[estratto]argomenti di diritto processuale civile di p biavati 3a edizione web issuu

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TERMINUS Manuali


Terminus Ci fu un tempo ove il senso dei confini era così acuto che gli uomini pensavano fossero presidiati dagli dei. I romani chiamarono il dio dei confini Terminus: trasponendo in cielo la necessità dell’uomo di stabilire un limite, e, al tempo stesso, l’incoercibile spinta a superarlo. Erasmo da Rotterdam elesse Terminus come proprio dio, sapendo di trovarsi sulla faglia di un cambiamento epocale, dove i confini diventano incerti e più impervio il procedere. Forse anche noi ci troviamo in una stagione nella quale ridiscutere i grandi temi diventa essenziale: come fu in quel primo passaggio millenario illuminato dal rinascimento degli studi, segnatamente giuridici, bolognesi. Per questo abbiamo deciso di raccogliere sotto l’egida di Terminus l’attività editoriale del Dipartimento di Scienze Giuridiche e della Scuola di Giurisprudenza dell’Ateneo bolognese sviluppata con Bononia University Press, dichiaratamente però aperta ad accogliere anche contributi di studiosi di altri Atenei. Essa contempla sia un comparto, questo, dedicato all’approntamento di strumenti idonei per una didattica efficace; sia una collana di studi monografici che compendia lo sforzo di pensiero ed elaborazione dottrinale. Nella convinzione che didattica e ricerca siano due facce inscindibili della stessa medaglia, così come la nascita e la storia dell’Alma Mater stanno a testimoniare.


Paolo Biavati

ARGOMENTI DI DIRITTO PROCESSUALE CIVILE Terza edizione aggiornata

Bononia University Press


L’editore mette a disposizione sul sito www.buponline.com nella sezione download i materiali e le schede di aggiornamento riferite alle novità normative e giurisprudenziali successive alla data di pubblicazione.

Bononia University Press Via Ugo Foscolo 7, 40123 Bologna tel. (+39) 051 232 882 fax (+39) 051 221 019 www.buponline.com email: info@buponline.com Š 2011, 2013, 2016 Bononia University Press I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi. ISBN: 978-88-6923-137-7

Progetto di copertina: Irene Sartini Impaginazione: Design People (Bologna) Stampa: GE.GRAF Arti Grafiche (Bertinoro, FC) Prima edizione: settembre 2011 Seconda edizione: settembre 2013 Terza edizione: giugno 2016


INDICE GENERALE

Prefazione

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Prefazione alla terza edizione

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Capitolo I LA STRUTTURA FONDAMENTALE DEL PROCESSO

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1.  I ntroduzione. Criteri di metodo. La nozione di processo. Le fonti e la storia recente del processo civile 2.   I principi costituzionali ed europei del processo civile 3.   La nozione di giurisdizione 4.   La struttura della giurisdizione contenziosa 5.   Limiti alla giurisdizione 6.   L’azione in generale 7.   Presupposti processuali, condizioni dell’azione, decisione nel merito 8.   I criteri per l’individuazione delle azioni 9.   Le azioni di cognizione 10. La difesa del convenuto. Le eccezioni. Le domande riconvenzionali. Il principio di non contestazione 11. La disponibilità della tutela giurisdizionale. Il principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato 12. Il principio del contraddittorio 13. Principio dispositivo e inquisitorio. L’onere della prova. Il convincimento del giudice


14. Impulso di parte e impulso d’ufficio. La direzione del processo 15. Oralità, scrittura e tecnologia informatica nel processo. Pubblicità e trasparenza 16. Il giudicato. Introduzione 17. I limiti soggettivi del giudicato 18. I limiti oggettivi del giudicato

Capitolo II LE CONDIZIONI DI SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

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19. La questione di giurisdizione. Il regolamento di giurisdizione 20. I limiti spaziali della giurisdizione italiana. La legge n. 218/95. I regolamenti europei sulla giurisdizione 21. Il sistema della competenza 22. Le modifiche alla competenza per ragioni di pregiudizialità e connessione. L’accertamento incidentale 23. La questione di competenza 24. Il giudice-organo. Cenni di ordinamento giudiziario 25. I magistrati onorari. Il pubblico ministero. Il cancelliere. L’ufficiale giudiziario 26. Imparzialità e indipendenza del giudice. Profili costituzionali. L’astensione e la ricusazione. La responsabilità del giudice 27. Il difensore e la deontologia forense 28. Pluralità di parti nel processo. Litisconsorzio necessario e facoltativo. L’azione collettiva risarcitoria 29. L’intervento di terzi 30. Gli atti processuali 31. La sentenza e gli altri provvedimenti del giudice. Sentenze definitive e non definitive 32. La nullità degli atti processuali 33. Le comunicazioni e le notificazioni nel processo 34. Il tempo nel processo. I termini processuali 35. Il tempo nel processo. La rimessione in termini 36. Il tempo nel processo. Le preclusioni. La ragionevole durata 37. I costi del processo

Capitolo III IL PROCESSO DI COGNIZIONE SECONDO IL RITO ORDINARIO 38. Il rito ordinario di cognizione. I modelli processuali. Il problema delle risorse. L’atto di citazione 39. Gli effetti dell’atto di citazione. La nullità dell’atto di citazione 40. La costituzione delle parti. La comparsa di risposta

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41. La trattazione della causa. La prima udienza 42. Lo svolgimento dell’istruttoria. I mezzi di prova 43. Ammissibilità, rilevanza e valutazione delle prove 44. La prova testimoniale 45. La consulenza tecnica. Gli altri mezzi di prova costituendi 46. La confessione e il giuramento 47. Le prove documentali 48. Le modalità dell’intervento dei terzi. La riunione di cause 49. L’azione collettiva risarcitoria 50. La fase decisoria del processo. Le difese finali 51. La fase decisoria del processo. La deliberazione 52. L’esecutorietà della sentenza 53. I provvedimenti anticipatori di condanna 54. Sospensione e interruzione del processo 55. La pregiudizialità europea 56. L’estinzione del processo 57. La contumacia. Cenni al procedimento dinanzi al giudice di pace. La giustizia minore 58. Il sistema delle impugnazioni. Profili generali. Condizioni e termini 59. Le impugnazioni incidentali e il processo di impugnazione a pluralità di parti 60. L’acquiescenza. Gli effetti della sentenza di impugnazione 61. L’appello (prima parte) 62. L’appello (seconda parte) 63. Il ricorso per cassazione. Aspetti generali 64. La funzione di legittimità della Cassazione. Il ricorso e il filtro 65. Il ricorso per cassazione. Il procedimento 66. Il ricorso per cassazione. I provvedimenti. Il giudizio di rinvio 67. Il regolamento di competenza 68. Revocazione e opposizione di terzo

Capitolo IV LE ALTRE FORME DI PROCESSO DICHIARATIVO 69. Il processo del lavoro. Profili generali 70. Il procedimento nel rito del lavoro 71. Il procedimento nel rito del lavoro. L’istruttoria. Le ordinanze anticipatorie. Il mutamento di rito 72. La sentenza nel processo del lavoro. Il procedimento per impugnazione del licenziamento 73. Le impugnazioni nel rito del lavoro 74. La tutela sommaria. Presupposti e caratteristiche generali

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75. Il procedimento monitorio 76. L’opposizione a decreto ingiuntivo. L’ingiunzione europea 77. Il procedimento per convalida di sfratto 78. Il processo c.d. sommario 79. Il procedimento in camera di consiglio 80. L’arbitrato. Scopo e funzioni 81. Il patto di arbitrato. La nomina degli arbitri 82. Il procedimento arbitrale 83. Rapporti fra arbitri e giudice ordinario 84. La deliberazione e il lodo 85. L’impugnazione del lodo 86. Arbitrato rituale e irrituale. Arbitrato societario 87. Globalizzazione e armonizzazione del diritto processuale. Il processo straniero e il riconoscimento delle sentenze straniere 88. L’arbitrato internazionale e il riconoscimento dei lodi esteri

Capitolo V LA TUTELA CAUTELARE

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89. La tutela cautelare in generale 90. I sequestri 91. I procedimenti di nuova opera e danno temuto. L’istruzione preventiva. La consulenza tecnica preventiva 92. I provvedimenti d’urgenza. Cenni ai procedimenti possessori 93. Il procedimento cautelare uniforme 94. Misure cautelari e anticipatorie. Inefficacia e attuazione delle misure cautelari 95. Reclamo e revoca

Capitolo VI L’ESECUZIONE FORZATA 96.  Il processo esecutivo. Introduzione. Il titolo esecutivo e l’atto di precetto 97.  Le tipologie dell’esecuzione forzata 98.  Il pignoramento. Struttura, natura ed effetti 99.  L’intervento dei creditori nell’espropriazione 100. La vendita forzata. L’assegnazione. Il riparto 101. L’espropriazione mobiliare 102. L’espropriazione presso terzi 103. L’espropriazione immobiliare (prima parte) 104. L’espropriazione immobiliare (seconda parte)

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105. Le forme particolari di espropriazione. L’esecuzione in forma specifica 106. Le opposizioni all’esecuzione forzata 107. La sospensione dell’esecuzione. L’estinzione del processo esecutivo

Capitolo VII FUORI DAL PROCESSO

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108. La mediazione e la conciliazione

Indice ragionato

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Nota di aggiornamento

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PREFAZIONE

Questo libro ha lo scopo di accompagnare il corso di lezioni di Diritto processuale civile che svolgo a Bologna, proponendo in un testo scritto la materia che spiego ai miei studenti. Un’efficace didattica comporta che l’esame si svolga sugli argomenti trattati a lezione, senza eludere la necessità che vi sia una corrispondenza, almeno tendenziale, fra ciò che si è discusso insieme e ciò che viene poi richiesto di conoscere. Il corso bolognese si sviluppa in centootto ore di lezione e quindi la materia è suddivisa in altrettanti argomenti. Gli argomenti prescelti non esauriscono certo il Diritto processuale civile. Pur nel rispetto di un percorso che tocca i temi classici, vi sono scelte discrezionali, sia per quanto riguarda le inevitabili esclusioni, sia per ciò che concerne il livello di approfondimento dei punti esaminati. Le linee a cui mi sono attenuto sono essenzialmente due. La prima è l’importanza dei singoli istituti per comprendere il funzionamento concreto del processo civile odierno. La seconda è il collegamento con il diritto europeo, non studiato a parte, ma considerato elemento integrante della normazione applicabile. Il libro non esaurisce il corso e non vi si sostituisce. Un corso di lezioni è una realtà viva, sempre diversa, non solo perché sono – devono essere – sempre nuovi gli stimoli culturali del docente, ma soprattutto


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Prefazione

perché sono diverse le persone degli studenti. Nessun corso è identico a quello precedente e lo studio del testo serve soprattutto da confronto con ciò che si è ascoltato ed appreso. L’editore, che ha fortemente sostenuto il progetto di questo strumento didattico, mette a disposizione un apposito spazio sul sito www.buponline.com, nel quale saranno inseriti materiali utili e le opportune schede di aggiornamento riferite alle novità normative e giurisprudenziali successive alla data di pubblicazione. L’accessibilità gratuita di questo spazio è parte non secondaria del servizio che questo libro si propone. Il libro è scritto per gli studenti. Sta a loro valutarne l’utilità e segnalarne aspetti suscettibili di miglioramento. Fin da ora, ringrazio Annalisa, Cristina, Federico, Filippo, Greta e Laura, che sono stati i miei primi lettori e che hanno collaudato singole parti del volume durante la redazione. Bologna, luglio 2011


PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE

Varie ragioni mi inducono a proporre una terza edizione di questo volume. In primo luogo, l’esigenza di dare conto dei numerosi provvedimenti legislativi che si sono susseguiti dal 2013 ad oggi. Poi, l’opportunità di sottolineare il crescente impatto del processo telematico (e ringrazio qui particolarmente la prof. Brunella Brunelli per i suoi efficaci suggerimenti). Ancora, il desiderio di migliorare il testo, con inserimenti che nascono dal dibattito nei seminari, dal colloquio con i colleghi, dal contatto vivo con l’esperienza giudiziaria. Infine, si tratta di mettere a punto la materia alla vigilia di un nuovo rilevante intervento di riforma, che non si limita a modificare norme, ma percorre anche la strada di operazioni organizzative. Per il resto, non cambia la struttura del libro, né il suo obiettivo di essere uno strumento di studio e di riflessione critica sulla giustizia civile. Bologna, aprile 2016



Capitolo I LA STRUTTURA FONDAMENTALE DEL PROCESSO

1. INTRODUZIONE. CRITERI DI METODO. LA NOZIONE DI PROCESSO. LE FONTI E LA STORIA RECENTE DEL PROCESSO CIVILE. I. Introduzione e metodo. Per uno studente non è facile acquisire un approccio corretto alla materia del diritto processuale. Le difficoltà principali, a mio avviso, sono due. Da un lato, la mancanza di una percezione previa delle situazioni a cui si applica questa materia: ad esempio, ognuno sa che cosa significa comprare o vendere, anche se ignora come il diritto positivo disciplini queste situazioni, mentre espressioni come litisconsorzio, connessione, citazione o precetto restano prive di un riscontro nel discorso comune. Dall’altro lato, il più elevato tecnicismo del linguaggio e la necessità di fare corrispondere alle parole definizioni esatte e precise. Lo scopo di un testo destinato soprattutto ad accompagnare un corso di lezioni non è quello di esaurire completamente la materia: esistono molti ottimi manuali che rispondono a questa esigenza. L’idea di fondo è piuttosto quella di offrire allo studente una guida introduttiva al diritto processuale, insegnando le nozioni fondamentali e fungen-


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La struttura fondamentale del processo

do da chiave di lettura della materia. Un testo utile deve tendere, inoltre, a suscitare interesse e curiosità; a mettere in luce problemi di rilievo sociale; a fare comprendere come la giustizia civile abbia ricadute non banali sulla quotidiana esperienza di molti. Punto di partenza è considerare il processo come un meccanismo che serve, partendo da una data controversia, a dare luogo alla decisione. Ogni istituto occupa un posto preciso in questo meccanismo, con determinate finalità e con una disciplina che qui e oggi è di un tipo, ma in altre condizioni storiche o culturali può essere ovvero è stata di un altro tipo. Le variazioni del diritto positivo costituiscono gli adattamenti alle singole situazioni storiche di una tensione perenne verso l’obiettivo di una decisione giusta: il senso della giustizia (dare a ciascuno il suo) è un dato costante. Per fungere da chiave di lettura, il testo dovrà anche confrontarsi con la situazione (strutturale e concreta) della giustizia civile in Italia ed avere ben presente lo scenario dell’Unione europea e dei meccanismi internazionali di globalizzazione, con le loro ricadute sul sistema della tutela dei diritti. Al contempo, non potrà mancare una riflessione sulla connotazione etica dei comportamenti degli operatori del processo, in specie giudici e avvocati. La giustizia civile potrà crescere soprattutto se migliori saranno le capacità di dedizione e di servizio di chi se ne occupa. Ritornando al problema del linguaggio, obiettivo di un corso di lezioni è certamente ottenere l’acquisizione rigorosa delle necessarie abilità di espressione tecnica. Lo studente deve sapere distinguere con chiarezza e proprietà istituti fra loro apparentemente simili. Occorre, però, essere consapevoli dell’esigenza che non basta saper parlare di diritto agli addetti ai lavori, ma è anche opportuno saper comunicare le nozioni giuridiche al vasto pubblico dei cittadini, che addetti ai lavori non sono. Uscire da un linguaggio criptico, comprensibile solo ad una relativamente ristretta cerchia di esperti, è un’esigenza sociale importante, per liberare (e non è poco) il mondo del diritto da una sorta di isolamento culturale, che accresce la diffidenza e genera il sospetto. Il diritto, a partire da quello processuale, è garanzia di libertà: ma è indispensabile che i giuristi sappiano farsi comprendere.


Capitolo I

II. Una nozione essenziale di processo. Può essere utile prendere le mosse da una nozione semplice ed operativa, ovviamente provvisoria, di processo. A questa stregua, processo è una serie di atti e comportamenti, mediante i quali due o più parti sottopongono una controversia alla decisione di un terzo imparziale, il giudice. Se ci poniamo la domanda, a che cosa serve il processo, dobbiamo partire dal dato dell’esistenza di una controversia, vale a dire del conflitto fra due o più pretese, che abbia rilievo per il diritto. Non ogni controversia ha peso giuridico; e non ogni controversia di rilievo giuridico sfocia in un processo. Colui che si ritiene leso in un proprio diritto soggettivo può trovare un accordo con la controparte, o semplicemente rinunciare ad una tutela giudiziaria. Se, però, la controversia resta in vita, occorre risolverla e l’ordinamento giuridico fornisce al cittadino, come mezzo principale e normale, lo strumento del processo civile. Nel processo, come meglio vedremo, si deve accertare il fatto e applicare il diritto, mediante un iter al quale danno vita le due parti e il giudice. Va subito precisato che oggi sono molto forti le opinioni che ritengono che la soluzione della controversia possa avvenire anche (o forse meglio) senza e al di fuori del processo. Di qui, spiccate tendenze verso forme alternative alla giurisdizione. Fin da ora, è bene chiarire che è preferibile la prospettiva (confortata dall’art. 24 cost.) secondo cui è la giurisdizione dello Stato la via ordinaria per la risoluzione dei conflitti. Il potere politico ha il preciso compito di assicurare al cittadino una giustizia efficiente, lasciandolo libero al contempo, in una società pluralista, di perseguire il proprio interesse anche attraverso modalità non giurisdizionali. Sarebbe però una grave carenza se si abbandonasse l’idea di una giustizia funzionante a favore di altri modelli. Vi sono due modi fondamentali di considerare il processo. Ciascuno dei due attinge ad un certo fondo di verità. Da un lato, il processo può essere visto come cosa delle parti; dall’altro, come cosa del giudice. Nella prima ottica, il processo è una sorta di gara o di gioco fra le parti, in cui il giudice si limita a registrare chi ha successo e chi soccombe; nella seconda, il giudice interviene attivamente.

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La struttura fondamentale del processo

Secondo il primo modello, che storicamente richiama il liberalismo classico, si ha un’assoluta neutralità del giudice e lo scopo è quello di definire la lite, raggiungendo una situazione di equilibrio, quale che sia. L’altro modello impone la ricerca della soluzione giusta (naturalmente, applicando le norme vigenti in quel dato momento), pagando però il prezzo di un giudice che, in qualche misura, è schierato in modo preferenziale per la parte che risulta portatrice di un interesse meritevole di maggiore tutela. Le regole procedurali sono alla costante ricerca di un equilibrio fra imparzialità del giudice e ottenimento della decisione giusta. Secondo un’impostazione dominante nel secolo scorso, il legame fra i soggetti del processo veniva visto come un particolare rapporto giuridico, denominato rapporto processuale. Non si farà uso di questa terminologia, di cui pure si trova tuttora traccia in letteratura. Obiettivo del processo è risolvere la controversia secondo verità e giustizia. In questo senso, non è appagante l’idea che sia giusta la decisione che ha semplicemente seguito l’iter procedurale corretto. Il rapporto fra processo e decisione è di mezzo a fine: il processo (è bene sottolinearlo subito, con forza) è uno strumento per l’attuazione dei diritti. Ora, il processo ha una struttura dialettica, dovuta agli apporti contrastanti delle parti in lite ed è necessario che tutti questi apporti vengano valorizzati. Tuttavia, è anche necessario ribadire che è giusta la sentenza che, sulla base degli elementi a disposizione, ha applicato correttamente il diritto sostanziale. Nel contempo, occorre dire che il processo non ricerca una verità assoluta, ma quell’approssimazione possibile secondo dati limiti di tempo e di mezzi probatori. Per quanto riguarda la giustizia, è scontato che vi possano essere errori umani: tuttavia, il processo deve tendere all’effettività della tutela. III. Le fonti del diritto processuale civile. Il diritto processuale civile è regolato principalmente dal codice di procedura civile, approvato il 28 ottobre 1940 ed entrato in vigore il 21 aprile 1942. Il codice consta di quattro libri, dedicati


Capitolo I

rispettivamente alle disposizioni generali, al processo di cognizione, al processo di esecuzione e ai procedimenti speciali. Vi rientrano anche le disposizioni di attuazione, spesso rilevanti per il funzionamento pratico dell’attività giudiziaria. Frutto di un ampio lavoro, il codice del 1940-42 era un testo molto organico e si lasciava alle spalle l’esperienza del codice liberale del 1865 e delle molte novellazioni successive. La compattezza del codice ebbe però breve durata. La prima importante legge di modifica è quella del 14 luglio 1950, n. 581. Hanno fatto poi seguito molti interventi, fra cui si possono ricordare la riforma del processo del lavoro (l. n. 533 del 1973), le due novelle in tema di arbitrato (1983 e 1994), la legge di riforma del diritto internazionale processuale (l. n. 218 del 1995), il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, in tema di lavoro e pubblico impiego. Naturalmente, non poche sono state le ricadute sul tessuto del codice delle norme della Costituzione. Tuttavia, va detto che la carta fondamentale della Repubblica non ha stravolto, ma solo ritoccato (attraverso le sentenze della Corte costituzionale) la struttura del codice. Un’importante revisione del codice fu quella apportata con la l. n. 353 del 26 novembre 1990, entrata in vigore, dopo numerose modifiche e un travagliato iter legislativo, nel 1995. La novella del 1990-95 cercò di rispondere alla più rilevante delle sfide attuali del processo civile, vale a dire i tempi eccessivamente lunghi che rischiano di vanificare l’effettività della tutela. Il non pieno successo di questa riforma ha condotto ad un nuovo vasto intervento riformatore. In primo luogo, il d.lgs. n. 5 del 17 gennaio 2003 (e successive modificazioni) ha introdotto uno specifico rito per le controversie in materia societaria. Questo rito si distingueva sotto molti profili da quello ordinario ed era fortemente innovativo, specie per quanto riguarda i rapporti fra il giudice e le parti, la fase introduttiva del giudizio, la contumacia, i procedimenti sommari e cautelari. La perdurante insoddisfazione per una situazione di crisi non risolta è poi alla base dell’ampia novellazione del biennio 20052006: la l. 14 maggio 2005, n. 80, la l. n. 263 del 28 dicembre

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La struttura fondamentale del processo

2005 e la l. n. 52 del 24 febbraio 2006. Nel contempo, il d.lgs. n. 40 del 2 febbraio 2006 ha attuato la delega contenuta nella l. n. 80, dettando importanti disposizioni di riforma del procedimento dinanzi alla Cassazione e dell’arbitrato. Questo complesso di misure si segnala per la sua decisa eterogeneità: spesso, l’obiettivo è quello di risolvere problemi pratici (talora, in modo senz’altro positivo), ma senza un disegno di ampio respiro. Dopo le ulteriori modifiche apportate dal d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge con la l. n. 133 del 6 agosto 2008, si è avuto un nuovo importante intervento del legislatore con la l. n. 69 del 18 giugno 2009, che, da un lato, innova il codice e, dall’altro lato, detta importanti disposizioni di delega al governo per riformare i processi speciali e regolare la disciplina della mediazione. La legge ritorna indietro su alcune importanti scelte attuate negli anni precedenti: in specie, viene abolito il processo societario, prendendo atto del suo insuccesso pratico. Gli interventi legislativi continuano. Nel 2010 si devono segnalare alcune modifiche al codice introdotte con la l. 22 febbraio 2010, n. 24; il d.lgs. n. 4 marzo 2010, n. 28, sulla mediazione e conciliazione nelle controversie civili e commerciali; la l. 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. collegato lavoro) che ha innovato la materia della conciliazione e dell’arbitrato nelle controversie di lavoro. Il d.lgs. n. 150 del 1° settembre 2011, relativo alla riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, è l’ultima fase di attuazione della riforma del 2009. Nel corso del 2011 e del 2012 si è succeduta una pioggia di leggi, che hanno toccato vari aspetti del processo civile. Così, la l. 14 settembre 2011, n. 148; la l. 12 novembre 2011, n. 183; la l. 29 dicembre 2011, n. 218; la l. 17 febbraio 2012, n. 10 (c.d. salva Italia); la l. 24 marzo 2012, n. 27 (c.d. cresci Italia); la l. 7 agosto 2012, n. 134 (conversione del c.d. decreto sviluppo); la l. 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. legge Fornero); il d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito in l. n. 221 del 17 dicembre 2012; la l. n. 228 del 24 dicembre 2012 (c.d. legge di stabilità 2012); la l. 11 dicembre 2012, n. 220 (modifiche alla disciplina del condominio negli edifici).


Capitolo I

Non cambia lo spartito nel 2013: ed ecco la l. 9 agosto 2013, n. 98, che ha convertito con modificazioni il d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. decreto del fare). Nell’anno successivo, seguono la l. 21 febbraio 2014, n. 9 (c.d. destinazione Italia), la l. 11 agosto 2014, n. 114 (di grande rilievo per ciò che concerne il processo civile telematico) e la l. n. 162 del 10 novembre 2014, relativa a misure urgenti di degiurisdizionalizzazione e interventi per contrastare l’arretrato nel processo civile. Nel 2015, ecco la l. 27 febbraio 2015, n. 18, che innova la disciplina della responsabilità civile dei giudici; la l. 6 agosto 2015, n. 132, con modifiche soprattutto al processo esecutivo; la l. 28 dicembre 2015, n. 208 (c.d. legge di stabilità 2016). È il caso di notare, sotto il profilo della tecnica legislativa, che lo schema è quasi sempre quello di un decreto legge (peraltro, senza che vi siano le condizioni di urgenza prescritte dalla Costituzione), che viene poi convertito in legge con modificazioni. Vi è stata, in sostanza, una rincorsa a numerose misure, volte, negli auspici, a migliorare l’efficienza della giustizia civile per restituire credibilità al sistema paese sui mercati internazionali. Se già in precedenza era difficile scorgere una ragionevole strategia, ancora più arduo lo è divenuto nella fase più recente, a motivo che la valutazione di positività degli interventi è nei fatti rimessa alle strutture della finanza globale, che premiano o puniscono il legislatore interno con punti di rating o con modifiche della classifica del doing business. Non a caso, più volte la mancanza di una visione d’insieme ha portato all’introduzione e alla successiva rapidissima abrogazione di varie norme. IL DISEGNO DI LEGGE DELEGA Il 10 marzo 2016 la Camera ha approvato il disegno di legge delega n. 2953-A relativo a disposizioni per l’efficienza del processo civile. Il legislatore si propone un intervento su molti piani, sia organizzativi che strettamente procedurali. Soltanto l’emanazione della legislazione delegata consentirà di apprezzare pienamente questa nuova (ed è il caso di dire, ennesima) riforma. Nelle prossime pagine, in una serie di box si darà conto delle principali innovazioni.

