei dissidenti e dei perseguitati. Nel 1975 ricevette il Premio Nobel per la pace, ma non poté ritirarlo. Nel 1980, per l'adesione ad una manifestazione contro l'entrata delle truppe sovietiche in Afghanistan fu arrestato e confinato a Gor’kij. Riabilitato da Mikhail Gorbaciov nel 1986, rientrò a Mosca e, nel 1989, fu eletto deputato. Morì nella capitale russa nel dicembre dello stesso anno.


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Dal 1988, ogni anno il Parlamento europeo assegna il Premio Sakharov per la libertà di pensiero a personalità e organizzazioni che si distinguono nell'attività in favore dei diritti umani e nella lotta contro l'intolleranza, il fanatismo e l'oppressione. Furono questi i prodromi di una totale svolta che iniziò a concretizzarsi nel febbraio del 1986, quando al 28° congresso del Partito Comunista Sovietico, Gorbaciov espose il suo disegno politico che si fondava su due pilastri incrollabili: perestrojka (ristrutturazione o nuovo corso) e glasnost (trasparenza). La perestrojka si riferiva sia al sistema economico sia alla struttura dei rapporti tra stato e partito unico. A metà degli anni ottanta, Gorbaciov comprese la reale portata dei mutamenti che nel frattempo erano intervenuti a livello globale. E cioè che non era più possibile sostenere il conflitto con il mondo occidentale unicamente sul piano ideologico, senza tenere conto della sempre maggiore interdipendenza dell'Unione Sovietica con il mercato globale. Ritenne, pertanto, che, prima di ogni cosa, fosse indispensabile una strategia globale per fermare il declino arrivato ad un punto di non ritorno, e che si dovesse superare il sistema ormai obsoleto della economia statalista e centralizzata dello Stato sovietico, per aprire nei tempi medio-lunghi al libero mercato e per colpire alla radice i diffusi fenomeni di illegalità creati in tanti anni dalla corruzione del sistema comunista. E, contestualmente, evitare che il Partito unico continuasse a monopolizzare l'attività dello Stato con la concentrazione in poche mani di ogni carica e ogni potere. Come è facile capire, si trattò di una strategia autenticamente rivoluzionaria, se si considera che per tanti decenni il sistema sovietico si era cristallizzato attorno ad una classe dirigente vecchia, decadente e corrotta. Pertanto, il nuovo corso basato sulla ristrutturazione (Perestojka) doveva combinarsi con la trasparenza (Glasnost). Nel frattempo, tra il 1987 e il 1990, tutti gli stati appartenenti al Patto di Varsavia ebbero un cambio di regime e un progressivo allontanamento dalla politica e dagli interessi sovietici. Mentre per tutto il dopoguerra, ogni tentativo di liberarsi dall'oppressione sovietica era stato represso nel sangue: Cecoslovacchia (1948), Ungheria (1956), ancora Cecoslovacchia (1968), con l'avvento di Gorbaciov e della sua perestrojka, i paesi del Patto di Varsavia furono abbandonati al loro destino. Pertanto, tra il 1987 e il 1990, tutti gli stati cosiddetti satelliti realizzarono un cambio di regime e un

graduale

allontanamento dall'oppressione politica e dagli interessi sovietici. I cambiamenti avvennero con modalità diverse da paese a paese, ma il modello che quasi tutti seguirono fu quello della Polonia, dove la svolta avvenne sotto la spinta popolare. La grave crisi finanziaria della fine degli anni '70 colpì gravemente l'economia dei cittadini polacchi, i quali cominciarono a capire che la loro vita piena di stenti era la diretta conseguenza della politica di sottomissione alle direttive dell'Unione sovietica. La prima forte opposizione contro il regime comunista polacco partì, come sempre avviene, dagli intellettuali, prima con l'organizzazione di club culturali, in seguito con l'istituzione di università nelle quali eminenti professori tennero dei corsi, dichiarandosi senza infingimenti membri dell'opposizione. Essi furono i primi ad avvertire il governo della grave crisi di fiducia che aveva colpito il popolo polacco, ma nessuno seppe ascoltarli. Anche la nomina a Papa dell'arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyla, avvenuta nel 1978, fu largamente sottovalutata dalla classe dirigente polacca che nel 1979 consentì al Pontefice di compiere un viaggio pastorale nella madre patria.


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Allo stesso modo non si tenne in nessun conto la trionfale accoglienza che milioni di polacchi riservarono al Papa, come segno tangibile del sentimento religioso che, nonostante decenni di ateismo imposto ad ogni livello, in Polonia non si era mai spento. Però, soltanto dieci anni dopo, in occasione delle elezioni politiche del 1989, fu il Manifesto di propaganda del sindacato polacco Solidarnosc a determinare la svolta storica. Infatti, il momento più rilevante della lotta anticomunista in Polonia e in tutta l'Europa dell'Est si ebbe con la dura protesta dei lavoratori dei cantieri navali di Danzica, guidata da un ex elettricista, Lech Walesa, capo carismatico di Solidarnosc (Solidarietà). I cantieri di Danzica divennero la sede del Comitato centrale di tutti gli scioperanti polacchi, riuniti in un unico sindacato: Solidarnosc. Ottenuta una serie di rassicurazioni, il raggiungimento della democrazia si avviò verso la realizzazione, però non cessarono le difficoltà economiche che da sempre preoccupavano il sindacato. Prima della perestrojka di Mikhail Gorbaciov, i regimi a partito unico dell’Est europeo e le loro obsolete economie a pianificazione centrale restavano in piedi grazie alle truppe e ai sussidi sovietici. Il potente apparato militare sovietico, infatti, garantiva l'ordine interno, mentre la stabilità economica dei paesi satelliti, seppure a livello di mera sopravvivenza, era assicurata dal Cremlino con l'approvvigionamento di materie prime e la fornitura del fabbisogno energetico. Quando gli aiuti e le garanzie cessarono e la nuova politica di Gorbaciov eliminò qualsiasi intervento militare a sostegno dei paesi comunisti dell'Est, cominciò a svilupparsi una decisa opposizione di milioni di europei orientali al sistema sovietico di oppressione. Iniziò così la “rivoluzione di velluto” del 1989 che portò al crollo del Muro della vergogna. Gorbaciov, constatata la decisa volontà dei tedeschi di abbattere il Muro e di porre fine alla divisione della Germania, fu costretto a prendere una decisione storica: ossia quella di far decidere liberamente ai tedeschi il proprio futuro. Perciò, durante la visita a Berlino Est, avvenuta tra il 6 e 7 ottobre 1989, il capo del Cremlino avvertì Honecker che "la vita avrebbe punito i ritardatari" e che non sarebbe stato possibile, come si era verificato nel 1953, qualsivoglia intervento dell'esercito russo per aiutare il regime tedesco dell'est. Poiché la riunificazione della Germania si rivelò molto vicino alla sua realizzazione, vennero sconfitti i fautori della realpolitik, che fino a poco tempo prima avevano ribadito, come Giulio Andreotti, che “esistono due stati tedeschi e tali devono rimanere”. Le certezze dei politici dell’Occidente, convinti sostenitori dello status quo fondato sugli accordi di Yalta e sulla divisione della Germania, furono fatte crollare dal rifiuto dell'uso della forza opposto da Gorbaciov, che raggiunse l'apice della sua popolarità nel mondo. Contestualmente, la vecchia classe dirigente stalinista e i comunisti occidentali interpretarono la decisione di Gorbaciov come un segno di grave debolezza. Il leader del Cremlino fu certamente condizionato dalla bancarotta finanziaria, dalla pesante crisi economica, dalla catastrofica situazione alimentare e dall'esplosione dei conflitti etnici scoppiati all'interno dello sconfinato impero sovietico.


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A Berlino, nella patria del simbolo della divisione europea, il 1989 sembrava trascorrere esattamente come erano passati tutti gli anni precedenti fin dalla costruzione del Muro. Infatti, le migliaia di vacanzieri che a bordo delle piccole Trabant, autovetture che si conquistarono un posto nella storia dell'esodo di massa di quei giorni, passarono la frontiera ungherese, per raggiungere Budapest o l'Austria non dettero luogo ad alcun sospetto. Migliaia di tedeschi orientali in fuga dall'inferno comunista si rifugiarono nelle sedi diplomatiche della Germania Ovest di Berlino Est, Praga e Budapest, prendendole d'assalto, determinando vive preoccupazioni nelle autorità della Germania Ovest per l'esodo imprevisto e incontrollato dei profughi. Fu deciso, pertanto, di chiudere le ambasciate e di rafforzare il pattugliamento lungo la frontiera con l'Austria. Però, verso la metà del mese di agosto, le autorità ungheresi, nell'impossibilità di fronteggiare la pesante emergenza procurata dalla massa incontenibile di profughi, lasciarono aperte le frontiere con l'Austria, consentendo il deflusso verso i paesi occidentali. Il governo comunista della Germania Est attese inutilmente l'appoggio dei militari sovietici per fermare l'esodo con la forza, ma, Gorbaciov, arrivato a Berlino il 6 ottobre, fece intendere come fosse ormai diventato pericoloso contrastare l'esigenza di libertà della popolazione. La delusione di Honecker e di tutto l'apparato stalinista della Germania Est fu totale, tanto da accusare Gorbaciov di disfattismo e di arrendevolezza al capitalismo. Il 4 Novembre, circa un milione di persone scese in piazza per chiedere libere elezioni nella più grandiosa manifestazione popolare mai avvenuta nell'Europa dell'Est, che fu di gran lunga superata il 9 novembre, allorché una massa di circa quattro milioni di Berlinesi, occidentali e orientali, si radunarono su entrambi i lati del muro della vergogna. Le autorità della Repubblica Democratica Tedesca, atterrite dalla massa enorme di cittadini e preoccupate dalla minaccia di una possibile sollevazione popolare, non furono in grado di reagire con la forza, ma decisero il passaggio attraverso il muro, senza preavvertire il Cremlino. A questo punto, non fu più possibile tornare indietro. Scomparsa l'ideologia era impossibile tenere separato un popolo che parlava la stessa lingua e che aveva una storia comune millenaria. La caduta del Muro di Berlino rappresenta anche il simbolo della fine del bolscevismo che, durante la seconda guerra mondiale, spinse il fior fiore della gioventù europea a combattere in Russia per sconfiggere un sistema totalitario la cui brutalità fu posta in evidenza, alcuni anni dopo, dai capolavori degli intellettuali dissidenti, Pasternak e Solgenitsin. E' doveroso ricordare che, nel corso della seconda guerra mondiale, anche due giovani di Isola del Liri avevano irrorato con il loro sangue la terra russa per combattere il bolscevismo: Bepi Baisi e Bruno Carloni, le cui eroiche gesta influenzarono molto i miei orientamenti politici. I due giovani isolani erano legati da uno stretto rapporto di parentela, e Bruno Carloni, in particolare, era figlio del Generale Mario Carloni, che qualche mese dopo la morte del figlio assunse il comando del 6° Reggimento Bersaglieri di stanza in Russia, lo stesso al quale era stato assegnato Bruno, dopo aver conseguito il grado di Sottotenente in Spe alla Accademia Militare di Modena, dove era stato ammesso nel 1940.


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Dopo aver terminato la Scuola di applicazione, nell'estate del 1942 raggiunse il Reggimento in Russia sulle rive del Don. Nei giorni successivi, il 6° Reggimento affrontò il combattimento con i russi nei pressi di Bobrowskij, dove Bruno comandava la seconda compagnia del VI Battaglione, in sostituzione del capitano ferito. Dal 25 al 29 luglio 1942, i bersaglieri si portarono nell'ansa del Don, controllata da una testa di ponte russa che andava da Satonskij-Serafimovic a Bobrovskij-Baskovskij, sulla sponda occidentale, attraverso i boschi che fiancheggiavano il grande fiume russo e che coprivano il movimento del nemico. Alle dodici del 30 luglio, si scatenò la reazione russa che fece intervenire ventiquattro carri armati T34 e sedici T26 che investirono frontalmente il 6° Reggimento, causando fortissime perdite. All'alba del 2 agosto partì l'attacco a Bobrovskij e Bascovskij che furono riconquistate dai russi, dopo scontri particolarmente violenti che diventarono sempre più accaniti quando il VI Battaglione, destinato alla quota 210 (ironia della sorte è la stessa di Isola del Liri),

venne coinvolto nel suo movimento in scontri furibondi con la seconda

Compagnia, comandata dal sottotenente Bruno Carloni che, durante la cruenta battaglia, fu ucciso da una raffica di mitragliatrice. L'eroico giovane isolano fu insignito di Medaglia d'Oro al Valor Militare con la seguente motivazione: “Giovanissimo ufficiale entusiasta e valoroso, già decorato di medaglia d'argento al valore militare “sul campo”. Durante l'accanito e sanguinoso combattimento, quando il nemico era riuscito a penetrare nelle linee, minacciando il fianco di un nostro battaglione, alla testa dei suoi si lanciava al contrassalto. Ferito ad un braccio rifiutava ogni soccorso e fasciatosi sommariamente, continuava con immutato slancio ricacciando l'avversario all'arma bianca. Mentre, ritto innanzi a tutti, difendeva a bombe a mano la posizione da rinnovati più furiosi assalti, una raffica di mitragliatrice lo abbatteva. Ai bersaglieri accorsi in suo aiuto rispondeva in un supremo sforzo sollevando il alto il piumetto: “Me l'ha donato mio padre, ditegli che l'ho portato con onore”. Magnifica figura di soldato, che nella luce del sacrificio consacra ed esalta il fascino della più pura passione bersaglieresca. Fronte russo – Bobrovskij, 3 agosto 1942”. La stessa eroica sorte toccò a suo cugino, Bepi Baisi, Sottotenente degli Alpini che, il 1° settembre 1942, durante una furiosa battaglia, fu colpito a morte. Fu decorato di Medaglia d'Oro al Valor Militare con la seguente motivazione: “Comandante di Compagnia alpina, già distintosi, per eccezionali doti di valore e coraggio, si lanciava con ragionata decisione all'attacco di posizione avversaria tenacemente contesa. Raggiunto con grave sacrificio di sangue l'obiettivo assegnatogli e catturati numerosi prigionieri ed armi automatiche, veniva fatto segno, col reparto, a pericolosa reazione dell'avversario. Benchè avesse perduto durante la cruenta lotta il collegamento con parte della sua compagnia, cercava di ristabilire la situazione affrontando, anche da solo, il nemico.


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Ferito una prima volta da raffiche di mitragliatrici, si lanciava con estrema decisione e con disperato coraggio contro un gruppo avversario che tentava di circondarlo, disperdendolo. Ferito una seconda volta, non desisteva dalla lotta e, pur stremato di forze per il copioso sangue perduto, rincuorava i suoi alpini tenendoli saldi con l'esempio del suo ardimento nella suprema difesa. In successivo attacco, si lanciava risolutamente con pochi superstiti contro l'avversario, rimanendo colpito a morte. Kotowkj (Fronte russo), 1 settembre 1942�.


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Lirinia e il Senato della Repubblica

Maturò, proprio negli anni '80, la passione ideale per il territorio e per la difesa degli interessi popolari della Media Valle del Liri, ossia quel local-populismo che connota ancora oggi il mio sogno: “Lirinia”. In Italia, gli anni ’80 furono caratterizzati dalla forte personalità di Craxi e dal diffuso e asfissiante conformismo conseguente al sanguinoso periodo del terrorismo. Partecipai alle elezioni politiche del 1983, senza conseguire i risultati positivi che molti speravano. Venni invece eletto Consigliere provinciale nel 1985 e successivamente, consigliere comunale di Sora, dopo le dimissioni dall’assise isolana per aver constatato l’impossibilità di realizzare la Città intercomunale, a causa della preconcetta avversione dei partiti locali. Nel 1987 fu bocciata per pochi voti la mia elezione al Senato della Repubblica e nel 1990 quella al Consiglio provinciale. Nonostante questi insuccessi elettorali, non persi mai la speranza. La caduta del muro di Berlino segnò il crollo del comunismo; era iniziata una nuova epoca e provavo un indicibile piacere al pensiero di essere testimone di una stagione che anticipava l’alba di una nuovo secolo, anzi di un millennio. Si aprivano imprevedibili scenari mondiali, ma fu l’amore per la mia “piccola patria” che mi spinse ad accentuare l’impegno politico, senza pensare minimamente al fatto che un progetto locale potesse condizionare il mio futuro e che proprio esso mi avrebbe consentito di partecipare “dal di dentro” alla transizione italiana che ha incisivamente caratterizzato l’ultimo decennio del secolo scorso. E che continua. Il consiglio comunale di Sora diventò presto un’importante tribuna; la mia scelta era stata oltremodo opportuna, perché l’idea della Città intercomunale venne accolta entusiasticamente dai Sorani. Quando, perciò, mi resi conto che i tempi erano ormai maturi, proposi un referendum popolare per l’istituzione del nuovo Comune di Lirinia risultante dalla fusione dei comuni di Sora, Isola del Liri, Arpino, Castelliri e Broccostella. La Regione Lazio accolse la proposta e fissò per il 21 aprile 1991 la data della celebrazione di un evento che non aveva precedenti nella provincia di Frosinone.


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Fu una battaglia condotta nella quasi totale solitudine, perché l’intero schieramento dei partiti operò con tutti i mezzi, ricorrendo anche alla più squallida disinformazione, per non consentire il raggiungimento del quorum. Contrariamente a tutte le previsioni, quella fredda domenica di aprile vide famiglie al completo portarsi alle urne, consapevoli di partecipare ad un evento storico; probabilmente i cittadini della Media valle del Liri mai si erano sentiti protagonisti del proprio futuro come in quel fatidico giorno. Il più retrivo campanilismo venne sconfitto da una valanga di sì. La mia politica locale e popolare trovava così la sua clamorosa affermazione. La regione, a quel punto, avrebbe dovuto recepire l’esito favorevole del referendum popolare, approvare la legge di fusione dei cinque comuni e istituire la Città intercomunale di Lirinia. La partitocrazia, fortemente rappresentata in Consiglio regionale, non volle accettare la sconfitta e bocciò il relativo disegno di legge di fusione. Si sollevò, allora, un forte sdegno popolare che si placò soltanto quando, candidato al Senato della Repubblica nelle elezioni del 5 aprile 1992, fui eletto in modo plebiscitario. Dopo Giustiniano Nicolucci, antropologo di fama internazionale, un altro isolano entrava in Parlamento. Da quel momento, per tutto il decennio che ha chiuso il ventesimo secolo, ho vissuto un’esperienza che mi ha consentito di entrare nella storia della mia amata città. La successione dei fatti, così fortemente concatenati, mi fece maturare definitivamente la convinzione che la mia esistenza, connotata da tragedie e trionfi, continuava a svolgersi secondo la trama di un disegno che andava oltre la mia volontà e che come sfondo aveva ininterrottamente il dolce viso di Piergiorgio. Bruno Vespa, nel suo libro “1989-2000 – Dieci anni che hanno sconvolto l’Italia”, scrive: “L’estate del ’92 fu una delle più drammatiche della nostra storia recente. La maggioranza politica, sconvolta dalle elezioni del 5 aprile, era stata messa in quarantena dall’elezione di Scalfaro al Quirinale. Mani pulite colpiva duro, la mafia ammazzava Falcone e Borsellino, l’opinione pubblica era sconvolta e si sentiva senza guida. Craxi non era riuscito a riconquistare palazzo Chigi, ma aveva ottenuto che vi andasse il socialista a lui più vicino, Giuliano Amato”. In questo drammatico contesto politico, il 1° luglio 1992 si svolse il mio primo intervento nell’aula di Palazzo Madama, per dichiarare il voto di sfiducia al primo governo di Giuliano Amato, il quale ha aperto e chiuso la mia decennale esperienza parlamentare, a dimostrazione della fissità del sistema politico italiano, affermando che “ci troviamo di fronte alla fine di un regime; d’altra parte, non c’è da stupirsi perché la storia ci ha abituato alla nascita dei sistemi politici, alla loro evoluzione e alla loro morte fisiologica. Voi siete alla fine di un determinato sistema politico. Pertanto, nonostante il suo nobile sforzo, signor Presidente del Consiglio, il nuovo Governo sarà senza dubbio di transizione tra il vecchio regime, i cui effetti devastanti Lei ha puntualmente e seriamente analizzato, e una nuova Repubblica che il suo governo, logica espressione del vecchio sistema partitocratico, non può assolutamente preparare”. Bettino Craxi, era, però, consapevole del fatto che il suo passo indietro a favore di Amato non lo avrebbe messo al riparo dalle inchieste giudiziarie e dal furore dell’opinione pubblica. Il 3 luglio 1992, pertanto, pronunciò alla Camera una dura requisitoria che doveva essere nelle intenzioni una autodifesa, ma che in realtà fu una vera e propria chiamata di correità a danno della classe dirigente che fino a quel momento aveva governato il Paese.

“Purtroppo, anche nella vita dei partiti molto spesso è difficile individuare, prevenire, tagliare aree infette sia per l’impossibilità oggettiva di un controllo adeguato, sia talvolta per l’esistenza e il prevalere di logiche perverse. E così, all’ombra di un finanziamento irregolare ai partiti e al sistema politico, fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione che come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati. E, tuttavia, ciò che bisogna dire – e che del resto


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tutti sanno – è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali o associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare o illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro”.

A cavallo tra due secoli e due millenni, finiva così la Prima repubblica, ed io mi trovavo a svolgere una fervente attività politica nelle più alte sedi istituzionali dello Stato. Conservo tra le cose più care la lettera del 17 aprile 2002 con la quale il Sen. Franco Servello sintetizzò mirabilmente il mio impegno, dopo la pubblicazione del mio libro “Discorsi parlamentari”.

“Caro Bruno, Ti ringrazio per il cortese inoltro dei Tuoi “Discorsi Parlamentari” e per l'affettuosa dedica. Gli uni e l'altra sono stati per me un tacito invito a non desistere dai giusti ideali e, per questi, a lottare con orgoglio. Lungo la traccia di questo invito ho rivisto alla moviola delle Tue parole – e rivissuto sull'onda emotiva dei miei ricordi – i momenti più belli e più difficili dell'impegno parlamentare condiviso, con fede politica mai tradita, nella difesa di valori ereditati e rivendicati con forza. Nella lettura “terapeutica” dei tuoi interventi in Senato, ho rinnovato il piacere di ripercorrere i Tuoi excursus storici e letterari che, sempre, hanno costituito un valore aggiunto alle Tue già validissime argomentazioni. Sempre mi ha colpito la Tua capacità di essere nel “tempo”: dalle citazioni storiche e letterarie, retrodatate, ma attuali per il contenuto (dal sincretismo delle “rivoluzioni rassicuranti” della nostra storia patria, all'apologo etico tratto da una intervista a Federico Fellini, del 1979, poco dopo l'uccisione di Aldo Moro), alla lettura, in chiave attuativa e orientata al futuro, dell'art. 46 della Costituzione (tradita). Un impegno, il Tuo, vissuto a Palazzo Madama a 360° (riforme; problemi del lavoro; dell'occupazione e della produzione; Medio Oriente; finanza pubblica; terrorismo; sanità e pubblico impiego; Rai) con un'ottica argomentativa che ne evidenzia, a tutt'oggi, lo spessore politico, ed arricchito dalla esperienza amministrativa di Sindaco del Comune di Isola del Liri. Lungo la trama, da Te annodata solidamente ai “Discorsi ai sordi” dell'indimenticabile On. Filippo Anfuso, mi sono ritrovato, citato, al centro delle convergenze sulle critiche da me mosse in ordine all'esiguità delle risorse complessive riservate al Ministero degli affari esteri dalla legge finanziaria 2001, quando hai stigmatizzato le sfuggenti dichiarazioni del Relatore, “colpito, ma non stupito” dalla sproporzione esistente tra i nuovi compiti del Ministero e le risorse stanziate. Sono sicuro che tornerò spesso a sfogliare il tuo volume quando, di fronte alla necessità di diagnosticare eventi, potranno soccorrermi quelle che Tu, argutamente, hai definito “Sindrome della Rupe Tarpea” e “Sindrome di Nerone”. Ma tornerò ancora più spesso a rileggerti quando avrò bisogno di un contatto con il cuore generoso e la mente libera dell'Amico con il quale continuare a costruire (per gli altri e per noi stessi) la speranza di una vita che sia opportunità da cogliere, mistero da scoprire, tristezza da superare, lotta da combattere, avventura da cogliere, sfida da affrontare, dovere da compiere, amore da dare. Grazie Bruno, per la Tua amicizia che ha saputo regalarmi “nonostante tutto”, l'afflato di cui è orfana non solo la politica, ma anche la nostra quotidianità, intrisa di malvagità e inimicizie.


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“Amiamo la Patria, obbediamo al Senato, aiutiamo gli onesti; non curiamoci del profitto dell'oggi, diamoci pensiero della gloria di domani; teniamo per ottimo ciò che è giusto; speriamo si avveri ciò che desideriamo, ma adattiamoci a quello che la sorte ci dà; teniamo presente, infine, che pur negli uomini più forti e più grandi il corpo è mortale, immortale invece lo spirito e perenne la gloria....di coloro che col senno e con le opere proprie hanno ampliato, difeso, conservato questa nostra grande Patria!” Affido A Cicerone (da “Pro Sestio”) e ad un forte abbraccio, il mio caro saluto ed il sentimento della mia affettuosa amicizia”. Franco Servello


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Sindaco di Isola del Liri

Nel 1993 era trascorso appena un anno dalla mia elezione al Senato della Repubblica; il consenso per la mia persona era giunto all’apogeo, tanto da indurre Diego Mancini a porre con forza la mia candidatura a Sindaco, minacciando, in caso contrario, un suo disimpegno elettorale. In buona sostanza, mi si proponeva di fare un percorso politico a ritroso, cosa insolita in qualunque carriera. Compresi subito i rischi che poneva il duplice impegno, ma l’insistenza di tutti basata sul fatto che a loro giudizio soltanto io potessi, in quella favorevole congiuntura, liberare la città dalla inefficienza delle sinistre, dopo un periodo di riflessione, mi spinse ad accettare l’assunzione di una responsabilità che soltanto lo smisurato amore per la mia bella Isola poteva giustificare. Alla fine di una dura battaglia, vinsi il confronto con Vittorio Sperduti che avevo già battuto nel 1985, quando per la prima volta fu strappato alla sinistra il seggio presso il Consiglio provinciale. E per la prima volta dal dopoguerra il Sindaco di Isola del Liri venne eletto direttamente dal popolo, in forza della nuova legge elettorale. Trovai la mia città prostrata; il suo potenziale industriale distrutto; le casse comunali fortemente indebitate; l’assoluta mancanza di un progetto complessivo di sviluppo. Dopo avere risanato le finanze comunali, avviai un processo globale di riconversione di Isola del Liri da antica cittàfabbrica a città Parco fluviale e tecnologico con il riuso dei numerosi siti di archeologia industriale, che pose il Comune all’attenzione di importanti organismi internazionali, tanto che il 2 maggio 1999 fui chiamato a Madrid a rappresentare la mia città alla Settima Conferenza Mondiale dei Super Progetti Urbani. Fu ristrutturato completamente l’arredo del centro urbano, consentendo ad Isola del Liri di diventare la Città della musica e il “Salotto della Ciociaria”. Ricostruii, prima di tutto, l’unità storica della città che il giacobinismo e il classismo delle sinistre avevano frantumato.


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Il Gonfalone comunale risultava falsificato. Il forte anticlericalismo aveva fatto sparire la tiara pontificia dallo stemma antico di Isola che indicava la lunga influenza esercitata dalla Chiesa su una marca di confine tra il Regno di Napoli e lo Stato Pontificio, attraverso la plurisecolare presenza dell’illuminato casato dei Boncompagni Un fortuito incontro con il compianto prof. Giovanni Baffioni mi convinse della necessità di curare la pubblicazione di un libro su Jacopo Boncompagni, figlio di Gregorio XIII, il papa della riforma del calendario. La cerimonia di presentazione del volume, il cui contenuto era in gran parte inedito, si svolse nella Sala delle Rondinelle del Castello, alla presenza del principe Paolo Boncompagni-Ludovisi. Un illustre discendente del nobile casato, che dal 1580 al 1796 aveva illuminato con la sua ininterrotta presenza il nostro territorio, tornava dopo due secoli nell’antica residenza attorniato dai gonfaloni di tutti i comuni del ducato di Sora. L’affettuosa accoglienza che Isola del Liri riservò al principe è descritta da lui stesso in una nobile lettera che mi scrisse all’indomani dello storico evento.

“Caro Senatore, tornato a Roma sento impellente in me il desiderio di scriverLe queste due righe per esprimere i sentimenti grati e riconoscenti che albergano nel mio cuore e le mie congratulazioni per la splendida cerimonia, l’ottimo concerto e la meravigliosa cena! Che bella la Sala del Castello con i simboli dei Comuni intorno ad Isola...tornata ad essere...”la Capitale del Ducato!” Che belle le Sue parole! Che commozione l’affetto che mi ha circondato! Che gioia…la sorpresa del premio Isola Liri! Mi creda, mi sono allontanato da quei luoghi e da voi tutti con vera nostalgia…un nostalgico richiamo che ha la compattezza del sogno ed il rimpianto per il passato! Quelle case, quelle mura, quelle persone sono ormai...parte di me! E che dire, poi, della cortese amabilità di Sua Moglie? Mi creda, caro Senatore, grazie! Grazie! Grazie! La prego, voler essere cortese interprete dei miei sentimenti di gratitudine presso gli assessori comunali e presso tutti coloro che, oltre Lei e Sua Moglie, hanno contribuito alla magnifica riuscita della Manifestazione e considerarmi sempre Suo aff.mo

Paolo Boncompagni Ludovisi

La mia risposta, apparentemente enfatica, fu consona alla sincerità dei miei sentimenti, perché da fanciullo ero stato sempre attratto dal fascino antico della nobiltà. Ho sempre creduto che senza il mecenatismo dei nobili e il loro desiderio di perpetuarsi attraverso l’arte degli uomini di genio non sarebbe stata possibile, nel bene e nel male, l’evoluzione della storia, che si sarebbe cristallizzata allo stato di mero tribalismo.

“Eccellentissimo Principe, appena tornato da un salutare periodo di vacanza, ho avuto la gioia di leggere la Sua lettera che mi ha riempito l’animo di orgoglio e di soddisfazione. Non desidero aggiungere altro alla nobiltà delle Sue espressioni, ma Le assicuro che rappresenta motivo di alto riconoscimento il fatto di essere Sindaco della Città di Isola del Liri da Lei indicata “Capitale del Ducato dei Boncompagni”.