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La struttura fondamentale del processo

IV. Le riforme del processo civile fra norme e strutture. Occorre comprendere perché, negli anni recenti, si continui ad apportare modifiche al codice di procedura civile. Le riforme del processo civile cercano di fronteggiare la grave situazione della giustizia in Italia, caratterizzata da tempi di decisione troppo lunghi e da inefficacia nelle fasi attuative. È difficile offrire statistiche aggiornate: in ogni caso, un processo ordinario di primo grado dura solitamente alcuni anni; altri anni dura quello di appello e, mediamente, due-tre anni sono occupati dall’eventuale fase di cassazione. È evidente che si tratta di tempi inaccettabili per le dinamiche della società contemporanea. È importante avere chiaro che le regole di procedura hanno un peso percentualmente modesto nel novero delle cause dei disservizi della giustizia. Il problema non è tanto quello di modificare le norme, quanto di incidere sull’organizzazione complessiva della giustizia (troppo contenzioso, troppi avvocati, pochi giudici e per di più male impiegati e male distribuiti sul territorio, mentalità burocratica del personale, carenze strutturali). Sarebbe quindi del tutto incongruo considerare il diritto processuale senza tenere conto del modo di funzionare della macchina amministrativa e delle norme che si riferiscono all’organizzazione della giustizia. L’ordinamento giudiziario costituisce, anche sul piano scientifico, una parte fondamentale della disciplina della tutela giurisdizionale. Al riguardo, va ricordato, prima di tutto, il r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 (ampiamente modificato da leggi successive), espressamente dedicato all’ordinamento giudiziario; la l. n. 247 del 31 dicembre 2012, sull’ordinamento della professione di avvocato (c.d. legge professionale forense), che ha sostituito l’antico r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578; la l. n. 374 del 21 novembre 1991 istitutiva del giudice di pace; il d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, istitutivo del giudice unico in materia civile. Di grande rilievo è poi l’impatto della normativa europea, che sta fortemente incidendo sul processo civile: vi si dedicherà ampio spazio. Occorre ricordare, infine, la presenza di importanti convenzioni internazionali (per non citarne che una, quella di New York del 1958 in materia di arbitrato).


Capitolo I

Le fonti del diritto processuale devono poi ricercarsi anche nel sesto libro del codice civile, dedicato alla tutela dei diritti, che anzi contiene alcune delle norme cardine della materia. È necessario per chi si avvicina allo studio del diritto processuale avere una chiara conoscenza delle regole contenute nel codice di diritto sostanziale. Infine, fenomeno recente è quello dell’inserimento di norme processuali speciali in singole leggi. Dalla centralità del codice, si passa ad una multilateralità di fonti. Va detto, peraltro, che più di una voce si è levata per contrapporre alla molteplicità dei riti un processo tendenzialmente unitario, pur se connotato da forme di flessibilità e di semplificazione. Qualche passo in avanti in questa direzione sembra essere stato compiuto dalla l. n. 69 del 2009, come meglio si vedrà a suo luogo. V. La giurisprudenza e i protocolli. Non solo la legge scritta è, in concreto, fonte del diritto processuale, anche se l’art. 111 cost. prevede che la giurisdizione sia attuata mediante il giusto processo regolato dalla legge. Non diversamente da altri settori del diritto, la materia del processo suppone sempre di più una viva attenzione alla giurisprudenza. Si riprenderà questo punto parlando dei principi di diritto e dell’effetto degli orientamenti della Corte di cassazione. Vi è, poi, un fenomeno che difficilmente può essere incluso nel novero delle fonti classiche, ma che sta acquisendo importanza crescente. Si tratta dei protocolli di comportamento fissati in accordo fra gli organi giudiziari e le organizzazioni professionali forensi, con lo scopo di meglio disciplinare aspetti pratici ed organizzativi e di predeterminare interpretazioni comuni di determinate norme di legge o di importanti sentenze. Questi testi non hanno valore vincolante, ma vanno segnalati come un significativo sforzo per fare fronte, talvolta con caratteristiche prettamente locali, alla mancanza di coordinamento fra le regole codicistiche e le esigenze concrete dell’applicazione della giustizia.

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STUDIARE SUL LIBRO O STUDIARE SUL CODICE? È una domanda tanto frequente quanto mal posta. Si studia una materia, denotata da una certa complessità e, specialmente oggi, caratterizzata da una pluralità di fonti. La semplice lettura di un testo normativo (quello che si dice “studiare sul codice”) non permette allo studente di conseguire un’adeguata comprensione. Per questo, vi sono il corso di lezione e i tanti manuali, fra i quali ogni studente sceglierà quello più appropriato, sapendo che le indicazioni date dal docente sono meri suggerimenti, mai vincolanti. Però, il codice (inteso come testo che riporta le varie fonti normative interessate) è indispensabile, perché ci si deve abituare alla sistematica delle norme e a confrontare la sintesi del manuale con l’esatta dizione della norma.

2. I PRINCIPI COSTITUZIONALI ED EUROPEI DEL PROCESSO CIVILE. I. L’art. 24 cost. Il diritto di difesa. La prima ed essenziale fonte da considerare è la Costituzione della Repubblica. Sono numerose le norme che la carta costituzionale dedica al processo civile. In questa sede, ne daremo una rapida sintesi: tutte verranno poi riprese commentando i vari aspetti della materia. In primo luogo, leggiamo l’art. 24. “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”. La norma regola il diritto di difesa e di azione e suppone l’accesso alla tutela giurisdizionale, la garanzia del contraddittorio e la parità delle armi nel processo. Sotto il primo profilo, non si tratta soltanto di attribuire a chi ha subito una lesione il diritto di ricorrere al giudice, ma anche di assicurare condizioni che rendano effettivo questo diritto (come, ad esempio, il patrocinio a spese dello Stato). Sul contraddittorio ritorneremo ampiamente. La parità delle armi non significa uguaglianza assoluta di posizioni, ma almeno ten-


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denziale omogeneità della capacità di ogni singola parte di fare valere i suoi diritti. Il contenuto dell’art. 24 incide sulla costituzionalità di taluni procedimenti. La Corte costituzionale ha svolto un ampio ed articolato lavoro, specialmente negli anni Settanta e Ottanta, per verificare la compatibilità costituzionale di varie norme del codice e, soprattutto, di alcuni procedimenti speciali. Con una serie di importanti sentenze, la Consulta ha enucleato un contenuto minimo del diritto di difesa, che si articola nel rispetto del contraddittorio, nella facoltà di dare prova dei fatti, nel diritto ad una difesa tecnica e nel potere di proporre impugnazioni. II. L’art. 111 cost. Il giusto processo. La ragionevole durata. L’art. 24 era già stato reso oggetto di molte pronunce interpretative della Corte costituzionale, quando (con la l. cost. n. 2 del 23 novembre 1999) è stato introdotto un nuovo testo dell’art. 111. Secondo il comma 1° dell’art. 111 cost., la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. La nozione di giusto processo non sembra innovativa rispetto a quanto già in vigore nel nostro ordinamento, anche per effetto dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Anche la riserva di legge, indicata dalla norma, non esclude né forme di elasticità processuale, né l’apporto giurisprudenziale. D’altra parte, il riferimento al giusto processo sta diventando una componente essenziale della produzione sia giurisprudenziale che normativa (si pensi all’art. 360-bis c.p.c. sui requisiti per l’ammissibilità del ricorso in cassazione, che sarà esaminato a suo luogo). Quindi, si tratta di indicarne, per quanto possibile, una dimensione positiva. Collegato al generale aspetto del diritto di difesa, il concetto di giusto processo sembra alludere ad una corretta modalità di svolgimento della procedura, tale per cui nessuna delle due parti abbia visto comprimere le proprie facoltà difensive, al punto da ipotizzare che, se queste fossero state rispettate, il processo avrebbe avuto un esito diverso. Viene in gioco, ancora una volta, l’idea del processo

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come strumento. Da un lato, si cerca di ridurre, se non di eliminare, lo spazio delle situazioni in cui una parte perda un diritto sostanziale per un errore di procedura; dall’altro, si toglie importanza alle irregolarità processuali, qualora non abbiano inciso effettivamente sull’esito della decisione del giudice. Il comma 2° dell’art. 111 afferma che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”. In una certa misura, le affermazioni di questo comma 2° sono comprese nella lettura dell’art. 24, come effettuata dalla Corte costituzionale. Di maggiore impatto è, invece, il profilo della ragionevole durata, che eleva al piano costituzionale il criterio di un’estensione temporale del processo che non ne pregiudichi l’effettività. Le norme processuali devono quindi essere interpretate in questa ottica. Entra in gioco un importante criterio interpretativo, non esclusivo, ma certamente tipico del diritto processuale. Le norme devono essere lette, in caso di dubbio, secondo un senso che dia luogo ad un miglioramento complessivo del sistema giustizia e non ad un suo appesantimento. Infatti, la ragionevole durata non va riferita soltanto al singolo processo e, quindi, all’interesse del singolo ad ottenere una pronuncia senza attendere anni: questo aspetto è certamente rilevante (tanto che genera i profili di indennizzo a carico dello Stato, regolati dalla c.d. legge Pinto), ma non è l’unico, né il principale. La ragionevole durata significa soprattutto equilibrio fra le risorse complessive del sistema, che non permette di sprecare la giurisdizione, e il tempo che può essere dedicato ad un singolo giudizio. Le ricadute sono notevoli e si avrà modo, nel corso dello studio della materia, di metterne in luce alcune. Per ora, è bene segnalare che la ragionevole durata si pone quindi alla stregua di un orientamento ermeneutico di rilevanza costituzionale. La riaffermazione del principio del contraddittorio, della parità fra le parti e della terzietà e imparzialità del giudice indica, in qualche modo, il nocciolo duro ed essenziale di ogni processo civile. Le regole di dettaglio possono variare, ma non si ha processo autentico senza il rispetto di queste condizioni fondamentali. Per il momento, basti enunciarle: saranno poi approfondite a suo luogo.


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Ancora, si tratta di stabilire se, fra i principi fondamentali del processo, vi sia una gerarchia. Il problema si pone, soprattutto, nel rapporto fra il giusto processo e il diritto di difesa, da un lato, e la ragionevole durata, dall’altro. La ragionevole durata è, in qualche modo, un contenuto del giusto processo, nel senso che non è giusto un processo che non ottenga il suo esito in tempi ragionevoli; tuttavia, la necessità di fare presto non può giungere fino al punto da ledere il cuore stesso della tutela. Le garanzie del giusto processo, insomma, rappresentano un vertice non negoziabile. Al riguardo, va detto che se si ammette che ragionevole durata e diritto di difesa siano due concetti omologhi ma opposti, predicabili in modo uguale rispetto al singolo processo, si corre il serio rischio di non raggiungere alcuna soluzione soddisfacente e di praticare il gioco della torre. Infatti, ogni espressione difensiva comporta un allungamento dei tempi di decisione e ogni sforzo di sintesi del giudice suppone una restrizione delle attività difensive delle parti e un impoverimento delle loro posizioni. Partendo da questa premessa, si deve finire per concludere che, comunque, il giusto processo e il diritto di difesa prevalgono e che, in qualche modo, la ragionevole durata è un principio di rango inferiore. Ora, un discorso diverso si può fare, se si ritiene che ragionevole durata e diritto di difesa non siano nozioni omologhe, ma siano (almeno prevalentemente) predicabili, quanto alla prima, rispetto al sistema nel suo complesso e, quanto al secondo, rispetto ad un dato processo concreto. Infatti, la nozione di ragionevole durata non va intesa solo come semplice misurazione temporale della lunghezza dei processi, ma anche (e forse soprattutto) come ragionevole impiego di risorse in relazione a quel processo. Ed è in questa chiave che si deve compiere il lavoro, certo imprescindibile, di rilettura delle norme del codice alla luce del precetto di cui all’art. 111, comma 2°, cost. Ne segue che il discrimine per una più o meno intensa applicazione del principio della ragionevole durata, in rapporto al diritto di difesa, va collocato in relazione al piano del maggiore o minore impiego di risorse giudiziarie che ne viene in gioco. In realtà, il principio di ragionevole durata (inteso come ragionevole impiego di una quota di risorse giurisdizionali adeguata ri-

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spetto ad un dato processo) non è mai in contrasto con il ragionevole esercizio del diritto di difesa. Se si guardano le situazioni normative in cui, negli anni recenti, si è manifestata in modo più acuto una tensione fra esigenze della difesa ed esigenze della durata e dell’efficacia, ci si rende conto che vi sono casi in cui il principio di ragionevole durata si scontra con un esercizio non ragionevole ed abusivo del diritto di difesa, e deve quindi prevalere, ma senza nessun vero vulnus alle aspettative della tutela; che ve ne sono altri in cui, invece, non è lecita alcuna compressione dell’attività difensiva, seppure collegata ad un possibile ritardo nell’emanazione della decisione, perché non ne viene in gioco alcun aggravio di risorse per il sistema; che, infine, vi sono casi in cui il ragionevole impiego delle risorse e il ragionevole esercizio del diritto di difesa convergono nell’imporre soluzioni concordanti. Nell’esposizione della materia si daranno gli opportuni esempi a questo proposito. L’art. 111 contiene altri due commi importanti per la nostra materia. Secondo il comma 6°, tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Il comma 7° precisa che contro le sentenze (e i provvedimenti sulla libertà personale) è sempre possibile il ricorso (c.d. straordinario) in cassazione per violazione di legge. La portata concreta di questa norma è ora ampliata dopo la riforma del 2006. III. Altre norme costituzionali. L’art. 113 fonda il principio della tutela ordinaria contro la p.a. La carta repubblicana vuole intendere, con questo, due concetti essenziali. Il primo è che il cittadino ha il diritto di difendersi, dinanzi allo Stato-giurisdizione, contro lo Stato-amministrazione (il che oggi è pacifico, ma pur sempre frutto di una lenta conquista storica). Il secondo è che lo Stato-amministrazione non ha, a priori, un giudice speciale per le sue controversie, ma è sottoposto alle regole comuni. Di fatto, la ripartizione della giurisdizione e l’esistenza di speciali giurisdizioni amministrativa e contabile individuano un percorso del tutto particolare per lo Stato che si deve difendere in giudizio. Più appropriato sarebbe andare nella direzione di una


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tutela globale di diritti ed interessi legittimi (vale a dire, verso la giurisdizione unica). La Costituzione è particolarmente attenta a garantire l’indipendenza dei giudici, con disposizioni che ovviamente si estendono oltre il processo civile. Al riguardo, si devono menzionare in particolare gli artt. 101, 104, comma 1° e 108, comma 2°, cost. Un ruolo fondamentale spetta in questo senso al Consiglio superiore della magistratura (di seguito, Csm), organo di autogoverno del giudiziario italiano. Su queste norme, tutte visibilmente collegate all’art. 111, comma 2°, si ritornerà parlando di ordinamento giudiziario, di rapporto fra legge e giurisprudenza e di imparzialità. IV. Le fonti di diritto dell’Unione europea. L’inserimento dell’Italia nell’Unione europea impone anche di considerare l’influenza dell’ordinamento dell’Unione sul diritto processuale civile. Il punto fondamentale da sottolineare è che l’ordinamento italiano è distinto, ma non separato da quello europeo, che prevale sul nostro, in forza dei trattati europei e in specie, ora, del trattato sull’Unione europea (Tue) e del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue) e del rinvio operato dall’art. 11 cost. Pertanto, le fonti europee hanno efficacia immediata (ovviamente, secondo modalità diverse, se si tratta di regolamenti, direttive, sentenze dei giudici di Lussemburgo e via discorrendo). L’art. 81 Tfue promuove la progressiva compatibilità fra gli ordinamenti processuali nell’Unione europea. Si leggano i primi due paragrafi della norma. “1. L’Unione sviluppa una cooperazione giudiziaria nelle materie civili con implicazioni transnazionali, fondata sul principio di riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie e extragiudiziali. Tale cooperazione può includere l’adozione di misure intese a ravvicinare le disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. 2. Ai fini del paragrafo 1, il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, adottano in particolare se necessario al buon funzionamento del mercato interno, misure volte a garantire: a) il riconoscimento reciproco

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tra gli Stati membri delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziali e la loro esecuzione; b) la notificazione transnazionale degli atti giudiziari ed extragiudiziali; c) la compatibilità delle regole applicabili negli Stati membri ai conflitti di leggi e di giurisdizione; d) la cooperazione nell’assunzione dei mezzi di prova; e) un accesso effettivo alla giustizia; f ) l’eliminazione degli ostacoli al corretto svolgimento dei procedimenti civili, se necessario promuovendo la compatibilità delle norme di procedura civile applicabili negli Stati membri; g) lo sviluppo di metodi alternativi per la risoluzione delle controversie; h) un sostegno alla formazione dei magistrati e degli operatori giudiziari”. In attuazione di questo intervento positivo dell’Unione europea, che fonda una vera e propria politica sul diritto processuale, sono stati emanati finora vari regolamenti che toccano direttamente, in determinati settori, la nostra materia (1215/12 sulla competenza giurisdizionale e il riconoscimento e l’esecutorietà delle decisioni in materia civile e commerciale; 2201/03 sulla competenza giurisdizionale e il riconoscimento e l’esecutorietà delle decisioni in materia matrimoniale e di responsabilità genitoriale; 1393/07 sulle notificazioni negli altri paesi dell’Unione; 1206/01 sull’assunzione delle prove civili; 805/04 sul titolo esecutivo europeo in materia di crediti non contestati; 1896/06 e 2421/15 sul procedimento di ingiunzione europea; 861/07 e 2421/15 sul procedimento per le controversie di modesta entità; 4/09 sulla competenza in materia di obbligazioni alimentari; 650/12 sulla competenza, la legge applicabile e il riconoscimento delle decisioni in materia di successioni; 655/14 sul sequestro conservativo dei conti correnti bancari). In base all’art. 4 Tfue, la materia della cooperazione giudiziaria civile è inclusa fra i settori di competenza concorrente dell’Unione e degli Stati nazionali. Questo razionalizza le acquisizioni già ottenute, senza però risolvere il problema di quali settori dovranno essere oggetto della legislazione quadro dell’Unione e quali, invece, rimanere di prerogativa statuale. Ancora due brevi annotazioni. Nel rapporto fra norme europee e diritti nazionali vige la regola dell’autonomia procedurale. Autonomia procedurale significa che, da un lato, sussiste piena libertà per i legislatori interni di modellare come meglio credono le regole di pro-


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cedura civile e, a maggior ragione, i rispettivi ordinamenti giudiziari. Tuttavia, questa autonomia deve tenere conto della supremazia del diritto europeo e, quindi, deve essere strutturata in modo tale da assicurare, almeno per i diritti che discendono dal sistema europeo, una tutela effettiva ed adeguata. Il concetto di tutela effettiva ed adeguata comporta che le norme nazionali non possono rendere eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti discendenti dall’ordinamento dell’Unione europea e in ogni caso devono assicurare a questi diritti una tutela non inferiore a quella prevista per le situazioni di mero diritto interno. Ne segue che le norme nazionali vanno sottoposte ad un test di compatibilità con lo standard europeo minimo di tutela e devono rispettare i criteri europei di equivalenza ed effettività. Inoltre, va tenuto in considerazione il rilevante impatto delle sentenze della Corte di giustizia, che sono fonte del diritto processuale anche interno. Al riguardo, è opportuno ricordare che la Corte di giustizia è l’organo posto al vertice del giudiziario europeo e ha compiti interpretativi di enorme rilievo. Ancora, è bene distinguere per chiarezza fra le norme che regolano il giudizio dinanzi agli organi giurisdizionali dell’Unione europea di Lussemburgo (che si possono considerare il diritto processuale europeo in senso stretto) e le norme di fonte europea che disciplinano segmenti del processo civile e sono immediatamente applicabili nei singoli ordinamenti nazionali. In queste pagine, si farà normalmente riferimento a questo secondo significato più ampio. Ora, la materia processuale di derivazione europea va inserita come contenuto non marginale ed episodico, ma sempre più centrale dell’insegnamento del diritto processuale civile. Infatti, quando si parla del diritto europeo come contenuto di un moderno studio del diritto processuale, non ci si riferisce tanto ai profili strettamente applicativi, ma al modo di essere di un diritto che si muove su tre direttrici: i grandi principi e i valori di fondo; norme a carattere regolamentare, che dettano una disciplina hic et nunc; la giurisprudenza che colma le lacune, che integra il sistema, che promuove lo sviluppo dell’ordinamento. Così opera il diritto dell’Unione europea e così, a poco a poco, senza che il cambiamento venga proclamato a gran voce, si stanno evolvendo i diritti nazionali, incluso quello italiano e compresa la materia del processo civile.

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Ci si può limitare qui a questo riferimento schematico, perché le fonti europee saranno riprese durante l’esposizione della materia, con gli opportuni coordinamenti. V. La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Una fonte importante è la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (di seguito, Cedu), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata dall’Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848. Si tratta di un testo vincolante, non solo perché frutto di un accordo internazionale, ma anche perché richiamato dal trattato dell’Unione europea, come modificato dopo il trattato di Lisbona del 2007. Infatti, secondo l’art. 6 Tue, l’Unione aderisce alla Cedu, secondo le indicazioni contenute nel protocollo allegato n. 8. Inoltre, si dichiara che i diritti fondamentali, garantiti dalla Cedu e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali. Secondo l’art. 6 Cedu, ogni persona ha diritto che la sua causa sia trattata in modo equo, da un tribunale indipendente ed imparziale, stabilito per legge, e in un termine ragionevole. A lungo, l’art. 6 è rimasto l’unica fonte normativa ad occuparsi della questione e la relativa applicazione è stata demandata alla Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo, istituita in base all’art. 19 Cedu. Le statuizioni della Corte europea sono vincolanti per il giudice nazionale. La giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha contribuito, nel corso degli anni, alla formazione di una sensibilità più accentuata verso i tre grandi temi dell’art. 6 (e quindi, il giusto processo, l’imparzialità dei giudici e la ragionevole durata), che oggi, come si è visto, fanno parte delle regole costituzionali interne. Si deve aggiungere che il 7 dicembre 2000 l’Unione europea varò a Nizza la propria Carta dei diritti fondamentali, non identica alla Convenzione del 1950, ma in gran parte allineata sui medesimi contenuti. L’art. 47 della Carta europea ribadisce le prescrizioni dell’art. 6 Cedu. Con il trattato di Lisbona, la Carta (con una formulazione lievemente diversa da quella originaria) è stata nuovamente adotta-


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ta a Strasburgo il 12 dicembre 2007. L’art. 6 Tue, ora, le riconosce il medesimo valore giuridico dei trattati, con la conseguenza che i principi contenuti nella Carta sono suscettibili di immediata applicazione in sede giurisdizionale. Come si vede, le regole europee e quelle costituzionali, seppure non identiche e governate da un complesso sistema di fonti, convergono verso i medesimi obiettivi.

3. LA NOZIONE DI GIURISDIZIONE. I. Le norme costituzionali sulla giurisdizione. È utile, per una migliore comprensione del processo, fissare uno schema molto semplificato, che vede due parti, portatrici di interessi contrapposti, sottoporre la loro controversia al giudice. Alcuni argomenti verranno quindi a concentrarsi sulla figura e i poteri del terzo imparziale chiamato a decidere la lite: il giudice. La prima nozione che si incontra è quella di giurisdizione. Giurisdizione, prima di tutto, significa potere di decidere una controversia. Questo potere appartiene, in ogni ordinamento, alla comunità politica organizzata. Da oltre due secoli, in Occidente il potere giurisdizionale è un potere dello Stato, ma distinto dal potere esecutivo e da quello legislativo. Il potere giurisdizionale è in grado di controllare l’esecutivo e di vigilare sull’applicazione delle statuizioni del legislativo. La sfida che il mugnaio dell’aneddoto avrebbe rivolto a Federico II, re di Prussia (…c’è un giudice a Berlino!), è un simbolo plastico del costante rapporto di tensione fra il cittadino e il potere. Le moderne costituzioni democratiche attribuiscono al cittadino una piena tutela dei diritti e, per converso, attribuiscono ad un autonomo segmento dell’organizzazione dello Stato, quello giurisdizionale, il compito di risolvere i conflitti ed applicare la legge nei confronti di ogni altro soggetto dell’ordinamento, Stato-amministrazione incluso. Le norme che vengono in gioco sono gli artt. 101 e 102 cost. e l’art. 1 c.p.c.

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L’art. 101 cost. ricorda che la giustizia è amministrata in nome del popolo e che i giudici sono soggetti soltanto alla legge. L’art. 102, comma 1°, cost., precisa che la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario. Infine, l’art. 1 c.p.c. ribadisce che la giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, è esercitata dai giudici ordinari secondo le norme del codice di rito. Il legame istituito dalla carta fondamentale fra principio democratico ed esercizio della funzione giurisdizionale è nitido. Il potere appartiene al popolo, che lo esercita eleggendo il Parlamento, che detiene il potere legislativo. I giudici operano in nome del popolo, applicando la legge voluta (seppure nelle forme della democrazia indiretta) dal popolo. Da un lato, il giudice non è soggetto ad alcun potere: la sua indipendenza (su cui si ritornerà), specialmente dall’esecutivo, è uno dei cardini della struttura costituzionale. Dall’altro lato, non è di minore importanza il precetto per cui il giudice è soggetto alla legge: la giurisdizione esercita la sua funzione applicando le norme, e non modificandole o piegandole a finalità politiche. Sono due dati semplici, ma che talora è comodo dimenticare. II. Il fine della giurisdizione. Ci si deve domandare perché il giudice ha il potere di decidere; ovvero, qual è il fine della giurisdizione. Le risposte sono diverse e tutte contengono qualche elemento di verità. Si può dire, prima di tutto, che la giurisdizione ha lo scopo oggettivo di attuare i precetti dell’ordinamento. Il potere giudiziario è visto, in questo senso, come la cinghia di trasmissione dell’ordinamento, che ha uno specifico interesse a vedere regolate dalle sue norme (e quindi dai suoi valori, civili e politici) le controversie fra i propri cittadini. Confliggono con questa ipotesi la facoltà delle parti di scegliere un giudice o un arbitro stranieri che non applicano il diritto italiano (come previsto dall’art. 4 l. 218/95) e la possibilità che il processo si estingua senza una sentenza. Non sempre, quindi, l’esercizio della giurisdizione è in grado di pervenire al suo scopo oggettivo. Si può poi vedere la giurisdizione come modo di risoluzione dei


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conflitti e di garanzia della pace sociale. In realtà, la decisione giurisdizionale può risolvere la lite, ma non sempre elimina, anzi talora accresce, il conflitto. Se una sentenza giuridicamente corretta apre, di fatto, la via ad altre liti, la finalità pacificatoria risulta vanificata. Ancora, si può affermare che scopo della giurisdizione è quello di reintegrare le posizioni soggettive lese. Questa lettura è forse la più conforme all’art. 24 cost., ma si scontra con le molteplici forme di inefficacia o mancata attuazione pratica delle misure giurisdizionali. Quando il processo non ottiene l’esito di ricostruire pienamente il patrimonio giuridico di chi ha domandato tutela, si deve ammettere che la giurisdizione ha fallito. Come si vede, identificare la finalità della giurisdizione esclusivamente con questo o quello degli obiettivi segnalati porta a risultati non esaustivi. È preferibile affermare che la giurisdizione, e quindi il potere decisorio che lo Stato affida al giudice, ha una pluralità di scopi, alcuni dei quali vengono in ogni caso realizzati. Un più moderno approccio al problema vede poi un significato nuovo della giurisdizione. Essenzialmente, la funzione giurisdizionale diventa la prestazione di un servizio pubblico, con il contenuto di risolvere controversie, applicando (ma solo normalmente) la legge italiana, a favore, in alcune materie, obbligatoriamente di tutti i consociati e, in altre, di coloro che liberamente se ne vogliano avvalere. Se la giurisdizione civile non è strutturalmente destinata a garantire la giuridicità dell’ordinamento italiano, essa può venire paragonata ad uno dei tanti servizi (ad esempio, aeroportuali) che lo Stato appresta, indifferentemente, a favore di cittadini e non. Così, la giurisdizione deve essere valutata anche in rapporto all’efficienza dei suoi risultati. In ogni caso, è certo che l’attività giurisdizionale ha carattere strumentale e sostitutivo. Il fine della giurisdizione non è quello di realizzarsi, ma quello di raggiungere uno scopo che è al di fuori di essa: come il processo è uno strumento, la giurisdizione è un potere strumentale. Questo punto va esaminato con attenzione, perché riguarda il senso stesso del processo civile. Dire che il processo è uno strumento significa affermare che la finalità del processo e della giurisdizione civile consiste nella realizzazione di obiettivi di giustizia sostanziale. Se un processo si conclude

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con un esito che si arresta alla semplice affermazione di un profilo processuale, la giustizia sostanziale non è perseguita, anche se quella sentenza è corretta. La giurisdizione, poi, ha carattere sostitutivo. Normalmente, i precetti dell’ordinamento vengono adempiuti: occorre avere chiaro che la vita sociale si fonda essenzialmente su comportamenti delle persone che vengono accettati dagli altri, anche a prescindere dalla scrupolosa osservanza di ogni previsione normativa, e che la controversia è pur sempre un episodio statisticamente marginale rispetto alla massa dei rapporti giuridici. Quando, tuttavia, ciò non accade e sorge il conflitto, il soggetto leso non può farsi giustizia da solo (il divieto dell’autotutela è un fondamento assoluto di ogni convivenza ordinata), ma deve ricorrere alla giurisdizione che, da un lato, si sostituisce alla vittima nel fare giustizia, e, dall’altro, sostituisce all’adempimento spontaneo quello coattivo. DEALING WITH CASES JUSTLY L’art. 1 del c.p.c. esordisce parlando di giurisdizione. È utile leggere, a confronto con la norma italiana, l’art. 1 delle Civil Procedure Rules inglesi, come introdotto nel 1998 e come successivamente modificato. Secondo la Rule 1(1) delle Civil Procedure Rules, “the Rules are a new procedural code with the overriding objective of enabling the court to deal with cases justly and at proportionate cost. Dealing with a case justly and at proportionate cost includes, so far as is practicable, (a) ensuring that the parties are on equal footing; (b) saving expenses; (c) dealing with the case in ways which are proportionate (i) to the amount of money involved; (ii) to the importance of the case; (iii) to the complexity of the issues; and (iv) to the financial position of each party; (d) ensuring that it is dealt with expeditiously and fairly; and (e) allotting to it an appropriate share of the court’s resources, while taking into account the need to allot resources to other cases; and (f) enforcing compliance with rules, practice directions and orders”. La lettura di questo testo, in lingua originale, è particolarmente utile per mettere in luce un modo diverso e flessibile (anche se certo non sempre perfetto) di amministrare la giustizia civile. Soprattutto, però, mette in evidenza il diretto rapporto che sussiste fra il lavoro delle corti e il risultato finale: ciò che, nelle pagine di questo libro, indichiamo come carattere strumentale del processo e della giurisdizione.


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III. Giurisdizione, giustizia e verità. La giurisdizione si sforza di risolvere le controversie secondo giustizia e verità, ma non in modo assoluto. L’obiettivo del processo è quello di risolvere le controversie, anche accettando la permanenza di pronunce non conformi al diritto o fondate su falsi presupposti di fatto. Esempio della prima categoria è l’art. 363 c.p.c.; della seconda, l’art. 2738 c.c. Secondo la prima norma (che meglio si comprenderà studiando le impugnazioni), quando le parti non hanno proposto ricorso in cassazione nei termini di legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile, il procuratore generale presso la Corte di cassazione può chiedere che la Corte enunci nell’interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi. La richiesta del procuratore generale, contenente una sintetica esposizione del fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento dell’istanza, è rivolta al primo presidente della Cassazione, il quale può disporre che la Corte si pronunci a sezioni unite se ritiene che la questione sia di particolare importanza. La pronuncia della Corte – ed è questo l’aspetto che qui interessa – non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito. In altre parole: esiste una sentenza gravemente errata in diritto, il cui errore è stato posto in luce dalla Cassazione, ma che non viene cancellata dall’ordinamento e continua a vincolare le parti. Secondo l’art. 2738 c.c., poi, nel caso che il processo sia stato deciso da un giuramento e, successivamente, una sentenza penale accerti che il giuramento era falso, la decisione contenuta nella sentenza non può essere rivista e la parte lesa può soltanto domandare il risarcimento dei danni. Per quanto qui interessa, l’ordinamento è consapevole che quella decisione è ingiusta, eppure non la rimuove: apre soltanto la strada ad una reintegrazione patrimoniale del danneggiato. La tensione fra le esigenze della verità e quelle della certezza attraversa tutto il diritto processuale. In linea di massima, il sistema si preoccupa in modo basilare della certezza, ma le spinte verso la verità restano presenti e talora, come si vedrà, erompono alla luce.

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IV. Giurisdizione contenziosa e volontaria. L’attività giurisdizionale è molto diversa a seconda che risolva un conflitto (ed è il suo proprio e specifico compito), ovvero che integri, completi e controlli i poteri mancanti a dati soggetti dell’ordinamento. Nel primo caso si parla di giurisdizione contenziosa; nel secondo, si ha una nozione, in definitiva, spuria, di giurisdizione e si parla di giurisdizione volontaria. La giurisdizione volontaria è attività sostanzialmente amministrativa, affidata al giudice per ragioni storiche, ma che potrebbe essere demandata ad uffici pubblici non giurisdizionali. Mentre nella giurisdizione contenziosa vi è una domanda di un soggetto contro un altro soggetto, nella giurisdizione volontaria vi è un solo interesse che il giudice è chiamato a proteggere. Si pensi, ad esempio, all’art. 320, comma 3°, c.c.: i genitori non possono alienare o ipotecare i beni immobili pervenuti al figlio minore a qualsiasi titolo, né compiere altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, se non dopo autorizzazione del giudice tutelare. I genitori che ricorrono al giudice non vogliono una condanna nei confronti di qualcuno, ma solo ottenere il permesso di compiere un atto a vantaggio del figlio; l’interesse è solo quello del minore, e ciò anche qualora vi fosse un contrasto di opinioni circa la migliore gestione del bene. Mentre, poi, la giurisdizione contenziosa, nel suo profilo di cognizione, tende essenzialmente ad un accertamento, la giurisdizione volontaria contribuisce soprattutto a costituire rapporti: l’autorizzazione del giudice tutelare, nell’esempio che si è proposto, è un elemento che forma la fattispecie dell’alienazione del bene immobile. L’accertamento si muove verso una dimensione di stabilità, che si realizza pienamente nel giudicato, mentre la giurisdizione volontaria dà vita ad un provvedimento dato in relazione allo stato delle cose (rebus sic stantibus), che non dà luogo a giudicato e che, come ogni atto amministrativo, è revocabile e modificabile. Nelle pagine che seguono, ci occuperemo sostanzialmente solo dell’altra nozione, quella di giurisdizione contenziosa.


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4. LA STRUTTURA DELLA GIURISDIZIONE CONTENZIOSA. I. La giurisdizione di cognizione. La giurisdizione contenziosa comporta una triplice articolazione, a seconda della struttura intrinseca dell’attività espletata. Si parla di giurisdizione di cognizione, esecutiva e cautelare. La giurisdizione di cognizione tende ad affermare un giudizio di conformità del fatto concreto rispetto alla fattispecie legale astratta. Questo giudizio prende il nome di accertamento. Attraverso il meccanismo dialettico dei contributi contrapposti delle parti (in contraddittorio), il terzo imparziale dotato di potere giurisdizionale (giudice) determina (“accerta”) i rapporti fra le parti. Questo accertamento (il riferimento semantico è alla “certezza”) ha tendenzialmente efficacia stabile: si ha il c.d. giudicato sostanziale. Nella controversia giudiziaria, ciascuna delle parti propone al terzo che giudica una propria visione della vicenda: afferma l’esistenza di determinati fatti e a questi fatti offre una determinata valutazione in diritto. Queste ricostruzioni sono, in tutto o in parte, necessariamente confliggenti, visto che, se non lo fossero, non vi sarebbe lite. Ora, l’ordinamento risolve quel caso nell’ambito di una previsione normativa generale e astratta: occorre verificare (cioè, accertare) come quella lite concreta e determinata si inquadra all’interno della fattispecie prevista dalla norma. Un esempio. Secondo l’art. 2377 c.c. sono impugnabili, in presenza di determinati requisiti, le delibere di assemblee di società per azioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto. Se l’attore A impugna la delibera della società B, occorre verificare (e cioè accertare) se veramente quella delibera concreta comporta la violazione del parametro normativo lamentata dall’attore. Questa verifica non è compiuta in modo, per così dire, unilaterale da un organo a ciò incaricato, ma è effettuata da un terzo imparziale, il giudice, nel confronto fra le parti (in contraddittorio), sulla base di regole precise. Studiare queste regole è compito del diritto processuale civile.

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L’attività del giudice di cognizione è, in sé, un’attività intellettuale, che porta all’emanazione di un giudizio. Il giudizio è il risultato di un confronto fra la fattispecie concreta, individuata dalle contrapposte posizioni delle parti, e il dato normativo. Il giudizio del giudice non è, in sé, diverso dal giudizio che potrebbe fare uno studioso o qualunque terzo, a cui fosse sottoposta la questione; è diverso per la diversa forza che l’ordinamento attribuisce al suo giudizio. Il giudizio del giudice (e solo quello del giudice) costituisce l’accertamento: è la verità legale su quella controversia. Il risultato del giudizio, compiuto da chi è incaricato dalla legge di compierlo, dà quindi luogo a precisi effetti di legge. Esso stabilisce (ancora una volta, cioè, accerta) come la regola generale ed astratta si traduce in quel caso concreto: dà quindi vita a ciò che chiamiamo accertamento e che costituisce l’oggetto proprio del processo di cognizione. L’accertamento, frutto della giurisdizione di cognizione, ha già funzione sostitutiva: si sa, è certo che i rapporti fra le parti sono configurati in un determinato modo. Si supera la precedente incertezza, dovuta al confrontarsi delle distinte posizioni delle parti. L’accertamento (e lo si vedrà meglio più avanti) può semplicemente chiarire una situazione incerta, può comportare una modifica all’ordinamento, oppure può dare luogo ad una condanna, nei confronti di un soggetto dell’ordinamento, a tenere un dato comportamento in conformità alla decisione del giudice (e quindi, a un dare, a un fare o a un non fare). II. La giurisdizione esecutiva. Tuttavia, in molte situazioni l’accertamento non basta, perché l’inadempimento della parte soccombente perdura. Ecco allora la giurisdizione esecutiva, che ha di mira non un accertamento (che c’è già), ma la realizzazione materiale dell’accertamento e dei comandi ad esso inerenti, attraverso il superamento degli ostacoli che vi si frappongono. Mentre nella giurisdizione di cognizione l’aspetto essenziale è un giudizio, nella giurisdizione di esecuzione si parla di cose, di risul-


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tati materiali, di modifica della realtà fisica. La cognizione si può svolgere in qualunque situazione ed è sempre possibile: ogni controversia legale ha una risposta. L’esecuzione, invece, seppure più semplice da un profilo concettuale, non sempre riesce. Se l’attore A ha ottenuto la condanna di B al pagamento di 100 e B non adempie, si attuerà un procedimento di esecuzione forzata: ma non è detto che nel patrimonio di B si trovi la somma di 100 o comunque beni che abbiano quel valore. La giurisdizione esecutiva suppone l’uso della coazione ed è più collegata all’ordinamento di riferimento, di quanto non sia la giurisdizione di cognizione. Infatti, mentre la giurisdizione di cognizione può facilmente essere delocalizzata, quella di esecuzione è condizionata al luogo in cui si trovano le cose, i beni, ai quali si riferisce. Se A ha una controversia con B, cittadino giapponese e che possiede beni solo in Giappone, può ottenere una sentenza di cognizione che condanni B a pagarlo da un giudice italiano, o, per accordi in precedenza stipulati dalle parti, da un giudice di un paese terzo o da un arbitro che pronuncia il lodo in qualsiasi parte del mondo. Se, però, B, pur condannato, non adempie, l’attività di esecuzione forzata potrà essere compiuta solo dall’autorità giurisdizionale giapponese. Anche nella giurisdizione esecutiva non manca l’imparzialità: il giudice è terzo fra la pretesa esecutiva (data e preesistente) e la sua realizzazione concreta, che deve andare non oltre il livello dell’accertamento. Qui il problema sta nel rapporto fra il giudizio-accertamento e la realtà materiale su cui il giudizio-accertamento incide. Il giudice accoglie la domanda di A e ordina a B di demolire parzialmente un muro, riducendone l’altezza di un metro. Occorre fare in modo che il muro sia demolito esattamente in conformità a quanto risulta nell’accertamento e nella conseguente condanna: né più, né meno di un metro. Ora, questo compito di verifica è demandato (nel sistema italiano) al giudice. III. La giurisdizione cautelare. La necessità di assicurare la permanenza di situazioni materiali che rendano possibile l’effettiva realizzazione di un futuro accerta-

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mento e/o di una futura coazione sta alla base della giurisdizione cautelare. Qui la giurisdizione assume un aspetto ancora più strumentale (facendosi, per così dire, strumento dello strumento): i suoi risultati, che sono conservativi ed assicurativi, sono finalizzati a garantire l’effettività della tutela di cognizione ed esecuzione e hanno sempre natura provvisoria, destinati come sono ad essere superati dall’esito finale dell’attività giurisdizionale. Provvisorietà e strumentalità, dunque, sono le caratteristiche essenziali di questa forma di attività giurisdizionale. Un esempio può servire a chiarimento. Il creditore A chiede la condanna di B al pagamento del dovuto. Apprende poi che B, per sottrarsi al suo obbligo, sta per vendere i beni su cui, all’esito del giudizio di accertamento, A potrà soddisfarsi. Ecco allora che A può chiedere al giudice il sequestro di quei beni, non per incamerarli, ma perché restino sotto il controllo giudiziario per il tempo necessario a verificare l’esistenza del credito e ad attuare l’esecuzione forzata. La tutela cautelare costituisce oggi un’esigenza ineludibile: si tratta di poter consentire a chi ne ha diritto una protezione per il periodo necessario a conseguire l’accertamento pieno. In una società caratterizzata da tempi sempre più rapidi nell’instaurazione e nella modificazione dei rapporti e da uno squilibrio costante rispetto ai tempi di realizzazione della giustizia, è facile comprendere la necessità di disporre di questo tipo di rimedio. Accanto alla tutela cautelare in senso stretto, va ricordata la tutela c.d. anticipatoria. Essa ha natura provvisoria, nel senso che precede un completo accertamento di merito, ma contenuto non necessariamente strumentale, a motivo che realizza già, in anticipo, un risultato equivalente a quello definitivo. È utile rilevare che la tendenza più recente va nel senso di potenziare le forme di attività giurisdizionale che conseguono un risultato pratico vantaggioso per la parte, ma senza necessariamente arrivare alla pienezza del giudicato. Così, sono apparse norme che tendono a rendere stabili misure anticipatorie, che mantengono la loro efficacia pratica, pur senza acquisire forza di giudicato (ad esempio, l’art. 669-octies c.p.c.).


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5. LIMITI ALLA GIURISDIZIONE. I. Giurisdizione ordinaria e giurisdizioni speciali. La nozione di giurisdizione non definisce soltanto il potere di decidere le controversie, ma si estende anche al complesso di organi che esercita quel potere nell’ambito di un dato ordinamento. Si parla in questo senso di giurisdizione unica, quando un solo complesso di organi (ovvero un solo organo) esercita la totalità del potere giurisdizionale, o di giurisdizione ripartita, quando più complessi di organi esercitano il potere giurisdizionale, in relazione a dati criteri. In Italia vige il sistema della giurisdizione ripartita. Il potere giurisdizionale è esercitato dai giudici ordinari e dai giudici speciali. La giurisdizione ordinaria riguarda la generalità delle controversie, senza ulteriori distinzioni, ed è esercitata dai giudici ordinari, che sono quelli identificati dalla normativa sull’ordinamento giudiziario (r.d. n. 12/41 e successive modificazioni e, in particolare, art. 1 ord. giud.). La giurisdizione ordinaria ha una connotazione pienamente unitaria. L’art. 1 della legge sull’ordinamento giudiziario elenca gli organi a cui essa è affidata, senza alcuna distinzione fra i due settori, civile e penale, che costituiscono soltanto una lata distinzione per materia, priva di effetti interni. È la legge a stabilire che taluni di questi organi hanno solo competenza civile (come è accaduto per un certo tempo per il giudice di pace) o solo competenza penale (come il magistrato e il tribunale di sorveglianza). Di solito, gli organi giudiziari ordinari hanno competenza sia civile che penale. Le giurisdizioni speciali riguardano determinate categorie di controversie. La Costituzione individua talune giurisdizioni speciali e ne vieta l’istituzione di nuove. L’art. 103 cost. indica tre giurisdizioni speciali: quella amministrativa (art. 103, comma 1°), quella contabile (art. 103, comma 2°) e quella militare (art. 103, comma 3°). Queste giurisdizioni sono state espressamente scelte dal costituente e sottratte sia al divieto di istituzione di nuovi giudici speciali, sia all’obbligo di revisione degli altri organi speciali di giurisdi-

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zione all’epoca esistenti, previsto dalla sesta disposizione transitoria della Costituzione nei cinque anni successivi all’entrata in vigore. Quindi, sia il concetto di giurisdizione ripartita, sia i singoli plessi giurisdizionali speciali sono di diretta rilevanza costituzionale. In realtà, quelle appena elencate non esauriscono il novero delle giurisdizioni speciali. Si pensi, ad esempio, all’importantissimo segmento della giurisdizione tributaria, preesistente alla Costituzione, non revisionato tempestivamente (come pure una lettura rigorosa dell’art. 102 della carta repubblicana avrebbe imposto) e più volte modificato e razionalizzato (da ultimo con i d.lgs. nn. 545 e 546 del 31 dicembre 1992). Ci si trova, in questo ambito, in una zona di obiettiva inattuazione della Costituzione, praticata con il consenso della Corte costituzionale (si veda la sentenza n. 215 del 3 agosto 1976), con un’adesione politica unanime e, occorre dire, con buoni risultati pratici. Un altro settore di rilievo è quello della giurisdizione del tribunale superiore delle acque, considerato a buon titolo giudice speciale, laddove i tribunali territoriali delle acque, costituiti da sezioni di corti d’appello, si devono considerare giudici ordinari. Occorre dire che la dottrina si sforza di accreditare questi organi come componenti della giurisdizione civile ordinaria: ma in modo non convincente. Un problema particolare è quello che concerne le Autorità garanti. Sullo sfondo delle questioni che finora si sono esaminate rimane nitido, come si è detto, il tradizionale principio della separazione dei poteri, che ha caratterizzato tutti gli ordinamenti liberali postrivoluzionari. Tuttavia, è anche implicitamente emersa la crisi di questo principio, che si va rapidamente accentuando. Sempre più frequenti sono i casi di organi amministrativi che esercitano attività decisorie di conflitti (e quindi sostanzialmente giurisdizionali), di organi giurisdizionali che esercitano funzioni amministrative e di organi a carattere misto, che esercitano anche compiti decisori. Il settore più interessante, in questo senso, è quello delle c.d. autorità amministrative indipendenti, che sono organi dello Stato di natura amministrativa, ma del tutto svincolati dal corpo della p.a. e dal potere esecutivo. A queste autorità sono assegnati compiti di controllo e di garanzia, non privi di poteri decisori, che vengono


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esercitati con modalità in gran parte simili a quelle della funzione giurisdizionale. Si segnalano, in questo ambito, organi di indiscusso rilievo come l’autorità garante per la concorrenza e il mercato o l’autorità garante della privacy. La tesi più diffusa in dottrina tende a riconfermare il carattere non giurisdizionale delle authorities, alle quali manca, in definitiva, il profilo della piena terzietà. Nel decidere un conflitto, infatti, le autorità indipendenti hanno di mira la finalità affidata a ciascuna di esse. Questa soluzione è certo accoglibile, anche se essa poi suppone che vi sia un pieno controllo giurisdizionale di merito sulle deliberazioni delle authorities che incidano su diritti soggettivi. Oggi, la giurisdizione esclusiva spetta, in questa materia, ai giudici amministrativi, ai quali però va imputata l’attitudine ad esercitare un controllo debole, che tende ai soli profili di legittimità: il che induce ad ipotizzare la soluzione di affidare invece il controllo ai giudici ordinari. In ogni caso, si fa strada la tendenza a ritenere che anche nei procedimenti di fronte alle autorità indipendenti debbano trovare applicazione le garanzie della difesa e del contraddittorio. In realtà, la molteplicità di soggetti che sono oggi chiamati a svolgere compiti di decisione dei conflitti suppone, per una risposta rispettosa del senso, oltre che della lettera, delle norme costituzionali, che chiunque sia investito di funzione decisoria (poco importa se formalmente classificabile come giurisdizione o amministrazione) debba rispettare le regole dell’equo processo e che la decisione sia soggetta ad un controllo di merito da parte di un giudice ordinario. II. I criteri di riparto delle controversie fra giurisdizione ordinaria e giurisdizioni speciali. L’attribuzione del potere giurisdizionale in rapporto ad una data singola controversia fra giurisdizione ordinaria e giurisdizioni speciali (o fra più giurisdizioni speciali) è fatta dalla legge. Non esiste la possibilità di scegliere fra l’una e l’altra giurisdizione, ovvero di cumularne più di una: l’inserimento di una data materia nel potere di una giurisdizione esclude, per definizione, il potere delle altre. Gli even-

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tuali contrasti danno luogo ad una questione di giurisdizione (ovvero, secondo la migliore dottrina, di “giurisdizione-competenza”). Il sistema dei controlli sulla giurisdizione appartiene, in senso stretto, al diritto processuale. Qui basti ricordare due regole essenziali. Prima di tutto, è il giudice chiamato a decidere la causa a stabilire, anche d’ufficio, se ha o no giurisdizione. In secondo luogo, la risposta finale proviene dalla Corte di cassazione, a cui la questione può pervenire in tre modi: attraverso le vie ordinarie di impugnazione della decisione sulla giurisdizione; mediante un ricorso preventivo prima che il giudice abbia statuito sul merito in primo grado (regolamento preventivo di giurisdizione, ex art. 41 c.p.c.); infine, quando sia sollevato un conflitto positivo o negativo di giurisdizione ex art. 362 c.p.c. Rimane da accennare alle modalità del riparto fra giurisdizione ordinaria e giurisdizioni speciali: soprattutto, la giurisdizione amministrativa (vale a dire, i tribunali amministrativi regionali in primo grado e il Consiglio di Stato in secondo). La materia è stata più volte innovata (d.lgs. n. 29/93, d.lgs. n. 80/98, l. n. 205/2000, senza contare le correzioni imposte dalla Corte costituzionale) e, infine, razionalizzata dal d.lgs. n. 104 del 2 luglio 2010, successivamente più volte modificato (c.d. codice del processo amministrativo). Il quadro che ne esce è quello di un complesso incrocio fra due diversi criteri: da un lato, quello della natura della situazione soggettiva tutelata (diritti soggettivi al giudice ordinario e interessi legittimi a quello amministrativo); dall’altro, quello di materie affidate in esclusiva o all’autorità giudiziaria ordinaria (così i rapporti di lavoro di pubblico impiego) o al giudice amministrativo (così i pubblici servizi e l’urbanistica). Il primo criterio, utilizzato soltanto nella ripartizione tra la giurisdizione ordinaria e quella amministrativa, risente della struttura storica del problema. Sottratta un tempo al controllo del giudice civile, l’attività riconducibile al potere esecutivo è stata progressivamente attratta nel cono della tutela giurisdizionale, ma dinanzi ad un giudice speciale e soltanto per i profili di correttezza formale e non nel merito delle scelte. Questa situazione è stata cristallizzata dall’art. 103, comma 1°, cost., in base al quale gli organi di giustizia


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amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi. È la stessa norma costituzionale a prevedere che, nelle particolari materie indicate dalla legge, i giudici amministrativi possano occuparsi anche di diritti soggettivi (il che, fra l’altro, rende possibile l’attuale ampia estensione del secondo criterio). Ciò comporta che, al contrario, quando l’attività esecutiva abbia leso diritti soggettivi (o perché la p.a. ha operato sul piano privatistico, ovvero perché ha ecceduto nell’esercizio del proprio potere di imperio, confliggendo con un diritto assoluto e fondamentale del cittadino), la relativa tutela sia affidata al giudice ordinario. Negli anni più recenti, però, l’assetto del riparto è venuto a spostarsi progressivamente sul secondo criterio, vale a dire quello della materia. In questi casi, si parla di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: esclusiva, perché abbraccia l’intera materia, a nulla rilevando la distinzione di posizioni soggettive, a cui si è appena accennato. La giurisdizione esclusiva, già nota per casi limitati, ha ricevuto un forte incremento mediante l’attribuzione di interi comparti di materie al giudice amministrativo. Più in dettaglio, l’art. 7 del codice del processo amministrativo stabilisce che sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni (mentre non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal governo nell’esercizio del potere politico). In specie, poi, la giurisdizione amministrativa si articola in giurisdizione generale di legittimità, esclusiva ed estesa al merito. Sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, anche se introdotte in via autonoma.