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In attesa di un auspicabile prossimo incontro, mi è gradito riportare qui di seguito la motivazione del Premio “Isola del Liri”, che ho avuto l’onore di conferirLe nel corso della cerimonia del 9 agosto 1997:

“La Sua famiglia è una delle più note di Roma, e quindi della stessa Italia e in definitiva del mondo intero. Nel nome dei Boncompagni una lunga linea congiunge gli animi e i secoli: città e luoghi lontani, fatti, leggende, tutto corre lungo un affascinante viaggio nella storia e anche nella meritevole geografia politica, dal Ducato dei Boncompagni sino ad oggi. Isola del Liri ritrova oggi ed accoglie con calore ed amicizia un uomo che rappresenta una parte tanto significativa della sua storia e delle sue radici. Il Principe Paolo Boncompagni Ludovisi rappresenterà, forte del suo passato e delle sue capacità manageriali, la nuova parabola di una città che dal suo passato e dalla sua memoria sta traendo la forza e la capacità di affrontare le sfide del nuovo Millennio”.

Nel 1796, i Boncompagni avevano lasciato per sempre l’ antica Insula Filiorum Petri”; appena in tempo per non assistere all’eccidio perpetrato dai giacobini delle truppe napoleoniche il 12 maggio 1799. Il più drammatico evento della storia cittadina, che nel suo bicentenario fu rievocato con una serie di notevoli manifestazioni, per sottolineare i dolorosi fatti determinati dalla sconvolgente ventata rivoluzionaria,

ma anche la

resurrezione della città voluta da illuminati imprenditori francesi, i quali a partire dal secondo decennio dell’Ottocento installarono importanti complessi industriali in quella che in poco tempo fu chiamata “la Manchester del Regno di Napoli”. Cominciava in questo modo ad assumere contorni ben precisi la ricostruzione dell’unità storica di Isola del Liri, come indispensabile premessa per quella morale e materiale. Pareva ancora insanabile la ferita lasciata volutamente aperta dai comunisti che sulla guerra civile permanente avevano edificato le loro rendite politiche. Decisi allora di intitolare due ponti sul fiume Liri agli antifascisti Ettore Valente e Alfredo Barbati, il primo suicidatosi pochi giorni dopo la Marcia su Roma, il secondo costretto a riparare in Francia, nel 1924, per sfuggire alla violenza degli squadristi fascisti. Nel corso della cerimonia che si svolse alla presenza del segretario nazionale del nuovo PSI, Gianni De Michelis, fu presentato il libro di Alfredo Barbati J., nipote dell’esule, stampato con il patrocinio e con l’impegno finanziario deliberato dalla Amministrazione comunale, formata da esponenti politici di estrazione politica “diversa”. E ciò senza l’opposizione di nessuno. Si affermava in questo modo la mia vocazione volterriana, in base alla quale pur non condividendo le idee dell’avversario, si è pronti a dare la vita perché lui le possa professare liberamente. D’altra parte, non era stato il mio spirito tollerante a rendermi inviso all’ala oltranzista del mio partito e ad alimentare il consenso popolare in un territorio dove la cultura di sinistra era fortemente radicata? Per questi motivi, non ebbi alcuna difficoltà nel nominare Luciano Duro, da sempre comunista, mio collaboratore culturale. Da questo sodalizio nacque l’idea del gemellaggio con la Città di New Orleans, culla del jazz. La trattativa fu portata avanti dal prezioso Gianni Blasi, che riuscì brillantemente a superare la concorrenza certamente più blasonata di Umbria Jazz, sponsorizzata da Renzo Arbore. Per evitare possibili contrattempi, partimmo con due auto: io con l’inseparabile Luisa, Luciano con Gianni nella Mercedes stracolma dell'amico sorano Carnevale che si era prestato ad accompagnarci a Fiumicino.


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La decisione si dimostrò avveduta, perché sul Grande Raccordo Anulare, la mia macchina si mise a fumare e si fermò.

“Dio mio, come facciamo adesso. L’aereo parte tra due ore e siamo già in notevole ritardo. La cerimonia del gemellaggio è fissata per domani. Rischiamo di far saltare un evento a lungo preparato”, urlò Luciano scendendo dall’auto.

“Nessuna paura, caro Luciano. E’ tutto scritto: domani noi saremo puntualmente a New Orleans”, risposi con calma, mentre un carro attrezzi si fermava per caricare la vettura in panne. Una coincidenza sconcertante! Sono sicuro che in quel momento il razionalismo di Luciano ebbe seri motivi per vacillare, perché cominciò a guardarmi con malcelata curiosità. Caricammo i nostri bagagli sulla mercedes, che assunse la caratteristica dell’auto di un vucumprà, e ripartimmo velocemente, per raggiungere l’aeroporto di Fiumicino giustappunto per prendere l’aereo.

“Bruno, ora che è evidente la certezza di essere domani a New Orleans, ti prego di dirmi da che cosa è scaturita la tua sicurezza che ha sconcertato anche Gianni. Sai quanto ti vuole bene e come è sempre disposto a dare credito ad ogni tua espressione che io non sempre condivido. Sono sicuro che hai visto prima di noi il carro attrezzi che fortuitamente si trovava a passare in quel momento”, si precipitò a dirmi Luciano subito dopo il decollo.

Come potevo spiegare ad un marxista un fenomeno irrazionale e ricorrente che, nei momenti di maggiore difficoltà, mi consente di mantenere la calma come quando si è sicuri di possedere la soluzione del problema? Rischiavo di essere considerato un visionario. Mi limitai perciò a rispondere che avevo tirato ad indovinare. Luciano, al quale non fa certamente difetto l’intelligenza, capì subito, mi fece un sorriso e si allontanò per riprendere il suo posto a sedere. Nell’immensità del cielo azzurro, attraverso l’oblò, fui attratto dal mare che in nessuno dei viaggi transoceanici precedenti avevo visto così distante dall’alto a pochi minuti dal decollo, probabilmente perché gli accecanti raggi del sole l’avevano trasformato in una gigantesca lastra di argento. Il pensiero che nelle prossime ore saremmo stati protagonisti di un evento storico per la nostra città mi spinse istintivamente ad aprire la borsa di pelle marrone, per rileggere la deliberazione del Consiglio comunale che aveva disposto all’unanimità il gemellaggio di Isola del Liri con la famosa metropoli americana. L’atto deliberativo fu predisposto in lingua inglese, per la prima volta nella storia dell’amministrazione della città, e riportò le dichiarazioni sottoscritte dai due Sindaci il giorno della cerimonia di gemellaggio, svoltasi in forma solenne alla presenza del Console d’Italia Santino Di Sante, il 28 gennaio 1997.

“Signed below ad a testament to the beginning of a long friendship, and period of cooperation between New Orleans, Lo (U.S.A.) and Isola del Liri, Italy. On this 28th day of January, 1997 Marc Morial Mayor of New Orleans


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“Nella certezza che l’accordo tra le città di New Orleans e Isola del Liri incrementi la pace, il progresso e l’amore tra i popoli, manifesto la mia soddisfazione per questo meraviglioso momento”.

Il Sindaco di Isola del Liri Sen. Bruno Magliocchetti

Per suggellare la storica amicizia,

ci fu conferita la cittadinanza onoraria di New Orleans, mentre a Luisa fu

consegnata simbolicamente anche la chiave della città. Nei giorni successivi, una guida ci fece conoscere i luoghi “sacri” del Jazz: il quartiere francese, il quartiere negro con le vecchie abitazioni di mitici musicisti, come King Oliver, Louis Armstrong e Sidney Bechet, il museo del jazz, ma soprattutto la Preservation Hall, dove ci fu possibile ascoltare un esaltante concerto in perfetto stile dixieland. Provai con Luciano un’indicibile emozione, perché quello che per molti anni ci era apparso come un sogno era sotto i nostri occhi. Poi, Luciano e Gianni partirono per Boston, mentre con Luisa restai ancora una settimana nella “big easy”, il nomignolo di New Orleans, accompagnati dal Console italiano che ci fece conoscere un prestigioso personaggio, Joseph MASELLI, vice presidente della American-Italian Renaissance Foundation. Maselli ci invitò a visitare Piazza Italia, un grande stabile in stile neoclassico che conserva la memoria di tutti i personaggi che hanno fatto grande l’Italia. Un’intera stanza è dedicata a Nick La Rocca che gli italo-americani di New Orleans ritengono uno dei creatori della musica-afroamericana. Non ho rinvenuto sufficienti prove che dimostrano l’appassionata convinzione di Maselli, sta di fatto però che la prima incisione discografica fu realizzata nel 1917 proprio dalla Original Dixieland Jazz Band del musicista nato a New Orleans nel 1889. Suo padre Gerolamo si era stabilito a New Orleans nel 1876, proveniente da Salaparuta in provincia di Trapani. Prima di lasciare la Sicilia era stato caporale trombettiere dei bersaglieri di Lamarmora. Ho sempre ritenuto il jazz l’espressione artistica delle sofferenze degli schiavi negri, ma anche delle condizioni penose degli emigrati europei, specialmente di quelli provenienti dal Regno delle Due Sicilie. Nel 1832, il regno borbonico istituì a New Orleans il primo consolato negli Stati Uniti, per meglio tutelare i cittadini espatriati in cerca di migliori condizioni di vita. Ciononostante, i nostri emigranti furono sottoposti ad intollerabili vessazioni; si dice, addirittura, che i lavori bestiali rifiutati dai negri venivano imposti agli italiani. Anche queste affermazioni non hanno molti riscontri, però il linciaggio di nove italiani, accusati ingiustamente dell’assassinio del capo della polizia, accaduto alla fine dell’Ottocento, fornisce la misura della considerazione che avevano i nostri connazionali in una città circondata dalle paludi infestate dai caimani. E’ possibile, perciò, che il percussionismo africano si sia fuso con la musica strumentale di coloro che si erano formati nelle nostre bande cittadine, spesso senza alcuna conoscenza teorica, per dare origine al jazz. Si svolgeva, in quegli indimenticabili giorni, il “mardi gras”, il famoso carnevale americano, che, seppure in misura minore, ricorda la grandiosità di quello brasiliano. Osservai con dispiacere il permanere di un razzismo endemico, perché i bambini neri sfilavano divisi da quelli bianchi. Fui però piacevolmente sorpreso dal fatto che tra un gruppo di bambini mascherati e i carri allegorici, sfilavano reparti dell’esercito, preceduti dalla bandiera a stelle e strisce, che unificava in un solo gruppo i militari bianchi e neri. Ebbi la conferma che anche nel contesto di una banale ed esilarante manifestazione, la nazione americana, la cui libertà consente anche intellerabili divisioni, evidenzia una forte idealità patriottica.


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Intanto, il Sindaco Marc Morial mi aveva fatto pervenire una lettera il cui sincero contenuto assunse un notevole valore per l’immagine internazionale della mia bella città.

Il

ritorno ad Isola del Liri fu accolto da un generale entusiasmo. Alcuni giorni dopo, ricevetti una toccante lettera da Joseph Maselli.

“Onorevole Senatore, la Sua inaspettata visita a New Orleans, la settimana scorsa, è stato un evento di gran successo che ha destato grossi interessi negli autorevoli ambienti di questa città. Da parte mia non posso non esprimerLe tanta gratitudine per avermi onorato, insieme alla sua gentile Signora, della vostra compagnia, nonché per la cortese visita che avete voluto fare all’American-Italian Renaissance Foundation di cui ho l’onore di essere il Chairman. Ho apprezzato molto, inoltre, il preziosissimo tempo che ha voluto dedicarmi per visitare la sede della Fondazione, il Museo e Piazza Italia. Ho soprattutto apprezzato le piacevoli conversazioni emerse e la Sua personale sensibilità verso i molteplici problemi ed interessi concernenti la comunità italiana in quest’area e quelli della numerosissima comunità italo-americana. Nel corso del nostro incontro avrei voluto affrontare con Lei un grave e rilevante problema che in questi ultimi tempi affligge tutta la comunità sia italiana che italo-americana. Si tratta appunto dell’infelice decisione da parte del Governo italiano di sopprimere il nostro Consolato a New Orleans……. Nel ringraziarLa ancora per la cortese visita, Onorevole Senatore, e nel confidare nel Suo autorevole interessamento presso gli organi competenti italiani, per la risoluzione di questo grave problema, colgo l’occasione per rinnovarLe i sensi della mia più profonda stima e considerazione”.

Nella lunga lettera Maselli fece la storia del Consolato d’Italia di New Orleans, chiedendo di compiere ogni passo utile per scongiurarne la chiusura. Il 28 febbraio 1997, presentai al Senato un’interrogazione al Presidente del Consiglio e al Ministro degli Affari Esteri con la quale chiesi di riconsiderare la grave decisione, prevista per il mese di giugno di quell’anno, tenuto conto che in caso contrario sarebbero state fortemente negative le conseguenze sia per gli interessi culturali ed economici sia per il prestigio del nostro paese negli Stati Uniti d’America. Nonostante i ripetuti solleciti, la risposta negativa mi fu fornita dal Ministro per gli Affari Esteri dopo due anni: l’antico Consolato italiano di New Orleans era stato trasferito a Dallas. Bella scoperta! Comunque, fui indotto ancora una volta a pensare che l’intera vicenda si inquadrasse nel contesto dei numerosi impenetrabili segni che hanno caratterizzato la mia vita. Infatti, all’epoca della mia passione giovanile per il jazz tradizionale di New Orleans, mai avrei creduto che un giorno sarei stato protagonista di questi avvenimenti. Nel successivo mese di agosto, si svolse il Decennale del Liri Blues Festival e la seconda fase del gemellaggio, alla presenza di una folta delegazione di New Orleans, guidata dal vice sindaco Troy Carter e composta da numerosi amministratori e musicisti. Per una settimana, Isola del Liri visse un’esperienza irripetibile, che nel suo complesso fu ritenuta dalla stampa specializzata un evento storico nel campo della musica afro-americana. Le celebrazioni si conclusero presso l’Abbazia di Casamari con il concerto “Il Gospel verso il Giubileo” tenuto dal “The New Orleans Gospel notes in concerto”. Al termine dell’entusiasmante performance, il Pro Sindaco di New Orleans, Mr. Troy Carter, rivolse al numeroso uditorio un commovente saluto di commiato.


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“Dire addio è una tristezza dolce! Ed è una tristezza dolce perché sappiamo che torneremo insieme di nuovo! Le amicizie benedette che noi abbiamo ricevuto durante la nostra permanenza tra voi resteranno racchiuse per sempre nei nostri cuori! Sono sicuro che Dio sta sorridendo mentre osserva le sue meravigliose creature in armonia ed in amicizia! Dovete essere benedetti per quello che ci avete offerto in questa indimenticabile settimana e per quello che ci hanno offerto questi meravigliosi Artisti dal profondo della loro tradizione, arte e cultura. Porteremo a casa, alla nostra gente l’amicizia e lo splendore della vostra generosa gente, delle meravigliose cose che abbiamo ammirato da un punto di vista culturale ed artistico nella Vostra Città, nelle Vostre Città, nella Vostra Provincia. Che Dio sorrida sempre e regni sempre su tutti Voi!

Il Sindaco di New Orleans, Marc Morial, appena fu messo a conoscenza del successo del Decennale e del Gemellaggio, l’11 settembre 1997 mi indirizzò una lettera dalla quale traspare una grande soddisfazione.

“Dear Senatore Magliocchetti: Thank you for so graciously hosting Councilman Troy Carter, Jackie Harris and the members of the New Orleans Delegation at your Liri Blues Festival. The delegation expressed their gratitude for the manner in which they were received. I have non met with the Councilman or Jackie yet, but I wanted to express my appreciation for the key to your beautiful city. I hope to use it as you use the key to New Orleans. Once again, thank you for your kindness. Sincerly,

Il clamoroso successo del gemellaggio e della celebrazione del decennale del Liri Blues Festival consolidò la mia amicizia con Luciano Duro. Questa convinzione, però, fu di breve durata, perché a distanza di tre mesi, in occasione della campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio comunale, Luciano assunse l’incarico di coordinare l’attività del mio avversario, il professore comunista Giacomo Sperduti. La scelta di Luciano fu abbastanza prevedibile, conoscendo la sua lunga militanza, prima nel PCI e dopo nel PDS. Tuttavia, il livore che caratterizzò il confronto elettorale mi sconcertò e mi procurò una profonda tristezza, che si accentuò quando Luciano assunse la carica di vice sindaco, dopo la sconfitta elettorale del mio schieramento che riportò la sinistra al governo della città, perché da quel momento pose termine alla nostra consolidata frequentazione istituzionale.

Però, l’amicizia personale non fu affatto scalfita dagli eventi, perché all’epoca ero pienamente consapevole che una certa sottocultura di sinistra condizionava fortemente i comportamenti dei propri eletti, ai quali non si consentiva di avere qualsivoglia rapporto con gli “avversari”.

Per oltre un anno, non ci siamo più incontrati.


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Venne a farmi visita in occasione della morte di Piergiorgio per dirmi: “Ora tocca a me!”. Lo ossessionava il pensiero della prossima e prematura morte del suo caro figliolo, anche lui da tempo gravemente ammalato, come Piergiorgio.

Per il resto, cupo silenzio.

In occasione dell’attentato terroristico alle Torri Gemelle di New York, gli scrissi una lettera aperta, per proporre la partecipazione del Comune di Isola del Liri all’USA-DAY organizzato a Roma da Giuliano Ferrara.

“Caro Luciano, ogni giorno, da quel maledetto 11 settembre, provo inutilmente a rimuovere le immagini angoscianti del crollo delle Torri Gemelle. E anche io, da quel momento, mi sono convinto che “niente sarà più come prima”. L’efficienza, la sicurezza e l’inviolabilità del Nuovo Mondo, che da tempo avevano suscitato lo “stupore” di amici e nemici degli Stati Uniti d’America, sono inaspettatamente e incredibilmente crollate e sepolte sotto le macerie delle Twin Towers. Ed allora il ricordo della nostra “avventura americana” continua ad apparirmi sfuocato e surreale come la visione di un quadro di Manet. Ti scrivo perciò questa lettera aperta per ricercare le motivazioni profonde e le certezze che spinsero un postcomunista e un post-missino (o post-fascista, se lo preferisci) a “scoprire l’America”. Ritengo opportuno, innanzitutto, premettere che il “viaggio” non scaturì da interessi contingenti, come gli opposti fondamentalisti “duri e puri” sostennero, perché esso fu ideato diversi anni prima, quando tu, Gianni Blasi ed io insieme con tanti amici, nella sede di Radio Isola, costituimmo Jazz ‘n Arts con il duplice significato di Jazz e Arti o Jazz nelle arti. Tutti i tentativi dell’Amministrazione Provinciale, ed in particolare dell’amica Rita Martelluzzi, per “gemellare” New Orleans con il Liri Blues, non realizzarono il nostro “sogno” e la tua grande aspirazione; fu possibile con la mia elezione a Sindaco di Isola del Liri e con la tua pluriennale collaborazione. La nostra comune passione per la musica afro-americana stabilì un sodalizio con l’affettuoso Gianni, e questo fu certamente il motivo che ci spinse a superare le nostre distanze ideologiche, proprio perché il Jazz e il Blues rappresentano una sorta di sincretismo culturale che ha fuso insieme la musica “dotta” europea e il “percussionismo” africano. Il melting pot, la società multiculturale americana, fu il primo impatto che avemmo nottetempo all’aeroporto di New Orleans, dove una delegazione municipale nera ci accolse con la dignità che si riserva ai rappresentanti di uno Stato, ma non a quelli di un piccolo comune. Nelle ore successive, prendemmo coscienza del forte orgoglio nazionale, dell’amore per la bandiera a “stelle e strisce biancorosse” e della fede per i valori della Tradizione, che unificano gli americani al di sopra delle differenze etniche, politiche e religiose. Ti confesso che istintivamente ti guardavo e vedevo il mio stupore riflesso sul tuo viso. Non lo dicemmo, ma lo pensammo: “Questa è proprio la patria della Libertà e della Democrazia!”.


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Con tutti i difetti, le colpe e gli errori di cui nessun popolo è immune, compreso quello di costruire un Novus ordo seclorum, espressione che si legge sotto un simbolo massonico sulla banconota di un dollaro, o l’american way of life, intesa come pensiero unico. Il nostro stupore si accentuò quando, nel corso della cerimonia di gemellaggio, mi fu concessa la cittadinanza onoraria della Metropoli americana, che non era prevista e che accettai con comprensibile orgoglio. Soddisfazione da te condivisa al punto che, accogliendo una nostra esplicita richiesta, essa fu estesa, il giorno dopo, a te e a Gianni. Nel successivo mese di agosto del 1997, la delegazione americana fu accolta nella nostra bella Isola da una selva di bandiere tricolori e a stelle e strisce biancorosse, che ornavano il Palazzo comunale ed il Corso Roma. In quel tempo, l’America era forte e nessuno di noi poteva pensare che un gruppo di terroristi potesse far crollare le certezze che un grande popolo aveva consolidato in appena due secoli di storia. Oggi che quasi tutti (parecchi opportunisticamente) dichiarano di sentirsi americani, noi dovremmo rivendicare con orgoglio la cittadinanza onoraria, senza essere considerati vassalli dell’imperialismo americano e con la profonda convinzione di essere prima di tutto italiani ed europei. Le vicende della politica ti hanno portato ad assumere la funzione di vice sindaco della città, ribaltando così i nostri ruoli, in forza del principio dell’alternanza che deve essere alla base di una società democratica. Come vedi l’imperscrutabilità degli eventi continua a giocare con la nostra vita! Perciò, nel rispetto del principio della coerenza e dei nostri comuni valori, ritengo doverosa la partecipazione del Gonfalone del Comune all’USA-DAY, soprattutto se consideriamo il fatto che la nostra città è gemellata con una metropoli degli Stati Uniti d’America, vittima principale di un barbarico terrorismo. Terrorismo che non deve essere confuso con la civiltà islamica. Mi piace, a tal proposito, ricordare che nel 1999, appena due anni dopo lo storico gemellaggio, nella mia qualità di Sindaco e di membro dell’ufficio di presidenza del Centro Italo-Arabo e del mediterraneo “Assadakah”, con il patrocinio del Comune di Venezia, dell’Unione Industriale di Frosinone, della Turriziani Petroli e la partecipazione di Yuval Italia (Centro Studi Musica Ebraica), Shèhèrazade (Scuola di Musica Araba e dei Paesi del Mediterraneo), disposi l’organizzazione della manifestazione Ulisse-Terzo Millennio, nel corso della quale si incontrarono ad Isola del Liri e presso l’Unione Industriale di Frosinone, giornalisti e rappresentanze diplomatiche di Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Libano, Israele, Palestina e Giordania, per parlare di pace a tutti i popoli del Mediterraneo. Così Massimo Cacciari, Sindaco di Venezia, salutò questo evento: “Mi compiaccio molto del progetto da Lei avviato, che il Comune di Venezia, mio tramite, incoraggia e sostiene con convinzione. Concordo infatti in pieno con le Sue considerazioni sul ruolo più incisivamente attivo che il nostro Paese e, per quanto di loro competenza e possibilità, le nostre città devono assumere in vista di un decisivo sviluppo delle relazioni tra i popoli e le culture dell’area mediterranea, quindi dell'affermarsi dei principi fondamentali della solidarietà e della pace nella regione. E, naturalmente, non c’è migliore “linguaggio” per aprire questo dialogo che quello dell’espressione artistica”.

Animato da questi nobili ideali, caro Luciano, mi permetto di proporre la partecipazione del nostro Gonfalone alla manifestazione a favore degli Stati Uniti d’America e contro il terrorismo, che si terrà a Roma l' 11 del corrente mese”.

Luciano mi rispose con immediatezza, per definire il contenuto della mia lettera un esempio illuminante di moderazione e di equilibrio, nel momento in cui i toni dell’opposizione contro la sua amministrazione erano fortemente critici, e per sottolineare, attraverso una serie di pretestuosi distinguo, l’impossibilità di far partecipare il Gonfalone del Comune ad una manifestazione filo governativa.


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Il tumore

In quell'estate del 2001, all'epoca dei fatti sanguinosi di Genova, e dopo il sogno del Circeo, Luisa ritenne di fermare la moviola dei ricordi che la recente morte di Piergiorgio aveva messo in moto.

“Bruno, ti chiedo scusa – mi disse - ma non avevamo deciso di concederci un periodo di vacanza per cercare di recuperare un po’ di equilibrio e di serenità dopo la bufera che ha sconvolto la nostra famiglia? Capisco il tuo dolore che è anche il mio; riesco a comprendere che in momenti come questi si è inevitabilmente portati a ricordare quelli più laceranti, però ti scongiuro esci, almeno per qualche ora, da questo preoccupante stato d’animo”.

Con queste premurose parole, Luisa pose fine ai miei ricordi.

“Si, hai ragione. E’ opportuno scendere allora in spiaggia. Può darsi che qualche piacevole incontro possa distogliermi da questi pensieri” - alludendo per scherzo all’incontro con una bella sirena.

“Vai, affrettati, credo che qualcuna ti stia già aspettando ansiosamente” - rispose con un ammiccante sorriso.

Percorsi lentamente il tratto di strada che divide la villa dalla spiaggia, portandomi appresso l’ultimo libro di Francesco Alberoni: La speranza. Presi posto nel lettino lasciato libero da Alba. Mia cognata si trovava con Matteo che, per gli esiti conseguenti ad una brutta frattura al perone, doveva per alcune ore al giorno passeggiare lungo il bagnasciuga. Lo accompagnava amorevolmente: bionda e abbronzatissima, Alba. Detti uno sguardo attorno. La spiaggia era abbastanza affollata. L’azzurro del mare era intenso, come gli occhi di Piergiorgio. Già, gli occhi di mio figlio, rimasti dischiusi nel suo viso bello e sereno, che impressionarono le centinaia di persone che gli fecero visita quando giaceva nel suo letto di morte.


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Cambiavano gli scenari, se vogliamo anche fortemente stimolanti, ma il pensiero era sempre lo stesso. Del resto erano trascorsi appena due mesi dal suo decesso. Decisi allora di immergermi nella lettura; per molti la lettura ha l’effetto di un oppiaceo ed è indispensabile per rimuovere penose situazioni, soprattutto se riscontrano delle analogie tra le loro esperienze e quelle dei protagonisti del racconto. Se queste ultime sono più tragiche, allora l’effetto placebo è assicurato. Del resto il male comune non è stato sempre considerato un mezzo gaudio? Per evitare questa illusione, ho sempre preferito la saggistica. Mentre facevo queste considerazioni, sfogliando contestualmente il libro di Alberoni, senza una precisa volontà gli occhi mi caddero su alcune considerazioni dell’illustre sociologo, che mi colpirono profondamente. In un primo momento pensai che anche questo fatto rientrasse nel copione di una realtà scenica condotta magistralmente dal destino. Ma poi, a ben vedere, mi resi conto che le mie valutazioni erano fortemente condizionate dagli eventi di quei mesi, per cui ogni passaggio dalle astrazioni alla realtà era connesso al tema dominante. Una riflessione del sociologo mi colpì in modo particolare, quando afferma che il passaggio dalla disperazione alla speranza non è un passaggio dalla incertezza alla certezza, ma dalla certezza alla possibilità. In altri termini, chi è affetto da una malattia grave si dispera ed è certo che non è possibile guarire. Anzi, ha la certezza di non guarire. La certezza della morte imminente. Nemmeno quando apprende che l'intervento chirurgico ha avuto un esito positivo è certo di guarire. Crede solamente di avere la possibilità di guarire. Insomma, che può sperare di guarire e allontanare la morte. E' come il condannato alla pena capitale, al quale viene ventilata la possibilità di essere graziato, che spera fino all'ultimo che potrà continuare a vivere. Abbiamo tutti la consapevolezza che, prima o dopo, dovremo morire, ma la riteniamo una astrazione, come se l'evento non ci riguardi, in quanto è un accadimento indeterminato, senza una precisa data, che si colloca dietro l'orizzonte. Come la fine del mondo. Richiusi il libro, e mentre lo sguardo si perdeva nella immensa distesa azzurra, pensai alla grandezza di chi ha la capacità di esprimere talune situazioni con una grande capacità di sintesi. Quella che avevo appena letto era proprio la descrizione della particolare condizione in cui mi ero trovato, tre anni prima, quando dopo una serie di accertamenti specialistici il dottor Massimo Mariani, urologo della clinica Quisisana, mi diagnosticò un tumore maligno. Da due anni soffrivo a causa di un’ indefinibile e fastidiosa irritazione cutanea che insorgeva ai primi di ottobre per terminare verso la fine di febbraio. Decisi di sottopormi ad un check up, per aderire ai pressanti consigli di Luisa. In un primo momento si accertò soltanto un aumento del tasso glicemico, ma un rilevante ingrossamento della prostata, che alla mia età è generalmente fisiologico, portò alla triste scoperta. Con molta discrezione, Massimo Mariani, nel comunicarmi l’esito dell’esame istologico, mi disse di non preoccuparmi, perché erano moltissime le possibilità di estirpare il male, ma dovevo immediatamente decidere se sottopormi alla radioterapia oppure ad un intervento chirurgico. Massimo, di cui diventai amico, propendeva per la seconda soluzione, in quanto la casistica aveva dimostrato un’alta percentuale di sopravvivenza, ma soprattutto perché alla radioterapia si poteva ricorrere in un secondo momento, se ci fosse stata una recrudescenza del male.


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La prima soluzione escludeva un eventuale intervento chirurgico successivo, perché la terapia radiante avrebbe distrutto non solo le cellule malate, ma anche i tessuti ancora sani. L’operazione, invece, comportava il rischio dell’incontinenza e dell’impotenza; Massimo era convinto della improbabilità dell’incontinenza, convinto che il prof. Michele Gallucci, al quale voleva affidarmi, fosse il chirurgo con “la mano più ferma”, mentre per la possibile impotenza non c’era da preoccuparsi eccessivamente, perché con il Viagra avrei potuto fronteggiare ogni evenienza. Perciò, era possibile sconfiggere il male e, almeno nella circostanza, la morte, pagando alla vita un prezzo altissimo. Toccavo così il vertice di un dramma personale di fronte al quale mi stupiva sempre più il mio spirito indomito. Era forse l’abitudine al dolore a giustificare questa sostanziale serenità? Ero forse affetto da tendenze masochistiche? Escludevo l’una e le altre, vuoi per la connaturata insopportabilità e avversione alla sofferenza, specie al dolore fisico, vuoi per la voglia di vivere che spesso sconfinava anche in scelte gaudenti. Era forse la mia fede religiosa a non farmi pensare al suicidio? E’ certo che in quel momento riscoprii la necessità della preghiera, per consegnarmi totalmente alla volontà di Dio. Ma il sentimento dominante continuava ad essere l’amore per Piergiorgio e per Luisa, che mi spronava a non arrendermi mai. Per una maggiore tranquillità, consultai anche altri specialisti, ma poi decidemmo per l’intervento chirurgico, come Massimo mi aveva consigliato sin dal primo momento. A fine maggio, anche se l’intervento fu ritenuto urgente, decisi di rinviarlo. Una strana commistione di speranza e fatalismo mi spingeva verso un totale stato di incoscienza che irritava fortemente Luisa. Volevo presentarmi all’appuntamento nelle condizioni di spirito che riesce a darmi la serenità di Madonna di Campiglio, tra le cime del Brenta e dell’Adamello, dove con Luisa trascorsi il mese di agosto in un clima di sostanziale tranquillità, interrotto da momenti di profonda mestizia, quando, di tanto in tanto, la sorprendevo con gli occhi gonfi di lacrime. Alla fine di ottobre, mi sottoposi all’operazione con una serenità che sconcertò l’equipe di medici, tra i quali mio cognato Mimmino, che era stato per molti anni l’anestesista del prof. Valdoni, il quale in seguito mi riferì che, nel corso della lunga professione svolta in sala operatoria, mai aveva visto un chirurgo così sicuro come il prof. Gallucci. Aveva avuto l’impressione che la sua mano fosse guidata da una forza misteriosa.