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Nelle materie di giurisdizione esclusiva, il giudice amministrativo conosce anche controversie su diritti soggettivi, estese al profilo risarcitorio. Queste materie sono indicate in maniera non esaustiva dall’art. 133 del codice del processo amministrativo e comprendono aspetti di grande rilievo politico ed economico, come (per non fare che qualche esempio) le controversie in materia di pubblici servizi, di affidamento di lavori pubblici, di espropriazione per pubblica utilità, di provvedimenti sanzionatori delle autorità garanti, di concessioni nel settore dell’energia. Va detto che la tecnica normativa, però, è raramente netta e in più casi disegna un complesso ritaglio di limiti e confini fra la giurisdizione ordinaria e quella amministrativa. Infine, il citato art. 7 affida in pochi casi al giudice amministrativo il potere di esercitare la giurisdizione con cognizione estesa al merito: in questi casi, il giudice amministrativo può non soltanto annullare gli atti illegittimi, ma anche sostituirsi all’amministrazione, adottando un nuovo atto o modificando e riformando quello impugnato. La suddivisione dei compiti fra le altre giurisdizioni speciali non conosce il criterio fondato sulla distinzione delle posizioni soggettive, ma solo quello per materia (in qualche modo, nell’ottica di un tentativo di specializzazione). Di qui (e necessariamente in linea molto generale) l’attribuzione alla giurisdizione contabile delle materie della contabilità pubblica, della responsabilità erariale e di parte della materia pensionistica dei pubblici dipendenti; la giurisdizione tributaria, articolata in commissioni tributarie provinciali e regionali, si occupa di tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi, come meglio specificate e con le esclusioni di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992; il tribunale superiore delle acque decide le controversie aventi ad oggetto provvedimenti dell’autorità in materia di acque pubbliche e di demanio marittimo. Quanto ai tribunali militari, la loro giurisdizione, in tempo di pace, è anch’essa delimitata dal criterio oggettivo, nel senso che ne formano oggetto esclusivamente i reati militari, con la precisazione che essa si estende comunque soltanto nei confronti di soggetti che appartengono alle forze armate.


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III. Giurisdizione unica e giurisdizione ripartita. Prospettive e recenti modifiche normative. La scelta costituzionale di percorrere la via della giurisdizione ripartita, che obbediva a precise ragioni storiche, suscita oggi più di una perplessità, sotto i profili dell’effettività della tutela e dell’influenza del diritto europeo. L’illustrazione, sia pure sommaria, di criteri di riparto fra l’una e l’altra giurisdizione dimostra, in modo convincente, quanto sia disagevole una corretta individuazione dell’attribuzione della materia nel singolo caso, specie nei settori dell’ordinamento, sempre più ampi, in cui le tradizionali distinzioni fra pubblico e privato o fra diritti e interessi legittimi vengono ad appannarsi. In una situazione di grave crisi della giustizia civile, la difficoltà di riconoscere l’organo giudiziario chiamato a decidere rappresenta un forte, ulteriore ostacolo per la tutela dei diritti. Del resto, il diritto dell’Unione europea, che porta influssi sempre più profondi nel nostro ordinamento, non conosce la dicotomia fra diritti soggettivi e interessi legittimi, rendendo problematico il modo di essere dell’articolazione della tutela, come prevista dagli artt. 103 e 113 cost. I problemi sono aggravati dalla circostanza che i singoli plessi giurisdizionali funzionano come isole autonome e non comunicanti. L’errore (spesso veniale e giustificabile) del cittadino che propone la domanda dinanzi alla giurisdizione che non la può conoscere viene pagato con il rigetto della richiesta di tutela e con la necessità di cominciare di nuovo il procedimento dinanzi alla giurisdizione competente. In passato, per effetto dei termini di decadenza e di prescrizione, ciò poteva comportare l’impossibilità di fare valere il proprio diritto. Di qui, l’esigenza di trovare, per così dire, una sorta di ponte fra le diverse giurisdizioni, in modo da attenuare i disagi per chi incorra in un errore. È recente, in questo senso, una positiva evoluzione, che è venuta ad attenuare la distanza fra i diversi plessi giurisdizionali e permette oggi di affermare l’esistenza del principio della translatio iudicii dal giudice ordinario al giudice speciale e viceversa, in caso di pronuncia declinatoria della giurisdizione. Ciò significa che il medesimo processo può essere trasferito dinanzi all’organo dotato di compe-

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tenza-giurisdizione, quanto meno senza perdere i diritti derivanti dall’originaria proposizione della domanda. A questo risultato si è giunti, dapprima, per via giudiziaria. Con la sentenza n. 4109 del 22 febbraio 2007 la Cassazione a sezioni unite ha modificato il proprio orientamento, ritenendo che una lettura costituzionalmente orientata delle norme allora vigenti permettesse di ammettere la translatio iudicii. Pochi giorni dopo, con la sentenza n. 77 del 12 marzo 2007, la Corte costituzionale ha affermato, con pronuncia additiva, il principio secondo cui gli effetti della domanda, proposta erroneamente davanti al giudice sprovvisto di giurisdizione, restano in vita anche dopo la pronuncia declinatoria. Si vedrà a suo luogo che un analogo fenomeno si sta verificando nei rapporti fra giurisdizione dello Stato e arbitri, per effetto della sentenza n. 223 del 2013 della Consulta. Il legislatore ha poi seguito questo orientamento con l’art. 59 della l. n. 69 del 2009. La norma prevede, in primo luogo, che il giudice che, in materia civile, amministrativa, contabile, tributaria o di giudici speciali, dichiara il proprio difetto di giurisdizione indica altresì, se esistente, il giudice nazionale che ritiene munito di giurisdizione. La pronuncia sulla giurisdizione resa dalle sezioni unite della Corte di cassazione è vincolante per ogni giudice e per le parti anche in altro processo. Viene poi stabilito (ed è questa la novità essenziale) che, se entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia negativa di giurisdizione la domanda è riproposta al giudice indicato nella sentenza (secondo le regole processuali vigenti per quel giudice, che sono diverse per il processo civile, quello amministrativo e via dicendo), nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall’instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. In altre parole. Se A ricorre contro il comune B dinanzi al giudice amministrativo per fare valere un suo diritto soggetto alla prescrizione ordinaria decennale e, dopo più di dieci anni, la giu-


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risdizione amministrativa si pronuncia declinando la giurisdizione e affermando quella del giudice civile, A può ora trasportare il processo nella sede competente, senza che gli si possa eccepire che, nel frattempo, il diritto si è prescritto. Il punto sarà ripreso e meglio chiarito parlando di effetti sostanziali dell’atto introduttivo del giudizio. Tuttavia, può essere chiaro fin da ora che la riproposizione della domanda recupera, per così dire, gli effetti, fra cui l’interruzione della prescrizione, conseguiti con l’azione cominciata davanti al giudice carente di giurisdizione. Invece, e di conseguenza, l’inosservanza dei termini per la riassunzione o per la prosecuzione del giudizio comporta l’estinzione del processo, che è dichiarata anche d’ufficio alla prima udienza, e impedisce la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda. La legge aggiunge che in ogni caso di riproposizione della domanda davanti al giudice dotato di giurisdizione, le prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come argomenti di prova. L’art. 59, peraltro, lascia ancora uno spazio di intervento al giudice davanti al quale la causa è riassunta. Infatti, se la causa gli è pervenuta a seguito di una decisione di merito, senza che sulla questione di giurisdizione si siano già pronunciate le sezioni unite della Corte di cassazione, questo giudice può sollevare d’ufficio, con ordinanza, tale questione davanti alle medesime sezioni unite della Corte di cassazione, fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito. Restano ferme le disposizioni sul regolamento di giurisdizione. Va aggiunto che il codice del processo amministrativo ha attuato l’indicazione della legge di delega all’art. 11. Questo significativo passo avanti, se non porta il sistema sul piano della giurisdizione unica, costituisce però una presa d’atto delle gravi diseconomie che conseguono alla giurisdizione ripartita. Si evitano i danni peggiori, anche se non si impedisce l’enorme perdita di tempo che deriva dall’avere iniziato la causa nella sede ritenuta priva di giurisdizione. Il quadro andrebbe comunque completato con efficaci sistemi processuali, che permettessero una rapida e decisiva definizione della giurisdizione abilitata a conoscere della domanda fino dalle prime battute del processo.

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IV. La specializzazione del giudice. Se l’unicità del concetto di giurisdizione come potere porta ad un’inevitabile tensione verso l’unità anche degli organi chiamati ad amministrare la giustizia (suggerendo così, pur se in prospettiva, il ripensamento del sistema attuale), resta vero che l’ordinamento si estende a materie che la tecnica e la frammentazione del sapere rendono sempre più complesse e meno dominabili da un mero conoscitore del diritto, quale è il giudice. Ci si deve realisticamente domandare, infatti, se chi giudica di una lite debba essere necessariamente un giurista o non possa, talora, essere un tecnico, eventualmente assistito da un giurista e rovesciando, quindi, l’impostazione tradizionale, che vuole il sapere tecnico (formalmente) sottoposto al vaglio di chi quel sapere non possiede. Oggi, nelle controversie che suppongono una rilevante conoscenza di elementi fattuali che sfuggano alla comune esperienza, il metodo è quello della richiesta di un’indagine affidata ad un esperto, nelle forme della consulenza tecnica. È molto improbabile che il giudice possa disattendere ciò che il tecnico gli riferisce, proprio perché non possiede gli strumenti conoscitivi adeguati: molta parte della decisione del conflitto si trasferisce, quindi, sulle spalle di chi giudice non è. In ogni caso, è ragionevole che vengano organizzate strutture giudiziarie che, per la formazione dei giudici o per l’affiancamento ad essi di esperti qualificati, possano garantire anche una maggiore capacità di percepire la fattualità tecnica della controversia. È questa la logica del giudice specializzato. I giudici specializzati sono giudici ordinari, il cui impiego non solo non incontra alcun limite costituzionale (riferito, come si è detto, soltanto ai giudici speciali o straordinari), ma è anzi espressamente previsto dalla carta repubblicana, che, all’art. 102, comma 2°, sancisce che possono istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei, estranei alla magistratura. Demandare a questi giudici la cognizione di determinate tipologie di conflitti costituisce, del resto, una concreta applicazione del principio, di rango costituzionale, del buon andamento dell’amministrazione della giustizia. La specializzazione può essere attuata, in primo luogo, rigoro-


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samente all’interno degli organi giudiziari ordinari (ad esempio, il tribunale civile), destinando alcuni magistrati ad occuparsi più stabilmente di determinate controversie. Questi magistrati vengono assegnati a sezioni che, nell’ambito della divisione interna del lavoro, si dedicano a particolari aspetti del contenzioso. È quanto accade per i magistrati impiegati nelle sezioni lavoro e, in una certa misura, per quelli delle sezioni specializzate in materia di impresa, di cui al d.lgs. n. 168 del 27 giugno 2003 e all’art. 2 della l. n. 27 del 2012. Questo punto richiede una breve sosta, perché oggetto di una precisa scelta politica del recente legislatore. Fino dal 2003, operavano le sezioni specializzate per la materia della proprietà industriale e intellettuale: si trattava di sezioni di tribunale e corte d’appello, ubicate solo in alcune sedi e con competenza territoriale più vasta rispetto a quella del rispettivo circondario o distretto. Nel 2012, queste sezioni sono state trasformate in sezioni specializzate in materia di impresa, con due accorgimenti. In primo luogo, ne è stato aumentato il numero: le nuove sezioni di tribunale e di corte d’appello si trovano in tutte le sedi delle città capoluogo di regione, oltre a Brescia e a Catania (ma non ad Aosta, ricompresa nella sezione che opera presso il Tribunale e la Corte d’appello di Torino). A partire dal 2014, si è aggiunta la sezione di Bolzano. In secondo luogo, la materia attratta dalle sezioni specializzate si è accresciuta: oltre a quella della proprietà industriale ed intellettuale, si aggiungono le controversie in materia di società di capitali e cooperative, di appalti pubblici di rilevanza europea, di violazione della disciplina italiana ed europea antitrust. È importante notare che queste sezioni non applicano un rito speciale, ma impiegano il rito ordinario. Molto opportunamente, alla specializzazione del giudice non si aggiunge una diversificazione del rito, nel quadro di un sia pure faticoso cammino verso una prospettiva di unità delle regole di procedura. Con la l. 21 febbraio 2014, n. 9, ad alcune di queste sezioni specializzate è stata attribuita anche la competenza a conoscere le cause che, nella materia sopra descritta, vedono come parte una società con sede all’estero. Si tratta delle sezioni di Bari, Cagliari, Catania, Genova, Milano, Napoli, Roma, Torino, Venezia, Trento e Bolzano.

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In altri casi, si cerca di puntare all’obiettivo della specializzazione mediante la tecnica di una composizione modificata dell’organo giudiziario, nel senso che, nel collegio decidente, ai giudici di carriera vengono affiancati membri non togati, dotati di specifiche competenze in un dato settore. Si devono menzionare, al riguardo, i tribunali regionali delle acque pubbliche, che sono giudici ordinari e sono formati da sezioni delle otto corti d’appello (Torino, Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e Cagliari) presso le quali sono istituiti (art. 64 ord. giud.). Dato che il giudice regionale delle acque si occupa soltanto di specifiche controversie, indicate dalla legge, in cui è necessaria una particolare competenza tecnica in materia idrica, la sezione designata di corte d’appello è integrata da tre esperti, iscritti nell’albo degli ingegneri e nominati con decreto del ministro della giustizia. Del collegio giudicante, composto da tre membri, deve fare parte uno di questi giudici laici (d.l. 24 dicembre 2003, n. 354, convertito in l. 26 febbraio 2004, n. 45). Vanno poi ricordate le sezioni specializzate in materia agraria (l. 2 marzo 1963, n. 320 e successive modificazioni) dei tribunali e delle corti d’appello. Qui, ai magistrati vengono affiancati esperti, nominati dal Csm o, per delega, dal presidente della corte d’appello, scelti per il tribunale fra gli iscritti negli albi professionali dei dottori in scienze agrarie, dei periti agrari, dei geometri e degli agrotecnici, e, per le sezioni d’appello, unicamente tra i dottori in scienze agrarie. Un altro importante caso di tribunale specializzato è quello del tribunale per i minorenni (art. 50 ord. giud.). Questo organo, secondo il r.d. 20 luglio 1934, n. 1404 e successive modificazioni, è composto da un magistrato di corte d’appello, che lo presiede, da un magistrato di tribunale e da due esperti, un uomo e una donna, benemeriti dell’assistenza sociale, scelti fra i cultori di biologia, di psichiatria, di antropologia criminale, di pedagogia, di psicologia, nonché dall’apporto di altri operatori che ne preparano o fiancheggiano l’attività. Questa peculiare composizione (che si ritrova, quanto agli esperti, anche nella sezione per i minorenni della corte d’appello), unita alle particolarità del procedimento in materia minorile, ha lo scopo di rendere il tribunale per i minorenni particolarmente adatto per affrontare le delicate problematiche del mondo giovanile.


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La specializzazione del giudice, nella moderna società complessa, è certamente una via ragionevole di approccio ai problemi della giustizia. Tuttavia, essa rischia di essere attuata in maniera inefficace, come conseguenza dello scontro fra un’esigenza di efficienza tecnica e organizzativa, da un lato, e la struttura burocratica del reclutamento e della progressione in carriera, dall’altro. Quando la specializzazione è perseguita assegnando stabilmente i magistrati a determinate funzioni, il punto critico è quello della formazione (che manca in via preventiva) e dell’aggiornamento. Al di là degli apprezzabili sforzi che vengono compiuti dal Csm, molto di questi aspetti è lasciato all’impegno del singolo magistrato. Qui, come altrove, le norme giungono fino ad un certo punto: il resto è affidato all’etica e alla responsabilità di ogni persona. Quando, invece, si opera per la specializzazione dell’organo giudiziario attraverso l’integrazione di componenti laici, si aprono delicati problemi sotto il profilo delle modalità di scelta dei membri tecnici. Infatti, da un lato occorre individuare persone di sicura competenza tecnica; dall’altro, occorre evitare, a tutela dell’imparzialità dell’organo, che i giudici non professionali si trovino più vicini a questa o a quella parte della lite. V. I limiti esterni alla giurisdizione dello Stato. Nessun ordinamento è universale e, in specie, non lo è nessuna giurisdizione (intesa come complesso di organi che esercitano una data porzione di potere giurisdizionale). Ne segue che, rispetto ad ogni giurisdizione (e gli angoli prospettici potrebbero essere molteplici), si pone il problema dei limiti alla giurisdizione (vale a dire, di stabilire fino a che punto gli organi giudiziari di un dato ordinamento hanno potere di decidere). Oltre al limite interno, sopra segnalato, vi sono numerosi limiti esterni: a) quelli posti dal rapporto con le giurisdizioni straniere (su cui, v. infra); b) quelli posti dal rapporto con ordinamenti particolari (ad es., la giurisdizione ecclesiastica); c) quelli esistenti nei rapporti con l’autonomia privata, che si manifesta in forme decisorie estranee alla giurisdizione statuale, come l’arbitrato.

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Oltre a questi profili, esiste anche un limite del potere giurisdizionale nei confronti o di altri poteri dello Stato (e allora si parla di conflitto di attribuzioni), o della stessa non giuridicità (e non tutelabilità secondo diritto) del conflitto. In questi casi, si parla di difetto assoluto di giurisdizione: nessun giudice ha potere di statuire. Il primo aspetto è studiato dal diritto costituzionale, perché si colloca sul piano del bilanciamento fra i diversi poteri dello Stato. Il secondo punto, in realtà, è solo in apparenza un profilo di giurisdizione: la domanda non fondata su alcuna ragione di diritto è, per l’appunto, infondata: più che dire che nessun giudice ha giurisdizione, si dovrebbe dire che qualunque giudice ha il dovere di respingerla. Ci si permetta un esempio al limite dello scherzo: se A chiede che la propria fidanzata B, che lo ha lasciato, sia condannata a riprendere il rapporto, la domanda non potrà essere accolta né dal giudice ordinario, né dal giudice speciale, in quanto totalmente estranea alla tutela di un diritto o anche solo di un interesse legittimo. Fuori dallo scherzo, vi sono ambiti di rilievo, non privi di giuridicità in senso ampio, sottratti alla giurisdizione: si pensi alle controversie in materia di osservanza ed applicazione delle norme che garantiscono il corretto svolgimento delle attività sportive, ovvero di irrogazione delle sanzioni disciplinari sportive, che l’art. 2 della l. 17 ottobre 2003, n. 280, riserva all’autonomia dell’ordinamento sportivo. Nel prosieguo della trattazione, ci collocheremo, salvo diverse indicazioni, dall’angolo prospettico della giurisdizione italiana, statuale, ordinaria, civile.

6. L’AZIONE IN GENERALE. I. Tutela delle parti e istanze sociali di giustizia. L’esposizione della materia deve ora proseguire guardando, dopo il giudice, alla posizione delle parti. La controversia diventa lite giudiziaria quando una delle parti la porta dinanzi al giudice. È questo un passaggio delicato, che mette in gioco una pluralità di considerazioni, solo alcune delle quali attengono direttamente


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a profili giuridici. Ogni conflitto suppone, per una delle parti, una limitazione o una diminuzione dei propri diritti, a causa di un comportamento altrui. Non ogni diminuzione di diritti legittima il ricorso al giudice: se, ad esempio, la parte lamenti un danno patrimoniale in sé esistente e potenzialmente tutelabile, ma di dimensioni così modeste da non generare un serio interesse alla reintegrazione, se ne esclude la tutelabilità giudiziaria. In ogni caso, la parte (opportunamente consigliata dal proprio consulente legale) dovrà valutare quanto importante sia l’interesse leso, quali siano le probabilità di ottenere una decisione favorevole, quale sia il rapporto costi-benefici fra l’azione giudiziaria e il risultato auspicato. È in questa fase che l’ordinamento auspica, in modo sempre più marcato, l’intervento di organismi che possano favorire la conciliazione e la mediazione fra le parti, evitando così il ricorso a giustizia. Il modo migliore per ragionare sulle tendenze odierne della giustizia è quello di partire dalle domande che la società civile rivolge agli operatori del processo e di vedere, poi, come i legislatori e i giudici cercano di dare una risposta a queste richieste. La prima e più pressante istanza sociale è quella di una giustizia rapida. È un dato di fatto che la vita dei processi è troppo prolungata per i tempi di decisione del mondo economico e imprenditoriale. Il mercato e i suoi interessi viaggiano ad una velocità troppo forte perché il processo civile riesca a seguirla. Certo, molti ordinamenti europei riescono a dare sentenze con ritardi meno clamorosi di quelli italiani: tuttavia, è innegabile che il perdurare della situazione di incertezza legata a processi iniziati e non conclusi appare inaccettabile. Viene, in secondo luogo, un bisogno di informazione e di trasparenza. Il livello di cultura media è fortunatamente cresciuto e questo pone all’utente della giustizia la necessità di sapere e di capire. Il linguaggio dei giuristi e il tecnicismo del rito risultano spesso incomprensibili. Un terzo profilo è quello della scarsità di risorse. Nelle società moderne la domanda di servizi e di welfare si traduce in richieste pressanti di spesa pubblica in settori come le infrastrutture, la sanità, le pensioni. La forza politica e sociale dei gruppi che appoggiano queste richieste finisce per mettere inevitabilmente in secondo piano settori

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come quello della giustizia, e specialmente della giustizia civile. Ne segue che occorre rispondere ad una domanda di giustizia rapida e trasparente senza poter contare sulle risorse, umane ed economiche, che sarebbero necessarie. Ma la quarta delle domande sociali qui elencate è la più drammatica e supera le tre precedenti, di cui è a suo modo conseguenza. Si tratta di ciò che si può definire la fuga dal processo: vale a dire, l’idea che il processo sia comunque un male da evitare e che agli inevitabili conflitti si debbano trovare soluzioni di tipo diverso e alternativo. Questa situazione viene ad impattare con una temperie di cultura giuridica in cui non solo le grandi ideologie, ma anche le meno grandi visioni del processo sfumano e si stemperano nella ricerca di ciò che è più utile ed opportuno nella situazione concreta. Anche se, in linea di massima, si può dire che prevalga in Europa la linea di pensiero che privilegia il giudice come attivo protagonista del processo, occorre riconoscere che i modelli processuali appaiono in declino. LA GIURISDIZIONE, BENE PREZIOSO (OVVERO LA SINDROME DI ROBINSON) I testi universitari di diritto processuale, compreso questo, raccontano il processo, per finalità didattiche, come se vi fosse al mondo una sola lite, fra l’attore e il convenuto. Chi ne legge le pagine, è portato a pensare che il processo sia una sorta di isola del tesoro, in cui vivono soltanto Robinson e il selvaggio Venerdì, accompagnati da un solo giudice. I tre personaggi appaiono impegnati a proporre domande ed eccezioni, ovvero a rilevare questioni d’ufficio, o comunque ad agire come se null’altro esistesse al mondo. Questa semplificazione è necessaria per spiegarsi, ma la realtà è molto diversa. Con cifre approssimative, ma non inesatte, si può dire che in Italia vi siano circa cinque milioni di cause pendenti, con oltre duecentomila avvocati e alcune migliaia di magistrati togati. Le risorse che il sistema paese è in grado di dedicare alla giustizia (e, per capirsi, non alla sanità, alle pensioni, alla scuola, alle infrastrutture, alla sicurezza e via dicendo) sono limitate e questo porta ad una sostanziale incapacità dell’ordinamento a dare risposte efficaci, rapide e meditate alle liti. Se la Costituzione, il codice di procedura civile e le singole leggi speciali fondano e ribadiscono il diritto del cittadino ad avere giustizia, è anche vero che l’esercizio dell’attività giurisdizionale non è un bene riproducibile a volontà, ma di cui occorre fare un uso ragionevole e ponderato.