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Dal Circeo a Madonna di Campiglio

Nei giorni che precedettero l’intervento operatorio, ritenni di informare il presidente del partito, Gianfranco Fini, il capogruppo al Senato, Giulio Maceratini, e il parroco, don Domenico Ferri, per non venir meno anche in quella circostanza al mio spiccato senso del dovere. A queste persone, che erano i miei più diretti referenti politici e religiosi, raccomandai la massima discrezione. Luisa fu decisamente contraria. E i fatti le dettero ancora una volta ragione. L’eterogenesi dei fini spinse i miei avversari politici, interni ed esterni, appena informati da uno dei tre circa il mio stato di salute, a diffondere la notizia della mia imminente morte. Qualcuno si incaricò addirittura di stabilire, in quattro al massimo cinque giorni, il momento dell’evento liberatorio. All’epoca ero Senatore della Repubblica e Sindaco di Isola del Liri. Questo primato assoluto nella storia della città aveva scatenato invidie e gelosie, non solo negli avversari storici, ma anche tra i miei più diretti collaboratori. Chiesi, allora, di essere dimesso anticipatamente dalla clinica, per convocare il Consiglio comunale. Il mio forte e appassionato intervento, espresso in un’aula affollatissima, fece cadere ogni dubbio. Conobbi allora anche il tradimento dell’amico che nei miei programmi era destinato a succedermi. Un sentimento che non avevo mai provato e che conoscevo soltanto per aver letto la storia dei Giuda. Un sentimento che fa vacillare gli ordini morali, ma che contestualmente rientra in un disegno provvidenziale, perché dopo ogni tradimento, cambia totalmente il corso degli eventi. Francesco Alberoni sostiene che sbaglieremmo a pensare che il tradimento dell’amico sia sempre determinato da un puro calcolo, in quanto nell’animo umano si sviluppano sovente dei processi inconsci che distruggono l’amicizia all’interno. L’amico è sovente portato ad identificarsi con chi considera più bravo e ammira profondamente, compiendo qualsiasi sforzo per imitarlo, anche nella gestualità e nei comportamenti giornalieri. L’identificazione con l’amico induce indubbiamente a stimolare lo spirito di emulazione che porta conseguentemente a migliorarsi, ma può ingenerare anche un sentimento negativo, perché non desidera solo essere come la persona che ammira, ma vuole ad ogni costo le stesse cose e, quindi, cerca di strappargliele.


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E’ questo perverso sentimento, che René Girard definisce “invidia mimetica”, che scatena il conflitto. L’invidioso diffama l’amico oggetto dei suoi perversi sentimenti, facendo del tutto per denigrarlo, ma nel profondo teme che l’altro sia veramente migliore di lui. L’invidioso mente a se stesso e agli altri e teme di essere scoperto. Ecco perché se ne vergogna e mimetizza l’invidia che lo corrode dietro un falso moralismo, nella speranza che chi lo ascolta possa tributargli il premio e l’onore che non merita. In un primo momento, l’invidioso, specialmente se è appoggiato da una gruppo organizzato, può riuscire nella sua devastante opera di calunnia e di svalutazione, ma alla lunga la sua aberrazione viene scoperta e subisce il giudizio negativo di chi incautamente gli aveva prestato credito; mentre i meriti della vittima del suo perverso comportamento tornano a risplendere. Una delle tante radioline gracchianti mi distolse da questi pensieri. Ma ebbi modo di constatare che ero stato turbato soprattutto dalle amenità che provenivano dalla conversazione di un gruppo di signore, le quali poco distanti pettegolavano sulla condizione fisica delle donne che avevano la sfortuna di passare nei pressi. Non si rendevano conto che c’era molto da ridire sui loro corpi in disfacimento, che erano impietosamente posti in evidenza dal confronto con quelli statuari delle giovani ragazze che allietavano la spiaggia. Quale era la motivazione che spingeva quelle donne, provenienti da città poste in diverse altitudini, a scegliere la quota del mare? Un desiderio inconscio di livellamento? L’ancestrale istinto di immergersi nell’acqua per un rito collettivo di purificazione? La contemplazione della linea dell’orizzonte, dove il cielo si congiunge con il mare, dando un senso di immensità? Il forte desiderio di liberarsi dalle catene delle convenzioni? Il sogno represso

di vivere inconfessabili e trasgressive avventure, per lunghi mesi inseguite nello squallore di

un’abitudinaria vita matrimoniale? E’ difficile rispondere a questi interrogativi, ma è certo che il piatto panorama mi confondeva e mi coinvolgeva nella deprimente mediocrità, vivificata dai cocenti raggi del sole e dall’intenso colore azzurro del mare. Intenso e profondo, come quell’angolo azzurro degli occhi di Piergiorgio, rimasti socchiusi nel suo viso sorridente, che impressionò le tante persone che gli fecero visita quando bello e finalmente sereno giaceva nel suo letto di morte. Fui improvvisamente preso da una forte e incontenibile voglia di tornare nell’ambiente fresco e puro delle mie montagne, dove le alte vette del Brenta e dell’Adamello consentono di vedere sfumata, quasi surreale, la realtà del panorama sottostante e nitida l’immensità del cielo azzurro. Sulla sommità delle vette, a metà strada tra la terra e il cielo, soltanto in quei momenti, mi sento veramente libero dalla immane cattiveria del mondo. Lasciammo il Circeo i primi giorni di agosto e, dopo una breve sosta ad Isola del Liri, partimmo di buon’ora per le Dolomiti. Ci preoccupava la notizia di trovare lunghe code sulle autostrade, così come avevano avvertito

gli organi di

informazione. Invece, il nostro lungo viaggio non subì alcuna interruzione. Mi sembrò un buon segno! Dopo aver lasciato alla nostra sinistra il lago di Garda, percorrendo abbastanza velocemente l’autostrada del Brennero, vidi stagliarsi in lontananza le cime delle montagne. Il meraviglioso panorama e l’aria fresca e pura che penetrava dal finestrino semiaperto fece sparire, come d’incanto, quel cerchio che da tempo mi stringeva la testa, dandomi un piacevole senso di liberazione.


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Compresi, in quel momento, il significato profondo della libertà: lasciare dietro di sé i condizionamenti della quotidianità, i tradimenti, le ingiustizie, le ipocrisie e la mediocrità delle anime pavide che non hanno conosciuto né conosceranno mai le vittorie e le sconfitte. Inavvertitamente, cambiai nel mangianastri il genere di musica. Quella romantica dell’Ottocento, che ci aveva precedentemente accompagnato, contrastava completamente con i sentimenti che diventavano sempre più netti a mano a mano che si saliva per la tortuosa strada che conduce a Madonna di Campiglio. Mi apparve, per un attimo, uno scenario di eccezionale bellezza: i verdi boschi di Campiglio divisi dal cielo azzurro, come in un intermezzo lirico, dalle dorate vette del Brenta. All’introspezione della musica di Beethoven, Brahms, Tchaikovsky, e in parte di Mozart, faceva da sottofondo quella più descrittiva di Haydn, Bach, Vivaldi. Insomma, la nuova condizione spirituale mi consentiva di uscire dall’intimo soggettivismo alimentato dalle ultime vicende, per farmi riconquistare il senso dell’oggettività: la gloria di Dio e la bellezza della natura. In quel totale annullamento di sé trovai un benessere mai provato in precedenza. E mi tornarono alla mente i versi dell’eccelsa poesia di Leopardi, L’Infinito, mentre ascoltavo Le quattro stagioni di Vivaldi. Al Savoia Palace Hotel, che da anni avevamo scelto come albergo preferito per il nostro soggiorno, l’accoglienza fu come al solito cordiale. Con il tempo, i rapporti con il personale dipendente ed i clienti tradizionali erano diventati affettuosi, quasi familiari. L’atmosfera di reciproca simpatia contribuiva a migliorare lo stato d’animo e a sopportare con una indefinibile serenità gli esiti morali degli struggenti avvenimenti degli ultimi tempi. Gli incontri con gli amici, Annibale Marini e Titta Mazzuca; le espressioni di sincera solidarietà delle loro signore per la morte di Piergiorgio, con la discrezione e il tatto che si richiedono in simili circostanze; le profonde meditazioni alle quali quotidianamente mi abbandonavo durante le lunghe passeggiate attraverso i ripidi e scoscesi percorsi dolomitici suscitarono in me una strana sensazione, così paradossale che ancora oggi confesso con una certa ritrosia. Continuavo a chiedermi con insistenza se le situazioni drammatiche che avevano punteggiato la mia vita, il cui apogeo era rappresentato dalla tragica esistenza di Piergiorgio, avessero una precisa chiave di lettura. Infatti, la deportazione di mio padre ed i drammi che ne conseguirono non avevano forse determinato le mie scelte politiche? La nascita e la morte di Piergiorgio non sono stati forse l’alfa e l’omega del periodo più significativo della mia lunga esperienza politica? Nel maturare sempre più questa consapevolezza, analizzavo nella mia mente, rinfrancata dalla serenità dell’ambiente, la carrellata dei ricordi della mia ultima stagione e mi convincevo che la concatenazione dei fatti era troppo organica per non farmi pensare ad un imperscrutabile progetto. Però, mentre mio padre si era fatto tormentare tutto la vita dalla convinzione di essere vittima di una maledizione, la mia fede mi porta ancora a credere, al di là di ogni opportunistica rassegnazione, che le tragedie e i trionfi che hanno scandito la mia esistenza siano i tasselli di un ben definito mosaico.


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La solidarietà degli amici di Campiglio

Ripensavo a quei momenti, mentre con Luisa percorrevo il sentiero della Vallesinella per raggiungere le cascate alte, attrezzato di tutto punto per soddisfare il mio hobby, la fotografia e la ripresa televisiva, quando mia moglie, che mi precedeva con passo spedito, richiamò la mia attenzione. Aveva raggiunto un gruppo di persone, che non potevo ancora vedere, perché un folto cespuglio mi copriva la visuale. Appena svoltai, riconobbi i coniugi Marini e Mazzuca.

“Buongiorno, caro Senatore, parlavamo proprio di lei”, così mi salutò il giudice Marini, mettendosi, come era solito fare, affettuosamente sottobraccio. “Con l’amico Titta stavo appunto facendo alcune considerazioni sul comportamento di Fini nei suoi riguardi. Non è possibile che un uomo politico con una storia personale di tutto rispetto e con i risultati che nel tempo ha conseguito, sia stato trattato ignominiosamente, come è stato trattato lei in occasione della recente scelta delle candidature per il rinnovo del Parlamento. Mi conosce bene; non è piaggeria la mia. Del resto non ne vedo l’interesse. Lei, caro Senatore, si è fatto stimare da noi in poco tempo. E mi creda, come amico, ma soprattutto come giudice costituzionale, ho avuto modo di apprezzare il suo impegno parlamentare. Abbiamo parlato a lungo di questa questione, purtuttavia non siamo riusciti a darci una spiegazione di questo inusitato comportamento”.

Preso alla sprovvista, tentai di fornire una qualsivoglia motivazione, che, a dire il vero, conteneva una parte di una più complessa verità.

“Sì, è difficile comprendere ciò che è accaduto, non tanto per l’epilogo della vicenda, quanto per il metodo utilizzato, che non ha tenuto conto della dignità dell’uomo.


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Vede, caro Professore, ho messo sempre in conto che nella carriera politica, a differenza di qualunque altra, la posizione raggiunta dopo anni di duro lavoro e di indicibili sacrifici può essere distrutta dalla sera al mattino, quando l’eterogenesi dei fini, ossia la convergenza degli scopi degli avversari interni ed esterni, arriva alla soluzione finale”.

Fui subito interrotto dal Professore Marini, che pareva un fiume in piena.

“Totalmente d’accordo, però la forma va sempre rispettata. Non si può buttare alle ortiche un galantuomo come lei, senza tradire i principi ispiratori della nostra parte politica. Ho toccato con mano il consenso, ma soprattutto l’affetto, che la circonda nella sua città, in occasione del Premio Isola del Liri, quando due anni fa mi invitò per premiare la pianista di fama internazionale, Licia Mancini, sua concittadina. Seppi pure che qualche mese prima, proprio nella stessa sala che ospitava la cerimonia del premio, Gianfranco Fini aveva esaltato il suo ruolo, definendola “il biglietto da visita degli amministratori di Alleanza Nazionale”. Sono a conoscenza anche dell’azione devastatrice di un suo collaboratore, espulso dal partito ed in seguito riammesso grazie ad un suo parere favorevole. Ma proprio questa vicenda avrebbe dovuto indurre Fini a valutare con più equità la sua posizione; se non altro per evitare i dubbi che in simili circostanze danno corpo alle ombre della denigrazione. Bene ha fatto a sporgere querela per diffamazione e ad invitare il Procuratore della Repubblica ad indagare sul suo conto. Soltanto un galantuomo, come lei, poteva affidarsi alla giustizia, quando i magistrati erano accusati per la loro presunta parzialità anche da alcuni settori del nostro partito”.

Nel frattempo, il gruppetto delle signore che ci precedeva, sicuramente interessato ai motivi della nostra conversazione, si era fermato, e dal loro manifesto comportamento si capiva chiaramente il forte desiderio di partecipazione.

“Non le nascondo, caro Senatore, che la nostra ammirazione nei suoi confronti è fortemente aumentata, perché ha saputo sopportare con dignità la gravissima azione subita”.

Con queste parole, la signora Mazzuca intervenne, come se volesse rappresentare i sentimenti del gruppo che si era ricongiunto a noi.

“Vede, cara signora, ci sono dei momenti nella vita in cui le prove assumono un carattere definitivo. Non si può con un atto, anche se motivato da una giusta reazione, compromettere un’esistenza informata alla coerenza degli ideali e al senso del dovere”.

Il verde dei boschi, reso brillante dai raggi del sole che di tanto in tanto filtravano tra le foglie degli alberi, il dolce parlottare degli uccelli, proprio come facevamo io e Piergiorgio, la dolce musica delle cascatelle che preannunciavano quelle più grandi, impregnavano l’atmosfera di una soave serenità, tale che per qualche tempo ebbi la sensazione che si parlasse di altrui esperienze. Intanto, il sentiero si era fatto sempre più ripido, costringendo il gruppo a sgranarsi. Persi il contatto con gli altri, in particolare con il giudice che chiudeva la fila.


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Un fastidioso dolore ad una caviglia non gli consentiva di seguire il sostenuto ritmo di marcia imposto da Luisa, che probabilmente aveva ritenuto di porre fine alla conversazione intorno ad un lacerante argomento, senza però urtare la suscettibilità di alcuno. A mano a mano che si proseguiva, le difficoltà del sentiero impegnavano sempre più il mio corpo, ma la mia mente godeva di una totale autonomia, come se la tensione muscolare, la pressione sanguigna e l’aumento del battito cardiaco fossero delle questioni ad essa estranee. Lo spirito, affrancato da ogni peso, godeva di una libertà illimitata, al di fuori del tempo e dello spazio. Ad un tratto, mi apparvero due grandi occhi azzurri. Nella galleria verde del bosco si erano improvvisamente aperti due varchi, facendo intravedere due spicchi di cielo azzurro. Per un attimo avevo creduto di aver rivisto Piergiorgio. Pensai, allora, che gli amici mi avevano impegnato nella lunga conversazione sulla mia mancata candidatura alle ultime elezioni politiche, per evitare ogni riferimento all’immenso dolore che mi aveva procurato la morte di Piergiorgio. E così anche i tradimenti e le cocenti offese alla mia dignità mi apparvero sotto una luce diversa. La decisione di Fini non era stata dettata dalla squallida resa dei conti imposta dai miei avversari interni, capeggiati da Maceratini, Tofani e Foglietta, ma dal mio tumore. Fini non aveva avuto il coraggio di precisarmi la motivazione del provvedimento, forse perché pensava che

la

decisione più opportuna dovesse essere assunta da un mio responsabile comportamento. Non capiva, però, che non potevo assolutamente arrendermi, perché ritirarmi dalla competizione politica avrebbe rappresentato per me la resa al male, senza condizioni. Insomma, la fine. Quasi sicuramente non avevo presente che la politica è comunemente intesa la continuazione della guerra con armi diverse. Pertanto, come si elimina il combattente ferito mortalmente, che può compromettere l’esito finale della battaglia, così fu decisa in una notte la esclusione dalla campagna elettorale di chi non godeva di particolari protezioni, perché la sua forza era dovuta esclusivamente al notevole consenso popolare. Era forse la serenità che mi circondava che mi consentiva di giustificare una decisione presa da tempo e che avevo intuito in tutta la sua grave dimensione. Il fragore delle cascate mi avvertì che eravamo giunti a destinazione. Non era la prima volta che la mia vista godeva nell’osservare quello spettacolo meraviglioso, ma in quei momenti mi ritornò alla mente il mirabile quadro “dipinto” dallo storiografo tedesco Ferdinando Gregorovius nel suo famoso libro “Wandejahre in Italien”, quando nel 1853, proveniente dallo Stato pontificio, visitò Isola del Liri.

“Ad Isola v’è una rumoreggiante cascata d’acqua, una solenne ombra di salici chini sul fiume, una splendida vegetazione. Questo affabile paesello giace su di un’isola del Liri, chiuso da verdi boschetti. Il bel fiume dal rapido corso smeraldo, rumoreggiando impetuoso si precipita sull’isola, cioè nel paese stesso, in forma di cascata. E la cascata si origina da una roccia alta 80 piedi, sulla cui cima torreggiano le ruine di un antico castello. Un meraviglioso fenomeno!


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Già da lontano si ode il tonfo dell’acqua e dovunque uno guarda si rallegra lo sguardo sia all’agitarsi del fiume stesso, sia agli innumerevoli canali che rapidi cadono in esso; mentre i giardini coi platani, i pini superbi e tutta la meravigliosa vegetazione propria dei paesi meridionali si stendono all’intorno. La copia dell’acqua è grande, poiché al di sopra d’Isola il Fibreno mette con molti bracci nel Liri; sicché l’unione dei due fiumi promuove qui una vita ricca di coltura e anima molte fabbriche di lana e di carta, le quali danno lavoro a tutta questa contrada, nutriscono migliaia di uomini, formano una robusta colonia di operai e producono un effetto benefico nella regione”.

Intanto, la mia solitudine venne interrotta dal professore Marini, il quale, approfittando del leggero declino del sentiero, reso scivoloso dalla brina delle vicine cascate, mi aveva raggiunto e si era nuovamente messo sottobraccio. La bellezza del posto, ma soprattutto il lungo intermezzo durante il quale si ascoltavano soltanto le voci della natura, suggeriva di non riprendere il tema della conversazione che aveva riempito la prima parte della scarpinata. Dopo le fotografie e le riprese televisive di rito, decidemmo di consumare un frugale pranzo in un caratteristico ristorante ubicato in zona panoramica e, quindi, di ripartire per Madonna di Campiglio.


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I rapporti epistolari con Fini

Nel tardo pomeriggio rientrammo in albergo, proprio quando il sole delle Dolomiti aveva iniziato il suo abbagliante declino dietro le cime del Brenta, accompagnati dalla serenità che la lunga passeggiata con gli amici ci aveva procurato. Però, la solidarietà, così affettuosamente espressa, non aveva smorzato il ricordo dei fatti oggetto della conversazione. Fu forte, allora, il bisogno di rileggere la corrispondenza intercorsa tra me e Gianfranco Fini, memorizzata nel mio PC, per verificare se era finalmente arrivato il tempo per rimuovere le conseguenze del grave comportamento del Presidente del partito. Dopo una doccia rilassante, accesi il portatile e iniziai a leggere la lettera che, il 2 ottobre 1999, avevo inviato a Fini.

“Caro Presidente, nelle mie precedenti lettere ho ripetutamente messo in evidenza le responsabilità di una ben individuata “lobby romana” che agisce trasversalmente anche in questa Provincia e che ha esercitato la sua influenza per far esplodere la crisi amministrativa del Comune di Isola del Liri. Mi rendo perfettamente conto che la trattazione di siffatto argomento potrebbe espormi a valutazioni poco lusinghiere, considerato che è alquanto difficile disporre di prove per sostenere questo assunto. Ma la concatenazione dei fatti e la eterogenesi dei fini che lega un gruppo di personaggi, che, per comprensibili motivi di riservatezza, desidero non elencare, mi porta a credere che l’ispiratore di queste manovre sia il dott. Giuseppe Ciarrapico. Me lo fa pensare il fatto che il quotidiano Ciociaria Oggi, di cui è editore, già da qualche tempo ha adottato una strategia di pesante e sistematica aggressione ai miei danni e palesemente a favore dei miei avversari interni ed esterni. Infatti, ad una mia lettera indirizzata al redattore provinciale di Ciociaria Oggi, per protestare contro l’ennesimo articolo denigratorio, la risposta mi è pervenuta direttamente dall’editore Giuseppe Ciarrapico:


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“Caro Bruno, sei un uomo troppo intelligente, troppo importante, troppo mio amico per continuare in quella che ormai si evidenzia solo una “contesa della secchia rapita” tra Te e il nostro corrispondente locale. Il giornale vuole essere il Tuo giornale, ma…voliamo alto…. Te lo dico con grande affetto e con irrinunciabile amicizia”....

Ciò premesso, caro Presidente, poiché è risaputo che Ciarrapico è legato al capogruppo dei Senatori di AN, Giulio Maceratini, da profonda e consolidata amicizia, ti prego di voler appurare i veri motivi che lo hanno indotto ad assumere questo atteggiamento nei miei confronti che danneggia rilevantemente il Partito in questo territorio. Ti prego, infine, di volermi fissare un incontro per potere analizzare più dettagliatamente questa sconcertante vicenda”.

Con questa lettera intesi ribadire a Gianfranco Fini le

preoccupazioni che più volte gli avevo rappresentato

verbalmente,senza però sortire alcuno effetto. La lunga pratica politica mi ha sempre consentito di intuire che quando l’interlocutore vuole evitare di fornire una precisa risposta ad una specifica richiesta di spiegazioni propone sempre di volare alto. La mia non era la semplice impressione di chi all’oscuro di precise motivazioni cerca in tutti i modi di pervenire ad una qualsivoglia conclusione, ma la certezza che Ciarrapico fosse l’ispiratore della sistematica azione di linciaggio con lo scopo di destabilizzare la maggioranza di centrodestra di Isola del Liri. Perciò mi aveva proposto di volare un tantino più in alto. Per farmi meglio “impallinare” dai “cecchini”, che acquattati tra i cespugli “romani”, potevano meglio aggiustare la mira per colpirmi nella mia roccaforte. Insomma, era più che evidente che si voleva togliere di mezzo un concorrente che da anni vinceva tutte le competizioni elettorali “contro” i candidati romani. In effetti, da oltre venti anni, la corrente più oltranzista del Partito, che faceva capo a Rauti e Maceratini, aveva cercato con ogni mezzo di arrestare la mia ascesa politica. Ma, ogni loro sforzo era risultato vano. Approfittarono, allora, della mia malattia e del tradimento di chi invece di sostenermi a spada tratta, se non altro perché soltanto io avrei potuto garantirgli un futuro politico, aveva preferito il tradimento. Le disposizioni furono impartite dal capo della corrente, il “rautiano” Giulio Maceratini, che dopo le scelte decise al Congresso di Fiuggi a favore di Gianfranco Fini, aveva notevolmente aumentato la sua influenza all’interno del Partito. Da tempo avevo segnalato a Fini che i seguaci ciociari di Maceratini, diventato nel frattempo capogruppo dei senatori di Alleanza Nazionale, stavano congiurando contro di me per favorire il loro sodale Oreste Tofani. E poiché ero pienamente consapevole della forza dei miei avversari, avevo ripetutamente chiesto al Presidente di Alleanza Nazionale di fissarmi un incontro, perché intendevo concordare la mia preventiva rinuncia a qualsiasi ipotesi di ricandidatura, a condizione però che essa non apparisse come il trionfo della malvagità e del cinismo degli estremisti. L’incontro non mi fu mai concesso, tuttavia Fini per altre vie confermò che nei miei confronti non sussisteva alcun problema. Come dire che ogni sua decisione avrebbe rispettato la stima che da sempre nutriva per me. Questi sentimenti mi furono confermati con questa lettera autografa.

“Caro Magliocchetti, complimenti per i tuoi rapporti internazionali, sarò lieto di ricevere il deputato brasiliano on. Sardelli e l’ambasciatore giordano.


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Ti sono vicino umanamente ed è per questo che ti rispondo senza ufficialità. Sento che vincerai la tua battaglia contro il male fisico e so che Alleanza Nazionale potrà contare ancora su di te. Con l’esempio e non solo con l’intento, per risollevarsi. La mediocrità di molti che pensano che dirigere voglia dire comandare è forse un aspetto della società senza valori in cui viviamo. Certo è che è sempre più difficile proclamare la nostra diversità…… In ogni caso non dobbiamo disperare. Un caro saluto, con stima. Gianfranco Fini”

I fatti si incaricarono subito di smentirlo. La mia esclusione dalla campagna elettorale, fu decisa nottetempo, a seguito di un ignobile ricatto di Sandro Foglietta e Roberto Ferrera, sostenuti da Giulio La Starza, “pilota” personale del Presidente Fini, per favorire la candidatura di Oreste Tofani nel Collegio senatoriale Sora-Cassino. Questa imprevedibile decisione, presa dopo tante ipocrite assicurazioni, mi privò di ogni autorevolezza, in quanto l’opinione pubblica la considerò come un provvedimento punitivo. Soltanto dopo alcuni giorni ricevetti questa sconcertante lettera del Presidente del Partito:

“Caro Magliocchetti, in un momento per te certamente poco piacevole, tengo a ribadirti che la mancata ricandidatura non rappresenta un giudizio negativo sul tuo operato in Parlamento e men che meno sul tuo comportamento politico. Mi auguro che il partito possa continuare ad avvalersi della tua collaborazione seppur con incarichi diversi rispetto al mandato parlamentare. Lieto di incontrarti, se lo vorrai, dopo le elezioni, ti saluto cordialmente”.

La mia risposta fu immediata!

“Onorevole Presidente, nella tua lettera, pervenutami in data odierna, affermi che “in un momento per te poco piacevole tengo a ribadirti che la mancata ricandidatura non rappresenta un giudizio negativo sul tuo operato in Parlamento e men che meno sul tuo comportamento politico”. Queste parole lasciano intendere che, prima di decidere la mia esclusione da questa campagna elettorale, tu mi abbia espresso palesemente la volontà di non ricandidarmi, pur apprezzando il mio operato, e di avermi precisato le motivazioni che ancora oggi non sono stato messo in grado di conoscere. Nessuna determinazione in tal senso, infatti, mi hai dichiarato il 21 marzo scorso, quando, in occasione della Festa di S.Benedetto, ci siamo fortuitamente trovati seduti, gomito a gomito, nell’Abbazia di Montecassino per partecipare alla Santa Messa. E’ stata l’unica occasione, in questi ultimi due anni, per scambiare con te qualche valutazione. La verità è che nonostante io abbia cercato in tutti i modi di conoscere le cause del “male oscuro” che da tempo affligge il Partito in questa provincia (e di cui sono stato vittima, prima come Sindaco e ora come Senatore), tu non sei mai intervenuto per porre fine al più odioso linciaggio politico che la storia di questo territorio ricordi, probabilmente per


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farmi intendere surrettiziamente le tue intenzioni, dopo avermi definito “il migliore biglietto da visita degli amministratori di Alleanza Nazionale”. Ma la parte più irriguardosa della tua lettera è quella in cui affermi “lieto di incontrarti, se lo vorrai, dopo le elezioni, mi auguro che il partito possa continuare ad avvalersi della tua collaborazione seppur con incarichi diversi dal mandato parlamentare”. E’ come dire che soltanto dopo le elezioni potrò conoscere le vere motivazioni della mia esclusione e che se nel frattempo “starò buono” sarò decentemente “ristorato”. Ma per chi mi hai preso? Forse per uno dei tuoi adulatori che, dopo essere stato sconfitto in tutte le recenti competizioni elettorali, ha accumulato una serie di incarichi lautamente retribuiti? Collaboratore del gruppo senatoriale di AN, membro del collegio sindacale del CNEL, membro del Consiglio di Amministrazione dell’Agenzia di Sviluppo regionale e Presidente di un istituto per la formazione professionale. C’è da pensare che proprio per questi motivi lo hai candidato al mio posto, paracadutandolo nel mio collegio “naturale”, che in alcuni decenni di forte impegno ho portato ai primi posti della graduatoria regionale. Come nel mito di Antèo, onorevole Presidente, il mio prestigio politico è scaturito esclusivamente dallo stretto legame con il territorio e dal notevole consenso popolare; nessun incarico, pertanto, potrà mai eguagliare la forza politica e la popolarità di cui certamente sono da sempre gratificato, ma che hanno dato lustro alla Destra in una città “geneticamente comunista”. Il partito potrà, comunque, avvalersi sempre della mia collaborazione, soprattutto come riferimento morale, in una provincia dove un tuo proconsole utilizza le strutture sanitarie per operazioni di bassa cucina clientelare, che rivaluta il peggiore doroteismo democristiano. Anche io sarò lieto di incontrarti dopo le elezioni, innanzitutto per festeggiare la vittoria della Casa delle Libertà, poi per leggere nei tuoi occhi le vere ragioni della mia esclusione da questa “epocale” competizione e, infine, per metterti a conoscenza dei miei programmi futuri. A questo proposito, mi pregio comunicarti che il prossimo 21 aprile, in occasione del decennale del referendum popolare per la fusione dei Comuni della Media Valle del Liri, si svolgerà il Convegno: Lirinia, piccola patria”. Sarà quella l’occasione per ribadire la necessità di difendere l’autonomia di questo territorio dall’onnipotenza romana, di cui anche io sono stato vittima in questa circostanza elettorale. In un momento che anche tu hai definito per me poco piacevole, il mio pensiero va al poeta francese Robert Brasillach, fucilato dai gollisti il 6 febbraio 1945. In particolare, ho riletto la sua Lettera a un soldato della classe 1960, che Egli scrisse pochi giorni prima dell’esecuzione e che così si conclude: “Ti chiedo di non disprezzare le verità che abbiamo ricercato, le intese che abbiamo voluto al di là di tutti i contrasti, e di conservare le due sole virtù alle quali io credo, la nobiltà e la speranza”.

Le mie esternazioni proseguirono con quest’altra lettera.

“Caro Presidente, il prossimo 21 aprile sarà celebrato il decennale del referendum popolare per Lirinia, il cui progetto unitamente a quello dell’istituzione della nuova provincia del Lazio meridionale, mi hanno consentito di assurgere al ruolo di naturale rappresentante delle popolazioni di questo territorio.