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II. La domanda giudiziale. La parte che si rivolge al giudice gli chiede di dirimere la controversia in senso a sé favorevole e sfavorevole alla controparte. Essa chiede al giudice qualcosa (un provvedimento, un bene della vita) contro qualcuno. Domanda giudiziale è appunto ciò che si chiede al giudice contro qualcuno. Questa idea è fondamentale e va rimarcata. In altri ambiti del diritto, si può chiedere un’utilità a proprio vantaggio, senza detrimento per altri. Se A chiede il rilascio del passaporto, la competente autorità amministrativa potrà accogliere l’istanza o no: ma questa decisione non causa alcun pregiudizio agli altri soggetti (B, C e via dicendo). Nel diritto processuale civile, invece, il conflitto fra le parti suppone che la vittoria dell’uno sia la sconfitta dell’altro e che non si possa ottenere un risultato giurisdizionale favorevole senza affrontare la resistenza di un altro soggetto. Nella giurisdizione contenziosa, lo schema dialettico impedisce che si possa chiedere al giudice un intervento, per così dire, neutrale: il vantaggio di una parte suppone necessariamente il detrimento dell’altra. La parte che propone la domanda si chiama attore. La parte contro cui la domanda è proposta si chiama convenuto. Il potere di proporre la domanda giudiziale si chiama azione: è il potere delle parti, corrispondente al potere di giurisdizione del giudice. Il fondamento positivo di questo potere sta nell’art. 24 cost. e nell’art. 2907 c.c., secondo cui alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda di parte e, solo quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero o d’ufficio. III. La natura dell’azione. L’abuso del processo. La natura dell’azione è un argomento classico del diritto processuale, oggetto di studi approfonditi. Con una sintesi estrema, si può vedere l’azione: a) come diritto potestativo pubblico. Ogni cittadino, in quanto tale, ha diritto di convenire in giudizio un altro cittadino ed ha il diritto che la sua causa sia ascoltata da un giudice: e ciò a prescinde-

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re dal fatto che egli lamenti una lesione effettiva o no. Il cittadino, insomma, può sempre adire i tribunali, anche se ha torto. b) come proiezione processuale di un diritto soggettivo esistente. Viene sottolineato, in questa prospettiva, il legame che deve sussistere fra il diritto sostanziale e l’azione, intesa come mezzo di tutela processuale di quel diritto. In altre parole: se il processo serve per reintegrare i diritti lesi, occorre che questi diritti sussistano. Nel patrimonio giuridico di ogni soggetto, accanto all’utilità sostanziale che egli ritrae (ad esempio, godere del bene di cui è proprietario), vi è la facoltà di ottenerne la tutela giudiziale: vale a dire, appunto, il diritto di azione (ad esempio, di rivendica). c) come pretesa. Si fa leva qui sulla struttura dialettica del processo. Quando il processo comincia, l’attore non vanta un diritto, ma solo la pretesa che venga accertato quel diritto. Quando ottiene ragione, non sussiste più l’azione, ma vi è già l’accertamento; è finita la fase dinamica e si tratta semmai di ottenere l’esecuzione forzata. Pertanto, si sottolinea che l’azione vive allo stato di pretesa. Questo punto è importante. Finché c’è processo, nessuno ha ragione e nessuno ha torto: è solo la definitività dell’accertamento a fissare la verità dell’ordinamento su quel rapporto. Ne segue che ogni regola processuale deve rispettare questo equilibrio fra le parti, ciascuna delle quali è il potenziale vincitore del confronto, e che non è accettabile nessuna ipotesi che comporti posizioni di svantaggio per una delle parti. d) come attività. Qui si vuole sottolineare che l’azione suppone il compimento di atti: in effetti, la tutela giurisdizionale non si realizza certo con un solo atto, ma suppone una continuità di attività. Tutte queste prospettive contengono elementi rilevanti; certo, la veduta dell’azione come proiezione di un diritto esistente sembra particolarmente in linea con il dettato costituzionale e con l’idea che al processo debba ricorrere solo chi ha ragione. D’altra parte, non è possibile abbracciare posizioni troppo unilaterali, proprio perché la situazione di incertezza in cui per definizione si svolge il processo non deve condurre a sanzioni eccessive nei confronti di chi abbia iniziato un giudizio nella convinzione che il diritto vantato sussista, anche se poi l’esito finale è diverso.


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In definitiva, il limite al diritto d’azione può ravvisarsi nel c.d. abuso del processo, che identifica una serie di fattispecie in cui un soggetto utilizza il processo per una finalità diversa da quella di vedere riconosciuto, sulla base di una ragionevole prognosi, un proprio diritto. Si può avere abuso del processo, ad esempio, nel caso di una domanda giudiziale proposta in evidente mala fede o di un processo instaurato all’unico scopo di ritardare l’adempimento di un’obbligazione. Certo, manca nel nostro ordinamento una definizione normativa di abuso del processo. Tuttavia, il legislatore (nell’ambito della novellazione della c.d. legge Pinto, con l’art. 1, comma 777°, della l. n. 208 del 2015) ha elencato una serie di casi di abuso. Ve ne rientrano due particolarmente significativi: quello della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole – così la norma – dell’infondatezza, originaria o sopravvenuta, delle proprie domande e quello della parte che abbia ottenuto dalla decisione finale lo stesso esito che aveva rifiutato in sede di mediazione. Sul piano culturale, è bene notare che il legislatore si basa sull’idea (errata, ma sempre più ricorrente) di una sicura prevedibilità dell’esito dei giudizi, che contrasta con la dimensione dell’incertezza, che accompagna l’esercizio della tutela giurisdizionale. IV. Rapporti fra azione e diritto sostanziale. L’azione è uno dei momenti di più forte contiguità fra diritto processuale e diritto sostanziale. L’azione è autonoma dalla posizione soggettiva sostanziale a cui si riferisce, ma non ne è totalmente svincolata. L’azione, come ogni diritto, nasce, subisce eventuali vicende e si estingue. L’estinzione dell’azione non comporta come necessaria conseguenza anche l’estinzione del diritto sostanziale sottostante, ma implica che quel diritto non potrà più ottenere la protezione giurisdizionale e potrà avere attuazione solo in caso di adempimento spontaneo. Per contro, l’estinzione del diritto trascina con sé anche l’estinzione dell’azione. Stabilire quali siano le azioni a tutela di un dato diritto è argomento di carattere sostanziale e non processuale. Le norme sul pro-

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cesso spiegano soltanto il “come” della tutela e nulla dicono sul “se” della sua praticabilità. Le teorie astratte dell’azione – quelle, cioè, che la vedono come il diritto ad ottenere una decisione – aiutano a capire che, per il processo, sapere se una data azione poteva o non poteva essere proposta è un dato di partenza irrilevante: chiunque si presenti al giudice (e acquisti, così, la qualità di parte processuale) ha diritto di partecipare al gioco processuale e di vederne applicate le regole. Nel contempo, però, il processo serve a reintegrare un diritto vero e quindi ad accogliere un’azione fondata. Vi è una linea sottile che separa un’azione, che poi non potrà essere accolta, forse dopo una complessa istruttoria e un delicato studio delle norme, da un’altra azione proposta per finalità oblique. L’abuso del processo si colloca su questa linea di confine e l’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme processuali serve a migliorare e a favorire un uso positivo del giudizio. Occorre riflettere, del resto, che l’abuso del processo non va visto tanto nell’ottica individuale delle parti, ciascuna delle quali può proporsi di sondare le probabilità di conseguire un dato vantaggio proponendo la domanda giudiziale e accettando il rischio della soccombenza, quanto in quella della complessiva funzionalità del sistema, che non può assicurare un’effettiva tutela a chi ne ha diritto se le sue risorse sono male impiegate a dare risposta a iniziative avventate. Alla luce di queste considerazioni, si comprende meglio che il processo è uno strumento che deve dare ragione a chi si è visto ledere un diritto. V. Il processo come strumento per l’attuazione dei diritti. Riflettere sull’azione significa anche riflettere sul modo in cui un diritto viene riconosciuto e tutelato dall’ordinamento. Infatti, è vero che, nella enorme maggioranza dei casi, le norme sostanziali vengono applicate spontaneamente dai cittadini; quando, però, questa applicazione spontanea non vi sia e chi vanta un diritto ne voglia conseguire l’attuazione forzata, per il tramite della giurisdi-


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zione, la tutela delle posizioni soggettive dipende dal fatto che la persona interessata compia correttamente il percorso che l’ordinamento impone. Questo percorso è dettato in ampia misura dalle norme processuali. Se, quindi, il processo non è fine a se stesso, ma è uno strumento per l’attuazione dei diritti, è anche vero che l’attuazione dei diritti non può prescindere (come detto, quando vi sia contestazione e controversia) dalle regole del processo. Se chi ha un diritto effettivo non agisce nei tempi e nei modi che le regole impongono, non ne otterrà il riconoscimento. Qualora, ad esempio, dopo avere proposto la domanda giudiziale, non porti in giudizio le prove necessarie, il suo diritto, anche se esistente, non verrà riconosciuto e resterà lettera morta. In questo senso, si può dire che il processo è dominato dal principio di responsabilità. Già i latini lo esprimevano con il brocardo “vigilantibus, non dormientibus, iura succurrunt”. Con parole attuali si può dire che, di fronte ad una contestazione o ad un inadempimento, il soggetto leso deve assumersi la responsabilità di reagire e di difendersi. Vi è poi un altro aspetto. Posto che il processo suppone regole ed è esso stesso un insieme di regole, si tratta di capire fino a che misura il mancato rispetto di una regola processuale debba portare, come conseguenza sanzionatoria, la perdita di un diritto sostanziale. Non è facile, ovviamente, trovare un adeguato punto di equilibrio fra l’esigenza di raggiungere la verità e la giustizia sostanziali, da un lato, e la struttura dialettica del processo, dall’altro. In dottrina, si è spesso parlato di collaborazione delle parti con il giudice, ai fini di un non meglio identificato interesse superiore della giustizia, che certo non può indurre le parti a comportamenti che non rispondano rigorosamente ai loro interessi. Così pure, un certo livello di disuguaglianza fra le parti (se non altro, perché il difensore di una è più capace del difensore dell’altra) è ineliminabile e non può essere superato semplicemente con un rafforzamento, a questi fini, dei poteri di iniziativa del giudice. Il vero problema è di ridurre i casi in cui le regole di procedura, volte a garantire un leale confronto in contraddittorio, possano diventare ragione, talvolta unica, di vittoria di uno dei due antagonisti.

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Ad esempio (e prescindendo qui dalle risposte offerte dal diritto positivo), non è fruttuoso che una domanda sia respinta per mere ragioni di incompetenza o di carenza di giurisdizione, senza che sia consentito alla parte di riproporla, senza pregiudizio alcuno per il diritto sostanziale fatto valere, dinanzi all’autorità competente; ovvero, che non si possa rimediare ad un errore formale in una notificazione. Se è vero che il processo è (anche) gioco fra le parti, si tratta di capire fino a che punto vada spinto il ragionamento e fino a che punto, invece, le esigenze di accertamento del diritto sostanziale non siano prevalenti. Si vedranno, nelle pagine che seguono, varie ipotesi in cui l’ordinamento offre soluzioni che restringono l’area di un esagerato formalismo della procedura: dalla rimessione in termini della parte incolpevole, alla possibilità di trasferire il giudizio dinanzi alla giurisdizione abilitata a decidere il caso, alla salvaguardia dei diritti del notificante, all’adozione di metodi flessibili. Denominatore comune a tutte queste fattispecie è la reattività verso le regole processuali predeterminate. VI. Diritti individuali e diritti collettivi. L’azione è tradizionalmente concepita come modo di tutela di diritti individuali: il fatto che, talora, più diritti si sommino in un solo processo non ne altera la natura. In realtà, la moderna sensibilità giuridica ha fatto nascere forme di tutela diversa: quella che ha di mira gli interessi diffusi e gli interessi collettivi. Si parla di interessi diffusi quando non è possibile distinguere un soggetto che ne sia portatore esclusivo: si pensi alla protezione dell’ambiente. Si parla invece di interessi collettivi quando l’interesse è comune ad una pluralità, potenzialmente definibile, di soggetti. In entrambi i casi, il problema è quello di individuare un ente che si faccia carico di rappresentare questi interessi e abbia quindi la legittimazione a difenderli in giudizio. Questi temi si sono affacciati solo di recente sulla scena del diritto processuale e, a ben guardare, sono tuttora in qualche modo residuali. In queste pagine, se ne darà conto in qualche misura trattando, a suo luogo, delle azioni collettive e dei modi di disciplina delle azioni seriali.


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7. PRESUPPOSTI PROCESSUALI, CONDIZIONI DELL’AZIONE, DECISIONE NEL MERITO. I. I presupposti processuali. Obiettivo dell’azione è quello di ottenere dal giudice della cognizione non soltanto un accertamento, ma un accertamento favorevole, previa instaurazione di un valido rapporto processuale. Nell’esame della domanda, il giudice deve compiere una verifica progressiva di una serie di requisiti. Solo la sussistenza di tutti i requisiti consentirà al giudice di accogliere la domanda. Questo aspetto è molto importante e va tenuto sempre presente. Nell’ordine, il giudice deve verificare l’esistenza dei presupposti processuali, delle condizioni dell’azione e, infine, del diritto fatto valere. I presupposti processuali sono i requisiti che devono sussistere affinché il giudice possa validamente decidere. La loro mancanza impedisce al giudice di decidere sulla domanda. Questo non significa che non vi sarà una decisione, ma soltanto che quella decisione darà atto dell’impossibilità per il giudice di pronunciarsi. Sono, come meglio si dirà, decisioni di rito, che restano al di fuori dell’oggetto sostanziale della causa: se, ad esempio, un giudice afferma di non avere competenza, resta del tutto impregiudicato chi ha ragione e chi ha torto: semplicemente, si apprende che non è quello l’organo giudiziario che si può pronunciare. I presupposti processuali vanno verificati al momento di inizio del processo (come si arguisce dall’art. 5 c.p.c.), ovvero al momento in cui è compiuto un atto carente di requisiti. Si possono ulteriormente distinguere in presupposti di esistenza e presupposti di validità del processo: i primi riguardano la regolare instaurazione del giudizio, mentre i secondi afferiscono al suo corretto svolgimento. Rientrano fra i presupposti processuali tutti i profili di validità formale del processo: ad esempio, la sussistenza della competenza in capo al giudice o la regolare instaurazione del contraddittorio. Con una certa approssimazione, si potrebbe dire che la materia del diritto processuale civile si occupa di tutte le

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condizioni di regolare svolgimento del giudizio, verificate le quali diventa invece decisivo il diritto sostanziale. Per questo, non si tratta di dilungarsi: l’intera trattazione servirà a mettere in luce questi aspetti. I presupposti processuali, in altre parole, attengono alla correttezza delle regole del gioco, da valutarsi alla luce della norma costituzionale sul giusto processo. II. Le condizioni dell’azione. Le condizioni dell’azione sono i requisiti che devono sussistere affinché il giudice possa validamente decidere nel merito così come proposto nella domanda: vale a dire, esaminare la questione sul piano del diritto sostanziale e accertare chi, fra le parti in lite, abbia ragione. La loro mancanza impedisce ancora una volta al giudice di passare all’esame della sostanza del caso (e quindi del merito): ma non perché le condizioni formali-processuali non siano rispettate, ma perché le modalità della domanda non permettono di farlo. La loro sussistenza va verificata al momento della decisione. Due sono le condizioni dell’azione: la legittimazione ad agire e contraddire e l’interesse ad agire. La legittimazione ad agire e a contraddire consiste nella corrispondenza fra la situazione del rapporto sostanziale e quella del rapporto processuale. La domanda giudiziale deve essere presentata da chi vanta la titolarità del diritto leso (e non da altri, salvo le precisazioni che si faranno più avanti) e nei confronti di chi ha posto in essere la condotta ritenuta lesiva (e non di altri). Il diritto processuale è legato fortemente al diritto sostanziale: non è una semplice macchina strumentale. Se l’azione dà luogo alla reintegrazione dei diritti lesi, è chiaro che deve essere proposta da chi, sul piano del diritto materiale, possa fare valere quel diritto: e ciò prima ancora di stabilire se il diritto è stato effettivamente violato. Identico discorso vale naturalmente per il soggetto contro il quale la domanda è rivolta. Stabilire se vi sia legittimazione attiva e passiva, dunque, è un problema di diritto sostanziale, anche se viene in luce al momento in cui è domandata la tutela


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giurisdizionale e si risolve non sulla base delle regole processuali, ma di quelle materiali. Veniamo all’interesse ad agire. Se è vero che chi propone una domanda giudiziale ha subito la lesione di un diritto, occorre che l’accoglimento della domanda abbia potenzialmente (perché ovviamente non si sa se sarà accolta) l’effetto di dare all’attore un beneficio concreto. Quindi, la lesione deve essere effettiva e il provvedimento richiesto al giudice deve avere la capacità di porvi rimedio. Al riguardo, dispone l’art. 100 c.p.c.: per proporre una domanda o per contraddire alla stessa, occorre avervi interesse. Il punto dell’interesse è centrale nella dinamica del processo. In primo luogo, esso significa che chi si rivolge al giudice deve potersi prefigurare di ottenere un’utilità, conforme a diritto, maggiore e diversa da quella che potrebbe conseguire non agendo o non difendendosi. Questa valutazione va effettuata in concreto, con riguardo alle condizioni effettive del soggetto e alla configurazione giuridica della fattispecie. In secondo luogo, esso significa che la tutela giurisdizionale non è accordata a chiunque. I tribunali non sono una sorta di sportello a cui ogni cittadino può chiedere opinioni. Soltanto chi, attraverso la mediazione della giurisdizione, può conseguire l’eliminazione di una lesione e la reintegrazione di un diritto, ha titolo per rivolgersi al giudice. Ritorna ancora l’idea dell’abuso del processo. Ad esempio, le sezioni unite della Cassazione hanno sancito come inammissibile il frazionamento di un credito in più domande: il creditore ha certo il diritto di agire, ma non ha l’interesse a dividere il suo credito in più azioni giudiziarie. Se queste due condizioni mancano, il giudice non può occuparsi di stabilire chi ha ragione nel merito. La sua decisione non verrà ad accertare la fattispecie, ma rileverà che la domanda non può essere correttamente proposta e quindi non va esaminata. Non si formerà, dunque, un accertamento stabile sull’inesistenza del diritto, ma si avrà soltanto una pronuncia che non impedirà la riproposizione della domanda, da parte di chi sia legittimato o contro chi sia legittimato, ovvero quando sorgerà l’interesse ora mancante.

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III. L’esistenza del diritto. Infine, requisito per l’accoglimento della domanda è l’esistenza del diritto fatto valere dall’attore. È ovvio che si tratta del requisito principale. Se manca, il giudice (che può decidere e può decidere nel merito), darà luogo ad un accertamento, che però risulterà negativo sotto il profilo delle aspettative e dell’interesse dell’attore. Può essere utile, da un profilo pratico, tenere in mente che il giudice, per accogliere la domanda, deve verificare l’esistenza dei presupposti processuali, delle condizioni dell’azione e della sussistenza del diritto nel merito. L’attore, per avere ragione, deve poter contare sull’esistenza di ciascuna di queste situazioni. Al convenuto, invece, basta convincere il giudice della non esistenza anche di una sola di esse, per ottenere una decisione che non accoglierà la domanda dell’attore. Ovviamente, gli effetti di una decisione negativa per l’attore sono molto diversi a seconda che la domanda sia respinta in rito o in merito: nel primo caso, la domanda potrà essere riproposta; nel secondo, invece, si otterrà un accertamento negativo della pretesa dell’attore. IV. Le questioni e l’ordine logico della decisione. Decisioni di rito e di merito. La materia oggetto della controversia può comprendere numerose questioni. Per “questione”, si intende ogni punto di fatto o di diritto, rispetto al quale le parti o il giudice siano di opinione difforme e che quindi va risolto in modo autoritativo. Ora, il giudice deve seguire tendenzialmente un ordine logico e risolvere, in questo ordine, le questioni che gli vengono proposte. In primo luogo, il giudice dovrà verificare l’esistenza dei presupposti processuali: dovrà, cioè, stabilire se può decidere o no il caso. Se si rende conto che manca un presupposto processuale (ad esempio, l’organo giudiziario non ha giurisdizione o non è competente, ovvero non si è attuato regolarmente il contraddittorio e via dicendo), non può proseguire nell’esame della controversia. Poi, deve verificare l’esistenza delle condizioni dell’azione e, solo come ultimo passaggio, prende in considerazione il merito. Ora, una cosa è l’ordine logico-giuridico nella decisione, e altra


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cosa è l’effettiva sussistenza di questioni. In un dato processo, può accadere che vi siano solo questioni di merito e in nessun modo si discuta di presupposti processuali o di condizioni dell’azione. Tuttavia, se più questioni vi sono, occorre stabilirne l’ordine. Si parla, quindi, di questioni pregiudiziali e preliminari. Per ora, basti dire che sono pregiudiziali e preliminari quelle questioni che vanno decise (per antecedenza logica o fattuale) prima di altre. Il punto sarà ripreso quando si parlerà di sentenze non definitive. Pertanto, non tutti i processi si concludono con un accertamento di merito. Alcuni non giungono ad alcun provvedimento giudiziale (per il fenomeno dell’estinzione, di cui si dirà). Altri si fermano ad una pronuncia che rileva la mancanza di un presupposto processuale o di una condizione dell’azione. Si parla, in proposito, di decisioni di rito, nel senso che si fermano ad uno stadio del ragionamento del giudice anteriore al punto della soluzione della lite. Queste decisioni, anche se corrette perché prese in esatta applicazione delle norme di legge, non raggiungono però l’obiettivo vero della tutela giurisdizionale, vale a dire la decisione sul diritto che si pretende leso: non risolvono la controversia e preludono ad una nuova fase processuale, questa volta rispettosa delle condizioni di legge. In qualche modo, esse rappresentano una sconfitta per il sistema ed è quindi necessario, in forza del principio costituzionale della ragionevole durata, limitarne per quanto possibile l’impatto. La decisione di merito è invece quella che affronta il cuore della controversia e stabilisce, per intendersi, chi ha ragione e chi ha torto sul piano della sostanza. Solo la decisione di merito contiene un accertamento e solo essa può dare luogo a giudicato sostanziale, come meglio si vedrà.

8. I CRITERI PER L’INDIVIDUAZIONE DELLE AZIONI. I. I criteri per l’individuazione delle azioni. Sulla scorta delle premesse finora svolte, si deve affrontare il problema dell’individuazione delle azioni: vale a dire, stabilire come si distingue un’azione da un’altra.

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Al riguardo, bisogna premettere che non esiste un numero chiuso di azioni, ma un numero indeterminato, in relazione agli sviluppi del diritto sostanziale. La legge viene modificata, nascono nuovi istituti, si creano nuove azioni di tutela. Si pensi, per non fare che qualche esempio, agli artt. 139 e 140 del d.lgs. n. 206/2005 (codice del consumo), con le azioni ivi previste a tutela dei consumatori; oppure, all’art. 140-bis del codice del consumo sull’azione collettiva risarcitoria. Nel contempo, è bene riflettere sul fatto che solo se è prevista una tutela, e tutela efficace, si può affermare che sussiste veramente un diritto. La massima ubi remedium, ibi ius esprime questa idea: un diritto sostanziale solo affermato, ma non dotato di strumenti di attuazione, è un diritto in pratica insussistente, perché soggetto alla sola esecuzione spontanea di altri soggetti. Bisogna anche chiedersi perché ci si pone il problema della distinzione fra le azioni. Ora, l’ordinamento consente che una data domanda giudiziale dia luogo ad un solo esercizio di potere giurisdizionale: è il divieto del bis in idem, che si esprime attraverso gli effetti della cosa giudicata e la protezione dell’accertamento divenuto definitivo, le norme che evitano la litispendenza, il divieto di nova in appello. Il bisogno di certezza è uno dei profili cardine dell’ordinamento. Ora, due azioni sono identiche quando presentano identici tre elementi: le parti, l’oggetto e il titolo (o ragione giuridica). II. Le parti. Capacità processuale e legittimazione. Le parti sono i soggetti del rapporto a cui l’azione inerisce. Ora, la qualità di parte nel processo si acquista, da un profilo formale, quando si instaura e per il solo fatto che si instaura il processo. Proposta la domanda giudiziale, chi la propone è attore, colui contro il quale è stata proposta è convenuto, chi è chiamato o interviene volontariamente è terzo. Quando si parlerà di parti, si avrà riguardo a questo semplice concetto. Normalmente, chi è parte processuale è anche parte del rapporto sostanziale controverso. Tuttavia, ciò non sempre accade. Prima di tutto, per essere parte occorre avere capacità giuridica: essere in grado, cioè, di avere diritti. Ogni persona fisica vivente ha


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capacità giuridica: ma non ha capacità giuridica un defunto, oppure un animale o una pianta. Analogamente, possono essere parti le persone giuridiche esistenti. Se (per assurdo) venisse chiamato in giudizio un soggetto diverso da una persona fisica vivente o da una persona giuridica esistente, non potrebbe nascere alcun processo. Il giudice dovrebbe limitarsi a dichiarare la non esistenza del rapporto sostanziale e quindi quella del processo. Occorre, poi, che la parte processuale sia legittimata. La legittimazione, come si è visto, è la relazione sostanziale fra la parte, la domanda e il rapporto giuridico controverso. Sia dal punto di vista attivo, che da quello passivo, si ha legittimazione quando qualità di parte e titolarità del rapporto coincidono. La legittimazione è concetto diverso dall’esistenza del diritto, nel senso che se A afferma che B è suo debitore, e B nega di esserlo, B è legittimato passivo, perché la pretesa di A è rivolta contro di lui, anche se poi si rivelasse non fondata nel merito; mentre ogni altro soggetto non è legittimato passivo. Se vi sono parti processuali che non sono parti del rapporto, mancherà la condizione dell’azione della legittimazione e quindi la domanda sarà respinta, senza che il giudice entri ad occuparsi del merito; la domanda potrà essere riproposta da chi è legittimato attivo contro chi è legittimato passivo. Ancora, si deve distinguere la qualità di parte dalla capacità a stare in giudizio. Secondo l’art. 75, comma 1°, c.p.c., sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere. La capacità a stare in giudizio corrisponde alla capacità di agire di diritto civile e riguarda la capacità a porre in essere validamente le attività che si riferiscono al processo. Se il titolare del rapporto controverso è capace di stare in giudizio (e quindi è maggiore di età, non interdetto e via dicendo), non sorgono problemi: agendo o resistendo, egli diviene parte e può agire opportunamente nel processo. Se, invece, il titolare del rapporto, pur avendo capacità giuridica, non ha capacità di stare in giudizio (perché è minore di età, interdetto e così via), non per questo non potrà ottenere la tutela dei suoi diritti, ma dovrà essere rappresentato (ovvero assistito o autorizzato) secondo le norme sostanziali che regolano la sua capacità (art. 75, comma 2°, c.p.c.). Quindi, il mino-

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re sta in giudizio rappresentato dall’esercente la potestà genitoriale e l’interdetto rappresentato dal tutore. Analogamente, l’art. 75 precisa che le persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo di chi le rappresenta a norma della legge o dello statuto e le associazioni e i comitati, che non sono persone giuridiche, stanno in giudizio per mezzo delle persone indicate nelle apposite norme del codice civile. In questi casi, in cui la parte sostanziale è priva di capacità di agire, si ha una discrasia fra chi agisce nel processo e chi riceve il risultato dell’accertamento del giudice: si ritornerà in argomento parlando dei limiti soggettivi del giudicato, mettendo in luce che l’esito del processo concerne la parte in senso sostanziale, vale a dire il titolare del rapporto, e non chi ha agito in giudizio per suo conto. Infine, potrà accadere che vi siano parti del rapporto sostanziale non chiamate in giudizio: il processo, cioè, si presenta carente per difetto, nel confronto fra coloro che hanno assunto formalmente la qualità di parte e coloro che avrebbero dovuto assumerla. In tal caso, si dovrà procedere alla chiamata di queste parti sostanziali (ciò che tecnicamente prende il nome di integrazione del contraddittorio), con l’annotazione che se ciò non avvenisse si avrà un rapporto processuale inesistente. III. L’oggetto. L’oggetto (o petitum) è ciò che si domanda al giudice. Può essere inteso come provvedimento (e allora si parla di petitum immediato, perché è ciò che il giudice può dare con la sua attività), oppure come bene della vita a cui il soggetto che propone la domanda aspira (e allora si parla di petitum mediato, che si otterrà, cioè, attraverso e per mezzo del provvedimento del giudice). Se A chiede la condanna di B a pagare 100, l’oggetto immediato della domanda è il provvedimento di condanna: il giudice, se la domanda è fondata, potrà effettivamente condannare B, ma non consegnerà la somma di 100 ad A. Tuttavia, il vero obiettivo dell’azione di A non è quello di conseguire una sterile pronuncia favorevole, ma di mettere in tasca la somma di 100: il che, se la sentenza è favorevole, avverrà o con l’adempimento spontaneo di B o con l’esecuzione forzata.