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Si conclude, invece, in questi giorni il linciaggio di chi recentemente hai definito “il biglietto da visita di Alleanza Nazionale” a favore di coloro che sconfitti nel ’96 e nel ’99 tornano vittoriosi: Tofani (beneficiario) e Ferrera (apprendista stregone “ristorato”). Gli sconfitti, che non perdonano mai i vincitori, aspettano sempre i momenti più favorevoli per sferrare il calcio dell’asino. Ho avuto costantemente presente questa verità, esplicitata nelle mie numerose lettere, ma non ho mai pensato che i vertici di un partito che si richiama ai valori ed alla meritocrazia potessero essere complici di questa perversa operazione con una grave caduta di stile. L’attacco forsennato alla mia dignità mi indurrebbe a sbattere la porta, ma non voglio con un atto provocato dal tradimento di mediocri personaggi distruggere la vita di un “uomo perbene”, spesa con estrema coerenza per l’affermazione di nobili ideali. Esco dalla scena in punta di piedi, costretto ad abbandonare la politica attiva. Desidero soltanto ricordare che con Giorgio Almirante ho attraversato la “palude” della partitocrazia senza farmi sporcare nemmeno da uno schizzo di fango. Oggi, alla fine dell’attraversamento del “deserto” della prima repubblica, alla vigilia della vittoria per il cui raggiungimento ho dedicato tutta la mia vita ed in prossimità della realizzazione di Lirinia e della Nuova Provincia, mi avete colpito proditoriamente alle spalle. Che Iddio vi perdoni e vi assista!”.

In questo modo, feci crollare, deliberatamente, tutti i ponti alle mie spalle, decidendo di effettuare una scelta di non ritorno. Restarono fermi tutti i miei riferimenti ideali, ma presi definitivamente atto della profonda cesura che mi divideva da una classe politica che non stimavo più. Avevo ormai maturato la completa convinzione che Fini, per soddisfare la sua incontenibile ambizione, alla vigilia della conquista del governo nazionale, era stato lo strumento di una squallida consorteria composta da servi sciocchi, adulatori, opportunisti ed estremisti, sacrificando in periferia proprio coloro che con moderazione sostenevano da tempo il rinnovamento della Destra italiana. I gravi contrasti tra le correnti capeggiate dai “colonnelli” mi consentirono di capire con largo anticipo quale sarebbe stato l’epilogo della gravissima involuzione che da tempo affliggeva il partito. Tanto che avevo ritenuto di esplicitare le mie preoccupazioni a Gianfranco Fini con la lettera del 16 settembre 1999.

“Caro Presidente, il 22 febbraio scorso, nel presentarti alla meravigliosa “piazza” di Isola del Liri, richiamando la Cultura dell’alternanza del compianto Pinuccio Tatarella, ti esortai enfaticamente con questa espressione: “Come Pinuccio è stato il Battista nella costruzione della casa comune di tutti i moderati, spetta a te esserne il Cristo”. Qualcuno rise, io pensai, invece, che era già troppo tardi! In quel momento, però, non potevo immaginare che “qualcuno” già pensava alla tua “crocifissione” con conseguente “deposizione”, apparsa così chiaramente in tutti i suoi perversi contorni nella Direzione Nazionale dell'Hotel Plaza. Adesso, per la “resurrezione” occorre coraggio e determinazione, senza farsi condizionare da devastanti compromessi. Caro Presidente, io sono tra i pochissimi che si onorano di non aver mai fatto parte della tua “corte”, la quale ti ha sempre adulato per soddisfare la libidine di potere; rappresento la “corporazione dei fessi”. Ossia quella modesta categoria di persone che i galloni se li conquistano sul campo, insomma quelli che non chiedono mai nulla (come nello “spot” di quel famoso profumo).


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Quelli, però, che hanno visto in te il realizzatore del “sogno almirantiano” di una Destra democratica ed europea. Ma questa esaltante speranza è, purtroppo, rimasta allo stato onirico, perché le profonde intuizioni di una Testa illuminata (Gianfranco Fini) sono state patologicamente devastate da un Corpo (Partito) anchilosato dalle smodate ambizioni di ridicoli “gerarchetti”. Pure le mie intuizioni, nel microcosmo locale, hanno subito la stessa sorte. Infatti, nel 1991, con il “Progetto Lirinia”, fu realizzato in questo territorio un fronte alternativo alla sinistra comunista. E da quel momento, ho vinto tutte le battaglie elettorali; anche quando AN e il Polo le perdevano. L’inadeguatezza della locale classe dirigente di AN, ossessionata dall’idea del “togliti tu che mi ci metto io”, ha determinato gravi danni a questo progetto. Morale: quando i personalismi prevalgono sulla progettualità, arriva sempre “qualcuno” che con spregiudicatezza realizza le altrui grandi intuizioni! Non era, pertanto, difficile capire che l’accelerazione della tua politica avrebbe consentito ad Alleanza Nazionale di costruire in Italia lo stesso modello realizzato da Aznar in Spagna; cosa che è stata possibile a Berlusconi proprio per la maggiore mobilità di Forza Italia. Ora, caro Presidente, è reale il rischio di essere fagocitati, anche perché molti di coloro che con te hanno raggiunto l’ennesimo compromesso sono già pronti a trasmigrare. Ed allora, perché con una buona dose di coraggio non proponiamo la costituzione del partito unico del centro-destra? Per il momento la leadership è un falso problema, anche per motivi anagrafici. Si potrebbe evitare la politica delle fughe in avanti, per tornare subito indietro, che, in realtà, ci costringe a stare fermi e ineluttabilmente a perire, secondo quella massima russa che “tutto ciò che non cresce è destinato a marcire”. L’anno scorso, ad Isola del Liri, fu organizzato il Convegno: “Bipartitismo: quale futuro?” che fu da te preventivamente autorizzato ed al quale aderirono i maggiori esponenti nazionali del centro-destra. Al di là dell’esito scontato dell’Assemblea Nazionale (Congresso sì, congresso no), io vorrei ripartire, in sede locale, proponendo un dibattito sulla costituzione di Alleanza per Italia, il partito unico del centro-destra”. La risposta di Fini, che non si fece attendere molto, arrivò il 28 settembre 1999.

“Caro Magliocchetti, ti sono grato per la tua lettera e pur stimando ottimo il tuo suggerimento ritengo la sua realizzazione, in questo momento, prematura. Ti ringrazio per l’affettuosa e preziosa collaborazione e mi è gradito inviarti un cordiale saluto”.

Al di là dei toni compiacenti della lettera, Fini, che evidentemente confondeva la realizzazione di un progetto con l’inizio di un percorso politico reso irreversibile dai fatti, mi fornì la conferma che il Partito era affetto da una sorta di paralisi progressiva che lo aveva trasformato in un incubatore di smodate ambizioni alle quali sacrificare amicizia, tradizioni, ideali e coerenza. I centri di potere che si erano sviluppati all’interno di AN accentuarono la mia convinzione che gli spiriti liberi in siffatta organizzazione politica non avrebbero avuto scampo e che Fini era ormai prigioniero delle logiche perverse dei cosiddetti “colonnelli”. La lunga esperienza politica mi aveva spinto, per una sorta di legittima difesa, ad avvicinarmi alla corrente di Urso e Matteoli che ritenevo la più distante dalla lobby romana. Sapevo, però, che il mio destino politico era segnato. L’avevo scritto in tempi insospettabili.


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Fini aveva sempre apprezzato la mia moderazione e la mia visione politica, ariosa e moderna, che coincideva con il suo pensiero. Ma le sue legittime ambizioni non potevano essere compromesse dalla difesa ad oltranza di persone come me, le quali, nei momenti delle scelte definitive, diventano dei semplici numeri. Cosicché, nel momento in cui la storia personale doveva rappresentare il requisito determinante per le scelte più opportune, prevalsero invece i ricatti. Ho avuto sempre presente che la politica è intesa come la continuazione della guerra con armi diverse, per capire le difficoltà che Fini dovette affrontare. Tuttavia, la caduta di stile mi ferì profondamente. Infatti, nessuno, neanche il buon Franz Turchi, che pur mi doveva qualcosa, ritenne di avvertirmi preventivamente. Tantomeno Urso e Matteoli, che mi avevano usato per i loro scopi. Fini, addirittura, non sentì il dovere morale di convocarmi a Roma, non dico prima di prendere la decisione, ma almeno nei giorni successivi, rinviando ogni chiarimento a dopo le elezioni. Fu, però, l’indifferenza degli amici di tante battaglie vittoriose, specialmente quelli di Isola del Liri, che lacerò per tanto tempo il mio cuore. Per la prima volta nella mia vita, avevo provato la solitudine politica. Mi restò affettuosamente accanto soltanto il buon Giampiero Imperante che si era avvicinato alla Destra dopo una lunga esperienza nel Partito socialista, ritengo per la stima reciproca che ci lega. Però, il rapporto epistolare con Gianfranco Fini proseguì anche negli anni successivi, con una ininterrotta corrispondenza che il 14 gennaio 2009 sintetizzai con la pubblicazione di una lettera aperta.

"Caro Presidente, dal 2001, e cioè da quando sono stato costretto a lasciare la politica attiva a causa di una congiura di palazzo ordita da Giulio La Starza e soci, ho aspettato pazientemente il momento della verità! E' arrivato alle soglie del decennale (2001-2011).

Per comodità di sintesi, mi preme riportare alcuni stralci della nostra precorsa corrispondenza:

Ti scrissi, era il 16 settembre 1999: “....morale: quando i personalismi prevalgono sulla progettualità, arriva sempre "qualcuno" che con spregiudicatezza realizza le altrui grandi intuizioni! Non era, pertanto, difficile capire che l'accelerazione della tua politica avrebbe consentito ad Alleanza Nazionale di concretizzare in Italia lo stesso modello realizzato da Aznar in Spagna; cosa che è stata possibile a Berlusconi proprio per la maggiore "mobilità" di Forza Italia.

Ora, caro Presidente, è reale il rischio di essere fagocitati, anche perché molti di coloro che con te hanno raggiunto l'ennesimo compromesso sono già pronti a trasmigrare.

Ed allora, perché con una buona dose di coraggio non proponiamo la costituzione del partito unico del centro-destra? Per il momento la leadership è un falso problema, anche per motivi anagrafici.

Si potrebbe evitare la politica delle fughe in avanti, per tornare subito indietro, che, in realtà, ci costringe a stare fermi e ineluttabilmente a perire, secondo quella massima russa che "tutto ciò che non cresce è destinato a marcire".


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L'anno scorso, ad Isola del Liri, fu organizzato il Convegno: "Bipartitismo: quale futuro?" che fu da te preventivamente autorizzato ed al quale aderirono i maggiori esponenti nazionali del centro-destra”.

Al di là dell'esito scontato dell'Assemblea Nazionale in merito alla indizione del Congresso, io vorrei ripartire, in sede locale, proponendo un dibattito sulla costituzione di Alleanza per l’Italia, il partito unico del centro-destra”.

Mi rispondesti, era il 28 settembre 1999: “....ti sono grato per la tua lettera e pur stimando ottimo il tuo suggerimento ritengo la sua realizzazione, in questo momento, prematura”.

Ti scrissi, era il 28 maggio 2003: “....senza venire meno al mio abituale spirito di collaborazione, ti invio copia della nostra corrispondenza intercorsa nel mese di settembre 1999, con la cortese richiesta di conoscere se, a distanza di quattro anni, tu ritenga ancora “prematura” la realizzazione di quello che all’epoca ritenesti “un ottimo suggerimento”. Ritengo che una forte iniziativa “da destra”, per evitare di essere fagocitati da Berlusconi, possibile, a mio modesto avviso, quando avevamo una maggiore visibilità politica rispetto ai nostri alleati, è resa improbabile dall’attuale congiuntura, anche a causa di una serie di madornali errori”.

Questa mia esortazione rimase senza risposta!.

Ti scrissi, era il 15 ottobre 2007: “...agli osservatori politici non è sfuggito il vero significato della grandiosa manifestazione del 13 ottobre: protestare contro il governo Prodi, ma soprattutto avvertire Berlusconi che ancora esistiamo con la nostra Fede, la nostra Tradizione e la nostra Storia. Allora, perché non ripartire anche da Isola del Liri, per riprendere la discussione interrotta dieci anni fa? Se lo ritieni opportuno, offro la mia disponibilità ad organizzare un Convegno nazionale nella mia Città”.

Mi rispondesti, era il 23 ottobre 2007: “....desidero ringraziarti per la gentile disponibilità ad organizzare un convegno nazionale a Isola del Liri che approvo pienamente...”.

Ti scrissi, era il 20 febbraio 2008: “In relazione, comunque, alle ultime scelte dirette alla costituzione del partito unitario del centrodestra, in stretta coerenza con il mio impegno teso in tal senso, come ho avuto modo di manifestarti più volte nel decorso decennio, aderisco all’iniziativa, anche se devo confessarti che non ho gradito il modo, perché è sembrato più un’annessione che un processo politico di graduale costruzione. Infatti, se Alleanza Nazionale avesse seguito il metodo tracciato dai numerosi convegni da me organizzati ad Isola del Liri sulla questione tra il 1998 e il 1999, ora la Destra politica sarebbe la locomotiva del progetto e non un semplice vagone rimorchiato da una estemporanea iniziativa (il predellino) che francamente suscita notevoli perplessità, che spero saranno fugate dopo questa complessa vicenda elettorale”.

Nel 2001, dopo dieci anni dall’inizio della corrispondenza con Gianfranco Fini, i fatti mi diedero pienamente ragione! Il decennio precedente (1990-2000) si era aperto all’insegna di un profondo rinnovamento: la caduta del muro di Berlino, la fine del comunismo, il vittorioso referendum popolare per l’istituzione della Città intercomunale di Lirinia, la mia elezione al Senato e quella a Sindaco della mia bella Isola. Nel 2001, al termine del decennio, nel mio libro “Discorsi parlamentari”, scrissi:


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“Sono stato eletto Senatore della Repubblica il 5 aprile 1992, pochi mesi dopo il vittorioso esito del referendum per l’istituzione del nuovo Comune di Lirinia, fortemente voluto dalle popolazioni della Media Valle del Liri e duramente contrastato dalla partitocrazia dell’epoca. Quando, oltre venti anni fa, l’amore per la mia “piccola patria” mi spinse ad accentuare l’impegno politico, non pensai affatto che un progetto locale potesse condizionare tutta la mia esistenza e che proprio esso, da lì a pochi anni, mi avrebbe consentito di partecipare “dal di dentro” alla transizione italiana che ha incisivamente caratterizzato l’ultimo decennio del secolo scorso. E che continua. Le democrazia diretta, rispetto alla invadenza delle segreterie dei partiti, e l’autogoverno del territorio rappresentarono le costanti dei miei discorsi parlamentari, che risentirono anche delle pulsioni e delle contraddizioni della crisi del sistema politico italiano. Le elezioni politiche erano state precedute dalle molteplici e dirompenti azioni del “picconatore”, il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che “faceva un gran rumore anche sospirando” e che intendeva sciogliere le Camere prima della scadenza del settennato. Nel ’92, i tempi erano ormai maturi. Cossiga delegittimò ancora una volta il vecchio sistema dei partiti con un messaggio televisivo a reti unificate. “Ho ritenuto che fosse giunto il momento di porre termine a una rappresentanza nazionale ormai politicamente esaurita”. E aggiunse, a scanso di equivoci, che le Camere sciolte “toglievano legittimità alle istituzioni”. Si sarebbe votato dunque il 5 aprile 1992 con la maledizione del Quirinale sull’antico regime. Il risultato elettorale, molto favorevole alla Lega Nord, “aprì una crisi profonda e irreversibile, frutto di un malessere grave che i cittadini covavano da anni. La volontà di cambiamento era fortissima”. Il colpo definitivo fu rappresentato dall’oscura vicenda legata alla nomina del Presidente della Repubblica iniziata il 12 maggio 1992 con la seduta congiunta delle Camere. “Ogni gioco, interno o esterno alla DC, era ormai inutile. Il partito di Don Sturzo e di De Gasperi aveva deciso di suicidarsi” – scrisse Bruno Vespa. Devo confessare che questa inquietante vicenda, protrattasi per molti giorni, rappresentò un impatto traumatizzate per uno come me, proveniente da una provincia che nonostante i molti aspetti negativi non era adusa ai perversi e oscuri giochi dell’alta politica. Dopo aver assistito ai vari tentativi di eleggere i suoi più diretti avversari (Forlani e Spadolini), “sapendo che in politica le carte vanno giocate anche quando la partita sembra persa, Andreotti non s’era affatto rassegnato alla sconfitta”. Nel primo pomeriggio di sabato 23 maggio 1992, invitò Claudio Martelli nel suo studio in S. Lorenzo in Lucina per fare il quadro della intricata situazione. E dopo aver messo in evidenza la correttezza dei socialisti nei confronti di Forlani, candidatura ormai bruciata dai “franchi tiratori”, gli precisò che non avrebbe compreso l’ostracismo dei socialisti in merito ad una sua eventuale candidatura, in quanto negli anni precedenti si era sempre comportato lealmente con il partito di Craxi. Fino a quel momento ogni notizia era apparsa del tutto secondaria rispetto ai veti incrociati che da diversi giorni caratterizzavano le votazioni in corso a Montecitorio per la elezione del Presidente della Repubblica. Alle 18,30 di quel drammatico sabato, il Tg1 dette la notizia dell’attentato di Capaci e subito dopo della morte del giudice Giovanni Falcone e della sua scorta. Sul Parlamento scese una cappa di piombo ed io, per la prima volta, avvertii il senso di una indicibile paura. “Ormai si era alla frutta e come sempre si chiamavano in causa le “istituzioni”: sarebbe toccato a Spadolini, Presidente del Senato, o a Scalfaro, Presidente della Camera?”. Ebbi tutta intera la consapevolezza di essere “dentro” una delle sconvolgenti vicende dell’Italia dei misteri, quando si diffuse la voce che la strage di Capaci era stata interpretata da ambienti vicini a Giulio Andreotti “come un atto diretto a sbarrargli la strada per il Quirinale”.


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Il 25 maggio fu eletto presidente della Repubblica l’on. Oscar Luigi Scalfaro, che, il 18 giugno incaricò l’on. Giuliano Amato, il politico più vicino a Bettino Craxi, di formare il nuovo governo. Due anni dopo, alla fine della tragica stagione di “Mani pulite”, quando la Magistratura spazzò via la classe politica della Prima repubblica, Silvio Berlusconi decise di scendere in campo per realizzare in Italia la “rivoluzione liberale”, ebbi validi motivi per credere, e non solo io, che era finalmente giunto il momento di un radicale rinnovamento della politica italiana. Era questo il sentimento generalmente avvertito dalla parte più sensibile del popolo italiano. E’ noto che una diffusa sottocultura del nostro Paese è fortemente condizionata da alcuni “vizi endemici”: individualismo esasperato; familismo amorale; furbizia unita ad una malcelata tendenza alla illegalità, talora alla mafiosità; accidia; conformismo; servilismo nei confronti del potente di turno, salvo poi appenderlo per i piedi con la testa in giù, di fronte ai quali si antepongono le azioni di due schieramenti "trasversali". Quello di coloro che con l’esempio personale tentano di correggere le “italiche malformazioni” e quello storicamente prevalente di coloro che alimentano il “male oscuro” del popolo italiano per acquisire un facile consenso, aggravando la "malattia". La certezza che fosse finalmente giunta l’ora di un’autentica rivoluzione capace di rigenerare la Nazione, aprì il mio cuore alla speranza. La nascita di Forza Italia e di Alleanza nazionale costituì i presupposti per un’autentica politica di riscossa nazionale. L’Italia che avevo sempre sognata si stava realizzando. L’Italia che avevo costruito nella mia coscienza attraverso la conoscenza del pensiero dei grandi “innovatori” che hanno in realtà caratterizzato profondamente il pensiero del Ventesimo Secolo dalla letteratura al cinema, dalla politica all’economia, dalla filosofia al teatro, dalla giurisprudenza alle arti figurative. Ma, alla fine del decennio 1990-2000, dopo la lunga esperienza politica e parlamentare, unitamente alle vicende connesse alla gestione amministrativa del Comune di Isola del Liri, la realtà effettuale mi convinse che il “berlusconismo” non era altro che la perpetuazione delle “malformazioni” del popolo italiano. Il suo “male oscuro”! A queste amare conclusioni pervenni alla fine della lettura della corrispondenza con Gianfranco Fini, memorizzata nel mio PC e che volli rileggere, rientrando in albergo, dopo la lunga passeggiata con gli amici di Madonna di Campiglio. Mi chiesi, allora, che cosa sarebbe stato di me se non avessi avuto il conforto e la tenerezza di Luisa e Piergiorgio. Decisi, allora, di spegnere il PC e di aprire la finestra della mia camera d'albergo per prendere una boccata di aria pura.


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L’incontro con Piergiorgio

Il Savoia Palace Hotel si trova al centro di Madonna di Campiglio, vicino al laghetto e sotto il monte Spinale, sulle cui cime sorge il sole delle Dolomiti. Uno spettacolo meraviglioso che dalla finestre aperte della nostra camera attendevo all’alba di ogni giorno con l’ansia del giovane innamorato. Riprendere con la telecamera il sole nascente era per me motivo di indicibile piacere, perche, a differenza dell’occhio nudo che, se è in grado di resistere all’accecante luce, vede un’immensa palla di fuoco, lo zoom della telecamera consente di rivedere l’astro con sfavillanti effetti. I due spicchi di cielo azzurro, improvvisamente apparsi lungo il sentiero della Vallesinella, e che per un attimo mi avevano dato l’illusione di aver visto il bel viso di Piergiorgio, avevano occupato gran parte della mia notte insonne. Il pensiero che su quelle cime, a metà strada tra la terra e il cielo, fosse ancora possibile assistere ad una nuova illusione, mi fece balenare l’idea che lassù avremmo potuto stabilire il punto d’incontro con nostro figlio. Decisi con Luisa l’itinerario che porta al Grostè, perché a quota 2.600 si trova il Rifugio Giorgio Pneiffer. Ormai ogni nostra scelta era condizionata da tutto ciò che potesse avere una qualsivoglia connessione con nostro figlio. Prendemmo la cabinovia fino al rifugio, per poi continuare ad arrampicarci a piedi alla ricerca del posto migliore da scegliere come luogo di incontro con Piergiorgio. Eravamo giunti a quota 3.000 m., quando, proprio sul crinale, apparve un complesso roccioso a forma di altare con una profonda apertura alla base. Ci avvicinammo con trepidazione; era veramente un altare naturale. Luisa prese dallo zainetto un ricordino di Piergiorgio e, profondamente commossa, me lo consegnò. Mentre, con un groppo alla gola, inserivo il santino nella cavità della roccia, ebbi l’impressione di una forte presenza.


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Si trattò, forse, di una forte suggestione, certo è che da quel momento quel luogo cominciò ad esercitare su di me un richiamo così forte da indurmi a ritornare a Madonna di Campiglio soprattutto per “rivedere” Piergiorgio. Dalla sua morte, fatta eccezione di qualche fugace apparizione ad Isola del Liri, avevamo trascorso l’intera estate tra il Circeo e le Dolomiti, alla continua ricerca della indispensabile serenità. Alla fine di agosto, tornammo stabilmente nella nostra città che in quei drammatici giorni si era stretta affettuosamente attorno a noi. Il ricordo dell’assoluto silenzio che accompagnò la cerimonia funebre, squarciato inizialmente dai lampi e dai tuoni di un cielo cupo e addolorato di fine maggio, ma ritornato subito di un profondo azzurro, mi indusse a rileggere la lettera del Sen. Gian Giacomo Migone, Presidente della Commissione Affari Esteri del Senato.

“Caro Bruno, in casi come questi si può solo affermare una semplice verità: che ti voglio bene, che ti stimo, e sento che ciò che ti fa soffrire mi riguarda da vicino. Siamo inermi di fronte al mistero della morte, anche se restiamo dolenti padroni di ciò che è stato e che continua a riguardarci, in misura quasi intollerabile. Non vorrei perdere la tua presenza. L'amicizia so bene che c'è ed è reciproca. Un abbraccio,

Gian Giacomo”

L'assenza di Gianfranco Fini e dei dirigenti nazionali di AN fu lacerante. Si precipitò ad Isola del Liri soltanto il Senatore Antonino Monteleone a manifestarmi il suo affettuoso cordoglio. Unico dei 41 colleghi. Dopo alcuni mesi si entrò nel clima natalizio. Il primo Natale senza Piergiorgio. Da qualche anno, in questa solenne circostanza, Piergiorgio gradiva ascoltare i più noti Canti di Natale interpretati da famosi cantanti lirici. Conservo con amore la videocassetta che volli rivedere in quel triste Natale, illudendomi di avere vicino Piergiorgio, stretto a me, esattamente come era tante volte avvenuto. Placido Domingo interpreta con la sua possente voce Noel, mentre il video lascia scorrere le immagini delle vette innevate delle Dolomiti, molto suggestive, perché sono state riprese da un elicottero con notevole professionalità. Una cima, anche se è ricoperta dal manto nevoso, sono convinto che sia l’ ”altare di Piergiorgio”, che io e Luisa abbiamo scelto sul Grostè come luogo preferito per incontrare nostro figlio, a metà strada tra il cielo e la terra. Sarà sicuramente dipeso dalla commovente interpretazione di Placido Domingo, ma la visione di quell’enorme coltre di neve sulla roccia a forma di altare con al centro una profonda apertura, entro la quale avevo inserito il “ricordino” di Piergiorgio, suscitò in me un’angosciante sensazione. Pensai di averlo lasciato solo in mezzo a tanto gelo, e piansi a dirotto. Decisi, allora, di programmare un viaggio a Madonna di Campiglio, per poterlo incontrare. Per tutto l’inverno, quell’anno particolarmente rigido, questa idea diventò sempre più pervasiva fino a diventare un’ossessione. Non pensavo ad altro in sala operatoria, prima dell’anestesia, per essere sottoposto ad una biopsia richiesta dal prof. Gallucci.


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Questo piccolo intervento si era reso indispensabile, per effettuare un approfondito esame istologico, a seguito dell’aumento del PSA accertato nel corso degli ultimi esami di routine.

Gli effetti dell’anestesia furono immediati…

…per motivi che non riuscivo a spiegarmi, quella mattina di agosto percorrevo il sentiero per raggiungere la cabinovia, senza la compagnia di Luisa. Tenuto conto del motivo che mi spingeva a raggiungere la vetta del Grostè, mi sembrava alquanto strana l’assenza di Luisa che mi era stata sempre accanto nei momenti più importanti. Del resto non avevamo deciso da molto tempo un nuovo incontro con Piergiorgio? Dall’ampio finestrino della cabinovia, mi sembrava di possedere la montagna che mi scivolava sotto, mentre salivo rapidamente come se avessi le ali. Una leggera sensazione di onnipotenza si impossessò della mia mente, quando alla base del massiccio roccioso decisi di scalare la vetta. Mi trovai di fronte ad una parete del sesto grado che soltanto i grandi alpinisti sono in grado di dominare. Per un attimo pensai di aver sbagliato posto, perché l’ “altare di Piergiorgio” l’avevamo scelto in un luogo facilmente accessibile. Fu certamente un momento di umana debolezza; un aquilotto come Piergiorgio, per giunta con gli occhi azzurri, non poteva essere in un posto diverso da quello della cima della guglia che si stagliava sopra di me. Attrezzato di tutto punto, iniziai la scalata. Con la perizia di un esperto scalatore conficcavo un chiodo dopo l’altro nella solida roccia, sostenuto dalla corda che aumentava la mia sicurezza. Dopo aver raggiunto una considerevole altezza, mi meravigliai, guardando sotto di me, di provare un indicibile piacere; non soffrivo più di quelle penose vertigini che prima mi avevano impedito di compiere scalate così ardite. La meticolosa ricerca degli anfratti, appoggi, e appigli per rendere più prudente la scalata escludeva ogni pericolosa improvvisazione e faceva aumentare le probabilità di riuscita dell’impresa. Improvvisamente, dalla vetta cominciarono a scendere delle nuvole che in poco tempo annullarono il campo visivo. Il cielo azzurro diventò cupo e minaccioso. Una furiosa tempesta di pioggia e vento mi fece penzolare lungo la parete rocciosa sulla quale sbattevo continuamente, riportando sanguinose lesioni alle mani nude. Trovai finalmente la posizione giusta, appiattendomi sulla parete, favorito dalla forza del vento. Sferzato dalla bufera, procedevo lentamente ma con forte determinazione; non potevo mancare all’appuntamento. Risuonavano nella mia mente le parole di Luisa: “Non arrenderti mai!”, mentre attorno urlava la tempesta. Era già accaduto tante altre volte di cadere in prossimità del traguardo, dopo una lunga e faticosa corsa. Avevo appena toccato la vetta con la mano sanguinante, quando per un cedimento della roccia cominciai a precipitare. La caduta diventò inarrestabile, ma lenta, senza fine, come se fosse venuta a mancare la forza di gravità. Ebbi l’impressione di essere amorevolmente sostenuto da due possenti braccia,

proprio nel momento in cui,

attraverso un gioco di dissolvenze, i cupi colori della tempesta erano sostituiti da uno sconfinato scenario celeste che in prospettiva assumeva i toni di un profondo azzurro. Lo stesso colore delle poltrone che arredano la stanza dove Piergiorgio ha trascorso gran parte dei suoi ventinove anni.


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Avevamo deciso di arredarla in questo modo, a ricordo di quell’angolo azzurro degli occhi di Piergiorgio, che la morte lasciò semiaperti, perché la loro bellezza potesse per sempre rimanere impressa nella memoria di tutti coloro che gli vollero bene. Fui delicatamente adagiato su una superficie impalpabile, ovattata. Qualcuno mi prese per mano e con voce suadente mi invitò a percorrere insieme l’immenso viale. Non avevo mai sentito quella dolce voce; mio figlio mi aveva parlato soltanto con il sorriso dei suoi occhi.

“Caro papà, come vedi, adesso sono in grado di passeggiare con te, mano nella mano, come hai sempre desiderato. Ora tutto mi è possibile, anche di volare”.

Completamente inebetito dallo stupore, restai per qualche tempo paralizzato, incapace di qualsivoglia reazione. E’ vero che il desiderio di “rivedere” Piergiorgio era diventato il motivo fondamentale del nostro soggiorno estivo a Madonna di Campiglio, ma è pur vero che questa convinzione aveva soltanto delle connotazioni spirituali. Ho sempre creduto che tutto ciò che è materiale sia effimero e, perciò, destinato a decomporsi. Per questo le mie visite al cimitero non sono frequenti, soprattutto da quando ho assistito all’esumazione dei resti mortali di mia madre: la sua dolce e armoniosa figura trasformata in un’informe commistione d’ossa e di poltiglia putrescente. Invece l’amore è imperituro! Ecco perché credo che Piergiorgio non sia morto. Egli è vivo, ma in un altro stato. Semplicemente non è dove sono io. Ed allora perché in un’atmosfera siderale e rarefatta, in quel momento l’unica presenza fisica oltre quella mia era rappresentata da Piergiorgio? Mi sciolsi in un irrefrenabile pianto di gioia e lo abbracciai teneramente; non l’avevo mai visto così bello! Mentre lo toccavo e lo accarezzavo, mi convincevo sempre più della sua reincarnazione.

“Capisco la tua meraviglia, papà, ed è difficile anche a me spiegare che, dopo una serie di segni imponderabili con i quali ti sono sovente apparso, io abbia deciso di incontrarti in un luogo strettamente riservato a poche anime elette, alle quali è riservato il privilegio di reincarnarsi. Mi rendo perfettamente conto che tutto ciò può apparire inverosimile, ma ti prego invece di credermi. Del resto l’abbraccio dei nostri corpi è stato la migliore dimostrazione. Questo posto non è il Paradiso che si trova al Piano eccelso, dove la musica celestiale si confonde con una commistione di luci fantasmagoriche che hanno annullato per l’eternità le tenebre e dove la contemplazione di Dio consente un’indefinibile beatitudine. Ci troviamo in un luogo, posto tra il cielo e la terra, dove le anime di coloro che in vita sono state prigioniere di un corpo reso inutile dalla malattia riacquistano momentaneamente l’aspetto armonico della loro creazione, per incontrare le persone amate nell’Angolo azzurro”.

“In parole più semplici, vuoi dirmi che è prossima la mia morte”, risposi con malcelata preoccupazione.

“Sei stato sempre così categorico, papà. Ti posso assicurare che la morte è una invenzione dell’uomo per sostenere l’inesistenza di Dio. E’ più esatto affermare che si avvicina il momento della separazione dell’anima dal corpo, che non avviene mai improvvisamente: è la conclusione di un lungo processo che inizia dall’embrione e si svolge per tutto il corso della vita terrena.


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Quando si avvicina la fase terminale, se l’amore ha informato l’esistenza di una persona, un’anima eletta la può accompagnare nell’Angolo azzurro, posto tra il cielo e la terra, per un periodo di lunga e meticolosa preparazione”.

La mia umanità mi impediva di capire la differenza, perciò chiesi ansiosamente a Piergiorgio maggiori spiegazioni.

“Capisco perfettamente il tuo disagio. Utilizzerò una metafora per farmi comprendere nel modo migliore: io sono sceso dal Piano eccelso, tu hai deciso di ascendere verso le supreme vette, perciò ci siamo incontrati in un punto intermedio che si chiama Angolo azzurro. Mi è gradito dirti che siamo ormai vicini alla meta. Come tu stesso puoi vedere, il nostro angolo è proprio quello sulla nostra destra, con l’indicazione: “Bruno e Piergiorgio”.

Era esattamente come la stanza dove era vissuto e morto. Che io e Luisa avevamo deciso di arredare con due belle poltrone azzurre.

“Mio Dio! Ma allora è tutto vero. Non è un’allucinazione. Posso finalmente dare una risposta ai tanti interrogativi che in questi mesi mi hanno arrovellato il cervello?”.

“Certamente. Tu continui ancora a chiederti se la mia vita e la mia morte hanno aperto e chiuso la tua lunga esperienza politica nelle istituzioni. E’ proprio così. La separazione della mia anima dall’inutile gabbia del corpo malato è avvenuta proprio quando il mio ruolo è terminato. Non ti sei mai chiesto perché, nei momenti di grande difficoltà, una misteriosa presenza ti aiutava a risolvere immani problemi? Molto hanno fatto nonna Ersilia e nonna Pia, ma ero soprattutto io a darti la forza che tu stesso ritenevi superiore alle tue naturali possibilità. Del resto continua ad essere questa la mia missione! Ti ho lasciato, ma solo materialmente, pochi giorni prima della scadenza del tuo mandato parlamentare, perché fosse celebrato il funerale del figlio del Senatore, quando eri ancora in carica. Un semplice peccato di orgoglio che, appena giunto al Piano eccelso, mi è stato amorevolmente rimproverato!”.

La sua dolce voce mi procurava una indescrivibile beatitudine, mentre la speranza che l’incontro non avesse mai fine si impossessava totalmente del mio essere. Improvvisamente, però, fui assalito da un cupo pensiero. Cominciai a chiedermi perché non aveva fatto del tutto per evitarmi la grave malattia, ma soprattutto perché non aveva impedito il cinismo e la malvagità dei miei avversari e il tradimento dei miei amici.

“Tu pensi veramente che senza superare tutte queste prove dolorose, ti sarebbe stato possibile incontrarmi nell’ Angolo azzurro? Tu credi sul serio che senza procurarti le stigmate della malvagità e del tradimento, ti sarebbe stato possibile, ora, di colloquiare con un figlio che per tutta la vita terrena ha parlato con te soltanto con il sorriso dei suoi occhi? Tutto ciò mi preoccupa, perché la tua conversione non si è completata, mentre si avvicina speditamente il momento della separazione della tua anima dal corpo.


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L’aver perdonato coloro che ti hanno fatto del male, è visto molto positivamente lassù, perché la carità non tiene conto del male ricevuto. Quando si perdona, si compie la più eroica delle donazioni, in quanto si dona tutto di sé: le convinzioni, il dolore per l’offesa subita, la dignità calpestata, le ragioni profonde. Un cuore riconciliato con Dio e con il prossimo è un cuore generoso. Adesso devi importi l’oblio. Se ciò non dovesse avvenire, mi dispiace dirti, caro papà, che sarà improbabile un nostro ulteriore incontro”.

Queste ultime parole furono per me angoscianti. Mi rendevo conto che la persona vittima di una ingiustizia corre il pericolo di essere dominata dal risentimento, talora dall’odio, e che è incline a continuare a vivere soltanto per assaporare la vendetta. E’ il primo impulso che si prova, quando si ha la consapevolezza che tanti adulatori, tanti giullari di corte e tanti opportunisti ti applaudono nei momenti della vittoria, per poi tradirti ignominiosamente alle prime difficoltà. Purtuttavia, la fede e la dolcezza di Piergiorgio mi hanno aiutato a superare, attraverso un esercizio quotidiano, la tentazione di pensare ad una rivincita. Il pensiero della vendetta mi aveva per lungo tempo macerato l’anima, ma il perdono mi ha creato uno stato di beatitudine che nessuna vittoria mi aveva mai fatto provare. Potevo, però, dimenticare i fatti accaduti? E, soprattutto, potevo rimuovere le dannose conseguenze che i tradimenti avevano causato agli interessi della mia bella Isola, che per la crisi vedeva minacciato il progetto globale di riconversione della sua economia? Potevo dimenticare che il tradimento locale era stato propedeutico alla mia esclusione dalla competizione elettorale, per dare ragione ai miei avversari interni che da anni preparavano il regolamento dei conti?

“Non preoccuparti, papà, qui il tempo non esiste, perciò non ho dovuto attendere che tu terminassi le tue riflessioni. Ho letto, però, i tuoi pensieri. Poiché continui ad essere prigioniero del tuo passato, ribadisco che non è sufficiente il perdono, occorre anche l’oblio”.

E’ vero, non mi era stato difficile perdonare tutti coloro che mi avevano fatto del male chi più chi meno con atti perversi o con l’indifferenza, ma come potevo dimenticare il glaciale distacco che Fini e tutta la classe dirigente di AN manifestarono anche in occasione della morte di Piergiorgio?

“Non è così, papà. La mia morte, avvenuta pochi giorni dopo le vicende che ancora ti addolorano, arrecò a costoro una lacerante crisi di coscienza. Ritenevano che il dolore arrecato alla nostra famiglia dalle loro gravi decisioni fosse stata la causa scatenante della mia morte. Ti assicuro, però, che non fu questo il motivo della mia scomparsa. Era semplicemente terminata la mia missione. Dovevo tornare ad essere uno spirito libero dalla costrizione di un corpo che mi aveva lungamente tenuto incatenato. Ora, in questo periodo di preparazione che ti è stato concesso, e per questo ritieniti un privilegiato, ti insegnerò a conquistare la vera libertà”.


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Ho sempre creduto che la vita sia degna di essere vissuta, se si abbandona ogni forma di egoismo e si esce dal chiuso degli interessi particolari, per assumere le responsabilità che si dicono terrestri, accompagnate da una visione profondamente spirituale del mondo. Ricordo che nelle conversazioni giovanili entravo con frequenza in contrasto con chi affermava che lo sviluppo della parte comporta l’arricchimento del tutto: un modo sottile per esaltare l’egoismo. Ma il lungo periodo dedicato all’impegno sociale e politico, inavvertitamente, giorno dopo giorno, mi aveva fatto perdere la linea dell’orizzonte. Attratto dalla quotidianità, prevaleva l’uomo esteriore destinato al disfacimento, mentre restava soltanto in superficie la ricerca delle cose di lassù, della verità e della pace interiore che si ottiene con la contrizione del cuore e con la consapevolezza della miseria umana limitata comunque dalla morte. Suggestionato, pertanto, dalle ideologie antropocentriche del secolo scorso, non mi rendevo conto che in sostanza ero diventato sempre più prigioniero del mondo con tutto il suo carico di ambizioni, orgogli, invidie, desideri di possesso, rivincite, paure, menzogne che escludono il raggiungimento di un’autentica libertà. Cominciavo, pertanto, a capire l’esortazione di Piergiorgio: il perdono senza l’oblio non è sufficiente, perché il ricordo delle tante miserie umane non mi avrebbe mai consentito di liberarmi dalla gravità terrestre, per ascendere verso la vera libertà dello spirito. Ripensai, allora, alla lettera che Mozart scrisse al padre con la quale definiva la morte il gioioso passaggio verso l’ eterna beatitudine.

“Questa riflessione, papà, è una buona base di partenza. Era ora! Vedrai che con questo ritmo, anche se qui il tempo non esiste, l’oblio delle cose terrene ti consentirà di conquistare la vera libertà. La vanità delle cose terrene ti apparirà in tutta la sua reale dimensione. Per cui i trionfi e le tragedie, che pur ti hanno procurato gioie e dolori, subiranno la stessa decomposizione del corpo”.

Non riuscivo a comprendere, però, se le mie tante debolezze, i miei peccati d’orgoglio, le mie concupiscenze e qualche cattiveria di troppo avessero in qualche modo limitato eternamente la libertà del mio spirito. La conversazione con Piergiorgio scorreva facilmente, grazie alla sua capacità di leggere i miei pensieri.

“Infatti, a te è ancora precluso di salire al Piano eccelso. In questo nostro Angolo azzurro, avremo la possibilità di incontrarci spesso. Mi è stata conferita, perciò, la funzione di trasferirti di tanto in tanto la beatitudine riservata alle anime eccelse. Come vedi, la tua poltrona azzurra è stata già messa in ordine per accoglierti. L’altra verrà occupata di volta in volta da me e da mamma”.

L’immenso piacere di parlare con Piergiorgio non mi aveva consentito di pensare all’assenza di Luisa che in altre circostanze mi avrebbe senz’altro procurato una seria preoccupazione, perché sono stati rarissimi i momenti di distacco.

“Oddio! Perché mamma non è qui con noi. Che significa questo scherzo. Non saprei come definire questa dolorosa separazione proprio nel luogo dove è tenuto in alto conto l’indissolubilità del matrimonio”.

“Vedi, non cambi mai. Per mamma non è giunta ancora l’ora. E poi mamma non avrà bisogno di nessuna preparazione. Tu hai bisogno delle sue preghiere.


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Tu, papà, non hai mai saputo pregare così come fa mamma con assoluto trasporto. So che ti fa piacere sapere che lei è destinata al Piano eccelso, perché lassù la sua vita terrena è stata ritenuta esemplare. Comunque, tu non resterai solo in questo posto abbastanza sereno, perché io e mamma scenderemo dal Piano eccelso per darti un po’ di compagnia”.

Cominciai finalmente a credere che gli ideali politici che avevano ispirato ogni mio atto, anche se erano stati sempre coerenti con una visione nobile della vita, mi avevano di fatto allontanato dal fine ultimo, in quanto le mie naturali ambizioni avevano sovente oscurato la convinzione che tutto ciò che attiene alla nostra esperienza terrena è vanità. Si squarciò, improvvisamente, il velo che mi aveva sempre celato la verità. Era ormai tutto chiaro. La mia anima era stata ferita eternamente dalla superbia e dall’orgoglio. Per troppo tempo mi ero compiaciuto della mia intelligenza e delle mie opere, nella falsa convinzione che la mia naturale umiltà fosse ritenuta una forma di debolezza che, specialmente nell’attività politica, rappresenta una grave remora. Per essere sapiente, è necessario disprezzare questo mondo e tendere ai regni celesti. L’affannosa ricerca della ricchezza, gli onori, la faticosa scalata nell’ordine sociale, i desideri carnali, una

vita

gaudente a scapito del benessere spirituale e la bramosia di cogliere il momento, allontanano dalla verità, perché “Non si sazia l’occhio di guardare, né mai l’orecchio è sazio di udire”.

“Allora per me non c’è salvezza?” - chiesi con voce angosciata, anche se ero ormai certo che Piergiorgio leggesse anticipatamente ogni mio pensiero.

“Ti resta ancora del tempo, caro papà, per la tua totale conversione. Il legame che ti unisce alle cose del mondo ti impedisce di accedere subito al Piano eccelso. Mi rendo conto che hai dovuto superare prove durissime, ma non sempre sei riuscito ad evitare le tentazioni. Nessun uomo è tanto perfetto da esserne esente. Io stesso sono stato più volte tentato, anche se le mie condizioni fisiche mi hanno impedito di cedere alle lusinghe del mondo. Il tuo amore per mamma è stato smisurato, ma la bellezza femminile e l’incontenibile desiderio sessuale hanno gravemente condizionato i tuoi sentimenti”.

Era chiaro che Piergiorgio di me avesse saputo tutto, persino i pensieri più intimi, se non addirittura le perversioni che non sono mancate con donne disponibili e attratte da quel sottile fascino che rende l’uomo politico molto attraente. Mentre i ricordi si affollavano nella mia mente, aumentava il mio disagio, giacché, nonostante la mia naturale riservatezza, gli aspetti più intimi della mia personalità erano conosciuti da mio figlio…


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A mosca cieca con Vanessa

…e tra i ricordi che in quel momento tornavano come un vortice nella mia mente, mentre Piergiorgio mi osservava con affettuosa attenzione, si inserì con prepotenza la strana esperienza vissuta con Vanessa, che mi era sempre apparsa inconfessabile per i suoi aspetti paradossali. Vanessa, insegnante di inglese, apparve nel mio studio una calda mattina di maggio. Gli impegni internazionali mi avevano imposto un approfondimento del mio inglese scolastico, molto insufficiente perché insieme con la matematica l’avevo sempre ritenuto ostico. E ciò ha limitato notevolmente la mia naturale propensione ad uscire dai limitati orizzonti provinciali. Un leggero, quasi impercettibile, tocco alla porta preannunciò la sua presenza.

“Buongiorno. Senatore Magliocchetti? “Buongiorno. A che cosa devo questa meravigliosa apparizione?”. “Sono la sua insegnante di inglese”.

La dolcezza e la bellezza esuberante di Vanessa mi turbarono. Per un tempo interminabile rimasi senza parole, rimediando una brutta figura, soprattutto perché, in assenza del mio invito ad entrare, era rimasta sull’uscio. La luce proveniente dalla finestra aperta in fondo al corridoio, faceva intravedere la sinuosità delle sue gambe che il vestito di seta gialla a fiori tenui non riusciva più a nascondere. Il desiderio di fissare quel momento mi aveva fatto dimenticare le norme di buona educazione che tutti mi hanno sempre riconosciuto. Dal suo stupore, capii di averle procurato una pessima impressione. Mi alzai, le andai incontro, le baciai la mano, invitandola ad accomodarsi nella poltrona posta tra la porta e la mia scrivania. Vanessa turbamento.

si sedette con il tipico aplomb anglosassone. Ma \1il suo corretto comportamento non alleviò il mio


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Con il passar dei giorni, però, quella che era sembrata una procurata antipatia si trasformò in un rapporto che a mano a mano superò i labili confini di una piacevole amicizia. Dal primo giorno di lezione, Vanessa aveva impresso all’insegnamento di inglese un percorso affatto originale, molto diverso dalle mie reminiscenze scolastiche, avendomi chiesto preliminarmente se preferivo la lettura allo studio delle regole grammaticali. La mia passione per internet e per i testi di politica internazionale, oltre alla lettura dei quotidiani inglesi e americani, mi fece propendere per la prima soluzione. Perciò, all’ora convenuta si presentava all’appuntamento con la tipica precisione anglosassone, chiedendomi di fotocopiare la pagina del quotidiano, prevalentemente inglese, il cui argomento si sceglieva comunemente come lezione del giorno. All’inizio, ovviamente, si trattarono le questioni di politica internazionale, in seguito cominciammo a spaziare in tutte le direzioni. Dalla musica, in particolare il jazz, di cui si mostrava molto competente, alla moda, dai viaggi all’eros. Fu proprio in quel periodo che fui costretto ad assentarmi per essere sottoposto all'intervento chirurgico di prostatectomia radicale per estirpare il tumore. A Vanessa non avevo nascosto le mie condizioni di salute, probabilmente per la mia naturale propensione a dire la verità alle persone che istintivamente mi sento vicine. La confidenza che ormai si era instaurata tra di noi mi aveva consentito di riferirle che tra le conseguenze negative dell’intervento chirurgico si era verificata la prevedibile, seppur temporanea, impotenza sessuale. In compenso, però, la mia speranza di vita si era allungata! La mia particolare condizione d’animo, ci spinse a porre al centro delle nostre conversazioni questo argomento, soprattutto per le implicazioni che esso poteva assumere negativamente sulla mia personalità. Mi accorsi soltanto allora che il desiderio di possederla era stato da lei avvertito dal primo momento del nostro incontro, quando apparve sull’uscio del mio studio con la sua paralizzante avvenenza. Alla ripresa delle “lezioni”, nel passarmi gentilmente la penna, mi sfiorò delicatamente la mano, per significarmi i suoi sentimenti, probabilmente perché la confessione delle mie condizioni fisiche avevano

fatto cadere ogni remora

connessa ad un comprensibile timore riverenziale, tenuto conto che mai avevo fatto trasparire le mie intenzioni. Mi sembrò invece un’espressione di affettuoso compatimento. Non passarono, però, molti giorni per capire di aver sbagliato ogni valutazione, perché i sentimenti sono più complessi rispetto alla pletora delle convenzioni che connotano le relazioni umane. Me ne resi conto, quando Vanessa, di tanto in tanto, dopo avermi osservato con una particolare espressione, reclinava all’indietro la testa e si pettinava la sua folta e lunga capigliatura bionda, penetrandola con le sue dita affusolate, senza distogliere il suo languido sguardo su di me. Era, allora, che interrompevo ogni conversazione per guardarla intensamente. Ma ogni dubbio svanì, quando Vanessa fece cadere volutamente un foglio dalla scrivania. Mi abbassai per riprenderlo e mi accorsi che aveva allargato le sue meravigliose e nude gambe, per porre fine alle incertezze che ormai da molto tempo caratterizzavano il nostro rapporto. Il desiderio di possederla fisicamente era stato sempre forte, almeno quanto l’amore che mi ha legato per tutta la vita a Luisa. Mi rialzai vistosamente turbato e le baciai la mano. Passai una notte insonne. Arso dal desiderio, continuavo, però, a chiedermi in che modo avrei potuto soddisfare la passione che così prorompente si era manifestata tra me e Vanessa? Tra i tanti argomenti che abitualmente trattavamo nel corso delle nostre piacevoli conversazioni, uno era ricorrente: l’amore totale per Luisa che Vanessa aveva avuto modo di conoscere e stimare durante le tante visite che mia moglie era solita farmi a Roma.


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Tra loro si era instaurata una dolce amicizia, aliena da sospetti e da ogni forma di gelosia. Quando Luisa e Laura, i volti sconvolti, mi avevano portato l’esito del primo esame istologico, con il quale mi fu diagnosticato l’ adenocarcinoma, Vanessa ed io eravamo impegnati in una delle nostre abituali conversazioni. Ricordo, per un’imperscrutabile associazione di idee, che proprio in quel momento si parlava con sua somma meraviglia del free jazz e di John Coltrane, con particolare riferimento alla sua mirabile interpretazione di Love supreme. Luisa mi consegnò una busta della Casa di cura Quisisana e lasciò il mio studio visibilmente addolorata. Il plico conteneva l’esito degli accertamenti clinici che, a dire il vero, avevo puntualmente previsto, per avere da tempo individuato il filo rosso con il quale il destino tiene coerentemente legato le fasi più significative della mia vita. Vanessa mi chiese subito i motivi del mio profondo e vistoso turbamento; il nostro rapporto confidenziale le permetteva di farlo, senza essere condizionata dalle convenzione che simili circostanze richiedono e da qualsivoglia remora. Con una sconcertante naturalezza, la informai del mio grave stato di salute; e non perché si era trovata presente proprio nel momento in cui Luisa mi aveva consegnato la documentazione sanitaria, senza osservare la necessaria discrezione e senza nascondere il dolore che invece l'aveva vistosamente sconvolta, ma perché si trattava di un esito da me largamente intuito e scontato. Non ho mai saputo con certezza se furono queste circostanze a stimolare la naturale propensione di Vanessa ad imbastire storie dai contenuti forti, sta di fatto però che a distanza di pochi mesi dall'intervento chirurgico iniziò un accattivante gioco erotico. Una mattina, infatti, si presentò con la vecchia copia di un quotidiano americano che conteneva un articolo riquadrato in rosso, scrupolosamente conservata. La sua dolcezza mi portò ad escludere che si trattasse di un piano accuratamente preparato, ma i fatti si incaricarono di dimostrare il contrario. Passeggiata cieca, era il titolo dell'articolo. Trattava dei costumi e dei comportamenti sessuali degli adolescenti di oltre oceano, incentrati sulla sensorialità e sensualità tattile. Insomma, una sorta di mosca cieca basata sulla tecnica del "toccare senza vedere e senza ascoltare". Una sessuologa americana, nel descrivere i comportamenti sessuali dei giovani adolescenti, precisava che essi non sono altro che lo specchio della società contemporanea. Comunque essi non devono essere considerati patologici, anche se nel passato non erano certo di pubblico dominio, in quanto riflettono e riproducono atmosfere spettacolari, ma sono anche la scissione psichica tra desideri e proibizioni, tra totalità delle aspirazioni e limitatezza dei risultati che si conseguono. Dopo aver premesso che l'amore vero e completo coinvolge la mente e il corpo e che la sua antitesi è il rifiuto totale del sesso, per affermare un sesso "neutro", iniziava la descrizione dei rapporti sessuali. Il rapporto mercenario tradizionale, secondo la sua opinione, si colloca in una zona intermedia. In linea generale è assente l'amore, ma vengono utilizzati tutti i canali sensoriali, dalla vista, all'udito, al tatto. Se le circostanze e i tempi lo permettono. Lo "streap tease", in auge da alcuni decenni, ma in uso da sempre (basti pensare alla danza dei sette veli di evangelica memoria e alla danza del ventre delle arabe), impegna in prevalenza il "senso" della vista. Si guarda e non si tocca. I due termini - attrice e spettatore - sono distanti e nessun contatto si perfeziona, almeno sul momento. Insomma, è proibito ogni contatto fisico. Nel "sesso telefonico" viene utilizzato un altro senso, quello dell'udito. Ma non c'è modo né di vedere, né tanto meno di toccare. Una forma adatta a chi è particolarmente timido, ai romantici, ai grandi parlatori. A chi, insomma, si accontenta o preferisce le parole ai fatti.


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Poi c'è il "cybersex", che ha fatto da poco il suo ingresso sulla scena dei nuovi comportamenti sessuali. E' un sesso spaziale, lunare che investe il futuro dell'uomo, ma non di tutti gli uomini, bensì di quelli che potranno vivere nello spazio. E' un sesso tecnologico, dovuto alla capacità della macchina di creare una realtà virtuale, che sembra vera, ma non lo è. In queste finzioni che coinvolgono la mente, la fantasia, l'immaginazione, sono impegnati tutti i sensi: la vista, l'udito, il tatto. Si può parlare, sentire, toccare. Ma non si tocca la realtà. Manca la donna in carne ed ossa. Siamo davanti alle ombre virgiliane. La maggior parte degli esseri umani, uomini e donne, seguono il percorso della natura. Avvertono cioè un trasporto fisico e mentale ed hanno rapporti completi. L'articolo della sessuologa americana terminava con la descrizione del divieto e della

proibizione, insomma del

peccato classicamente inteso, che sono alla base dei comportamenti parziali. Impegnato nella lettura in inglese e nella contestuale traduzione dell'articolo, tardai a capire che il tema della lezione era stato prescelto da Vanessa proprio per inviarmi un preciso messaggio. L'argomento trattato non mi era sconosciuto, perché da tempo connotava la maggior parte delle opere cinematografiche e televisive, soprattutto quelle di maggiore successo, che avevano modificato profondamente i costumi della società, fino a qualche decennio prima caratterizzata da un prevalente perbenismo borghese. Quando, però, Vanessa mi si avvicinò per consultare insieme il dizionario, con il gomito avvertii le contrazioni del suo ventre, mentre tra i miei capelli si insinuava il suo caldo e affannato respiro. Era in preda ad una forte eccitazione dei sensi. Riuscii a dominare la tentazione di toccarla: "Vanessa, ti prego di assumere un contegno più consono al luogo; considera che potrei essere tuo padre e che da un momento all'altro potrebbe arrivare mia moglie". Era troppo chiaro che mentivo spudoratamente, in quanto il mio moralismo d'accatto nascondeva la difficoltà derivante dalle mie condizioni di salute. Capì il mio imbarazzo, si ricompose e tornò al suo posto. Da quel momento, però, iniziarono gli sguardi intriganti, e cominciammo a guardarci senza toccarci. Quando apriva la porta del mio studio, stazionava lungamente sull'uscio, perché sapeva che la luce della finestra in fondo al corridoio mi consentiva di intravedere la bellezza delle sue gambe, per suscitare così la stessa sensazione provata la prima volta. Una mattina di luglio, mentre ero impegnato in una lunga telefonata con un autorevole membro della Lega araba, Vanessa entrò nel mio studio e, dopo il solito rito, si sedette nella poltrona collocata tra la porta e la mia scrivania e iniziò un inebriante gioco delle sue affusolate gambe. Eccitatissima, i piedi nudi, si fece forza sui talloni, alzò il bacino, inarcò il corpo, e si ricompose con movimenti armoniosi accompagnati da un sorriso trasfigurato dal desiderio che rendeva il suo viso più bello e più splendente. Si accasciò sulla poltrona, reclinò la bionda e bellissima testa, chiuse gli occhi e si addormentò. O almeno questa fu l'impressione che colsi, distratto dall'impegnativa conversazione telefonica. Ma dal respiro affannato e dalle evidenti contrazioni del suo ventre, ebbi la certezza che era stata colta da un incontenibile orgasmo. Senza toccarsi. Con eleganza. Senza volgarità. Però, l'ambiguità manifestata da Vanessa alla fine della mia telefonata, mi tolse ogni convinzione. Probabilmente avevo confuso il desiderio con la realtà. Tuttavia, non volevo lasciare senza una verifica la mia impressione, in quanto, per mia consolidata abitudine mentale, ho sempre cercato di dare senso alle mie percezioni attraverso un rapporto dialettico, talora anche esasperando la vis polemica.


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Sicché, senza preamboli le chiesi se nel corso del suo apparente sonno avesse avuto particolari sensazioni erotiche. Mi rispose deliziosamente, facendo ricorso al noto pensiero di William W.Atkinson: “Dite alla mente, più volte, quello che volete che essa faccia, lusingatela, stimolatela, datele ordini, ed essa obbedirà”.

“Vuoi forse dire che per ogni pensiero, per ogni sentimento, noi abbiamo particolari effetti viscerali ed endocrini?” - Le chiesi con molta curiosità.

“Si, egregio Senatore, come pure le varie funzioni viscerali, sensoriali, sensitive e motorie si riverberano sulla psiche, dimostrando un concatenamento veramente meraviglioso fra stimolo sensoriale, pensiero, funzionalità endocrina e atteggiamento muscolare”.

Il mio stupore per questa sua dotta dissertazione spinse Vanessa a precisarmi che per qualche anno aveva seguito un corso di medicina senza conseguire la laurea.

“In buona sostanza – continuò - la corteccia cerebrale è capace di interferire sull'attività di ogni parte del nostro organismo, anche la più profonda”. “In parole più semplici – chiesi - questo significa che non esiste un'attività cerebrale, come il pensiero per fare un esempio, semplicemente autoreferenziale? Insomma vuoi forse dire che essa protende i suoi effetti fin nella periferia dell'organismo?”. “Proprio così – si affrettò a rispondere - tuttavia, affinché questo possa accadere con la massima potenza, è necessario che venga stravolta l'ordinaria gerarchia tra emisfero cerebrale sinistro ed emisfero destro”. Sapevo, per averlo letto su qualche rivista specializzata, che almeno nell'uomo moderno occidentale, è solitamente predominante l'emisfero sinistro che è la sede delle qualità logico-analitiche, e dunque del pensiero razionale, concettuale, ipercritico, radicalmente fondato sullo spazio e sul tempo. Di conseguenza l'emisfero destro, sede del pensiero immaginativo, analogico, musicale, fortemente emotivo e partecipativo, è generalmente molto meno attivo o comunque sottomesso al sinistro. Pertanto, in condizioni di dissociazione psichica più o meno parziale dell'Io, in uno stato di alterazione della coscienza e attraverso tecniche adeguate, possono venire invertite le funzionalità dei due emisferi cerebrali, arrivando così a realizzare una inconsueta predominanza dell'emisfero cerebrale destro sul sinistro e quindi una vera e propria ipnosi. L'alpinista solitario impegnato a scalare una parete delle cime del Brenta o delle vette del K2, oltre gli ottomila metri, dove l'aria è rarefatta; il pilota di F1, mentre sorpassa un suo concorrente ad oltre trecento chilometri orari; i piloti degli aerei a reazione che nelle loro acrobazie vanno oltre il muro del suono, si trovano, secondo il giudizio degli esperti, in uno stato alterato di coscienza. Anche se lo ignorano. Ed eventi particolari, nel momento in cui ricorrono situazioni estreme, possono far "saltare" spontaneamente e naturalmente questi atleti in dimensioni davvero peculiari, che non devono essere, però, considerate patologiche. In uno stato di serio pericolo, siamo in grado di produrre sostanze antidolorifiche, variare il metabolismo basale, abbassare la temperatura corporea ed entrare così in condizioni mentali "altre" da quelle ordinarie.


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A conclusione di queste mie riflessioni, Vanessa disse: “In queste condizioni si modificano a volte le percezioni che abbiamo di noi stessi, degli altri e del mondo intero. Fenomeni straordinari possono apparirci assolutamente ovvi e il nostro essere più profondo può realizzare esperienze davvero ineffabili”.