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Risulta subito chiaro che una stessa azione fra le medesime persone può riguardare oggetti diversi: abbiamo allora due azioni distinte. Se A chiede a B la consegna del bene X e il risarcimento del danno Y, provocato appunto dal ritardo nella consegna, A spiega due diverse azioni: potrà accadere, ad esempio, che una sia accolta e l’altra no. IV. Il titolo. Più delicata è l’individuazione del titolo (o causa petendi). Nel valutare l’accoglibilità della domanda giudiziale, il giudice deve individuare la norma applicabile ai fatti concreti dedotti in giudizio; ai fatti, cioè, che l’attore indica come costitutivi del diritto vantato e della lesione lamentata. La causa petendi è l’intreccio fra fatto e norma: è la norma invocata come applicabile ai fatti della controversia, ovvero il fatto in quanto rilevante ai fini della norma e ricompreso nella fattispecie. Questo punto va sottolineato, perché ha ricadute su molti aspetti della materia. Non esiste tutela teorica: il problema astratto si trova solo sui libri e nelle lezioni universitarie. La vita reale è costituita da una miriade di fatti, un minimo numero dei quali comporta un effetto giuridico (e non semplicemente fattuale) pregiudizievole per uno o più soggetti. La tutela è sempre concreta e suppone fatti concreti, anche se a questi fatti va applicato il ragionamento giuridico. In particolare, l’attività tipica del giudice della cognizione è un giudizio di conformità tra il fatto concreto e la fattispecie astratta, che si attua tramite un sillogismo. Il sillogismo del giudice parte dalla premessa maggiore (in diritto: quindi, l’individuazione della fattispecie e della norma da applicare), passa alla premessa minore (in fatto: quindi, la verifica di ciò che è accaduto) e trae poi la sintesi conclusiva, che è il giudizio (quindi, l’inserimento del fatto concreto all’interno della fattispecie astratta). Il giudizio, se concerne il merito, darà vita all’accertamento. Così, fra le stesse parti e in relazione allo stesso oggetto possono sussistere controversie e quindi azioni diverse (per esempio, azione di rivendica e possessoria; oppure, due comodati, relativi alla medesima cosa, stipulati in date diverse).

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Occorre avere presente che l’individuazione della causa petendi opera in modo diverso per i diritti relativi e per i diritti assoluti. Per i primi, ad ogni fatto costitutivo corrisponde un diverso diritto (fenomeno della c.d. eterodeterminazione della domanda); per i secondi, il diritto è sempre il medesimo, anche in presenza di una pluralità di eventi lesivi (fenomeno della c.d. autodeterminazione della domanda). Questa diversa configurazione dell’azione, che discende dal modo di essere del diritto sostanziale, è importante a tutti i fini per cui rileva la distinzione fra le domande, a cominciare dagli effetti del giudicato e dalla modificabilità della domanda. Ad esempio, si pensi ad una pluralità di fatti illeciti, che provocano danni successivi alla stessa persona. Ogni fatto-evento è suscettibile di un’autonoma azione risarcitoria; l’accertamento di un fatto non comporta l’accertamento degli altri; l’accertamento dell’insussistenza di un fatto non suppone l’inesistenza degli altri. La domanda giudiziale concerne quel fatto (o quei fatti) di cui si vuole ottenere il risarcimento: spetta a chi agisce determinare, per così dire, dall’esterno il contenuto della domanda. Per questo si parla di eterodeterminazione. Si pensi, invece, alla domanda di ottenere l’accertamento del diritto di proprietà su un bene. Una volta proposta la domanda, essa si estende a tutti i possibili modi di acquisto della proprietà. Quindi, in questa ipotesi, il contenuto della domanda è determinato, per così dire, dall’interno e perciò si parla di domande autodeterminate. L’accertamento (e, come meglio vedremo, il giudicato) si riferisce ad una determinata azione e quindi a quel rapporto fatto-norma e a quei fatti. Altri fatti, non resi oggetto esplicito di accertamento, permettono di riproporre la domanda se danno luogo ad un rapporto giuridico diverso; non lo permettono, se rientrano sempre in quel medesimo rapporto. V. Litispendenza, continenza, connessione. Il diritto processuale impiega alcuni concetti specifici per rappresentare il confronto di due o più azioni fra loro. Si parla, quindi, di litispendenza quando le azioni sono identiche; di connessione, quando hanno in comune alcuni elementi; di conti-


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nenza, quando hanno in comune alcuni elementi e un elemento diverso, che, per una di esse, ricomprende quello corrispondente dell’altra. La connessione è soggettiva, quando l’elemento comune sono soltanto le parti; è oggettiva quando comuni sono l’oggetto e il titolo. Inoltre, la connessione si definisce propria quando vi sia un elemento comune; si definisce impropria quando due azioni totalmente diverse devono però essere risolte in base alle medesime regole di diritto, il che, a date condizioni, ne favorisce la trattazione congiunta. Gli effetti processuali di litispendenza, connessione e continenza (che rientrano nell’ambito dei presupposti processuali) sono regolati dagli artt. 39-40 c.p.c. Obiettivo del sistema è fare in modo che su una data domanda o azione vi sia una sola pronuncia giurisdizionale. In linea generale, l’ordinamento, in caso di litispendenza, sopprime le altre azioni, lasciandone in vita una; in caso di connessione, cerca di favorire la trattazione delle varie azioni in un solo alveo processuale. Sulle disposizioni del codice si ritornerà più avanti.

9. LE AZIONI DI COGNIZIONE. I. L’accertamento come oggetto delle azioni di cognizione. Alla tripartizione delle tipologie di giurisdizione corrisponde un’analoga tripartizione sotto il profilo dell’azione. Tuttavia, se è certamente possibile parlare di azione esecutiva e di azione cautelare, è nel settore della giurisdizione di cognizione che la teoria dell’azione trova il più ampio sviluppo. Le azioni di cognizione tendono tutte ad un accertamento. L’attore domanda al giudice, prima di tutto e come base di ogni decisione successiva, un confronto fra la situazione concreta in cui egli si trova e di cui lamenta qualche aspetto di antigiuridicità, con le norme positive. All’esito di questo confronto sta un giudizio, che per l’autorità di chi lo compie (il giudice, in nome del popolo) diventa la verità di legge su quella situazione e, quindi, l’accertamento vincolante.

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Di solito, però, l’accertamento non basta a garantire la tutela domandata: occorre che ad esso acceda una clausola di condanna, ovvero che da esso conseguano effetti costitutivi. Si ha così la tradizionale ripartizione fra azioni di mero accertamento, di condanna e costitutive. II. Le azioni di mero accertamento. Le azioni di accertamento mero sono quelle in cui la pronuncia del giudice ha in sé l’efficacia di tutelare l’interesse leso. Qui l’attore si trova, generalmente, in una situazione di materiale godimento, minacciata dalla pretesa altrui. La pronuncia serve a confermare la legittimità della situazione, in sé già soddisfacente. Un esempio può essere quello dell’azione confessoria servitutis. A gode materialmente della servitù di passaggio sul fondo di B, ma B la contesta. Ad A occorre un accertamento giudiziale, che sarà però, in questo caso, confermativo di ciò che già esiste. La dottrina ha dubitato a lungo dell’ammissibilità della categoria delle azioni di mero accertamento. Il problema è che di rado una domanda di mero accertamento reintegra un diritto leso e che quindi spesso manca l’interesse ad agire. Non vi è interesse, ad esempio, quando la domanda è in definitiva fine a se stessa (le c.d. azioni di iattanza). Nell’esempio precedente, si potrebbe ritenere esistente l’interesse ad agire di A se B, mentre A sta cercando di vendere il proprio fondo a C, informasse quest’ultimo dei dubbi sulla effettiva esistenza della servitù: C potrebbe essere indotto ad abbandonare l’affare oppure a proporre un prezzo minore. Di qui, l’interesse concreto di A ad ottenere un accertamento sul punto. Un aspetto della tutela di mero accertamento è anche quello dell’accertamento negativo del preteso diritto della controparte. Di fronte alla domanda dell’attore, il convenuto può limitare il proprio interesse al mero non accoglimento di quella domanda, per qualunque ragione ciò avvenga, anche se di natura prettamente processuale di rito; può, però, anche avere l’interesse ad ottenere un accertamento della non esistenza del diritto vantato, per conseguire su questo punto il giudicato e quindi la certezza che la domanda non sarà più riproposta.


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In tutti i casi, l’accertamento in sé è già sufficiente per dare alla parte il soddisfacimento che domanda al giudice. Non occorre altro, e tanto meno mettere in piedi la macchina dell’esecuzione forzata. III. Le azioni di condanna. Molto spesso all’accertamento si affianca una domanda di condanna nei confronti del convenuto (a un dare, a un fare, a un lasciar fare, a un non fare). Si hanno allora le azioni di condanna (o meglio, di accertamento e condanna). Le azioni di condanna sono molto frequenti: vi rientrano, fra le altre, tutte le situazioni in cui l’attore chiede il pagamento di una somma o la consegna di un bene. Il presupposto dell’azione di condanna è che l’attore non abbia la materiale disponibilità del bene o dell’opera, che gli deve essere prestata dal convenuto. Per conseguire lo scopo, non gli basta la pur necessaria affermazione dell’esistenza del suo diritto, ma gli occorre che l’ordinamento, attraverso il giudice, emani un comando concreto a carico della controparte. Se a questo comando la controparte non sarà adempiente, l’attore vittorioso potrà agire esecutivamente e ottenere che il braccio dello Stato attui la reintegrazione materiale del suo diritto. Il rapporto fra azione di condanna e successiva esecuzione è molto stretto, nel senso che la pronuncia condannatoria è, di per sé, non idonea a dare all’attore il soddisfacimento pieno del suo diritto e l’attività esecutiva si presenta come un’appendice necessaria, se non vi è spontanea collaborazione della controparte. Un punto delicato è quello delle azioni speciali di condanna. Prima di tutto, si discute (sempre sotto il profilo dell’interesse) sull’ammissibilità di una domanda di condanna generica (cioè solo sull’an debeatur e non anche sul quantum debeatur). Il caso di condanna generica regolato dall’art. 278, comma 1°, c.p.c. suppone, in realtà, una domanda anche sul quantum. La norma citata prevede che, quando è già accertata la sussistenza di un diritto, ma è ancora controversa la quantità della prestazione dovuta, il giudice, su istanza di parte, può limitarsi a pronunciare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che

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il processo prosegua per la liquidazione. Ora, non si tratta di un caso in cui l’attore si sia limitato a chiedere l’accertamento, fine a se stesso, dell’obbligo del convenuto di pagare o adempiere, ma di una situazione in cui l’attore ha chiesto il pagamento di una somma e, di fronte alla contestazione dell’esistenza del diritto, il giudice abbia intanto accertato che quel diritto esiste: il processo proseguirà poi per stabilire l’entità del pagamento. Una domanda volta ad un mero accertamento di una situazione di credito, con espressa rinuncia a chiedere la condanna, sarebbe priva della condizione dell’interesse ad agire e quindi non accoglibile nel merito. Il profilo dell’interesse e dell’attualità della lesione viene in gioco anche per la condanna in futuro. Di solito, tale forma di condanna non è ammissibile, perché il diritto alla tutela sorge solo con la violazione del diritto: solo talora, la legge eccezionalmente la consente (come nel caso dell’art. 657 c.p.c., in tema di convalida di licenza per finita locazione). Distinta dalla condanna in futuro è quella che si ottiene mediante le azioni inibitorie. Qui non si ha a che fare con la reintegrazione di un diritto leso, ma con la richiesta di rimozione di un comportamento antigiuridico, destinato a provocare lesioni e danni in futuro. L’attività illecita sussiste già, ma l’obiettivo è esattamente quello di prevenirne le conseguenze. Si deve notare che nell’ordinamento italiano non esiste una fattispecie generale di azione inibitoria, ma una pluralità di norme che prevedono domande di questo tipo (ad esempio, in tema di tutela del consumatore o di ordini di protezione contro gli abusi familiari). Si parla, da altro profilo, di pronunce di condanna condizionata. Queste pronunce sono frutto della creazione giurisprudenziale e sono ammesse, in omaggio al criterio della economia dei giudizi, in quanto l’efficacia della condanna è subordinata al sopraggiungere di un determinato evento futuro ed incerto, o di un termine prestabilito, o di una controprestazione specifica, sempre che il verificarsi della circostanza tenuta presente non debba essere controllato da altri accertamenti di merito, in un ulteriore giudizio di cognizione, ma possa essere semplicemente fatto valere in sede esecutiva, mediante l’istituto, di cui si dirà a suo luogo, dell’opposizione all’esecuzione.


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In particolare, la giurisprudenza, in maniera consolidata, ha evidenziato che la condanna condizionale non può essere concessa nel caso in cui l’evento incerto e futuro dipende da altro accertamento di merito da farsi in un altro giudizio e tra altri soggetti e nel quale il condannato condizionato rimane estraneo, con la conseguenza di poter subire pregiudizi senza avere la possibilità di difendersi. Rilevanti sono anche le forme di condanna con cognizione sommaria, con prevalente funzione esecutiva, come il decreto ingiuntivo a norma degli artt. 633 ss. c.p.c. e l’ordinanza di convalida della licenza o dello sfratto con riserva delle eccezioni del convenuto, secondo l’art. 665 c.p.c. Questi istituti saranno ripresi e commentati a suo luogo. Non è inutile osservare, però, come la tendenza, non solo italiana ma europea, a cogliere un risultato immediatamente fruibile tende a supportare la costruzione di metodi che valorizzano maggiormente ciò che, sul piano sistematico, è accessorio (vale a dire, la condanna), a detrimento di ciò che sempre sul piano sistematico è principale (vale a dire, l’accertamento). Naturalmente, l’accertamento non manca, ma si tende, sia pure nei limiti del quadro costituzionale fissato dall’art. 111, a renderlo più semplice e, talora, assicurato dalla semplice mancanza di reazione della controparte. IV. Le azioni costitutive. Infine, le azioni costitutive hanno luogo quando la lesione del diritto è sanata da una pronuncia del giudice, in cui all’accertamento consegue, senza che vi sia necessità di vincere una resistenza materiale, una modificazione della realtà giuridica. La pronuncia giudiziale è di per sé sufficiente a conseguire l’effetto della reintegrazione nel diritto leso. Questo potere è conferito ai giudici dall’art. 2908 c.c., secondo il quale, nei casi previsti dalla legge, l’autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. È bene osservare che, alla base di ogni pronuncia di condanna costitutiva, si trova una specifica norma di legge che conferisce al giudice quello specifico potere. L’espressione “nei casi previsti dalla legge” ha esattamente questo significato.

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Si può distinguere fra giurisdizione costitutiva necessaria e non necessaria. Nel primo caso, l’effetto modificativo si attua solo per il tramite dell’intervento del giudice; nel secondo caso, l’effetto si può produrre anche con l’accordo delle parti. Se, ad esempio, si propongono domande che investono lo status delle persone, soltanto un provvedimento giurisdizionale può risultare efficace: non si può interdire una persona su base pattizia. Se, invece, si tratta di vicende relative a diritti patrimoniali disponibili (ad esempio, l’annullamento del contratto o l’esecuzione del contratto preliminare ex art. 2932 c.c.), la giurisdizione interviene a motivo del conflitto fra le parti, ma l’esito ben potrebbe essere conseguito per via consensuale. Le pronunce costitutive non suppongono l’esecuzione forzata, perché, come detto, non vi sono resistenze materiali da vincere. Ciò non toglie che non di rado le sentenze caratterizzate da questo contenuto suppongano attività consequenziali per essere efficaci (come, ad esempio, la trascrizione). Si tratta però di attività che non comportano la resistenza di una controparte, ma solo la doverosa cooperazione di soggetti, enti ed organi che per legge vi sono tenuti. V. Riepilogo. Nozione di processo. È opportuno, a questo punto, riepilogare. È noto che cosa è azione. Si parla invece di causa come sinonimo di lite o controversia portata in giudizio (e quindi, anche con due o più azioni: es., risoluzione del contratto e risarcimento del danno). Il termine processo riguarda invece il contenitore della controversia, che può ricomprendere anche più cause e quindi più azioni (ad es., azione di risoluzione e risarcimento dei danni proposta in materia di appalto contro l’impresa e il direttore dei lavori). È quindi possibile dare una nozione di processo più articolata di quella utilizzata finora. Si può dire che il processo civile è un metodo per la risoluzione delle controversie civili che ne prevede la decisione da parte di un organo giurisdizionale, in posizione di terzietà e di imparzialità, con l’osservanza delle opportune garanzie e in un tempo ragionevole.


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Il singolo processo è quello che nasce con l’instaurazione della lite davanti all’organo giurisdizionale e che viene concretamente individuato dalle parti coinvolte e dalle domande proposte.

10. LA DIFESA DEL CONVENUTO. LE ECCEZIONI. LE DOMANDE RICONVENZIONALI. IL PRINCIPIO DI NON CONTESTAZIONE. I. La posizione del convenuto. Fino a questo momento, si è guardato al processo nell’ottica dell’attore: di chi, cioè, domanda giustizia. È invece necessario vedere il fenomeno anche nell’ottica di chi subisce la domanda giudiziale, non solo perché a priori non si può sapere se ha torto, ma anche perché non di rado ha ragione. “Il processo deve dare a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello che ha diritto di conseguire in base alla legge sostanziale”. Queste parole di Giuseppe Chiovenda, che hanno nutrito tanta parte della cultura giuridica italiana del Novecento, se applicate ad un convenuto che ha ragione, vengono a dire che il processo non deve dare nulla all’attore. Conviene ricordare che, in diritto processuale, non esiste una parte che ha ragione, ma solo una parte che pretende di averla. Fino alla decisione che conclude la lite (e fatti salvi, naturalmente, gli effetti medio tempore delle pronunce che si susseguono), vi sono soltanto due o più parti contrapposte, ciascuna delle quali ha pieno diritto di difesa e di tutela. Quando si esamina un istituto processuale, per verificarne la capacità di regolare con equilibrio una data situazione, occorre collocarsi sia dal punto di vista dell’attore che dal punto di vista del convenuto. Solo se da entrambe le prospettive ne esce un giudizio di ragionevolezza, si può concludere che la struttura di quell’istituto è adeguata. Di fronte alla domanda giudiziale, il convenuto si può difendere in vari modi, di crescente intensità. In primo luogo, può limitarsi alla mera negazione del fatto. In

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secondo luogo, può svolgere obiezioni in diritto. In tutti i casi, può contestare la sussistenza dei presupposti processuali e delle condizioni dell’azione. In tal modo, egli cerca di impedire la realizzazione dell’iter dimostrativo che spetta all’attore compiere. Infatti, l’attore, per ottenere una pronuncia favorevole di merito e conseguire così il bene della vita auspicato, deve realizzare tutti i presupposti processuali e le condizioni dell’azione e, poi, raggiungere una valutazione di fatto e di diritto conforme alla sua domanda. Al convenuto basta invece ostacolare l’attore su un punto soltanto di questo percorso, perché la domanda dell’avversario venga respinta. II. L’eccezione. In modo più efficace, il convenuto può introdurre nel processo fatti nuovi, che contrastano la domanda dell’attore sul piano della causa petendi (fatto e norma). Così come l’attore deve indicare i fatti costitutivi del diritto leso, il convenuto può opporre fatti modificativi, estintivi ed impeditivi, che rendono inapplicabile la norma. In altre parole, il convenuto scende più a fondo sul terreno del confronto e passa a sostenere di avere piena ragione nel merito. Si innesta qui il concetto di eccezione. Talora si indica con eccezione ogni difesa attiva del convenuto. In senso proprio, tuttavia, sono eccezioni soltanto le deduzioni di fatti nuovi, che alterano il quadro prospettato dall’attore. Si parla di eccezioni in senso strettissimo, quando i fatti allegati dipendono – in senso giuridico – dal convenuto. Sotto il primo profilo (e quindi, nel significato di difesa attiva), si distingue fra eccezioni di rito ed eccezioni di merito, a seconda che il convenuto contrasti qualcuno dei requisiti che devono sussistere per la legittima decisione del giudice, oppure affronti le tesi dell’attore direttamente sul piano dell’esistenza del diritto. Occorre avere presente che, una volta radicata in giudizio la controversia, sorge automaticamente nel convenuto l’interesse ad ottenere a sua volta l’accertamento negativo della pretesa dell’attore. Il convenuto, insomma, non è un soggetto chiamato soltanto a difendersi, ma è parte della controversia, legittimata a fare valere in pieno le sue


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ragioni. Si troverà conferma di questo in vari aspetti della materia, dalla disponibilità dei mezzi di prova alla disciplina dell’estinzione. È importante, a vari fini, la distinzione fra eccezioni che possono essere sollevate solo su istanza di parte ed eccezioni rilevabili d’ufficio. Questo aspetto dipende non dal principio di disponibilità della tutela giurisdizionale, che spetta solo alle parti, ma dall’operatività del diritto sostanziale e dal principio della conoscenza del diritto da parte del giudice (c.d. principio iura novit curia). Il punto sarà ripreso più avanti, in sede di trattazione del processo di cognizione. Fin da ora, si deve sottolineare che la rilevabilità d’ufficio delle eccezioni si deve coordinare con il principio della disponibilità della materia del contendere in capo alle parti (che si illustrerà fra poco), che comporta che, normalmente, siano soltanto le parti a decidere su che cosa litigare e su quali questioni confrontarsi. All’interno del perimetro della materia del contendere, così come le parti la hanno fissata, vi sono talora profili così importanti, di diritto sostanziale o processuale, che la legge ne impone in ogni caso la considerazione: non potendo imporlo alle parti, ne mette il relativo peso sul giudice. III. La domanda riconvenzionale. Infine, il convenuto può, per così dire, passare al contrattacco, proponendo a sua volta una domanda contro l’attore, che prende il nome di domanda riconvenzionale. Si pensi ad un contratto di appalto, in cui l’appaltante cita in giudizio l’appaltatore per ottenere la risoluzione del contratto per inadempimento, ritenendo che l’appaltatore stia lavorando male e senza rispettare i termini di consegna delle opere. L’appaltatore, oltre a difendersi contestando le affermazioni dell’attore, potrà a sua volta chiedere al giudice il pagamento delle proprie spettanze. Si tenga presente che il convenuto potrebbe sempre proporre la propria domanda in un giudizio autonomo: non è obbligato a presentarla in quello iniziato dall’attore. Tuttavia, è normale che il convenuto cerchi di presentare al giudice l’atteggiamento antigiuridico dell’attore, alla doppia finalità di meglio difendersi contro la domanda principale e di ottenere a sua volta un vantaggio. Ne segue

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che le due azioni (la domanda principale dell’attore e quella riconvenzionale del convenuto), per essere trattate nello stesso processo, devono avere un legame fra loro di connessione per il titolo o per l’oggetto, come dispone l’art. 36 c.p.c. In realtà, la giurisprudenza ammette che possa essere proposta dal convenuto una domanda riconvenzionale non altrimenti connessa per il titolo o per l’oggetto a nessuna delle domande dell’attore, purché ne venga rispettata la competenza per materia, valore e territorio dell’organo giudiziario adito per primo. In pratica, si preferisce gestire un processo solo, anziché, come sarebbe necessario, due processi. Si tratta di un’applicazione del principio di economia processuale. IV. L’oggetto del processo e la materia del contendere. La considerazione complessiva delle posizioni dell’attore e del convenuto permette di inquadrare la nozione di oggetto del processo (o materia del contendere), che è quindi dato dalla domanda (o dalle domande) dell’attore, dalle eccezioni e domande riconvenzionali del convenuto, dalle eccezioni e dalle domande riconvenzionali che a sua volta l’attore propone contro la domanda riconvenzionale del convenuto (c.d. reconventio reconventionis). A tutto ciò, come meglio vedremo, va aggiunto l’apporto di eventuali terzi. Si deve precisare che anche il giudice può dare un contributo alla definizione di ciò che deve essere deciso: non per mezzo di autonome domande, ma per mezzo delle eccezioni proponibili d’ufficio. V. La strategia difensiva del convenuto. Il principio di non contestazione. Come sceglie il convenuto fra le possibili linee difensive a sua disposizione? Le modalità tattiche di difesa del convenuto dipendono da un insieme di circostanze e, specialmente, dalla prognosi che egli può fare sull’assolvimento dell’onere probatorio in fatto a carico dell’attore.