Le chiesi allora se in determinate e particolari condizioni si può sconfinare addirittura nell'estasi che sovente nasce da un rapimento artistico, religioso, spirituale, o nel mezzo di un digiuno o con frenetiche danze.

“E' molto difficile – si affrettò a rispondere - descrivere quello che accade durante un’estasi, salvo che non la si provi direttamente, anche perché, per il soggetto, la realtà esterna gli è totalmente estranea, non esiste più, ed egli opera in modo diverso, perde i propri confini e spazia altrove nel tempo e nello spazio”.

“Insomma – le chiesi – chi prova l'estasi e’ come isolato da questo mondo e non ha alcuna percezione sensoriale di quello che proviene dall'esterno? Egli vive ed è coinvolto soltanto dalla realtà interna alla sua mente? Sono solo gli astanti che possono descrivere quel tipo di stato di alterazione di stato mentale”?

“Si – rispose assumendo un atteggiamento professorale - Le faccio l'esempio più eclatante anche per gli irriverenti equivoci che nel tempo ha ingenerato, a proposito di erotismo sacro. Il nucleo del pensiero mistico di Teresa d'Avila, individuabile in tutti i suoi scritti, è l'ascesa dell'anima umana attraverso quattro stadi”. Poiché, la confusione tra sacro e profano, accentuava sempre più il mio stupore, Vanessa ritenne di precisare: “Il quarto stadio, la “devozione dell'estasi”, è uno stato “passivo”, nel quale la consapevolezza dello spirito di risiedere in un corpo viene completamente perduta. Le attività sensoriali cessano, e anche la memoria e l'immaginazione vengono assorbite da Dio o cancellate del tutto”. Per comprendere meglio l'argomento che Vanessa stava trattando con grande competenza, non solo per averlo studiato, ma soprattutto per averlo approfondito, e per i motivi che i fatti successivi di incaricarono di dimostrare, ritenni di intervenire. “Mi sembra di aver capito che l'estasi avviene quando vi e’ un sovraccarico di stimoli mentali e di emozioni. Quindi in certi soggetti ed in certi casi la mente si concentra “altrove”, uscendo dalla realtà di questa dimensione. Non ha nessuna reazione riflessa, non e’ nel “qui e ora” di coloro che sono accanto a lui. Ma le sensazioni vissute durante uno stato di estasi mentale sono legate alle credenze del soggetto?”. Non ebbe alcuna esitazione: “Certamente, le sensazioni vissute durante uno stato di estasi mentale e’ legato alle credenze del soggetto: se e’ cristiano evangelico, per esempio, vedrà’, parlerà con Gesù; se e’ cattolico, devoto della Madonna, parlerà con la Vergine santissima; se e’ islamico parlerà con Allah, e via così. E' il legame di Amore per qualcosa, qualcuno o luogo (anche immaginario)che lega la mente a quelle immagini mentali”. “Lo stato di estasi, allora, è una malattia? - le chiesi con molto interesse. “No, assolutamente no. E' una possibilità di calarsi all’interno della propria mente, per conoscersi meglio; ma rappresenta anche un grave pericolo per coloro che non comprendono le correlazioni, perché nel momento in cui si esce dagli stati mentali alterati, e fortemente gratificanti, e’ possibile rimanerne affascinati e non riuscire più a vivere senza di essi”.


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A questo punto, facendo una rapida ricerca su internet, volle farmi leggere alcuni brani dell'Autobiografia di Santa Teresa d'Avila. “Il Signore, mentre ero in tale stato, volle alcune volte favorirmi di questa visione: vedevo vicino a me, dal lato sinistro, un angelo in forma corporea, cosa che non mi accade di vedere se non per caso raro. Benché, infatti, spesso mi si presentino angeli, non li vedo materialmente, ma come nella visione di cui ho parlato in precedenza. In questa visione piacque al Signore che lo vedessi così: non era grande, ma piccolo e molto bello, con il volto così acceso da sembrare uno degli angeli molto elevati in gerarchia che pare che brucino tutti in ardore divino: credo che siano quelli chiamati cherubini, perché i nomi non me ridicono, ma ben vedo che nel cielo c’è tanta differenza tra angeli e angeli, e tra l’uno e l’altro di essi, che non saprei come esprimermi. Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d’oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avesse un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via, lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere quei gemiti di cui ho parlato, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c’era da desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi d’altro che di Dio. Non è un dolore fisico, ma spirituale, anche se il corpo non tralascia di parteciparvi un po’, anzi molto. È un idillio così soave quello che si svolge tra l’anima e Dio, che supplico la divina bontà di farlo provare a chi pensasse che mento».

“I giorni in cui durava questo stato ero come trasognata: non avrei voluto vedere né parlare con alcuno, ma tenermi stretta alla mia pena che per me era la beatitudine più grande di quante ve ne siano nel creato”. Da quel momento sento meno questo tormento, bensì sento quello di cui ho parlato prima in altro luogo – non ricordo in quale capitolo – che è molto diverso per molti aspetti ed è di maggior valore. Infatti, quando ha inizio la pena di cui parlo, sembra che il Signore rapisca l’anima e l’immerga nell’estasi; non c’è tempo, pertanto, di sentir pena né di patire, perché subito sopraggiunge il godimento. Sia benedetto per sempre il Signore che fa tante grazie a chi risponde così male ai suoi immensi benefici!». Mi spiegò, infine, che in questi casi ci si trova di fronte ad una vera e propria transverberazione, che nell'agiografia cattolica è definita come l'esperienza mistica attribuita ad alcuni fedeli che verrebbero feriti dall'intervento sovrannaturale di Dio o di creature angeliche. Tra i casi più celebri, appunto, quello di santa Teresa d'Avila, il cui cuore sarebbe stato trafitto durante un'estasi da un angelo con una freccia infuocata (come è rappresentata nella celebre scultura del Bernini che si ammira a Roma nella Chiesa di Santa Maria della Vittoria) o di San Pio da Pietrelcina, grande santo, mistico e taumaturgo. Il Santo rivelò di aver visto una figura, probabilmente angelica, che con una lancia creò i segni della Passione del Signore. Anche le stimmate, infatti, sono ritenute frutto della transverberazione.


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Pur dolorosa, l'esperienza sarebbe sublime in quanto manifestazione tangibile dell'amore di Dio verso gli uomini e perché lega indissolubilmente ad Egli l'anima del fedele. A quel punto tutto mi fu chiaro: compresi che la lunga dissertazione di Vanessa era stata finalizzata a spiegare le motivazioni della estasi sessuale di cui ero stato spettatore. La mia, dunque, non era stata una pura e semplice percezione. Vanessa in uno stato di autoipnosi era stata “posseduta” da una forte eccitazione erotica. La mia mente era totalmente coinvolta, ma il mio corpo era assente: mi trovai proprio nella condizione di sesso "neutro" descritta nell'articolo, con la variante, decisa di comune accordo, di "vedere senza toccare e di parlare con toni suadenti". Accadde, però, ciò che assolutamente non avrei mai pensato; stavo inconsapevolmente diventando l'oggetto del desiderio di Vanessa. Vanessa era ebrea e il suo vero nome era Shulamit, come la meravigliosa protagonista del Cantico dei Cantici, il più antico testo di erotismo sacro ebraico-cristiano, che dai libri sapienziali è confluito nel Vecchio Testamento della Bibbia. Il Cantico dei Cantici è considerato uno dei testi più enigmatici e controversi della Bibbia: è un componimento poetico millenario, scritto probabilmente nel IV secolo a. C., attribuito a Salomone, figlio di Davide. E’ stato fra gli ultimi libri ad essere incluso nella Bibbia ebraica, probabilmente perché non parla né di Dio né di Israele, né è il racconto di una visione profetica. E’ attualmente presente nell' Antico Testamento sia della Bibbia ebraica che di quella cristiana. Nella raccolta cristiana è inserito tra i libri sapienziali; in quella ebraica è incluso nei Ketuvìm. In uno dei tanti incontri culturali, Vanessa mi fece conoscere il testo poetico del Cantico dei Cantici e la sua protagonista, Shulamit: una giovane donna innamorata, anche se il testo si presenta sotto forma di un dialogo tra due giovani che si cercano. Il suo amato non ha nome, e vive solamente dell’appassionata descrizione di lei: è lei che conduce il gioco, lei che prende l’iniziativa amorosa, lei che parla al posto di lui. Shulamit nel poema, Vanessa nell'attualità, si muoveva e parlava in una dimensione non reale, in un luogo dove i desideri hanno parole intense e sensuali, non hanno pausa né esitazioni, e sconta per questo la condanna - forse piacevole - di una perenne irrealizzabilità, di un inseguimento senza fine. Alcuni versi del Cantico pongono in chiara evidenza la modernità del dialogo poetico scritto circa 2.400 anni fa, e rendevano fortemente allusivo lo scopo della lettura.

“Mi abbeveri di baci la tua bocca, perché il tuo amore inebria più del vino”; «Portami nella cantina. Piantami il tuo stendardo, amore”(...) Con dolci d'uva e con mele sostentami, risuscitami. Muoio d'amore»; «Le tue labbra sono un filo scarlatto, desiderabile è la tua bocca” (...)

“Mi travolgi la mente, sorella mia e sposa. Mi travolgi la mente. Con un solo sguardo, con una sola collana del tuo collo. Tu sei l'Oasi sprangata, Sorella mia e sposa. La Sorgente Turata, la Fonte Sigillata. I tuoi scoli sono un Giardino Paradisiaco di melograni, di hennè di nardo, di frutti preziosi.(...)

“Entri il mio Amato nel suo giardino, per mangiare quel frutto prodigioso»;

“Nel mio giardino entravo, Sorella mia e sposa. E la mirra e ogni essenza ne rapivo, e tutto il favo del miele mangiavo e il vino e il latte bevevo. (...)


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“L'amato mio toglieva dalla fessura la sua mano e le mie cavità muggivano per lui. Per aprire al mio amico io mi alzavo. Al suo richiamo la mia anima usciva e la mia mano mirra colava” (...)

“La tua vulva è un curvo alambicco di odoroso liquore non è mai secca, una manata di grano in un roseto, ti giace in mezzo agli inguini” (...)

“Col liquido odoroso e il lacrimare della mia melagrana t'irrorerei. La tua sinistra sotto la mia testa e la tua destra mi abbracci.» (...)

Senza falsi pudori, toccando però l'apice di un forte erotismo mistico, superiore a qualsiasi testo di magia sessuale, Vanessa mi spiegò che sono nove le porte del Cantico per condurre all'anima e che è stato scelto l'organo che ha più somiglianza con la porta e la stanza vuota e disabitata, dove l'anima insegue l'anima attraverso l'estasi, il tormento e talora anche la sguaiatezza. Con molto trasporto Vanessa proseguì nella spiegazione del Cantico, perché tutta la visione del poema, secondo la sua interpretazione, era smisuratamente passionale. E, come a suffragare questa sua opinione, mi precisò che per un antico, semita o greco, lo stravolgimento della mente non aveva nulla di negativo, in quanto essa è la condizione per il passaggio ad un ordine superiore, aggiungendo che la nudità, intesa però come energia attiva, e la forza afrodisiaca del corpo non hanno soltanto il fine di esaltare i sensi, in quanto le effusioni, le carezze e il conclusivo godimento conducono nella stanza vuota, dove si celebra il triplice mistero della conoscenza erotica, psichica e spirituale. Ma subito dopo, per evitare equivoci o per edulcorare la sua interpretazione, aggiunse che nel Cantico dei cantici manca il male, inteso come oscuro demiurgo, come contrarietà, contesa, pericolo, perdizione, perversione, tenebra, morte. In verità, dalla lettura del Cantico, che non avevo fino a quel momento approfondito e interiorizzato, avevo colto momenti di spasimo di una donna innamorata che si masturba in solitudine, sognando la vicinanza dell'amato. Vanessa intervenne per invitarmi a cogliere anche la sublime descrizione della mano dello sposo, che entra in sogno per la porta chiusa e si trasforma in un dardo tutto d'oro che ha sulla punta un fuoco che si immerge ripetutamente nel cuore, perforandolo da parte a parte. Esso tocca tutti i visceri, e uscendo per immergersi di nuovo sembra portarli via tutti dentro l'incendio di quella punta, mentre il corpo svuotato e dolorante si riempie di una pace d'amore inesplicato e infinito. Poiché questi riferimenti rendevano esplicite le intenzioni di Vanessa, cominciai a dare un senso a quella sconcertante vicenda. Non riuscivo, però, a spiegarmi come avesse potuto in così breve tempo modificare il suo comportamento nei miei confronti. In tanti mesi, pur trattando argomenti scabrosi, giammai aveva manifestato tali intenzioni. L'unico fatto nuovo intervenuto era stata la mia malattia. Ed allora, cominciai a chiedermi se la pietas avesse avuto il sopravvento sull' aplomb anglosassone di Vanessa, fino a farle assumere un comportamento che nelle nostre conversazioni aveva sempre ritenuto sconveniente per una donna di buoni costumi.


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Mi trovavo al cospetto di una complessa personalità, che, approfittando del mio particolare stato di salute, voleva rimuovere ogni inibizione per mettere in libertà gli aspetti inconfessabili dei suoi sentimenti o, invece, avevo al mio cospetto una donna come tante altre che compativa la mia grave condizione? In questo caso, dovevo ritenermi colpito nell'orgoglio dal cinico comportamento di chi avevo messo a conoscenza della mia contingente impotenza sessuale o dovevo considerare la disponibilità di Vanessa una forma di compatimento, proprio nel senso di patire insieme, verso un uomo che aveva avuto modo di apprezzare profondamente? Perciò, era forse questa una manifestazione di innamoramento? Esclusi a priori questa eventualità, innanzitutto perché Vanessa, nel corso delle nostre libere e talora spregiudicate conversazioni aveva sempre escluso la possibilità di un rapporto con un uomo maturo; un particolare eufemismo per significare una persona non più giovane. In effetti ci dividevano circa quarant'anni. Ma soprattutto perché avevamo sempre condiviso la considerazione che l'amore tra un uomo ed una donna è il coinvolgimento totale dei sentimenti, ossia della mente e del corpo. Per fugare, però, ogni mio dubbio, mi lasciai condurre in una spirale erotica fatta di sguardi languidi e furtivi, mentre ogni nostra conversazione diventava sistematicamente allusiva. Continuavamo a "vedere senza toccare", accompagnando ogni gesto con parole espresse con garbo, senza mai indulgere a quella volgarità che sembra essere la peculiarità dei nostri tempi. Decisi di porre fine a questo strano rapporto, quando Vanessa mi fece visita a Isola del Liri. Nel salotto di casa, si sedette dirimpetto a me e, con un'intelligente e spregiudicata regia, dette luogo ad un continuo anche se discreto movimento delle gambe, che fu ritenuto da Luisa un'innocente manifestazione della spiccata vivacità giovanile della mia insegnante. Vanessa era ormai vittima del personaggio da lei costruito, perciò diventava sempre più imprudente, impossessata dal piacere del proibito e della trasgressione. Ma, con il passare del tempo, cominciai a maturare la certezza che l'iniziale ammirazione per l'uomo politico, che nell'immaginario collettivo incarna il potere, si era gradatamente trasformata in incontenibile desiderio di dominio. Il solo pensiero, convalidato però da una molteplice serie di atti, di essere diventato incautamente l'oggetto delle perversioni di una donna che mi aveva colpito dal primo momento per la sua squisita personalità e per la sua dolcezza, trasformò la mia simpatia in un forte risentimento. Decisi, allora, di porre drasticamente fine al gioco. Dichiarai a Vanessa di ritenere concluso il corso di inglese, con parole decisamente e volutamente sprezzanti e volgari. Fu certamente da parte mia una intollerabile caduta di stile e la mancanza di coraggio per porre fine nel modo più dignitoso ad un rapporto dai contorni patologici. Avevo improvvisamente, ma anche con una imperdonabile ingenuità, scoperto che i giochi erotici di Vanessa, contrari a ogni forma di volgarità, e i suoi armonici movimenti, espressi con poetica grazia, uniti ad uno spiccato esibizionismo derivante dalla consapevolezza di possedere un corpo meraviglioso, celavano un sentimento perverso di dominio. Il mio orgoglio era stato profondamente ferito. L'effetto fu dirompente, perché Vanessa fu profondamente turbata da questo inaspettato comportamento. Si alzò, mi porse la mano, che strinsi però molto affettuosamente, e, con deliziosa grazia, uscì dal mio studio. Non l'ho più rivista. Ho saputo in seguito che aveva chiesto al suo Istituto un altro incarico. Come già ho avuto modo di precisare, nell'Angolo azzurro non esiste la cognizione di tempo e spazio, perciò non sono in grado di stabilire la durata dei miei ricordi. Mi girai verso Piergiorgio, seduto accanto a me, e mi accorsi che mi sorrideva con un'espressione amorevole ma nello stesso tempo di bonaria ironia, come per dirmi che aveva seguito passo passo i miei pensieri.


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"Come è facile arguire, papà, questo episodio della tua vita, come del resto altri che io conosco nei minimi particolari, dimostra ampiamente come il sesso ti abbia fortemente condizionato come strumento di piacere e di dominio. Perciò, come ho avuto modo già di dirti, i pensieri che anche in questo momento ti condizionano dimostrano che non sei ancora preparato per godere dell'armonia celeste".

"Si, tutto questo è vero – mi affrettai a precisare - ma non ritieni che questi episodi, suscitati dalla mia forte umanità, siano la più chiara dimostrazione del mio infinito amore per tua madre?".

"Sono ben consapevole – aggiunse - che in buona sostanza non hai mai tradito la mamma, però ciò che mi sforzo di farti capire è che il piacere fine a se stesso e il sesso come strumento di possesso e di potere rappresentano una grave remora per accedere al Piano eccelso".

Le argomentazioni di Giorgio erano state così precise da indurmi a non insistere. Ritenni, perciò, opportuno passare oltre, con questa precisa domanda:

“Ho compreso benissimo quello che mi hai detto, e ne farò tesoro. Ma prima di lasciarci, mi piacerebbe conoscere il tuo alto pensiero sul mistero della sofferenza. Se la sofferenza, caro Giorgino, è l'unico mezzo valido per rompere il sonno dello spirito e se tutti dobbiamo soffrire per comprare con la sofferenza l'armonia eterna, che c'entrano i bambini? E' del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocchi pure a loro comprare l'armonia con la sofferenza".

Mi rispose citandomi un'espressione di Francois Mauriac, il cui significato mi era stato sempre di difficile comprensione, essendo la mia vita informata ad un irrefrenabile vitalismo, che per sua natura mi portava a rifuggire da ogni forma di dolore: "Il dolore è un terreno inquinato sul quale però sbocciano i fiori più puri della fede e dell'amore". Dall'antichità si è sempre discusso sulla stretta connessione tra il peccato e il castigo. Sicché si è sempre pensato che la sofferenza non sia altro che il giusto castigo che un Dio giustiziere impartisce ai peccatori. Insomma, le persone, la cui esistenza è punteggiata da inenarrabili dolori, sono state additate da sempre come quelle che sono duramente punite per i loro peccati. E gli innocenti? Si è sempre affermato che pagano le colpe degli altri. Del resto, Cristo non è stato sottoposto alla tortura della Croce, per la redenzione dell'umanità segnata dalla dissoluzione e dal peccato? Non è stato sempre così per le tante stragi degli incolpevoli bambini? La celestiale serenità di Giorgio fece comunque trasparire un misto di comprensione e di rassegnazione: in verità non ero ancora nella condizione di liberarmi dalle ristrette dimensioni poste dal tempo e dallo spazio. Ma, allora il mio dolore per le sue sofferenze terrene derivava dalla umana impossibilità di idealizzare me stesso in lui, per colmare le mie insufficienze? Chi, infatti, non vede in suo figlio il proprio completamento? Quante volte mi sono avvicinato alle vette della vita per cadere quando esse erano ormai vicine, e quante volte egoisticamente ho pensato che mio figlio potesse andare oltre per completarmi? Non è forse questa l’aspirazione di ogni padre? A questo punto, Giorgino intervenne, interrompendo i miei pensieri:


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“Umano, troppo umano, papà, il desiderio di realizzarti in me. E’ mai possibile che ancora oggi, dopo tanti anni e soprattutto dopo la mia morte, tu non riesca a capire che la mancanza di questa terrena prospettiva ti ha fatto scoprire il vero amore, quello senza corrispettivo con il quale mi hai inondato in vita?”.

Questa osservazione mi ammutolì, ma Piergiorgio che aveva da tempo compreso la sofferenza che la sua condizione mi procurava, continuò con tono perentorio:

“Proprio perché non vuoi ancora rinunciare alla tua umanità, ti sarà consentito di raggiungermi solamente nell’Angolo azzurro prima del Cielo, dove non esistono vette più alte, come nel Piano eccelso dove tutto è semplicemente eterno”.

Per poi aggiungere con una espressione seria e bonaria:

Il nostro incontro, caro papà, è arrivato al termine; considera che anche qui valgono per te ancora le regole terrene. Voglio, però, prima di accomiatarci dirti che nella tua vita sei andato avanti troppo rapidamente. Devi ora fermarti per consentire alla tua anima di raggiungerti”.

“Quando potremo rivederci – gli chiesi con un certo sussiego.

Con un luminoso sorriso, mi rispose: “Per tutte le considerazioni che ti ho espresso e che anche io ritengo di difficile comprensione per gli uomini, ti ribadisco che per le anime che scendono nell’Angolo azzurro prima del cielo, ogni momento è eterno”.

Ancora una volta aveva letto i miei pensieri, fornendomi le giuste risposte, mentre mi prendeva per mano invitandomi ad alzarmi. Ci incamminammo lungo il viale azzurro, ovattato, la cui lievità annullava ogni dimensione, perché l’impressione che io coglievo era quella di una assoluta libertà. Le gambe affondavano nel vuoto e per quanto io volessi appoggiarmi alle pareti dell’immenso tunnel, pure le mani affondavano nell’ atmosfera siderale. Continuammo, perciò, a tenerci per mano, senza parlare. Ogni parola avrebbe turbato la serenità del silenzio. Intravidi in lontananza un punto bianco che assumeva una dimensione sempre più grande, tanto che il graduale recupero delle

dimensioni spaziali e temporali mi fece subito intendere che stava per terminare l’incontro con

Piergiorgio. A mano a mano che avanzavamo, il punto luminoso focalizzava in modo sempre più netto la forma di una croce, fino a quando mi apparve un ligneo Crocifisso collocato sulla parete della stanza asettica della clinica. Era cessato l’effetto dell’anestesia, che mi era stata praticata per una complessa biopsia, ritenuta necessaria per l'esame istologico richiesto dal Prof. Gallucci a causa della recrudescenza della malattia. E con il risveglio era terminato anche l’incontro con Piergiorgio. Capii subito che si era trattato di una delle tante visioni oniriche che dalla sua morte di tanto in tanto intervenivano puntualmente proprio nei momenti in cui la realtà assumeva dimensioni insopportabili.


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Ma un tremendo dubbio mi invase: e se le sostanze chimiche che mi erano state somministrate per annullare la soglia del dolore, mi avessero condotto, sia pure per il tempo limitato all’incontro con mio figlio, proprio in quel punto dove la vita ci consegna alla morte? Per qualche attimo fui preso da questo dubbio amletico, per rendermi subito conto che la mano che affettuosamente stringeva la mia era quella di Luisa. Una somiglianza perfetta che per un momento mi fece pensare che l’incontro con Piergiorgio si fosse trasferito altrove. Mi è stato poi spiegato che la confusione tra il sogno e la realtà è tipica della fase che segue il risveglio dall’anestesia. Riferii tutto a Luisa con dovizia di particolari. Fummo pervasi da una profonda commozione, perché ci convincemmo che non si era trattato di un sogno. Infatti, mentre durava l’effetto dell’anestesia, Luisa aveva notato, con grave preoccupazione, che il mio viso aveva assunto aspetti cadaverici, tanto da avere chiesto l’intervento tranquillizzante del medico. E’ sempre rimasto il dubbio che un errore dell’anestesista mi abbia consentito di varcare i confini tra la vita e la morte. Per tornare subito indietro. La morte. Mi volteggiava attorno da tempo. Giammai incedendo come nella Danza macabra di Saint Saens, ma sorridendo come la benefattrice di Mozart. Il fatto che mi fossi gravemente ammalato nel momento della mia massima vitalità dava alla mia esistenza la prospettiva del “memento mori”, ricordati che devi morire, come se fossi sospeso nel vuoto pneumatico e guardassi la vita dall’alto. Questa libertà mi consentiva di allargare notevolmente l’orizzonte e di avere una più ampia visione della vita. Insomma di essere costantemente cosciente della mia esistenza che comprende anche una fine. Una consapevolezza che non è necessariamente un elemento negativo ed è comune a tutti, all’ammalato e a chi è sano, anche se, in caso di malattia, è certamente più vivo e sentito. Chi è sano ha come la sensazione di poter vivere in eterno e riflette meno sulla vita e sugli obiettivi da raggiungere.


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Gilberto e la Comunità di padre Matteo

La simmetria anagrafica della mia famiglia era già stata modificata con la morte della mia omologa, Enza, nata come me nel mese di maggio, sotto il segno del Toro. Io e Enza, come ho scritto all'inizio di questa mia autobiografia romanzata, eravamo i medi, mentre Oscar e Gilberto, nati nel mese di febbraio, sotto il segno dell'Acquario, erano gli estremi, di questa singolare equazione familiare. La mia condizione di salute e quella di Oscar, da anni afflitto da una grave malattia, rendevano umanamente prevedibile, nell'immediato, tenuto conto che ogni decisione è rimessa alla volontà di Dio, la sopravvivenza di uno dei due e quella di Gilberto. Il mio eventuale decesso avrebbe consentito la sopravvivenza degli estremi dell'equazione familiare; se invece fosse deceduto Oscar, io e Gilberto saremmo diventati i superstiti di una famiglia anagraficamente “normale”. Era giovanissimo, Oscar, quando per una grave infezione fu in pericolo di vita. L'amore di mio padre e di mia madre gli consentirono di vivere per altri cinquant'anni. La particolare operazione chirurgica, proposta per salvare Oscar, costrinse mio padre a licenziarsi dall'azienda e ad utilizzare l'importo, comunque insufficiente, della liquidazione per far fronte alle costosissime spese sanitarie. Ovviamente, mio padre fu immediatamente riassunto, ma da quel momento iniziarono le difficoltà economiche della mia famiglia. Però Oscar fu nuovamente messo al mondo. Dopo qualche anno sposò Fernanda e si trasferì a Terni dove costituì la sua famiglia. I nostri incontri diventarono sporadici. Gilberto, invece, ha avuto una vita più rocambolesca. Si mise subito in evidenza per la sua vivace intelligenza e per il suo spirito libero. Nel 1964, all'epoca della tragedia di Cecina, viveva a casa di Enza e frequentava l'Istituto Tecnico “E.Fermi”. Non partecipò al drammatico viaggio nel quale mia sorella perse la vita, perché il giorno dopo avrebbe dovuto svolgere un importante compito scolastico. Invece, propria quella mattina, mentre si preparava ad uscire di casa, due rappresentanti delle pompe funebri di Cecina gli portarono la terribile notizia.


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Subì un grave shock. Aveva diciotto anni. La sua vita non fu più come prima. La sua esistenza fu da quel momento caratterizzata dall'alternarsi di eventi contraddittori, sicchè tutto ciò che riusciva a realizzare positivamente, fatalmente doveva distruggere. Anche la sua famiglia, la cui unità si dissolse anche a causa delle difficoltà economiche, nonostante il mio sostegno. Quando i suoi rapporti con la moglie diventarono insostenibili, dopo un lungo periodo di crisi che lo portarono a vari fallimenti economici e al ricorso all'alcool, cadde in un grave stato depressivo le cui conseguenze fecero sfiorare la tragedia. Un tardo pomeriggio di un giorno d'autunno che preannunciava un inverno rigido, mentre seguivo i lavori nell'aula di Palazzo Madama, squillò il telefonino. Era lui, Gilberto. Dopo un silenzio durato molti giorni, con una voce flebile, si era fatto vivo, ma presentivo che moriva. “Bruno, mi trovo lungo la strada per Pescasseroli. Sto morendo. Mi sono tagliato le vene....”. Dopo queste sconvolgenti parole, l'urlo del silenzio coperto dal brusio dell'aula. Era caduto il segnale. Decisi immediatamente di partire senza conoscere la destinazione. Durante il viaggio continuavo a chiedermi per quale motivo aveva ritenuto di chiedere il mio aiuto, se aveva deciso di uccidersi. Perché non aveva avvertito, non dico la moglie, ma qualche amico, un parente più vicino, nel caso avesse deciso di respingere la morte dopo averla invocata? Voleva forse concedermi il privilegio dell'ultimo saluto? In prossimità di Isola del Liri, chiamai Sergio, mio nipote, per informarlo dell'accaduto e per invitarlo ad accompagnarmi. Ancora una volta non volevo essere solo di fronte a questa nuova pagina tragica della storia familiare. Arrivammo a Sora, senza parlare. Non c'era molto da dire. Imboccammo la strada per Pescasseroli, lasciandoci alle spalle Sora. La città, infreddolita, deserta, quasi morta, era illuminata da una luce diffusa, senza discontinuità. Forse appariva tale, in contrasto con il buio pesto, di tanto in tanto interrotto dai raggi di una timida luna, che ci veniva incontro a mano a mano che si saliva verso Forca d'Acero, fino a farmi apparire mostruosi i contorni di quella montagna che dalla mia adolescenza ero solito incontrare come un'amante. Salimmo e scendemmo varie volte. Guardammo attentamente a destra e a sinistra. In alto e in basso. Il telefonino di Gilberto continuava il suo terrificante silenzio. Proprio quando avevamo deciso di desistere, dopo una curva a gomito, a qualche chilometro dal Passo, dietro un folto cespuglio, nell'ineffabile incontro con la luna, che in quel momento aveva ritenuto di riapparire allontanando la nuvola che la copriva, apparve l'auto di Gilberto. Era riverso sul sedile. La luce della torcia elettrica mise in evidenza due profonde fessure ai polsi. Un rivolo di sangue raggrumato fuoriusciva dalla vettura. Il respiro era flebile. Gilberto era ancora vivo, ma tutt'intorno lo scenario era di morte. Monte Tranquillo, incupito, non diffondeva il suo dolce alito; la profonda oscurità annullava il ricordo delle giornate trascorse sulle cime soleggiate sotto un cielo settembrino profondamente azzurro; era completamente assente il profumo dei fiori selvaggi. Anche l'aria era pesante. Velocemente arrivammo nel vicino ospedale: proprio mentre si stava chiudendo alle sue spalle la porta della vita, tornò indietro. I medici non riuscirono a spiegarsi perché da quelle ferite così profonde si era interrotto spontaneamente il flusso del sangue appena in tempo per evitare che l'emorragia completasse la sua mortale opera. La sua vita, però, continuò ad essere un inferno.