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Va detto, peraltro, che le norme positive impongono al convenuto l’onere di prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda (oltre che di proporre le eventuali eccezioni di rito o di merito non rilevabili d’ufficio, a pena di decadenza): così l’art. 167 c.p.c. e l’art. 416 c.p.c. Più in specifico, l’art. 115, comma 1°, prevede che il giudice debba porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita. Il principio di non contestazione assume dunque una valenza formale nel nostro ordinamento. Esso significa che se una delle parti afferma la verità di un fatto e l’altra parte non ne sostiene apertamente la falsità, proponendo una sua diversa versione, o per lo meno non espone una narrativa della vicenda, incompatibile con la veridicità di quel fatto, il giudice non deve compiere alcuna indagine, ma ritiene per confermata quella circostanza. È opportuno soffermarsi brevemente sulle ragioni di questo principio. Non si tratta, qui, di un profilo collegato alla disponibilità della materia del contendere, che riguarda domande e non singoli fatti. Non si tratta neppure di un criterio di verità: un fatto falso, ma non contestato, non diventa per questo vero ma rimane falso. Si tratta, invece, di una combinazione di un criterio di economia processuale con la responsabilità delle parti e la loro autonomia nella gestione del contenzioso. Il giudice deve prima di tutto risolvere un conflitto e non cercare una piena verità dei rapporti fra le parti: quindi, il principio di non contestazione serve a circoscrivere l’area della controversia. In pieno accordo con la tendenza europea, espressa da varie norme dei regolamenti processuali dell’Unione, il nostro ordinamento va quindi nella direzione di equiparare il silenzio cosciente ad una vera e propria ammissione dei fatti dedotti dalla controparte. È bene segnalare fin da ora che il principio di non contestazione opera a due condizioni: che la parte interessata a negare un fatto sia attivamente presente nel processo (e per questo la norma parla di “parte costituita”) e che sia in grado di avere un’opinione sulla verità del fatto che decide di non contestare. Da ultimo, si deve segnalare il principio della parità delle armi nel processo (sul quale si ritornerà) e che suppone una situazione

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di equilibrio di possibilità fra le parti. Questo equilibrio non va dimenticato mai, anche in rapporto alle esigenze di effettività della tutela dei diritti lesi.

11. LA DISPONIBILITÀ DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE. IL PRINCIPIO DELLA CORRISPONDENZA FRA IL CHIESTO E IL PRONUNCIATO. I. La disponibilità della tutela giurisdizionale. Dopo aver esaminato, separatamente, la posizione del giudice e quella delle parti, considerati in modo statico, dobbiamo, in una prima approssimazione, vedere i loro reciproci rapporti in modo dinamico, nelle rispettive interazioni. Studiamo, quindi, nelle loro linee generali, i grandi principi e le regole generali del processo. Il primo punto è quello della disponibilità della tutela giurisdizionale. Data una controversia e una lesione di una posizione soggettiva, la parte può decidere di richiedere la tutela giurisdizionale oppure no (rinunciare alla pretesa, optare per una forma di risoluzione non giudiziale della controversia e via dicendo). Nel nostro sistema, la tutela giurisdizionale è disponibile, nel senso che il soggetto interessato può agire o non agire e, dopo avere agito, può disporre del diritto sostanziale e/o dell’azione. L’art. 2907 c.c. sancisce il principio della domanda: il processo inizia su decisione di parte e il giudice non può iniziare il processo d’ufficio. Così dispone il comma 1° della norma: alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero. Fa eco l’art. 99 c.p.c.: chi vuole fare valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente. La scelta di affidare alla parte la decisione se iniziare o no il processo è frutto di una valutazione politico-sociale: infatti, si ritiene che la parte sia la migliore arbitra della valutazione dei propri interessi. Nei sistemi moderni, il giudice non ha il potere di cominciare di sua ini-


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ziativa il processo civile. La concezione liberale, ora del tutto prevalente, esclude che sia l’autorità giudiziaria, con la finalità di vedere affermata l’applicazione di determinate norme, ad avviare un processo. Le residue, modeste situazioni di iniziativa pubblica si riducono ai pochi casi in cui il relativo compito viene affidato al pubblico ministero. Il divieto per il giudice di iniziare d’ufficio un processo civile esprime anche l’idea di una funzione della giurisdizione, come modo di reintegrazione dei diritti lesi e come efficiente servizio. Se il criterio dell’interesse di parte normalmente risponde in modo efficace all’esigenza di selezionare, fra i molti conflitti della vita reale, quei pochi che approdano nei tribunali, vi sono tuttavia situazioni in cui la mancata richiesta di tutela giurisdizionale dipende non da una scelta, ma da una necessità: ciò accade, ad esempio, per le fasce sociali più deboli o per le controversie di modesta entità. In questi casi, i costi della giustizia, troppo alti in rapporto alle capacità patrimoniali della parte o rispetto al valore del bene conteso, inducono chi ha subito una lesione a rinunciare alla tutela. Le disposizioni sul patrocinio a spese dello Stato tendono ad ovviare a questi problemi, ma con esiti solo parziali. La decisione se iniziare o no il processo spetta solo all’attore. Ma una volta che il processo sia iniziato, entrambe le parti possono decidere di porvi fine, eventualmente disponendo (se si tratta di diritti disponibili) delle posizioni sostanziali. Secondo l’art. 306 c.p.c., le parti possono rinunciare agli atti, estinguendo il processo: esse possono quindi compiere una scelta che nega e contraddice quella originaria di voler ricorrere al giudice. Proprio perché conseguente alla disponibilità della tutela giurisdizionale, questa rinuncia suppone il consenso di tutte le parti costituite. La semplice rinuncia agli atti non preclude alle parti la possibilità di riproporre in un secondo momento la domanda. Se, però, oggetto di controversia sono diritti disponibili, è frequente che la rinuncia agli atti sia la traduzione, sul piano del rito, di un accordo che definisce la lite sul piano sostanziale. Normalmente si tratta di una transazione, che, a mente dell’art. 1965 c.c., è un contratto con cui le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già insorta (ovvero prevengono una lite che può sorgere fra loro).

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Se, ad esempio, A chiede a B il risarcimento del danno subito, che indica nell’ammontare di X, può accadere che, durante lo svolgimento del processo, le parti trovino un accordo, per cui B versa ad A i due terzi di X. Le parti stipulano allora un contratto di transazione. L’adempimento di questo contratto viene a modificare i rapporti fra le parti, nel senso che A non ha più nel proprio patrimonio giuridico l’originaria azione risarcitoria. Ne segue che il processo, sorto per ottenere la realizzazione di quella azione, non ha più ragione di essere e si estingue, seppure non in modo automatico, ma secondo le modalità processuali regolate dagli artt. 306 ss. c.p.c. Se, dopo la stipula e l’adempimento della transazione, A continuasse il giudizio, la sua domanda sarebbe respinta. II. La corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato. Collegato a questo, vi è il principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato. Dalla domanda di parte scaturisce il dovere decisorio del giudice, che si esplica in tanto in quanto le parti lo hanno richiesto. Sono le parti a delimitare l’oggetto del processo e quindi il potere-dovere di decidere del giudice. Infatti, occorre tenere presente che il monopolio di parte nella tutela giurisdizionale non concerne solo la scelta, se iniziare o no la causa, ma anche quali fatti portare a fondamento della tutela. In questo senso, il principio della domanda è strettamente legato all’individuazione dei fatti costitutivi, vale a dire di quelle circostanze materiali che sono necessarie e sufficienti a generare la sussistenza del diritto vantato dall’attore. Secondo gli artt. 112 c.p.c. e 2907 c.c. il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti della domanda. L’accertamento (e il giudicato) si formeranno in relazione al terreno individuato dalle domande, anche riconvenzionali, e dalle eccezioni delle parti. La regola si completa con il divieto per il giudice di pronunciare d’ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti. Questo significa che normalmente il giudice, a cui spetta di verificare l’esistenza del diritto fatto valere, può rilevare le


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eccezioni e che si deve arrestare solo quando l’ordinamento assegna alle parti in via esclusiva il potere di introdurre una data eccezione nel processo. All’obbligo di decidere su tutta la domanda (o meglio, su tutto l’oggetto del processo) corrisponde il vizio della c.d. omissione di pronuncia, mentre al dovere di non pronunciare oltre i limiti della domanda corrisponde il vizio di ultrapetizione. Si parla, a questo proposito, di dovere decisorio del giudice. La tutela costituzionale del diritto di azione e difesa delle parti suppone che, una volta proposta la domanda, il giudice sia comunque tenuto a decidere. L’ordinamento non ammette un diniego di giustizia (il c.d. non liquet). Certo, la parte non può avere alcuna pretesa sull’esito della decisione, che può essere favorevole o sfavorevole: ma sa che, avviato il giudizio e se non si verifica, nel frattempo, qualche fatto estintivo (di cui peraltro essa è pienamente arbitra) il giudice dovrà comunque emettere una decisione. A differenza di altre scienze, il diritto offre sempre una soluzione: per lo meno, una soluzione astratta, visto che quando si passa poi al piano della realizzazione materiale possono presentarsi ostacoli non superabili. Finché si resta, però, sul piano dell’accertamento, il giudice è sempre in grado di dare una risposta: per questo, il dovere decisorio non ammette deroghe. Quando si dice che il giudice deve decidere su tutta la materia del contendere, occorre tenere presente il profilo dell’ordine delle questioni. Se il giudice nega la sussistenza del presupposto processuale della competenza, non può passare all’esame del merito, ma non per questo ha mancato al suo dovere decisorio. Allo stesso modo, se, risolvendo una data questione decide nel merito la controversia, non è obbligato a prendere posizione sulle eventuali altre questioni (che si definiscono, in questo senso, assorbite), il cui esame non è necessario ai fini della sentenza. Il giudice non può introdurre nel processo elementi di fatto diversi da quelli che le parti gli propongono. Tuttavia, egli conosce il diritto e può qualificare le domande in modo diverso. Così pure, è sempre chiamato a verificare le domande e le eccezioni delle parti alla luce delle disposizioni di legge e può, quindi, respingerle quan-

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do non sono conformi alle fattispecie legali disegnate dalle norme. Tutto ciò non comporta un vizio di ultrapetizione. Se il giudice ravvisa un’eccezione rilevabile d’ufficio, può metterla a fondamento della sua decisione senza eccedere i propri limiti (salvo ciò che si dirà a proposito del contraddittorio). L’estensione del potere del giudice di sollevare eccezioni d’ufficio, però, va coordinata con il monopolio delle parti nella determinazione della materia del contendere. Si tratta di un punto di particolare delicatezza, che incide su molti aspetti: ad esempio, sui limiti oggettivi del giudicato che si verrà a formare. Si ritornerà su questo profilo nelle pagine che seguono. III. Processo civile e gestione degli interessi. Se il compito del giudice civile è quello di esercitare la giurisdizione applicando le norme giuridiche, è opportuno segnalare che sempre più spesso egli è chiamato a svolgere un ruolo attivo di gestione della lite, attraverso la ponderazione degli interessi. In particolare, servono a questo scopo gli strumenti che operano sul fattore tempo, facilitando o no la trattazione rapida ovvero la composizione della lite, ivi incluse le misure di urgenza e anticipatorie all’interno del processo, con la possibilità di scegliere (e quindi di discriminare e di amministrare il contenzioso) fra taluni casi e taluni altri. Nel contempo, si assiste all’incremento di forme di processualizzazione dell’operato della pubblica amministrazione, con l’inserimento di elementi non secondari di trasparenza, di informazione e di ascolto (quasi di contraddittorio) degli interessati. Ora, ciò porta ad una sorta di avvicinamento fra il metodo amministrativo e quello giurisdizionale nella gestione dei casi. Fra la decisione amministrativa, per quanto raggiunta attraverso tecniche raffinate di confronto fra gli interessi, e la decisione giudiziaria, per quanto ottenuta attraverso metodi semplificati o perfino sommari, esiste una radicale ed inconciliabile differenza, data dalla mancanza, nel primo caso, di terzietà del decidente e di parità di posizioni giuridiche fra i contendenti. Tuttavia, la tendenza ad equiparare il metodo (allineando cioè le regole procedurali) è destinata a veicolare anche la sostanza della decisione.


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Sia la decisione amministrativa che quella giurisdizionale sembrano tendere verso una sorta di koinè: l’organo decidente, in vista di un interesse superiore, bilanciando opportunamente gli interessi particolari, seguendo un procedimento che consenta a tutti i portatori di interesse di fare sentire la loro voce, prende la decisione che ritiene migliore. La normazione europea contribuisce, in molti ambiti, a fare sì che le due attività si assomiglino sempre di più, nonostante norme come l’art. 6 Cedu e l’art. 47 della Carta dei diritti. In effetti, le norme costituzionali e fondamentali possono mantenere le loro formulazioni, pur in presenza di una sostanziale mutazione genetica dei concetti a cui rinviano. Il diritto di difesa resta il diritto di difesa, ma altra cosa è pensarlo in un contesto di gestione di interessi (come in effetti avviene in taluni procedimenti amministrativi: si pensi alle fasi precontenziose in materia di concorrenza) e cosa ben diversa in un ambito di tutela giurisdizionale dei diritti, dove (e basterebbe questa annotazione) esso si esplica sia per convincere il giudice contro l’avversario, sia per salvaguardare la pienezza di prospettazione delle proprie tesi (e quindi, se non contro il giudice, certamente anche nei confronti del giudice). Se il primo dei due significati occupa anche il secondo degli spazi, è evidente che si sta operando una modifica, tanto silenziosa quanto dirompente. Se questa analisi è esatta, è necessario operare, con molta attenzione, per mantenere ferme in sede giurisdizionale le caratteristiche di civiltà e di garanzia proprie del processo, operando, per quanto possibile, in modo che la sovrapposizione non si risolva in un impoverimento della tutela: pericolo al quale le tendenze europee certamente non sottraggono.

12. IL PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO. I. La nozione di contraddittorio. Il principio del contraddittorio è un elemento cardine di ogni sistema processuale di cognizione (e, con qualche limitazione, anche cautelare e di esecuzione).

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L’essenza del contraddittorio è duplice: esso comporta che il giudice non possa decidere se non avendo ascoltato tutte le parti e che ciascuna parte sia posta in condizione di poter contrastare le tesi delle altre. Si tratta di un punto molto importante, che va ben compreso. Il processo ha struttura dialettica: ciò significa che l’accertamento della verità e della giustizia non si attua in maniera unilaterale. Il giudice non riceve un carteggio sul tavolo e poi decide da solo; non dà, dopo avere studiato il caso, un parere giuridico. Al contrario, decide su una domanda e, quindi, come si è detto, sulla richiesta di una parte contro l’altra. Il conflitto è strutturale, intrinseco. Ne segue che la decisione non può avvenire che sull’apporto, contrastante e confliggente, di tutte le parti. La controversia, del resto, si presenta obiettivamente incerta. Se non lo fosse, lo strumento del processo sarebbe superfluo e il suo impiego un abuso. Se, però, vi è una controversia reale, l’incertezza (in diritto o in fatto) ne costituisce un elemento essenziale, che postula quindi il confronto fra le parti. Incertezza e contradditorio sono profondamente collegati. Il processo civile è costantemente sfidato a rinnovarsi dal mutamento sociale: ogni ritardo in questo senso è fonte di disagio in coloro che, dal processo, attendono giustizia e tutela. La società postmoderna, fondata su ritmi veloci di comunicazione e di fruizione dei beni, valorizza determinati aspetti della tecnica processuale e ne deprime altri. Così, l’efficienza, la rapidità, la trasparenza sono qualità apprezzate, mentre è meno percepito il valore del rigore nelle forme o quello della stabilità del risultato dell’attività giurisdizionale. Ora, fra i punti di sensibilità diffusa si deve porre, in prima linea, quello del confronto fra le parti, del contraddittorio, dell’esercizio pieno delle difese. L’accresciuto livello della cultura media rende sempre più necessario al difensore spiegare al proprio assistito le ragioni delle sue scelte all’interno del processo e i motivi dell’impatto, positivo o negativo, di queste scelte sulla decisione del giudice. Il contraddittorio, insomma, è un aspetto irrinunciabile del processo e lo sarebbe anche se, per assurdo, le norme (interne ed europee, costituzionali e ordinarie) non lo tutelassero. Il legislatore di


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oggi può optare per governare date situazioni senza il processo, ma, se sceglie il processo, deve consentire uno spazio pieno all’operatività del contraddittorio, senza remore e senza esitazioni. Ovviamente, si possono immaginare diversi sistemi processuali, in cui non identica, per così dire, è la “quantità” di contraddittorio possibile. Nel rito ordinario di cognizione, come meglio si vedrà, le parti dialogano fra loro con una pluralità di atti: la citazione, la comparsa di risposta, le tre memorie previste dall’art. 183 c.p.c., le comparse conclusionali, le repliche. Nel rito del lavoro, così come nel c.d. rito sommario, gli atti difensivi sono soltanto uno per parte, oltre alla possibilità di una discussione orale. L’essenziale è che il confronto possa avvenire con modalità adeguate, anche se non vi sia un numero particolarmente elevato di repliche reciproche. La nozione di contraddittorio sembra sovrapporsi a quella di diritto di difesa. In realtà, il diritto di difesa attiene alla sostanza, mentre il principio del contraddittorio attiene al metodo. Il diritto di difesa suppone che ogni parte possa incidere effettivamente sul convincimento del giudice e il contraddittorio è il modo con cui ciò si realizza. Il principio del contraddittorio si connette ad un altro principio fondamentale: quello dell’uguaglianza delle parti fra loro e dinanzi al giudice. Le parti sono uguali, hanno uguali diritti e devono essere poste in condizione di fronteggiarsi in modo equilibrato. È questa la particolare sottolineatura che offre il concetto di parità delle armi: tutte le parti devono essere equamente poste in condizioni di difendersi, con tempi e modalità, se non assolutamente identici, per lo meno tendenzialmente simili. II. Le basi normative del principio del contraddittorio. Le norme fondanti sono gli artt. 24 e 111 cost. e 101 c.p.c. L’art. 101, comma 1°, c.p.c., avverte che il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale la domanda è proposta non è stata regolarmente citata e (ma bisogna piuttosto leggere “o”) non è comparsa. Ma, in realtà, si tratta di un principio di civiltà giuridica. Secondo l’art. 6 Cedu, rubricato “diritto ad un processo equo”, ogni

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persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta. Contenuti analoghi si trovano nell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La norma, al suo comma 3°, precisa che ogni individuo ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare. Secondo gli interpreti più accreditati, essa viene ad elevare a diritto fondamentale quello alla consulenza e all’informazione. La normazione europea pone in posizione assolutamente dominante il diritto sostanziale e vede il processo, in modo radicale, come uno strumento per l’attuazione, in tanto in quanto indispensabile, delle regole materiali. Perché questa veduta abbia possibilità di riuscita in una società complessa, a forte litigiosità, occorre, fra l’altro, limitare lo sbocco contenzioso delle liti. Uno degli strumenti, in questo senso, è l’informazione tecnica ovvero l’assistenza legale prima e al di fuori del processo. Il cittadino europeo deve essere posto in condizione di conoscere i propri diritti, certamente per instaurare un contenzioso a ragion veduta, ma (e forse soprattutto) anche per evitare un contenzioso inutile, per calibrare la bilancia di costi e benefici, per scegliere le modalità di lite più adatte, per evitare la ripetizione e la moltiplicazione di processi in sedi diverse. Tutto questo, nell’ottica dell’Unione, non ha soltanto un effetto deflattivo, ma esprime, in positivo, anche l’idea di un ricorso alla giustizia che deve essere efficace e non inutile. Il diritto all’informazione è strettamente collegato, sul piano finalistico, con quello del diritto di difesa e del contraddittorio. III. Il nucleo essenziale del contraddittorio. La dimensione del contraddittorio richiede di riflettere su due aspetti. In primo luogo, si tratta di ricordare l’ampio lavoro svolto, fino dagli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, ad opera della Corte costituzionale, che ha riletto le norme vigenti (talora integrandole, talora dichiarandone l’incostituzionalità), alla luce dell’art. 24 cost. La Corte costituzionale ha ritenuto legittimo che il


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legislatore diversifichi l’intensità delle modalità della difesa a seconda del tipo di processo, purché, però, vi sia un nucleo irrinunciabile. La giurisprudenza costituzionale ha così ritenuto che il diritto di difesa comporti sempre l’assistenza di un difensore tecnico, il diritto di provare fatti e, appunto, il principio del contraddittorio, nel senso che ogni atto del giudice deve passare attraverso il reciproco controllo delle parti. Fra le molte pronunce con cui la Consulta ha svolto un importante compito di integrazione del sistema, si possono menzionare la sentenza 10 luglio 1975, n. 202; la sentenza 30 giugno 1971, n. 151; la sentenza 23 marzo 1981, n. 42. In secondo luogo, va esaminato il rapporto fra la norma di sempre, l’art. 24 e la norma più recente, l’art. 111. Si tratta di capire se l’art. 111 abbia aggiunto qualcosa a ciò che l’elaborazione della Consulta, a cui si è appena accennato, aveva fissato. Ora, da questo profilo sembra si possa dire che l’art. 111 incide essenzialmente sul processo penale, ma nulla aggiunge all’ampiezza delle tutele, già conseguita con l’applicazione dell’art. 24. Diverso – ma anche diverso è il tema – è il contributo innovativo che l’art. 111 ha apportato sul terreno della ragionevole durata del processo. IV. Il contraddittorio fra parti e giudice. La moderna coscienza giuridica si è posta il problema di garantire il contraddittorio non soltanto fra le parti, ma anche fra le parti e il giudice. Lo scenario è quello delle decisioni c.d. di terza via o a sorpresa. Le parti si confrontano: l’attore propone al caso la soluzione A e il convenuto la soluzione B. Il giudice segue invece un proprio percorso, oppure solleva d’ufficio una data questione, che lo porta ad optare per la soluzione C. In questi casi, l’ordinamento vuole che le parti possano discutere con il giudice il punto, prima della decisione. Il comma 2° dell’art. 101 c.p.c., introdotto con la riforma del 2009, stabilisce al riguardo che, se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice non può decidere (ancora una volta, da solo), ma deve prima garantire alle parti la possibilità di depositare scritti difensivi, contenenti osservazioni su quella questione.

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La norma era stata preceduta dall’art. 384, comma 3°, c.p.c., in tema di giudizio di cassazione. Infatti la Cassazione, se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, e non fatta oggetto di motivi o difese presentati dalle parti, non può decidere immediatamente, ma riserva la decisione, assegnando con ordinanza al pubblico ministero e alle parti un termine non inferiore a venti e non superiore a sessanta giorni dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla medesima questione. Ancora prima, già nel 2001 era emerso un orientamento giurisprudenziale della suprema Corte che apriva all’esigenza di un confronto fra il giudice e le parti su ogni profilo, destinato a fondare la decisione. Ovviamente, ci si può domandare che efficacia abbia il contraddittorio, se attuato non fra le parti davanti al giudice imparziale, ma fra chi deve decidere (e ha già un’idea precisa su come farlo) e chi non è d’accordo. In realtà, si tratta solo di mettere a confronto la soluzione del giudice con ogni possibile obiezione, in modo da garantire la decisione più esatta possibile. V. Limiti all’operatività del contraddittorio. Non vi sono segmenti del processo da cui il contraddittorio sia radicalmente escluso: anche nel processo esecutivo, pur in un contesto diverso, esso va tutelato e garantito. Tuttavia, in concreto, vi sono talune eccezioni alla piena operatività del principio del contraddittorio, la cui legittimità è oggi in discussione, alla luce dell’art. 111 cost. Un esempio è dato dall’art. 669-sexies c.p.c., nel contesto del procedimento uniforme in materia cautelare. Al comma 2°, si dice che il giudice può emettere senza contraddittorio un provvedimento cautelare, la cui durata, però, non può eccedere i quindici giorni: infatti, il giudice deve fissare un’udienza da tenersi entro quindici giorni, nella quale, in contraddittorio, può confermare o revocare il provvedimento. Altra importante ipotesi è quella del procedimento di ingiunzione o monitorio (artt. 633 ss. c.p.c.). Qui il giudice decide sul-


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la domanda dell’attore (peraltro, corredata da documentazione scritta) senza sentire la controparte; però il provvedimento, se favorevole all’attore, acquista efficacia piena solo se entro un dato termine dalla notifica (normalmente, quaranta giorni) la controparte non vi si oppone, instaurando un giudizio di cognizione piena in contraddittorio; il contraddittorio, quindi, è eventuale e differito. In entrambi questi casi, l’opinione prevalente va nel senso che la compressione del contraddittorio è accettabile, in quanto si tratta di una limitazione solo temporanea, in vista di obiettivi di giustizia sostanziale e di effettività della tutela. Occorre anche fare riferimento all’istituto della contumacia. La contumacia (come meglio si vedrà) è la situazione per cui la parte (attore o convenuto) non si costituisce e quindi non prende posizione attiva nel processo: il che è possibile in quanto la partecipazione attiva al processo è una facoltà e non un obbligo. Ora, il processo in contumacia non viola il principio del contraddittorio. Infatti, il contraddittorio assicura l’uguaglianza formale delle parti, ossia la pari possibilità, e non quella sostanziale, come parità di livello di difesa. Nel contempo, l’equilibrio che sempre deve sussistere fra la posizione delle parti suppone che l’esame della domanda giudiziale dell’attore da parte del giudice non sia condizionato al consenso o alla partecipazione attiva del convenuto. Il processo è accertamento del fatto e applicazione del diritto. Per ciò che concerne il diritto, il contraddittorio è utile, ma da un certo profilo non essenziale, perché il giudice conosce il diritto e, una volta che la controversia gli viene sottoposta, potrebbe da solo trovare la norma correttamente applicabile: anche se il dibattito, scritto o orale, dinanzi al giudice, sui punti di diritto, costituisce uno degli aspetti salienti delle difese. Invece, il contraddittorio è essenziale nell’accertamento dei fatti: in particolare, deve essere garantito nell’istruttoria e le prove debbono essere assunte in contraddittorio (ad esempio, i testimoni sono normalmente sentiti davanti alle parti e ai loro difensori) o, quanto meno, la loro valutazione deve essere compiuta in contraddittorio (ad esempio, nel caso dei documenti).