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La conoscenza della morte, che a suo dire aveva visto in faccia, lo condusse all'appuntamento con una nuova vita, profondamente spirituale, lontana da un mondo che misura tutte le cose con il metro del danaro e della consumazione di ogni valore etico. Decise, con il mio consenso, di ricercare esperienze estreme, per aiutare gli ultimi, i disperati, proprio lui che per tanto tempo era stato al centro di sconcertanti megalomanie. Scelse la comunità di Trivigliano di Padre Matteo, per il recupero degli alcolisti e dei tossicodipendenti. Io non so se mio fratello abbia mai letto l'Ecclesiaste, ma dopo una vita di eccessi, credo che sia giunto nella determinazione di ritenere vano tutto ciò che avviene sotto il sole, perchè questi versi del Qohelet fotografano esattamente la sua sofferta esistenza.

“Ho preso in odio la vita, perché mi è sgradito quanto si fa sotto il sole. Ogni cosa infatti è vanità e un inseguire il vento.

Allora quale profitto c'è per l'uomo in tutta la sua fatica e in tutto l'affanno del suo cuore con cui si affatica sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e preoccupazioni penose; il suo cuore non riposa neppure di notte. Anche questo è vanità!

Ho voluto soddisfare il mio corpo con il vino, con la pretesa di dedicarmi con la mente alla sapienza e di darmi alla follia, finché non scoprissi che cosa convenga agli uomini compiere sotto il cielo, nei giorni contati della loro vita.

Ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti. Mi sono fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto d'ogni specie; mi sono fatto vasche, per irrigare con l'acqua le piantagioni.

Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva d'ogni mia fatica; questa è stata la ricompensa di tutte le mie fatiche. Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo durato a farle: ecco, tutto mi è apparso vanità e un inseguire il vento: non c'è alcun vantaggio sotto il sole”.

La lettera che a Natale del 2003, a distanza di nove mesi dal suo ingresso in Comunità, Gilberto indirizzò a me ed a Oscar, suo omologo nella simmetria anagrafica della nostra famiglia, appalesò chiaramente che era stato influenzato dalla lettura dell'Ecclesiaste o che le drammatiche esperienze da lui vissute lo avevano portato alle stesse riflessioni. Ma a differenza di Qohelet, Gilberto era riuscito a superare il cupo pessimismo della “vanitas vanitatum et omnia vanitas” e del “nihil sub sole novum”, per intraprendere un nuovo cammino fatto di fede e di speranza.

“Ai miei fratelli Bruno ed Oscar,

quando le cose di ogni giorno diventano irreali, quando la sicurezza del mondo esterno si sgretola in un istante, quando l'abbandono e la solitudine paralizzano la volontà, l'angoscia dà vita alle paure più antiche e più temibili.

E in questo incubo c'è chi sopravvive e chi soccombe.


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E' stato in questo tormento che la mia anima è stata invasa da una voce dolce e prepotente che mi ha detto: Gilberto tu non devi né sopravvivere né soccombere, devi semplicemente vivere.

Questa voglia di vivere si sta impossessando completamente di me; sento che sta invadendo il mio corpo e la mia anima; sento altresì che questa volta mi vuole autentico, vero, questa volta vuole che sia il mio cuore a guidarmi e non il mio istinto egoista ed indifferente verso gli altri.

Ed in questo cammino di conversione, dove solo l'amore può trasformare il mio egoismo e la mia indifferenza verso il prossimo in amore altrui, io chiedo con umiltà a Nostro Signore: Dio insegnami ad amare, come sai amare tu, perché solo chi sa amare senza condizioni può dare la sua anima, mettendosi completamente al servizio del prossimo più bisognoso. Ed io lo desidero nella certezza di una scelta reale.

Voglio fortissimamente che questo segmento di vita che Dio vorrà donarmi, dedicarlo a quei principi che portano ogni essere umano a dirsi: questa è un'esistenza degna di essere vissuta in una dimensione interiore ampia.

Se tutto questo è vero come è vero (perché lo sento), allora voglio dedicare ogni giorno che mi resta da vivere ai poveri dei poveri, voglio essere uno di loro.

E ringrazio padre Matteo di questa grande ricchezza di cui gratuitamente ha voluto farmi dono.

Vostro fratello Gilberto”

All' epoca della lettera, io non ero in grado di sapere se il percorso spirituale iniziato da Gilberto fosse da ritenere irreversibile. Il suo passato denso di clamorose contraddizioni mi imponeva una certa prudenza. Sta di fatto, però, che in tutte le visite che da allora gli feci insieme a Luisa, la sua serenità e il suo disinteresse, ma soprattutto lo stato di povertà accettata con dignità, mi portarono a credere che in lui era in atto quell'ascesi che da tempo perseguivo e che finora mi è stato estremamente difficile raggiungere. Questa sensazione è stata confermata dalla lettera che Gilberto ha scritto recentemente a padre Matteo, dopo tre anni dal suo ingresso in Comunità.

“Caro Matteo, i trentasei mesi che ho vissuto in comunità, costituiti da un cammino profondo di riflessioni e meditazioni, mi hanno ridestato da un torpore che mi ha impedito per tanti anni di farmi alcune domande che oggi mi si pongono spontanee. Io sono nato, perché? Per che cosa vale la pena di vivere? Qual è il significato ultimo della mia realtà? Qual è la mia vocazione? Qual è il mio senso religioso? Una cosa è certa intanto: la vocazione personale più adatta a me non l’ho trovata nella ricerca del potere economico dove l’opinione pubblica sceglieva per me modelli troppo impegnativi in una corsa inutile e senza fine, dove si sconvolgeva anche la grammatica italiana invertendo la coniugazione dei verbi, è chi ha.


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Come sono convinto che la scelta di oppormi a dei modelli consumistici, non può farmi diventare uomo giusto e riuscito. E’ vero, l’opporsi a scelte di vita inadeguate può diventare certo un buon punto di partenza, ma soltanto se saprò contrapporre ad esse scelte di vita alternative valide. Sono certo che un modello di vita esiste: c’è un progetto di vita che resiste ad ogni moda passeggera, capace di rendermi un uomo profondamente sereno. Sempre più, mi convinco che la natura delle domande che mi si pongono, come le risposte, sono contenute nell’ultima di esse: Qual è il fine ultimo? Qual è il mio senso religioso? Tutto questo io lo definisco destino, il mio destino, poiché contrariamente la mia vita diventerebbe una serie d’occasioni perdute, il bilancio di ciò che è stato o sarebbe potuto essere, il rimorso per tutto ciò che non ho fatto e che avrei potuto fare. Ero convinto che il richiamo arrivasse direttamente da Dio e che solo alcuni individui restassero impressionati in modo tangibile ed irreversibile. (Immagino te in quel lontano millenovecentosessanta) Oggi le mie convinzioni sono diverse, sono certo che la mia capacità del senso religioso è dentro di me, che mi è stata donata, non si è formata da sola e come tale non può entrare in funzione da sola, non può assolutamente diventare azione senza un mio costante e inesauribile richiamo. Quindi amico mio vero, io m’inoltrerò in quest’avventura, non so per quale strada, in ogni caso inizierò questo cammino con la convinzione che qualsiasi sarà la strada che imboccherò mi porterà a Lui. Tra le cose che più mi hanno impressionato e che hanno contribuito a radicalizzare la mia scelta, è stata una frase contenuta in una lettera che ti scrisse Iola dalla Polonia in una sua verifica nel duemilatre, mentre metteva a confronto la nostra realtà con quella esterna, spontaneamente ti scrisse: “Matteo noi siamo figli di una nuova umanità”; queste parole sono rimaste impresse nella mia mente e nel mio cuore fino a farle diventare mie. Hai chiesto a noi fine programma che cosa vogliamo fare, (da grande) Matteo desidero solo darti la mia disponibilità in qualsiasi parte del mondo, affinché io possa darti una mano a realizzare questa tua missione d’accoglienza e d’amore. Hai chiesto anche che cosa desideriamo, io desidero che tu non abbia più bisogno di fare in futuro il richiamo che hai fatto il I° Maggio u.s. quando sei stato costretto a ricordarci che la Comunità è una sola, che noi percorriamo un cammino di una sola Umanità, lasciando intendere che non esiste nessuna forma neanche indiretta d’evidenziazione e ancora meno esistono galloni, bensì una differenziazione di ruoli che vertono verso un unico obiettivo, l’amore reciproco, poiché diversamente perderebbe tutto il suo significato “la frase di Iola”. Ti abbraccio con tutto l’amore che ti è dovuto”. Gilberto

I problemi esistenziali di Gilberto hanno coinvolto la mia coscienza per un lungo periodo di tempo, raggiungendo l'acme nei momenti in cui venivo messo a conoscenza dei suoi profondi turbamenti. Pensavo che la visibilità e il mio bisogno di riconoscimento conseguenti ai miei successi politici e la relativa percezione, in verità eccessiva rispetto ai miei meriti, lo spingeva ad una sorta di emulazione, che nel tempo era diventata una vera e propria inconfessabile competizione, dalla quale usciva intimamente perdente. Mi ritenevo, perciò, corresponsabile della sua condizione, ma non avevo mai trovato l'occasione per confessargli questa mia preoccupazione, né lui aveva mai affrontato questo aspetto della sua personalità. La nostra esistenza scorreva tra le sue sconfitte e le mie vittorie che venivano da lui percepite al massimo grado, perché riuscivo a nascondere il dramma familiare che accompagnava tutte le mie giornate. Ma forse era proprio la mia forza d'animo, a fronte della sua debolezza, a fargli perdere la stima di sé.


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Quando finalmente riuscii a comunicargli questi miei sentimenti, mi disse:

“Ti confesso, invece, caro Bruno, che il tuo esempio ha contribuito molto a salvarmi, a dimostrazione che la visibilità, il bisogno di riconoscimento, non è vanità, se è esempio di amore e di altruismo”.

Lo interruppi, dicendo:

“Allora, se il bisogno di riconoscimento non è vanità, come viene percepito dal prossimo chi come me per tanti anni si è prodigato per elevare con evidente disinteresse le condizioni proprie e quelle della comunità? Non è il caso di dire con Pirandello che agli occhi degli altri noi siamo uno, nessuno e centomila?”.

Mi rispose: “Gesù Cristo non fu forse percepito dai suoi contemporanei, a parte una ristretta minoranza di persone, un cialtrone, un bestemmiatore, dopo tanti miracolosi interventi a beneficio del suo prossimo? Ancora oggi, dopo duemila anni, si stenta a credere che Egli sia figlio di Dio, Salvatore dell'umanità”.

Continuai: “Ed allora cosa fare quando tale impegno non solo non

viene apprezzato, ma, addirittura, viene

contrastato?”.

Intervenne sicuro di sé:

“E' indispensabile ricominciare una nuova esistenza, non perdere la fiducia in se stessi, ritrovare la forza di vivere e la capacità di creare; è necessario intraprendere un nuovo cammino: avanti e più in alto, abbandonando il vecchio mondo e andare per qualche tempo in esilio, nel deserto della solitudine. Per poi avere nuove esperienze, conoscere nuove persone e portarsi verso i confini della sofferenza fino a che non cambi interiormente, fino a che non ti importa più nulla di ciò che è accaduto e non scopri nuovi interessi”.

Notai con molto piacere che aveva ritrovato il gusto di sorridere ed era tornato a vedere il mondo con l’occhio ingenuo di quando era un bambino vivace e intelligente. Mi resi conto, però, che per me era molto difficile raggiungere quella condizione, perché con il passare degli anni si diventa schiavi delle proprie abitudini e del passato.

“Ma è l’unica salvezza – concluse Gilberto – perché chi si ferma a guardare indietro diventa una statua di sale come è successo, ci racconta la Bibbia, alla moglie di Lot. Vedi, caro fratello, io avevo preso in odio la vita, perché dopo tante esperienze avevo ritenuto vane tutte le cose. Uno stressante ed inutile inseguimento del vento. Però, nel punto più infimo della caduta, è avvenuta la conversione”.

E aggiunse quel riconoscimento che da tempo aspettavo:

“Devo molto a padre Matteo, però devo tanto anche a te, perché senza l'amorevole accoglienza di Matteo e senza il tuo esempio non sarebbe stata possibile la mia conversione. La tua grande forza d'animo, la tua onestà e il tuo disinteresse sono stati gli elementi essenziali che hanno dato un senso alla mia vita.


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Tu, caro Bruno, sei fatto per i tempi duri e difficili; per dare e non per prendere; per seminare e non per raccogliere. Io, che per tanti anni avevo inseguito il sogno della ricchezza, sono stato profondamente colpito dal tuo disinteresse, che ti ha portato addirittura a rinunciare alla pensione di invalidità per Giorgino, e dalla gratuità con la quale, come Sindaco, hai amministrato la nostra città. Con te, la politica intesa come il più alto livello della carità, come esortava Paolo VI, ha trovato concreta realizzazione”.

Le tante incomprensioni, i tradimenti, le amarezze avevano accentuato il mio desiderio di riconoscimento. E' noto, però, che dopo la perdita di ogni potere, quando si arriva nudi alla meta, diverse persone ti voltano le spalle. Perfino qualche stretto collaboratore e qualche parente. Del resto non successe anche a Cristo? Queste amare riflessioni furono smorzate da Gilberto con queste parole.

“Ti assicuro, caro fratello, che a parte la meschinità di chi per tuo merito ha goduto qualche giorno di gloria, questi riconoscimenti sono generali. Soltanto l'eccessiva prudenza non consente a molti tuoi estimatori di manifestarti i reali sentimenti”.

Per l'eccessiva commozione, non comprendevo che la soddisfazione che provavo alle parole di mio fratello era semplicemente l'espressione del mio orgoglio. Vanità delle vanità: continuavo ad inseguire il vento. Mentre Gilberto, ridotto ad uno stato di completa povertà materiale, aveva raggiunto le vette di un'alta spiritualità, io continuavo a farmi condizionare dagli aspetti più inutili della mia umanità. Lo dimostra il fatto che alla fine della nostra conversazione, gli dissi:

“Vorrei tanto che quando non ci sarò più si

dicesse di me quello che Dante disse di Virgilio: facesti come colui che

cammina di notte e porta un lume dietro di sé, e con quel lume non aiuta se stesso; egli cammina al buio, ma dietro di sé illumina gli altri”.

Annuì. Ci lasciammo con un forte e affettuoso abbraccio. A distanza di pochi giorni, mi fu comunicata la dolorosa notizia della scomparsa di Oscar da tempo gravemente ammalato. Gilberto perse il suo omologo, come era accaduto a me con la perdita di Enza. Terminò così la simmetria anagrafica della mia famiglia!


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Una nuova tragedia e la vita nuova di Gilberto

Dopo la morte di Oscar, si ammalò di tumore Donatella, orfana di Enza, la mia omologa, deceduta nella tragedia di Cecina con il marito e la cognata Anna. In tre superavano di poco i novant'anni. Dopo due anni di inenarrabili sofferenze, trascorsi tra interventi chirurgici, devastanti terapie e ricoveri ospedalieri, la dolce Donatella morì. A casa, nel suo letto. Dove aveva voluto trascorrere gli ultimi attimi della sua vita, assistita da Sergio e dai figli Simona e Andrea. Madre e figlia, Enza e Donatella, uniti da un tragico destino, dopo quarantaquattro anni dal fatale incidente stradale. All'epoca di quel drammatico evento, Donatella viveva con noi ad Isola del Liri, mentre Gilberto viveva con Enza, in quanto Roma era la sede dei suoi studi presso l'Istituto Tecnico “Enrico Fermi”. Donatella aveva sei anni, perciò non era in grado di capire quale futuro l'attendeva. In un primo momento, il giudice tutelare decise di affidarla alla cura dei miei genitori. La presenza ad Isola del Liri di mia nipote alleviò in parte le sofferenze di mia madre, considerato che Enza era la seconda figlia che aveva perduto prematuramente. Ma, il nonno paterno che probabilmente era interessato a gestire gli interessi economici ereditati da Donatella, ricorse ad ogni mezzo, anche alla denigrazione, per indurre il giudice a modificare la sua precedente decisione. Soltanto i parenti più stretti delle vittime della strada sanno come quegli eventi tragici cambiano radicalmente l'esistenza. Più di qualsiasi altra disgrazia. Amare e lunghe discussioni sulle responsabilità; interminabili processi, che riportano continuamente in evidenza le sequenze del dramma; l'avidità di chi rimuove il dolore, pensando all'amministrazione del patrimonio lasciato dalle vittime. Allora, il turbine porta con sé non solo le vite predestinate, ma anche l'ipocrisia che cela il falso perbenismo dei sepolcri imbiancati.


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Così, i miei genitori, oltre all'immane dolore per la perdita di Enza, dovettero subire con rassegnazione la prepotenza del nonno paterno di Donatella che non aveva mai perso l'occasione per esaltare la sua correttezza e la sua onestà. Eppure, conosceva bene il disinteresse della mia famiglia che desiderava soltanto coprire il vuoto lasciato da Enza con la presenza di Donatella. La bambina tornò a Roma, contro la sua volontà. E da quel momento iniziò per lei e per la mia famiglia una vera e propria via crucis. Io e Luisa ricevemmo l'ingrato compito di andarla a prendere a Roma, sia nelle festività natalizie e pasquali, sia nel periodo estivo. In tutte queste tristi circostanze venivamo sottoposti a delle pesanti umiliazioni dal cinismo del nonno che sperava in questo modo di stancarci. Ma l'aspetto più grave di questa vicenda si manifestava tutte le volte che lo zio paterno veniva a riprenderla. Alle scene di disperazione di Donatella, a cui assisteva tutto il quartiere, mentre lo zio la trascinava in macchina, si univano anche i frequenti interventi dei Carabinieri, chiamati telefonicamente dal nonno per far eseguire le decisioni del giudice. Questi strazianti episodi continuarono fino alla morte di mia madre, quando Donatella, ormai diciottenne, decise di venire a vivere definitivamente ad Isola del Liri. Ma, nonna Ersilia, alla quale era legata da un amore morboso, non c'era più. Per sempre. Ho maturato la convinzione che anche i ripetuti drammi della vita possono essere causa del tumore, come inevitabile conclusione di un tragico destino. Enza finì come un fiore reciso improvvisamente dal turbine, che rese inverosimile il dramma; Donatella come un fiore avvizzito e devastato dall'azione della malattia, che nel suo graduale svolgimento consente di prendere atto della realtà, dolorosa, ma inesorabile. Si comprendono i motivi per cui riusciamo a rimuovere la morte naturale o per malattia: ma non la morte violenta, perché questa ci ricorda in modo implacabile che la vita finisce. E non lo sopportiamo. La morte, però, è unica e irripetibile. Per questo forse vuole un segno unico e irripetibile, per continuare quel bisogno di visibilità che caratterizza la nostra vita. Anche nella sepoltura. Nei cimiteri, veri e propri condomini di bare poste una accanto all'altra e sul ciglio delle strade, lungo i nervi di asfalto tesi come le corde di un violino. E' in “quel” luogo che ci capita di vedere gli altarini del dolore, ricolmi di fiori, ora appassiti ora freschi, e di fogli di carta, che il tempo strappa, scolora e ingiallisce, sui quali sono scritte parole d'amore che in vita probabilmente non sono mai state pronunciate. Forse nel timore di doverle un giorno ritrattare. Da quel giorno, la morte ci libera e rende finalmente sincero il nostro cuore. Libero anche dal cordoglio collettivo, dove non tutte le presenze sono vere, perché accanto al dolore che sconvolge l'esistenza delle persone care, ci sono presenze di convenienza. Espressioni di cordoglio senza sentimento, abbracci muti, liturgie religiose, rituali e preghiere consumate, che alcuni recitano giusto per dire qualcosa. Finché, la sepoltura non pone fine alla recitazione collettiva, per lasciare il dolore alla sua solitudine.


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E alla memoria di quell'ultimo istante di vita, quando il destino, favorito da una serie di ineffabili circostanze, stronca brutalmente un'esistenza, perché rimanga incompiuto il senso del suo divenire. Ho iniziato a credere soltanto dopo aver letto le sublimi pagine del filosofo Umberto Galimberti alla funzione degli altarini del dolore, vietati ma cristianamente tollerati, perché ogni cippo di vita spezzata che incontriamo ai bordi delle nostre strade ricordi che, a differenza delle tombe allineate nei cimiteri, essi non dicono solo che dobbiamo morire, ma che la vita, al di là della nostra costruzione di senso, è sempre un cammino incompiuto. Insomma, un filo interrotto in quella trama innocente e crudele tessuta dall'insensatezza, che a volte la vita asseconda e che, nei momenti di verità, conosce e assapora, come nel caso di Enza, nel fervore della giovinezza, senza il supporto del disfacimento biologico. In “quel” luogo, anche se il tempo svanisce per non tornare più, resta lo spazio dove la pietas di chi porta un fiore e depone un messaggio acquista il significato della continuità di una vita, resa possibile dalla ripetizione di un gesto di fedeltà. Sia nel cimitero dove i corpi sono sepolti e dove la morte appare definitiva nella variegata successione delle tombe, sia sul ciglio delle strade, dove gli altarini del dolore ci richiamano alla prudenza. E ci avvertono che lì, in “quel” luogo, è stato fermato l'ultimo alito di vita. L'ultimo istante fissato in un altarino, per avvolgerlo con fiori e con messaggi, gesto fugace di chi porta un fiore col senso della vita che è gesto fugace, perché solo la vita raccolta in quel luogo, dove per l'ultima volta c'era, sa contaminare il dolore con la consolazione e l'assurdità con l'accettazione. Questi profondi pensieri furono suscitati dalla commozione che si impossessò di me durante le esequie di Donatella. Ma, nel corso della notte di quel doloroso giorno, nell'associare Oscar a Donatella, pensai che con la morte di mio fratello era terminato anche l'ultimo elemento della simmetria familiare di cui si vantava mio padre. E con essa la caratteristica della mia famiglia. Perciò, io e Gilberto, restammo gli unici superstiti di un nucleo familiare che sembrava avere tutti i requisiti per diventare numeroso. E se si considerano le scelte esistenziali di Gilberto, la solitudine sarebbe stata per me devastante, se questo immenso vuoto, non fosse stato colmato dall'amore di Luisa. Questa ennesima tragedia accentuò il legame con Gilberto. Perciò fu irresistibile il desiderio di incontrarlo nuovamente nella Comunità di padre Matteo. L'incontro fu struggente e si imperniò attorno ad una commovente carrellata di ricordi familiari, prevalentemente dolorosi. La successione di tragedie veniva di tanto in tanto interrotta da momenti felici. Ci lasciammo con un tenero abbraccio. Cercai di non voltarmi, come mi era accaduto l'ultima volta, quando girandomi lo osservai lungamente mentre varcava l'ingresso della Comunità con gli abiti dimessi, che mettevano in evidenza tutta la sua povertà, il busto lievemente reclinato in avanti, il passo incerto. La vita gli era grave, ma da bizzarro guascone riusciva a nascondere la sua condizione con malcelata tranquillità, perché la maschera lasciava intravedere i segni della sua profonda mestizia. In mezzo a tanta miseria umana, tra i relitti di una società senza valori, aveva cercato nel conforto ai disperati l'amore e la consolazione che non aveva mai avuto da tutte le donne che aveva ripetutamente inseguito. Un forte impulso mi costrinse a voltarmi. Era rimasto così come lo avevo lasciato. Con il sorriso velato di lacrime. Non mi fu difficile capire. Cercava l'amore di una donna che gli era sempre mancato. Infatti, dopo qualche mese da quell'incontro, mi scrisse una lettera che raccontava l'inizio di una storia d'amore che gli avrebbe cambiato nuovamente la vita, donandogli i sentimenti che aveva spesso assaporato e che un crudele destino gli aveva sempre brutalmente strappato.


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Caro Bruno, come ha cantato Mina: “In uno di quei giorni in cui...... Sai in uno di quei giorni miei piatti e ripetitivi ma colmi di dolce serenità vissuti per sei anni nella Comunità in Dialogo, mi resi conto che ricevere posta elettronica con il mio account (g.magliocchetti@libero.it) per conto della Cooperativa Sociale

della

Comunità

era

fuori

luogo,

creai

perciò

un

account

dedicato

alla

Cooperativa:

cooperativaindialogo@libero.it. Da qui la necessità di aprire periodicamente la casella personale in Libero per verificare eventuali mail personali. E fu in uno di quei giorni che dall' home page di Libero, una finestra chiamata community richiamò la mia attenzione. Sai, io che vivevo in una comunità, ero fortemente sensibilizzato dalla parola community. L' interesse diventò repentinamente curiosità, la mia mano incurante della mia mente, iniziò a guidare il mouse con la precisione di un chirurgo. Entrai, mi loggai e chiesi di poter descrivere, raccontare la mia travagliata vita a una donna della mia età, senza infingimenti. La risposta non si fece attendere. E dopo i primi convenevoli mi fu chiesta una fotografia. Con molta cortesia le risposi che non sapevo assolutamente che per poter corrispondere bisognava superare un provino fotografico. Perciò, la ringraziai e posi fine ad ogni ulteriore conversazione. Al secondo tentativo con una donna napoletana di 55 anni, Daniela, per me Dani, nacque un interesse fortissimo da parte mia. Inconsapevolmente si stavano risvegliando in me cose assopite da tanto tempo. Mi conquistò immediatamente il suo modo di scrivere. Lo stile ora descrittivo ora denso di pathos metteva in evidenza le sue doti di scrittrice. Nel suo profilo rivelò di essere vedova, bella, bionda, occhi verdi la cui bellezza era rimasta intatta, come se il tempo si fosse fermato. Con il suo aspetto giovanile, dirigente di un ospedale di Napoli, aveva tutti i requisiti per consentire ad un uomo nelle mie particolari condizioni di sceglierla come donna ideale per un nuovo percorso di vita. Nacque una corrispondenza fittissima, raccontandoci anche gli aspetti più intimi delle nostre personalità. Ma il tempo, inesorabile, fece cadere la maschera e tutto ciò che affermava si dimostrò di pura fantasia. Mi chiese aiuto per iniziare una battaglia serrata contro la pedofilia dilagante in questa nostra società corrotta e corruttrice, dove ormai solo emozioni vietate e depravate riescono a dare un senso crudele a una sessualità assopita. Immediatamente diedi un'impronta visibile nella Community di Libero applicando le tecniche commerciali che conosco molto bene per stabilire numerosi contatti. In meno di tre mesi diventai su Libero una persona visibilissima(13.000 visite nel mio profilo), il mio impegno era di portare più nickname possibili nel blog. Un vento impetuoso soffiò su questa missione. Ecco che un bel giorno il mio mouse cliccò casualmente sul nick madhya7 poi diventata Nanà la donna che accompagnerà il resto dei miei giorni. Corrispondenza serrata. In meno di una settimana scambio di centinaia di mail; lunghissimi scritti che raccontavano le nostre storie, senza riserve.


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Iniziavo ad avvertire dentro di me sensazioni strane, pulsioni che forse non avevo avvertito mai nella mia vita. Da questo a scambiarci i numeri di telefono non passò molto tempo. Preciso che, prima, non lo avevo mai permesso a nessuno, né a uomini né a donne. Iniziammo a telefonarci quotidianamente. Telefonate dolci e lunghissime, capaci di annullare il tempo e lo spazio che ci divideva. L'attrazione reciproca diventava sempre più forte; ci stavamo innamorando profondamente. Il virtuale che diventava reale. E su tutto aleggiava un velo di Mistero! Esplose in tutti e due l'irrefrenabile desiderio di conoscerci fisicamente. Da tempo avevo rimosso ogni genere di pulsione, anche se per imperscrutabili motivi non avevo mai pensato di prendere i voti. Avevo, però, rinunciato a tutto quello che per me fino a 57 anni era stata la vita comunemente intesa: belle donne, la bellezza totalmente assaporata, la ricerca continua del successo professionale ed economico, la “dolce vita”, la trasgressione. Non rimpiangevo più nulla. Mi sentivo un uomo estremamente libero, privo di desideri, appagato in tutto. Con la consapevolezza e la coscienza che tutto questo avrebbe rimesso in discussione l'intera esistenza, alimentai e incoraggiai questo nostro desiderio e decisi di partire con il treno alla volta di Lequile, in provincia di Lecce, per incontrare Nanà. La realtà effettuale si incaricò di superare largamente il virtuale. Tutto ciò che avevamo idealizzato si trasformò repentinamente in una dolce sinfonia di sentimenti e di attrazione fisica. Dopo sei lunghi anni di astinenza sessuale, trascorsi senza avvertire l'esigenza di possedere una donna, fui travolto dalla passione. Dopo appena due giorni dal mio arrivo a Lequile fui colto da una fastidiosa affezione intestinale che mi tenne a letto per tutto il periodo restante. Nanà mi curò come non sono mai stato curato da una donna, trascinandomi in una relazione emotiva che non avevo mai provato. Coinvolti completamente, decidemmo di convivere. Il fatto che per Nanà la scelta di Trivigliano o di Lequile fosse indifferente, ritenendo idoneo ogni posto al mondo per vivere insieme, lo considerai una grande prova d'amore. Decidemmo, allora, di soggiornare a Trivigliano per due o tre mesi, come prova per una futura e definitiva convivenza. Invece, dopo appena venti giorni, iniziò il viaggio del nostro futuro verso Lequile, per vivere insieme, a casa sua, per tutto il tempo che rimane della nostra vita. L'agiatezza economica di Nanà cancellò anche l'ultima preoccupazione di riprendere qualsivoglia attività che mi avrebbe ricondotto ineluttabilmente nel mondo degli affari da cui mi ero irreversibilmente allontanato, da quando, irriducibile macchina “macina denaro”, avevo scelto la serenità che scaturisce dalla condivisione con gli “ultimi”. Ora, poiché abitiamo in una casa super dimensionata per noi due, abbiamo deciso di trasferirci ancora più a sud nella parte finale della penisola salentina, vicino al mare che qui è profondamente azzurro, perché desideriamo svegliarci e addormentarci accompagnati dalla dolce musica delle onde del mare. E così, caro Bruno, proprio quando il viale del tramonto appariva come l'inesorabile cammino delle nostre vite, è iniziata una nuova primavera. Ringrazio Dio per avermi donato tutto questo.


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Tuo fratello Gilberto�.


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Alla ricerca del volto di Dio

Più la morte continuava a volteggiare freneticamente attorno a me e a Luisa, più aumentava la nostra voglia di vivere intensamente, destando una profonda ammirazione e, senza volerlo, l'invidia di molti. L'assurdo è che non venivamo compatiti per i drammi che punteggiavano la nostra esistenza, ma invidiati per come eravamo percepiti: una coppia unita e serena. Nonostante tutto, eravamo considerati fortunati. Tradimento, prevaricazione, usurpazione, prepotenza, arroganza: insomma le cattiverie di ogni genere ci accompagnavano lungo il cammino della nostra vita, ma la nostra convinzione che dal male nasca il bene non è mai venuta meno. Mi sovvenne, allora, un personaggio sapienziale, Giobbe, protagonista del più angoscioso dramma dell'uomo di tutti i tempi. Satana, male assoluto, sottopose Giobbe a prove durissime, con il permesso di Dio, bene assoluto. Sicuro, però, della sua innocenza, si tormentò e si chiese perché Dio lo castigasse come se fosse empio. Dio, chiamato ripetutamente in causa, gli rispose, ma non lo convinse. Giobbe, però, comprese che Dio non poteva essere ingiusto e accettò con fede il mistero dell'agire divino. Maturai, perciò, la convinzione che la sofferenza, intesa come valore incommensurabile nel piano divino che porta alla salvezza, rispecchiava il nostro comportamento di fronte al mistero di Dio. Ma come salvarsi? Come è possibile accettare il male come mezzo provvidenziale per raggiungere il bene? Non c'è male più devastante del tradimento dell'amico o della persona su cui si ripone la massima fiducia. Il tradimento fa crollare in un istante la scala dei valori, perché colpisce gravemente l'orgoglio e la dignità della persona, causando un'immane sofferenza. Ed allora, come è possibile perdonare chi si rende responsabile di tale atto, se da questa esperienza si esce devastati? Dopo una lunga meditazione, sono arrivato alla conclusione che il perdono vanifica l'orgoglio e la superbia, e riconduce a quella sana fiducia di sé che era all'origine della nostra creazione.


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A ben vedere, ogni male ha alla base una realtà positiva che viene deformata.

“Il vizio - sostiene Ravasi - è l'incapacità di sapersi moderare... E' la patologia morale che crea il peccato”.

Il peccato di gola e la lussuria sono l’ingordigia di cibo e il desiderio smodato di sesso, l’egoismo che contiene un senso di morte, il consumo frenetico, come tentativo di colmare il vuoto esistenziale. La moderazione è quella del buongustaio e la sessualità sublimata dall'Amore. La moderazione dell'accidia conduce alla sana attività che dà senso alla dignità umana, con la propria elevazione e quella della società. L’invidia, ad esempio, se moderata, è lo stimolo per l’emulazione. Il contenimento della superbia è la fiducia in sé. L’avarizia è l’accumulo che nasconde la paura della morte. La sua moderazione è la parsimonia. La moderazione, però, è una lenta e sofferta conquista, soprattutto se si considerano le basi di partenza del lungo cammino che ho dovuto percorrere per raggiungerla. Quando, nella seconda metà degli anni '50, frequentavo la sezione del MSI di Isola del Liri, conobbi il compianto Leandro Iafrate, studente liceale. Fu proprio lui che nell'autunno del 1960 mi presentò Luisa, dopo il comizio da me tenuto in Piazza Boncompagni, e, senza ovviamente saperlo, a determinare la svolta decisiva della mia vita. Leandro ebbe una grande influenza sulla mia formazione culturale, perché colmava le lacune determinate dall'aridità degli studi tecnici che non mi erano affatto congeniali. Infatti, per le precarie condizioni economiche della mia famiglia, ma anche per soddisfare un esplicito desiderio di mio padre, intrapresi gli studi commerciali, perché dopo il conseguimento del diploma di ragioniere, avrei dovuto trovarmi un lavoro. Per tanto tempo, subii il fascino delle speculazioni filosofiche di Leandro, che tutti gli altri amici ritenevano alquanto bizzarre. Il mio romanticismo e le mie prime pulsioni furono incoraggiate dal suo forte spirito dionisiaco, in forte contrasto con il diffuso perbenismo degli amici che ci contornavano. I suoi comportamenti configuravano una commistione di euforia e sobrietà, di tragico e di comico. Era solito affermare che anche il più razionale spirito apollineo, che gioca con il sogno, non reprime o soggioga lo spirito dionisiaco, che gioca con l'ebbrezza e con l'estasi, ma lo sublima, trasformando le sensazioni di nausea e orrore per l'assurdità dell'esistenza umana in rappresentazioni con cui sia possibile convivere. “Il sublime diventa infatti la rappresentazione dell'orrore – gli piaceva ripetere, abbandonandosi a sgangherate risate mentre il comico si configura come liberazione del disgusto per il carattere assurdo della vita umana”. Morì giovanissimo. Era stato devastato dall'insonnia, dall'alcool e dal fumo. La professione di ingegnere, la bella famiglia e la missione di insegnante non erano stati sufficienti a dare un senso alla sua vita. All'ebbrezza di un momento, aveva sacrificato la sua esistenza. Sull'orlo dell'abisso gli era mancata l'illuminazione della Fede per salvarsi. Provai un forte dolore per la sua scomparsa, anche se era facilmente prevedibile.


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Il costante ricordo delle sue appassionate elucubrazioni filosofiche mi spinse ad approfondire il sentimento religioso e la via della moderazione, che in politica, mi consentirono di tenere nella giusta distanza ogni forma di estremismo e, nella quotidianità, di sublimare i miei slanci vitali. In realtà, ero alla ricerca del senso da dare alla mia vita, stretta a tenaglia tra il pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà, e condizionata dalle esigenze del presente, mentre la mancanza della prospettiva di una visione più alta era la causa della mia profonda insoddisfazione. L'idealismo e un generico spiritualismo, come quello del movimento New Age, giusto per fare un esempio, erano diventati con il passar del tempo fuorvianti, perché avevano la sola funzione di un inutile oppiaceo, per sopire momentaneamente gli effetti delle tante sofferenze che puntualmente il destino mi assegnava.

Non era un'indistinta spiritualità che cercavo, ma il Dio vivente. Il figlio dell'Uomo. Il Dio fatto Uomo. Il Dio della Salvezza: Gesù Cristo.

Ma quale Cristo?

Il Cristo incoronato di spine del fiammingo Hans Memling, il Calvario del Beato Angelico, il Cristo morto sostenuto da un angelo di Antonello da Messina o quello di Brunelleschi, Botticelli, Perugino? Quello atletico di Rubens o quello intensamente drammatico di Tintoretto? Quello aggraziato di Zurbaran, agile di Murillo o Il Cristo raffigurato dalla magia del chiaroscuro di Rembrandt?.

Più mi inoltravo lungo gli appassionanti sentieri della storia dell'arte all'ansiosa ricerca del volto di Cristo e più aumentava la mia confusione. O meglio più adattavo le molte immagini alle mie esigenze.

Mi fu di grande aiuto la lunga conversazione che ebbi con Don Franco durante il nostro pellegrinaggio in Terra Santa.

Iniziò, quando, uscendo da Gerusalemme, sostammo nel deserto di Giuda. Fu in quel momento che gli posi la domanda alla quale da tempo non riuscivo a dare una risposta.


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“Caro Don Franco, da tempo sono alla ricerca del vero volto di Cristo, ma più mi sforzo e più incontro notevoli difficoltà. Attraverso i secoli, vuoi per il volere dei re e dei papi, vuoi per soddisfare il desiderio autobiografico degli artisti, si sono avute svariate raffigurazione di Cristo. Ho bisogno del tuo aiuto, per eliminare i dubbi creati dalla mia ricerca.

Insomma, caro don Franco, qual è il vero volto di Gesù?”

“Caro Senatore – mi rispose don Franco, manifestando un notevole interesse – sono secoli che il problema da lei posto è all'attenzione di noi teologi. E' stato lungo il processo artistico dell'immagine della Crocifissione che ha portato ai capolavori di Giotto, Velázquez, Guido Reni o Tintoretto, se si considera che per i primi cristiani la condanna a morte sulla croce (abolita da Costantino) era ancora percepita come una pena infamante riservata a schiavi, prigionieri di guerra e ribelli. La crocifissione di Gesù, pertanto, era rappresentata simbolicamente attraverso un agnello accompagnato da una croce”.

A questo punto della conversazione, lo interruppi, chiedendo i motivi per cui le raffigurazioni del Cristo Salvatore nella tradizione bizantina non sono dipinti da mano umana, ma vogliono essere la rappresentazione più fedele del volto di Gesù. Infatti, gli splendidi mosaici bizantini rappresentano l'immagine impressa da Cristo stesso su un lino: un Cristo ieratico con grandi occhi aperti, per nulla sofferente.

“La Sacra Sindone, custodita a Torino – mi rispose prontamente don Franco - è soggetta ad una particolare venerazione, proprio per via dell'idea di un'immagine terrena del Salvatore non disegnata dall'uomo, lontana da ogni forma di feticismo e di idolatria. Così pure il Sacro volto custodito a Manoppello. Il corpo emaciato e il capo reclinato di Gesù crocifisso apparve soltanto nell'undicesimo secolo, e nel tredicesimo quello con il capo ricoperto da una corona di spine.

Con Giotto gli dei scendono nuovamente sulla terra, sullo sfondo di cieli azzurri anziché d' oro, fra case e alberi, insomma dentro la storia dell' umanità. È un linguaggio “moderno”, che due secoli dopo verrà nuovamente superato da Raffaello, Leonardo e Michelangelo”.

Poiché le mie perplessità aumentavano a dismisura, gli chiesi: “Ritieni, però, che questo spasmodico desiderio di modernità abbia spinto l'arte cristiana, specie nel Rinascimento, a fare ricorso all'arte classica, per regredire verso forme di paganesimo, tanto da affrescare con putti, nudi, grottesche sibille persino la Cappella Sistina e gli appartamenti del papa in Vaticano?”.

“In effetti fu una festa per gli occhi e per i sensi cui il concilio di Trento dovette porre un limite per rispondere allo scandalo che provocava nei protestanti i quali arrivarono a bandire le immagini dalle chiese” - si affrettò a rispondermi.

“Ma ormai l' armoniosa bellezza dell' arte antica era ritornata a galla per dominare fino al XX secolo, fino a quando Duchamp non mise i baffi alla Gioconda rovesciando di nuovo tutti i valori e sottolineando così il ritorno a un' epoca simile a quella dei nostri antenati: alla fine del mondo antico e dell' Occidente come centro del potere”.

La sera tornammo in albergo a Gerusalemme, dopo aver visitato Betlemme, ma ormai si era aperto un percorso di Fede che continuò anche dopo il nostro rientro in Italia.


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In uno dei nostri frequenti incontri a Roma, riprendendo i temi già affrontati, mi precisò che anche il controverso teologo Hans Kung, a fronte delle difficoltà di racchiudere Cristo in uno schema biografico, nel suo libro Essere cristiani, ha scritto:

“Quale immagine di Cristo è quella autentica? E' il giovane imberbe, bonario pastore (che regge sulle spalle un capretto) dell'arte catacombale paleocristiana, oppure il barbuto trionfante imperatore cosmocratico della tarda iconografia relativa al culto imperiale aulico, rigido, inaccessibile, minacciosamente maestoso sullo sfondo dorato dell'eternità?

E' il Beau Dieu di Chartres o il misericordioso salvatore tedesco? E' il Cristo re, giudice del mondo, troneggiante in croce sui portali e nelle absidi romaniche? Un uomo dolente raffigurato con il crudo realismo del Cristo sofferente di Durer e nell'unica raffigurazione superstite di Grunewald?

E' il protagonista della disputa di Raffaello dalla impassibile bellezza o l'umano moribondo di Michelangelo? E' il sublime sofferente di Velasquez o la figura torturata dagli spasmi del Greco?

Sono i ritratti salottieri impregnati di spirito illuministico di Rosalba Carriera, in cui si muove un elegante filosofo popolare, oppure le edulcorate rappresentazioni del cuore di Gesù nel tardo barocco cattolico?

E' il Gesù del XVIII secolo, il giardiniere o il farmacista che somministra la polvere della virtù, o il classicistico redentore del danese Thorvaldsen, che scandalizzò il suo compatriota Kierkegaard eliminando lo scandalo della croce?

E' il Gesù mite ed esausto dei nazareni tedeschi e francesi o dei preraffaelliti inglesi o il Cristo calato in ben altre atmosfere dagli artisti del XX secolo Nolde, Matisse, Chagall?”.

Alla fine della lettura di questo brano dell' Essere cristiani di Hans Kung, don Franco ritenne di citare lo scrittore polacco Dobrascinsky che ha scritto: “Vi sono misteri nei quali bisogna avere il coraggio di gettarsi per toccare il fondo, come ci buttiamo nell’acqua certi che essa si aprirà sotto di noi. Non vi è mai parso che vi siano delle cose alle quali bisogna prima credere, per poterle capire?”.

E aggiunse: “Ci sono delle realtà nelle quali ti devi prima immergere, per poi cominciarle a conoscere. Ecco, l’esperienza del volto di Cristo è quella che suppone la fede e poi il conoscere. Di solito noi siamo abituati a seguire il ritmo del “comprendere e credere”, non quello del credere per comprendere. Il canale della fede è il primo nel quale dobbiamo incamminarci, per poi far subentrare anche il canale della conoscenza razionale”. “Ho sempre creduto – risposi come se fossi in confessione - ma mi è stato sempre difficile capire. Per la mia incapacità ad incontrarmi con il Cristo attraverso un'esperienza esistenziale, personale, mi sono sempre lasciato condizionare, anche se tendenzialmente la rifiutavo, da una spiritualità devozionale, incolore, inodore, sentimentale, misticheggiante, che mi faceva quasi decollare dalla realtà verso cieli mitici e mistici”.

“Infatti – mi precisò - l'esperienza cristiana è “corporale”, effettiva, reale, ma al tempo stesso non fisica secondo le categorie dello spazio e del tempo attuali, tanto è vero che Cristo risorto passa attraverso la porta chiusa. Presenza reale, ma non materiale”.


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A mano a mano che si entrava nel vivo delle problematiche, mi era sempre più chiara l'importanza del mistero della sofferenza nella concezione cristiana dell'esistenza. Mancavano alcuni giorni alla Santa Pasqua, quando, in uno dei nostri incontri, ricevemmo la visita di don Marco. Un giovane cappellano militare che aveva partecipato con noi al pellegrinaggio in Terra Santa. Don Marco ci riferì che da qualche tempo partecipava alle conferenze di Mons. Gianfranco Ravasi, che proprio in quei giorni stava trattando gli argomenti oggetto delle nostre conversazioni.

Mi invitò, pertanto, ad

essere presente

all'incontro fissato per il giorno dopo. Conoscevo da molto tempo il pensiero di mons. Ravasi, sia per i suoi puntuali interventi su Famiglia Cristiana, sia per aver letto alcuni suoi libri. Però, mai avrei pensato che quella circostanza sarebbe stata determinante per fornire ogni risposta ai miei interrogativi. Dopo un breve excursus storico sulla vita di Gesù, mons. Ravasi disse:

“Cristo deve attraversare l’itinerario della sofferenza e della morte per affermare, in maniera autentica, il mistero dell’incarnazione; senza questa esperienza l’incarnazione sarebbe una realtà sospesa. Insomma, Cristo deve provare, sperimentare in sé in maniera autentica la carta d’identità dell’uomo: l’essere limitati, provare il dolore, che è vuoto, mancanza, assenza; e morire, segno del tempo e della fine”. Il Figlio dell’uomo deve molto soffrire ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti, dagli scribi, poi venire ucciso. All’interno del racconto della passione si cerca di mostrare tutte le iridescenze oscure del soffrire. Abbiamo la manifestazione della sofferenza morale, la solitudine dagli amici, il tradimento. Abbiamo un altro tipo di esperienza di sofferenza interiore, la paura della morte. In pratica in quel momento Cristo dice, come ogni uomo, la sua paura di morire: “Padre se è possibile passi da me questo calice”. Nel linguaggio biblico il calice è il destino della morte che viene fatto ingurgitare da Dio – si dice nei Salmi – ai peccatori che devono bere questo calice fino alla feccia: è quindi la paura della morte. Poi lo vediamo sperimentare la sofferenza fisica, in tutte le sue dimensioni fino alla crocifissione con tutto quello che comporta. Al di là degli eccessi riproposti dal film di Mel Gibson che è palesemente esasperato, enfatico, retorico, effettivamente l’esperienza della sofferenza fisica è assunta da Cristo in tutta la sua dimensione umiliante. E poi c’è quell'ultima sofferenza, forse la più grave, quella terminale del silenzio di Dio, del silenzio del Padre: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.

Infatti, la morte di Gesù è descritta nei Vangeli sinottici di Marco e Matteo in maniera palesemente negativa, tanto che si può realisticamente definire una brutta morte: “Lanciato un forte grido, spirò”. E' il grido estremo dell'uomo in agonia, solo e desolato, che, nella esperienza della morte, sente distante il Dio della vita. Si avverte, perciò, nella misteriosa esperienza della sofferenza più acuta, l'umanità del Cristo, perché Egli per essere veramente nostro fratello deve dimostrare di essere fragile, debole come noi: insomma deve soffrire e morire. E non è la vicinanza del Dio misericordioso dell'Antico Testamento che dall'alto del suo orizzonte dorato stende la mano sulla miseria umana, ma è il Dio del Nuovo Testamento che si è fatto uomo.


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Sicché l'incarnazione indica comunque una vicinanza, ma soprattutto una totale condivisione, quell'assoluta solidarietà che ha fatto dire a Dietrich Bonhoeffer, impiccato dai nazisti nel campo di concentramento di Flossemburg il 9 aprile 1945, in Resistenza e resa che “Dio ci salva non in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù della sua impotenza in Cristo Gesù”. L’onnipotenza lo rende distante da noi, trascendente, totalmente altro. In altre parole, Dio, attraverso la passione e la morte di Cristo, ci salva perché diventa impotente come noi: Egli, assumendo la nostra carnalità, fragilità e mortalità, patisce e muore. Nella passione e morte di Cristo, Dio si mostra debole come il malato disteso orizzontalmente nella posizione tipica della morte, a differenza della persona sana che è in piedi, in posizione eretta: quella propria dell' uomo potente.

“Si china il medico con la sua sapienza, scienza, generosità, però non condivide. E infatti chi non ha mai sperimentato l’asprezza del dolore, della malattia, non riesce a condividere pienamente l’esperienza della sofferenza. Ebbene Cristo invece si mette disteso. E’ crocifisso ed è cadavere. Questo ci mostra che cosa significhi veramente la condivisione dell’incarnazione, ci mostra anche come dovrebbe essere sempre la declinazione dell’amore cristiano, che non è mai un’opera di generosità, di filantropia, dall’alto, ma è un’opera dal basso, gesto di totale condivisone. Per questo non riusciremo mai a vivere pienamente l’amore, se non nell’impegno continuo e costante per essere alla pari della persona che soffre e che muore. L’amore è questo, e Cristo l’ha vissuto”.

Il famoso biblista concluse la sua dotta prolusione affermando che il volto dolente, il volto glorioso e risorto di Cristo non sono scindibili, come vorrebbe una certa tradizione pietistica, perché la settimana santa comprende la morte, ma soprattutto la gloria e la resurrezione.

A questo punto, si squarciò il velo della mia ignoranza, e tutto fu chiaro! Ripensai allora alle parole del vescovo, Padre Luca, quando fece visita a Piergiorgio morto e invitò i presenti a pregare intensamente, perché in quel momento, quel luogo, la nostra casa, era una zona sacra. Soltanto la mia cecità non mi aveva consentito di capire che per circa trent'anni avevamo, io e Luisa, avuto vicino Gesù Cristo. Era stato per circa trent'anni in mezzo a noi, ma io non l'avevo riconosciuto. L'avevamo amato di un amore intenso come si ama un figlio malato, ma io non l'avevo riconosciuto, perché Cristo viene riconosciuto dagli ultimi, dai semplici, che diventano i primi, non da quelli che continuamente occupano il primo posto, e che vivono nell’orgoglio del potere, della conoscenza, dell’intelligenza e delle capacità. Eppure l'impressione che ebbi quella mattina di qualche anno prima avrebbe dovuto illuminarmi. Mio figlio era disteso nel suo letto di dolore. Dormiva. Il viso emaciato. La barba incolta.

Mentre Luisa, anima

semplice, consapevole da sempre della sua santa presenza, lo vegliava e lo contemplava. Ma tutt'intorno si avvertiva un'atmosfera densa di mistero. Per avere sempre vivido il ricordo di quel momento, rivedo frequentemente l'immagine del quadro di Andrea Mantegna Contemplazione di Cristo morto che ha delle sorprendenti analogie con la visione di quella mattina. L'artista dispone il corpo di Cristo in una ripida prospettiva vegliato dalla Madonna e da altre dolenti maschere tragiche, che affiorano nella penombra, nella luce smorzata di una stanza, con un colore grigiastro, ridotto all'essenziale.


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Ma contestualmente, mi ritorna sempre alla mente il volto sereno di Piergiorgio così come mi apparve nel “sogno”, e ripenso alle parole di Ravasi: “Non è possibile parlare della settimana santa immaginando che essa abbia come approdo la morte, perché la settimana santa comprende anche la gloria, la resurrezione. L’idea è sempre la stessa: volto dolente, volto glorioso e risorto sono l’unico volto, non sono scindibili”. Ecco perché mi capita spesso di intravedere, attraverso un gioco di dissolvenze incrociate, il volto emaciato e dolente di Piergiorgio, così come mi apparve quella mattina di diversi anni fa, che si incrocia e si confonde con il volto sereno e trionfante del

“sogno dell'angolo azzurro prima del cielo”, fino a quando la moviola delle immagini si ferma e fa

prevalere il “sogno” sulla realtà, la resurrezione sulla morte....

Ma forse non fu un sogno


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Il nuovo altarino di Piergiorgio sul Picco di Circe

La cataratta, maturata all'occhio destro e in fase avanzata all'occhio sinistro, mi impediva di guidare l'auto per lunghe distanze. Per circa due anni, perciò, fummo costretti a disertare il tradizionale incontro con Piergiorgio sul Grostè. Ci mancava terribilmente questa illusione. Decisi, allora, con Luisa di cercare un luogo più vicino ad Isola del Liri, in alto e con uno sconfinato orizzonte. E dopo aver valutato varie opzioni, lo individuammo sulle cime del promontorio del Circeo. A S.Felice Circeo possediamo un piccolo “nido”, acquistato nel 1990 con i proventi della vendita di un lussuoso appartamento ubicato a Roma in via dell'Umiltà, che Luisa aveva ereditato dai genitori. In verità, la vendita fu decisa per finanziare la mia prima elezione al Senato della Repubblica. La parte residua del ricavato venne investita per l'acquisto di un modesto appartamento al Circeo, troppo angusto per ospitare parenti e amici, tanto che per trascorrere la vacanza al mare, affittavamo spaziose ville lungo il litorale del Golfo del Circeo. Come era avvenuto nel 2001, all'epoca del “sogno del Circeo”. In effetti, guardando dal mare le cime del promontorio, antica sede della maga Circe, appaiono impressionanti le somiglianze con le vette dolomitiche, specialmente nei giorni in cui la foschia copre il mare e la nebbia nasconde la pianura, facendo giganteggiare la montagna. Fu proprio questo l’impressionistico scenario che apparve a me e Luisa una mattina di fine agosto, dopo una notte tormentata dalla pioggia di un tipico temporale estivo. L’effetto fu stupefacente, e, dopo un momento interminabile di meraviglia, la realtà superò ogni nostra aspettativa. Le cime del Circeo come quelle del Grostè, dove avevamo “eretto” l’altarino di Piergiorgio. Avevamo deciso per quel giorno di raggiungere il Picco di Circe, la cima più alta del promontorio, ma il maltempo scoraggiava l’impresa. Decidemmo, comunque, di partire per raggiungere Torre Paola, la zona dove secondo la leggenda omerica approdò Ulisse, e dove inizia il sentiero che conduce al Picco di Circe, convinti che dopo la nebbia doveva tornare il sereno. La località dista qualche chilometro da casa. Però impiegammo molto tempo a percorrere il breve tratto di strada. La fitta nebbia aveva completamente coperto la montagna, mentre la foschia rendeva il mare invisibile, come se una coltre ovattata fosse scesa sulla distesa marina, rendendo tutt’intorno il paesaggio surreale.


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Parcheggiammo la macchina nel piazzale del Ristorante Saporetti, dove un vecchio uomo di mare ci assicurò che in un breve lasso di tempo sarebbe tornato il sereno. Prima sulle cime e poi, a poco a poco, in pianura. Senza ulteriori indugi, calzammo gli scarponcini, indossammo gli zainetti; il mio conteneva la inseparabile macchina fotografica e la videocamera; in quello di Luisa fu deposto il quadro con l’immagine di Piergiorgio che dovevamo collocare nella parte più alta del Picco. Nei giorni precedenti mi ero abbastanza documentato, perché temevo che la vegetazione e le varie specie di animali del Promontorio del Circeo potevano non reggere il confronto con quelli delle Dolomiti, deludendo le nostre aspettative. Potevamo mai trovare qualcosa di più bello delle stelle alpine, delle immense abetaie o dell’aquila reale che ogni tanto appariva nel corso delle nostre lunghe passeggiate, sorvolando i sentieri delle Dolomiti del Brenta? Una preziosa guida ci informò che lungo il sentiero avremmo avuto la possibilità di imbatterci con piante tipiche di aree continentali come il cerro, il frassino, la farnia, oppure specie tipicamente mediterranee quali il leccio, l’alloro, la sughera. Il sottobosco esposto al Nord, caratterizzato da un clima umido, è ricoperto da una fitta macchia alta di leccio, carpino nero, roverella, farnetto, ginepro fenicio, euforbia arborea, mirto, rosmarino, erica. In pianura, in località Mezzomonte, poco prima di Torre Paola, si può ammirare una splendida sughereta, mentre lungo la costiera dunale risplende la palma nana, l’unica specie spontanea del continente europeo, il giglio marino, la gramigna delle sabbie, la camomilla marittima, il carpobroto, l’unghia di strega. Un po’ più verso l’interno, allontanandosi dal mare, è facile trovare il ginepro coccolone e il lentisco. Anche la fauna del Parco del Circeo è così meravigliosa da non avere nulla da invidiare a quella dolomitica. Sovente dalla finestra aperta sul mare mi diletto ad osservare il volo di gabbiani, colombacci e di qualche specie rara come il falco pescatore. Mentre dalla finestra posteriore che guarda la montagna, sul maestoso pino che nasconde alla vista il centro storico di S.Felice Circeo, ogni tanto fanno la loro apparizione alcuni esemplari di cuculo, allocco, tortora, civetta, gheppio, tordo, lodolaio, picchio rosso. Il merlo, il pettirosso e l’usignolo ci sono più familiari perché li osserviamo ogni giorno nel giardino del nostro solito ristorante. E con meno frequenza si fanno vedere la passera scopaiola, la cinciallegra, la cinciarella con la testolina azzurra dipinta dal mare, lo scricciolo, la deliziosa ghiandaia marina e la beccaccia di mare. Una sera sorpresi un gufo che mi guardava incuriosito, mentre sotto il pino lavavo il parabrezza della macchina, lasciandomi di stucco per il suo sguardo fisso e persistente. Assorto in questi pensieri, nonostante la nebbia fosse ancora fitta, imboccammo il sentiero che conduce al Picco di Circe e, fatti pochi passi, sfiorammo un bell’esemplare di palma nana. Un po’ più avanti una lepre passò velocemente tra me e Luisa che mi precedeva. La fatica cominciava a farsi sentire; improvvisamente la nebbia svanì sopra di noi, e come quando si apre un sipario apparve uno splendido cielo azzurro verso il quale si stagliava il meraviglioso Picco di Circe, mentre al di sotto di noi lo strato ovattato della nebbia copriva ancora la pianura e il mare. Fu impressionante la sensazione di essere sulle Dolomiti, sul Grostè, proprio vicini all’altarino di Piergiorgio. A richiamarci alla realtà del Circeo e a darci il benvenuto provvide subito un falco pescatore che iniziò allegramente a volteggiare su di noi, proprio nel momento in cui una poiana richiamava la nostra attenzione e un forsennato cinghiale, nella sua precipitosa corsa, faceva cadere alcune grandi pietre che riuscimmo fortunatamente ad evitare. Il sentiero in forte pendio insiste all’interno di un bosco di lecci lungo il quale è facile incontrare qualche passero solitario che svolazza impaurito; un occhiocotto; una curiosa donnola; una velocissima lepre; un lentissimo riccio; un


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toporagno; un pigliamosche; un balestruccio. Una diversità di animali che si rincorrono, taluni a terra si lottano, e fuggono quando intuiscono la presenza umana. Uno spettacolo incomparabile che prepara lo spirito all’impatto con il Picco di Circe che appare nella sua maestosità, quasi improvvisamente, appena si esce dal bosco. Facemmo una breve sosta alla base del massiccio anche per valutare il percorso meno pericoloso per raggiungere la cima. Scegliemmo il versante che volge verso le meravigliose Isole Pontine, perché quello rivolto a Nord e che guarda le Dune scende a picco sul mare ed è estremamente pericoloso. La scalata fu irta di difficoltà che riuscimmo a superare in virtù della esperienza maturata negli anni sulle Dolomiti. Durante l’ascensione non ci voltammo mai indietro per motivi prudenziali. Era forte il pericolo di cadere e di essere risucchiati dall’abisso del mare in tempesta in fondo al Precipizio. Ma appena giungemmo sulla vetta, emesso all’unisono un urlo liberatorio, ci girammo. Lo stupore, quasi infantile, ci ammutolì. Nella nostra vita giammai i nostri occhi avevano visto tanta bellezza! Fummo, però, immediatamente richiamati dal motivo che ci aveva spinto a compiere l’impresa: il nuovo altarino di Piergiorgio. Non fu possibile trovare un altare naturale, come avvenne qualche anno prima sul Grostè, ma riuscii a spingere il quadro con l’immagine di Piergiorgio nella fessura di una roccia, mentre Luisa in ginocchio, lo sguardo rivolto al Cielo, in un’atmosfera estatica, pregava. In seguito, ci sedemmo sull’orlo del Precipizio, per osservare la sottile linea dell’orizzonte, perché amare non vuol dire fissarsi negli occhi, ma guardare insieme verso la stessa meta. E in quella distesa immensa, dove il mare ed il cielo si erano riconciliati al termine del nubifragio notturno, colorando di un intenso azzurro tutto l’ambiente circostante, ci apparvero gli occhi azzurri di Piergiorgio. Per me e Luisa, teneramente abbracciati, quell’attimo fu la contemplazione dell’Eternità.


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INDICE

Premessa: Il sogno del Circeo: conversazione con Robert Brasillach.

Anni '40: . Mio padre e il fascismo. . Mio padre internato nel campo di concentramento di Padula.

Anni '50: . La "Rivolta Ideale" dei giovani missini del dopoguerra ed il mio impegno politico. . Il ritorno di Trieste all'Italia. . La rivolta di Berlino e la rivoluzione ungherese.

Anni '60: . Il muro della vergogna. . La beat generation. . La tragedia di Cecina.


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. Verso il '68. . La Primavera di Praga. . New age.

Anni '70: . La nascita di Piergiorgio. . La morte di mamma e papĂ .

Anni '80 e '90: . Il sindacato. . Il crollo del muro di Berlino e la fine del comunismo. . Lirinia e il Senato della Repubblica. . Sindaco di Isola del Liri. . Il tumore. . Dal Circeo a Madonna di Campiglio. . La solidarietĂ degli amici di Campiglio. . I rapporti epistolari con Fini.


191

. L'incontro con Piergiorgio. . A mosca cieca con Vanessa. . Gilberto e la ComunitĂ di Padre Matteo. . Una nuova tragedia e la vita nuova di Gilberto. . Alla ricerca del volto di Dio. . Il nuovo altarino di Piergiorgio sul Picco di Circe.


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