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13. PRINCIPIO DISPOSITIVO E INQUISITORIO. L’ONERE DELLA PROVA. IL CONVINCIMENTO DEL GIUDICE. I. La regola dell’onere della prova. Si è già visto come l’accertamento presuppone l’individuazione e la prova dei fatti lesivi, che vengono poi inquadrati nella fattispecie normativa. L’individuazione dei fatti è compito delle parti e rientra nel monopolio della tutela giurisdizionale: sono le parti, ed esse sole, a decidere quali fatti introdurre in causa. Il giudice, così come non può cominciare il processo da solo, neppure può, di sua iniziativa, modificare la materia del contendere, introducendo fatti nuovi. L’attività di parte, che consiste nell’introdurre fatti nel processo, prende il nome di allegazione. Allegare, o dedurre i fatti, significa portarli in causa all’attenzione del giudice. Diverso, invece, è il punto della prova dei fatti allegati. Prima di tutto, ci si deve domandare a chi spetta il compito di provare i fatti. La regola posta dall’art. 2697 c.c. è nel senso che chi vuol fare valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento e di cui egli afferma l’esistenza; a sua volta, chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto non è mai sorto ovvero si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda. Pertanto, l’attore deve provare i fatti costitutivi, il convenuto i fatti estintivi, impeditivi e modificativi. È questa la regola dell’onere della prova. Si parla di onere in senso tecnico. Nessuno è obbligato a provare nulla, così come nessuno è obbligato ad iniziare una lite. Se però, cominciato il processo, vuole ottenere ragione, ha l’onere di dare l’opportuna dimostrazione dei fatti al giudice. L’onere della prova è, prima di tutto, una regola di giudizio, perché consente al giudice di evitare il non liquet. Se i fatti non sono dimostrati, il giudice ne prende atto, in senso contrario alla posizione di chi li doveva provare: non esse et non probari paria sunt. Se il tavolo del giudice resta vuoto, senza il minimo apporto di conoscenza


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dei fatti, non per questo il giudice abdica al suo dovere decisorio, ma respinge la domanda perché non ne è dimostrato il fondamento. Allo stesso tempo, l’onere della prova è anche una regola di attività, nel senso che la parte onerata si deve dare carico di apportare al processo gli elementi idonei a dimostrare i fatti di suo interesse, nella consapevolezza che, diversamente, la sua tesi, contenuta nella domanda o nell’eccezione, non potrà essere accolta. La distribuzione dell’onere della prova appartiene al diritto sostanziale perché, in un certo modo, rappresenta un modo di essere del rapporto giuridico in questione. A conferma, si noti che le parti possono accordarsi, sul piano del diritto materiale e fuori dal processo, per disciplinare in modo diverso l’onere della prova, alterando, col che, il loro rapporto. La legge non proibisce questi accordi che invertono o modificano l’onere della prova (art. 2698 c.c.), ma li rende nulli in caso di diritti indisponibili (e lo si comprende, visto che qui il rapporto non può essere alterato pattiziamente) o quando l’inversione o la modificazione ha per effetto di rendere a una delle parti eccessivamente difficile l’esercizio del diritto. Porre l’onere della prova a carico di una parte o di un’altra può essere frutto di precise scelte politiche del legislatore che, in questo modo, intende facilitare il compito di una di esse. Ad esempio, l’art. 4 del d.lgs. n. 216 del 9 luglio 2003 in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, prevede che, quando il ricorrente fornisce elementi presuntivi che facciano ragionevolmente supporre l’esistenza di comportamenti discriminatori, spetta al datore di lavoro convenuto di provare l’insussistenza della discriminazione. Questa tecnica, basata sull’intervento sull’onere della prova, costituisce una forma ormai classica di sostegno alle tutele antidiscriminatorie. II. Il principio dispositivo e il principio inquisitorio. Per quanto attiene all’iniziativa istruttoria (vale a dire, l’iniziativa di apportare gli elementi probatori nel processo), il discorso è più complesso. Intanto, è evidente che, sussistendo il principio della tutela giu-

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risdizionale in capo alle parti, queste ultime devono essere messe in condizione di esercitare il loro diritto di prova. Si tratta, come si è visto, di una delle componenti minime essenziali del diritto di difesa. Il problema è di capire se l’iniziativa istruttoria possa spettare anche al giudice. Qui, l’atteggiamento dei vari ordinamenti giuridici non è identico. Quando essa appartiene solo alle parti, si parla di principio dispositivo (in senso processuale). Quando appartiene sia alle parti che al giudice, con riferimento a tutti i mezzi di prova, si parla di principio inquisitorio (sempre in senso processuale). Va detto che le stesse espressioni, usate in senso sostanziale, si riferiscono al potere di parte o d’ufficio di disporre della tutela giurisdizionale. È bene mettere in relazione questi principi con quello della disponibilità della tutela giurisdizionale e con quello dell’onere della prova. In relazione al primo, come detto, sarebbe del tutto incongruo un sistema, che riservasse al solo giudice l’iniziativa probatoria, perché in questo modo le parti sarebbero gravemente espropriate sul piano del diritto di difesa. Invece, la scelta fra metodo dispositivo e metodo inquisitorio (ovvero, metodi che in modo diverso mettono in equilibrio l’uno e l’altro) non lede la disponibilità sostanziale della tutela: infatti, altro è privare le parti del loro diritto alla prova, altro è impostare forme di presenza attiva del giudice, al fine di un più oggettivo accertamento dei fatti. Dal secondo angolo prospettico, invece, si tratta di due principi indipendenti. L’onere della prova resta quello che è, comunque sia strutturata l’iniziativa probatoria. Certo, un metodo totalmente dispositivo lascia la parte che deve provare sola dinanzi al suo compito; un metodo inquisitorio può invece portare, su iniziativa del giudice, dati probatori che, in qualche caso, possono agevolare la parte onerata. Il sistema italiano è caratterizzato, almeno per quanto riguarda il processo ordinario di cognizione, dal principio dispositivo attenuato: ciò significa che l’iniziativa istruttoria appartiene alle parti (art. 115 c.p.c.), ma che il giudice ha una rilevante serie di poteri istruttori officiosi, rafforzati quando il processo si svolge dinanzi al giudice unico: ne è un esempio l’art. 281-ter c.p.c., in base al quale il giudice può disporre d’ufficio la prova testimoniale formulandone i capitoli,


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quando le parti nella esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità. Riti diversi da quello ordinario conoscono soluzioni diverse: si pensi al processo del lavoro, caratterizzato da forme decisamente inquisitorie (art. 421 c.p.c.). Scegliere un processo più caratterizzato nell’uno o nell’altro senso dipende da una scelta politica: il principio dispositivo è coerente con l’idea del processo come gioco fra le parti, mentre il principio inquisitorio è in linea con l’idea del processo che deve dare ragione a chi ce l’ha. La maggior parte dei sistemi moderni sceglie una figura di giudice attivo. Ci si può chiedere, però, se il ruolo attivo abbia riflessi sull’imparzialità del giudice. Anticipando una riflessione che si ribadirà a suo luogo, è bene chiarire che la ricerca attiva della prova dei fatti (nei limiti di quelli posti dalle parti a base delle rispettive difese) tende a raggiungere un dato di verità. Il giudice apporta materiale probatorio che potrà confortare le tesi di questa o di quella parte, ma ciò non inquina in alcun modo la sua posizione di terzo imparziale. Va detto che l’attività di ricerca delle prove deve fare i conti con una serie di possibili difficoltà od ostacoli materiali, che ne limitano l’efficacia. Una tutela pienamente effettiva dovrebbe permettere alle parti di raggiungere tutti i materiali probatori utili ai fini della decisione, in modo che il giudice possa dare al caso una soluzione nella piena consapevolezza dello svolgimento dei fatti. Ora, l’aspirazione del processo alla verità si scontra con una serie di elementi contrari: il trascorrere del tempo, che cancella le tracce e la memoria; la (talora legittima) mancanza di collaborazione da parte di soggetti terzi che detengono fonti di prova; le limitazioni ai poteri del giudice. Non di rado, l’ordinamento cerca di supplire a queste deficienze con meccanismi di presunzioni: vale a dire, dando per vere talune circostanze quando la parte che doveva cooperare ad accertarle si rifiuta. Se però queste conseguenze possono essere rovesciate sulla controparte, quando è la controparte a detenere e a non rivelare le fonti di prova, non accade lo stesso per i terzi. È chiaro, tuttavia, che l’obiettivo essenziale dell’ordinamento non è, in assoluto, il raggiungimento della verità, ma piuttosto la determinazione della certezza del rapporto. Per questo, in materia civile, l’indagine resta pur sempre limitata.

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III. Il libero convincimento del giudice. Le presunzioni. Una volta raccolto il materiale istruttorio, si tratta di vedere come il giudice lo deve valutare. Il convincimento del giudice sulla verità dei fatti può formarsi secondo due diversi modelli. Il primo è quello di una valutazione predeterminata del materiale istruttorio acquisito: è un metodo molto verificabile, ma anche rozzo, perché presuppone criteri automatici di valutazione. Il secondo si basa invece sulla valutazione libera del materiale istruttorio acquisito. È questo il criterio del libero convincimento e apprezzamento, che affida al giudice la valutazione razionale dell’esito probatorio. Nell’ordinamento italiano vale l’art. 116 c.p.c.: normalmente il giudice decide sui fatti secondo il suo libero convincimento. Il giudice – così afferma la norma – deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti (nel caso, cioè, delle c.d. prove legali, di cui si dirà fra poco). Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno in sede di interrogatorio libero, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinato e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo. Libero convincimento non equivale ad arbitrio, ma a valutazione razionale. Il diritto processuale si è progressivamente evoluto da forme automatiche di convincimento del giudice all’attuale libertà di apprezzamento. È ovvio che il giudice può sbagliare: ad esempio, perché ritiene convincente il racconto del testimone A e non invece quello del testimone B. Tuttavia, fra il rischio dell’errore, che comunque potrà essere corretto in appello, e l’ingessatura della decisione giudiziale in automatismi rigidi (ad esempio, se due testimoni affermano la stessa cosa, ciò significa che è vera), la moderna coscienza giuridica preferisce, senza rimpianti, il primo. Il diritto processuale riceve, su questi aspetti, importanti contributi da scienze come la logica probabilistica e l’epistemologia. La scelta della ricostruzione più credibile dei fatti, all’interno dei vari materiali apportati al processo, non è frutto del caso, ma suppone una serie di passaggi razionali, di cui il giudice deve dare conto nella sua motivazione.


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Il giudice può avvalersi di presunzioni: meccanismi logici che portano il giudice da un fatto noto di livello inferiore ad un fatto ignoto. Le presunzioni non sono mezzi di prova, nel senso che non sono modalità autonome di approccio ai fatti; non sono neppure prove, perché eventualmente è prova ciò che emerge dopo la loro applicazione. Sono soltanto un ragionamento induttivo, che permette al giudice di desumere da un certo dato, emerso dall’espletamento di un mezzo di prova e già entrato in giudizio, un dato ulteriore. Le presunzioni sono semplici o legali. Sono semplici quando il ragionamento induttivo è svolto dal giudice, sulla base di comuni criteri di razionalità. Sono legali quando il ragionamento è svolto, per così dire, dalla legge: se si verifica il dato A, allora per legge se ne deve dedurre il dato ulteriore B. In base all’art. 2729 c.c., le presunzioni semplici possono essere ammesse dal giudice solo se gravi, precise e concordanti; pertanto, il giudice può ritenere dimostrati fatti, che non siano direttamente provati, soltanto se a ciò sia possibile pervenire in base ad una pluralità di circostanze certe, non equivoche e tutte nella stessa direzione. È bene notare che la decisione in base a presunzioni è un esito frequente dei processi civili. Non sempre si può ottenere la prova diretta dei fatti costitutivi, ma più spesso si possono provare situazioni e circostanze, che consentono poi di indurre ragionevolmente la verità dei fatti controversi. Diversi dalle presunzioni sono i semplici argomenti di prova, menzionati dall’art. 116 c.p.c. Mentre le presunzioni consentono al giudice di decidere il caso, gli argomenti servono soltanto a corroborare una valutazione, che però deve essere maturata e fondarsi essenzialmente su altre e più forti basi. IV. Le prove legali. Il principio del libero convincimento conosce alcune deroghe. La prima è quella delle c.d. prove legali: vale a dire, quelle la cui valutazione da parte del giudice è predeterminata. Si tratta di un’area residuale, perché il criterio del libero convincimento esprime

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una tendenza comune a tutti gli ordinamenti moderni. Queste prove (su cui si ritornerà, con le precisazioni opportune, circa l’effettivo ambito di operatività della deroga al principio del libero convincimento) sono: il giuramento, la confessione, l’atto pubblico e la scrittura privata autenticata. Basti rilevare qui che per i primi due la giustificazione dell’eccezione si fonda sulla loro natura di atti negoziali su diritti disponibili; per gli altri, gioca il rilievo della pubblica fede data dalla presenza del pubblico ufficiale. La seconda, come si è accennato, è quella delle presunzioni legali: da una premessa si trae per legge una certa conseguenza. Le presunzioni legali sono poche e solo in taluni casi non ammettono prova contraria (e si parla allora di presunzioni iuris et de iure), mentre normalmente possono essere superate da una dimostrazione di segno opposto (e si parla allora di presunzioni iuris tantum).

14. IMPULSO DI PARTE E IMPULSO D’UFFICIO. LA DIREZIONE DEL PROCESSO. I. L’impulso di parte. Agli occhi di un osservatore esterno, il processo appare come una successione di atti scritti ed udienze, vale a dire di incontri tra le parti e il giudice. Occorre domandarsi chi determina la successione di queste fasi. Vi sono due possibili schemi: l’iniziativa di parte o l’impulso del giudice. Il processo civile italiano, ad eccezione di quello davanti alla Corte di cassazione, è retto dal principio dell’impulso di parte: la parte ha un costante onere di mantenere in vita il processo. Si tratta di una soluzione coerente con il principio del monopolio della tutela giurisdizionale in capo alle parti. Le applicazioni del principio dell’impulso di parte sono molteplici. Si può affermare che ad ogni snodo del procedimento le parti siano chiamate a confermare la loro volontà di andare avanti, ponendo in essere attività specifiche. Conseguenza dell’inattività delle


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parti è la conclusione del processo senza avere raggiunto l’accertamento e, quindi, l’estinzione del processo. Già si è visto, in relazione al potere di disposizione della tutela giurisdizionale, che il processo può estinguersi per rinuncia agli atti del giudizio (art. 306 c.p.c.): le parti decidono di porre fine alla lite. Qui va detto che il processo si estingue anche quando le parti non continuino ad esercitare attività di impulso: la legge ricollega alla mancata presenza delle parti in udienza o all’omissione di certi atti l’estinzione del processo (artt. 307 e 309 c.p.c.). Così, secondo gli artt. 309 e 181 c.p.c., se nessuna delle parti si presenta all’udienza, il giudice fissa una seconda udienza; ove le parti non si presentino nemmeno alla seconda udienza la causa viene cancellata dal ruolo e il processo si estingue immediatamente. Il punto sarà approfondito più avanti. Per ora, basti osservare che l’estinzione per inattività non concerne solo il processo di cognizione, ma anche quello esecutivo e cautelare. Data poi la struttura conflittuale del processo civile, è comprensibile che, di solito, solo una parte abbia un preciso interesse alla prosecuzione, mentre per l’altra il risultato pratico del mancato accertamento o della mancata realizzazione dell’attività esecutiva è più che sufficiente, anche se la domanda potrebbe essere successivamente riproposta. Così, tutti i momenti del processo che suppongono una data iniziativa sono per una parte un passaggio obbligato, da compiere con diligenza, e per l’altra parte una potenziale occasione di approfittare di errori o inesattezze di chi ha l’onere dell’impulso. È anche opportuno mettere in luce un istituto che si incontrerà più volte: quello della riassunzione del processo. In dipendenza da vari eventi procedurali, occorre talora che la parte chieda nuovamente al giudice di prendere in esame la trattazione del procedimento: non si tratta di iniziare un giudizio ex novo, ma di fare ripartire, dandogli nuovo impulso, un processo esistente. Seppure possa presentare forme non identiche, la riassunzione è disciplinata in via generale dall’art. 125 disp. att. c.p.c. Il processo davanti alla Corte di cassazione è retto invece dall’impulso d’ufficio; proposto il ricorso, il processo prosegue fino alla sentenza (salva per le parti la facoltà di rinuncia). Vi è qui una conse-

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guenza dell’interesse pubblico ad ottenere una pronuncia di diritto, che si riverbera sulla diminuzione dell’onere di impulso per le parti. Le udienze di mero rinvio sono consentite dagli artt. 81 e 82 disp. att. c.p.c.; sono vietate nel processo del lavoro (art. 420 u.c.), anche se la prassi giudiziaria ha trovato più di un metodo per aggirare la norma. L’attuale struttura del processo dovrebbe circoscrivere le udienze di mero rinvio, anche se non sempre esse costituiscono un abuso e talora rispondono ad esigenze effettive. II. Direzione del processo e case management. La direzione del processo spetta al giudice (art. 127 c.p.c.). È solo il giudice, terzo imparziale e consapevole del rapporto fra le risorse disponibili e il contenzioso da smaltire, a dettare i tempi e ad imprimere l’orientamento della trattazione. Spetta al giudice – lo si vedrà meglio – se effettuare o no attività istruttoria; se avviare o no la causa in decisione; se decidere tutta la materia del contendere o parte di essa. Ancora, spetta al giudice fissare le udienze e stabilire quindi il ritmo di quel caso. Ovviamente, il giudice applica le norme di procedura, ma le norme gli fissano solo limiti esterni. È sempre più accentuata la tendenza a fare del giudice una sorta di manager della giustizia. L’espressione anglosassone case management non significa solo trattazione del processo, ma anche capacità di stabilire quanto tempo, energie e attenzioni si possono dedicare ad un singolo giudizio, in rapporto agli altri che attendono di essere decisi, sapendo che per tutti vale il criterio costituzionale della ragionevole durata. Va detto, però, che il magistrato non riceve alcuna formazione in questo senso: è un giurista che apprende in pratica come gestirsi, riuscendoci più o meno efficacemente in base alle sue qualità personali. Con una notevole frequenza, si incontreranno in queste pagine riferimenti al principio di economia processuale. Si parla di economia processuale per indicare la tendenza ad evitare inutili duplicazioni di attività e a favorire la semplificazione. Di per sé, l’economia processuale è più collegata alla capacità organizzativa del giudice che non alla durata del processo in quanto tale, seppure le ricadute


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sul piano dei tempi siano evidenti; ed è vero, in ogni caso, che è l’attenzione del singolo giudice a valorizzarla. L’impulso del processo, che spetta alle parti, e la direzione del processo, che spetta al giudice, sono due nozioni diverse. Le parti devono manifestare la loro volontà di proseguire nella trattazione, ma è il giudice che stabilisce come e quando. Certo, il fatto che la direzione del processo spetti sempre al giudice può far ricadere sulle parti il disservizio dell’organo giudiziario, mentre una migliore gestione del processo dovrebbe consentire alla parte che ha esigenze di rapida conclusione del processo di poter velocizzare i tempi. III. Il processo a struttura elastica. Rispetto al potere di direzione del processo, si configurano due modelli: il processo a struttura rigida e il processo a struttura elastica. Il sistema italiano è prevalentemente rigido, anche se non mancano norme improntate a flessibilità. La struttura elastica del processo significa che in determinate fasi processuali il giudice può imboccare una fra più strade diverse (tutte predeterminate), a seconda delle esigenze del caso concreto. L’adeguamento delle regole processuali al caso concreto equivale ad un più profondo rispetto per le esigenze dei cittadini. L’elasticità, d’altra parte, è cosa diversa dalla mera discrezionalità. L’elasticità processuale costituisce la migliore risposta alla necessità di personalizzare il rito, di adeguarlo il più possibile alle caratteristiche, non di quella data tipologia di giudizi relativi a una determinata materia, ma al singolo caso: che, in definitiva, è l’unico reale. In effetti, ogni norma sconta il problema dell’inadeguatezza di un comando generale ed astratto a cogliere e rappresentare le peculiarità di ciò che è concreto: nel diritto materiale, si risponde a questa esigenza con diversi strumenti, che vanno dall’applicazione dell’equità alla discrezionalità del giudice. Il diritto processuale non solo non sfugge a questa difficoltà, ma tende anzi a dare una risposta più burocratica, incanalando il caso in binari predeterminati. Il caso, in definitiva, è una pratica, che deve seguire un dato iter: non di rado, gli organi giudicanti non si pongono nell’ottica della tute-

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la delle persone coinvolte, ma essenzialmente in quella dei fascicoli da evadere. È facile allora privilegiare gli aspetti di una pedissequa rigidità, che ha il vantaggio di semplificare il lavoro al giudice e di rendere prevedibile ai difensori lo sviluppo della trattazione. La rigidità delle norme spinge la dottrina e il legislatore a cercare, con molteplici soluzioni diverse, il modello processuale più idoneo a garantire un processo giusto. Si può pensare ad un modello unico o ad una molteplicità di modelli, adattabili a diverse categorie astratte di controversie. Non si evita, però, la trappola della gabbia ideologica, in cui la letteratura giuridica in questa materia è costantemente caduta. Infatti, se vi è un tipo di processo migliore, si discuterà all’infinito su come questo processo debba configurarsi e si formuleranno principi generali, ai quali, secondo una certa ottica, il rito si dovrebbe sempre ispirare. L’approccio flessibile si pone al di fuori delle mischie ideologiche. Esso rimarca la strumentalità del singolo processo al singolo caso e, pur sulla base di elementi costanti (come il diritto di difesa e l’indipendenza del giudice), affina la norma processuale in modo da accrescerne l’adeguatezza alle esigenze concrete. Sottolinea, inoltre, come il diritto processuale debba puntare con assoluta decisione verso la tutela del diritto concreto e verso la risposta efficace al bisogno di protezione giuridica, nella consapevolezza del rispetto per la parità di posizioni delle parti. Ora, in primo luogo, va ricordato che l’elasticità è soprattutto un modo di strutturarsi del processo: ha carattere di elasticità un processo in cui il rito può diversificarsi, sul piano anche formale, a seconda dei singoli casi esaminati e quindi in relazione alla specificità delle singole cause. L’uso dell’elasticità come criterio ermeneutico è quindi, di per sé, un’operazione impropria, che può giustificarsi soltanto sulla base di un riferimento normativo. Il riferimento normativo – ed è questa la seconda precisazione – a cui è possibile ancorare l’impiego dell’elasticità come criterio guida di un lavoro di interpretazione va ricercato tenendo presente che l’obiettivo da tutelare è il pieno diritto di difesa delle parti nel giusto processo, fondato sugli artt. 24 e 111 cost. È la scelta di


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valore del costituente che impone, nel dubbio, di optare per un’interpretazione che rafforzi, anziché comprimerlo, il diritto di difesa. Ma per rafforzare il diritto di difesa è essenziale favorire, negli spazi consentiti dalle norme positive, l’iniziativa delle parti e, quindi, il criterio di elasticità. Ecco allora che si può trovare nell’art. 24 cost. la norma che, al di là delle scelte concrete del legislatore, che per il momento privilegiano la rigidezza, permette di utilizzare l’elasticità anche come criterio interpretativo, strumentale all’efficace realizzazione del diritto di difesa delle parti. Naturalmente, altro è un processo a struttura elastica e altro (certo, molto meno) è tentare di temperare un processo a struttura tendenzialmente rigida. L’operazione oggi possibile è solo la seconda. Nel contempo, occorre dire che il legislatore più recente imbocca non di rado la via di una forte deformalizzazione del processo. In più norme (che si esamineranno in dettaglio a suo luogo) si sottolinea che il giudice governa la causa nel modo più opportuno, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio. La scelta è certo a favore della flessibilità, ma non senza qualche preoccupazione per l’interprete: infatti, non si apre dinanzi al giudice un ventaglio di possibilità (a priori, note alle parti) fra cui scegliere, ma gli si offre un percorso totalmente libero e non prevedibile. Occorre poi domandarsi se il problema della direzione del processo possa oggi essere affrontato in una luce diversa sotto il profilo del dialogo fra il giudice e le parti: se, cioè, si possa immaginare una trattazione, non solo flessibile (e quindi rapportata alle esigenze del caso concreto), ma anche condivisa. È chiaro che sul piano della condivisione delle scelte non ci si può spingere troppo oltre: il processo necessita, di fronte agli opposti interessi delle parti, per definizione conflittuali, di una guida autorevole e non di rado energica. Tuttavia, vi sono aspetti che in qualche misura possono venire concertati. A questo porta l’esperienza di altri ordinamenti (come i contrats de procédure francesi), il ripetuto sforzo di scrivere protocolli operativi e anche qualche recente tentativo del legislatore, come quello del calendario del processo.

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15. ORALITÀ, SCRITTURA E TECNOLOGIA INFORMATICA NEL PROCESSO. PUBBLICITÀ E TRASPARENZA. I. Oralità e scrittura nel processo. Ci si deve chiedere, ora, in che modo si svolge il processo civile: se, cioè, oralmente o per iscritto. In realtà, in tutti i sistemi la trattazione del processo è caratterizzata sia da oralità sia da scrittura. Un processo completamente orale comporterebbe problemi di documentazione e uno completamente scritto evidenti difficoltà di comunicazione. Vi sono atti normalmente scritti (come l’atto di citazione o le comparse) e atti normalmente orali (le udienze, l’assunzione delle prove, la discussione). Tuttavia, la ripartizione scritto/orale non risponde ad una necessità logica, in quanto non c’è nulla che teoricamente non possa essere sia scritto sia orale; è la normazione a fare una scelta. Ad esempio, nel processo italiano vigente, la citazione è un atto scritto: però, è possibile anche in forma orale davanti al giudice di pace (art. 316 c.p.c.). Così pure, la testimonianza è solitamente orale, ma in taluni casi può essere scritta (art. 257-bis c.p.c.; art. 816-ter, comma 2°, c.p.c., in materia di arbitrato). Nello spostare l’ago della bilancia verso la scrittura o verso l’oralità giocano considerazioni relative al tipo di controversia, al maggiore o minore tecnicismo, al regime linguistico. Non è irrilevante il profilo ideologico, come risulta dall’elaborazione dottrinale risalente alla seconda metà del XIX secolo, da Franz Klein a Giuseppe Chiovenda. Sotto questo aspetto, nel rapporto tra il giudice e le parti si è auspicata la prevalenza dell’oralità, in quanto si è ritenuto che per accertare i fatti sia più indicato l’esame congiunto con discussione piuttosto che l’esame individuale di atti; l’oralità del processo si collega al ruolo attivo del giudice. Si pensi, ad esempio, alle parole d’ordine chiovendiane dell’oralità, dell’immediatezza e della concentrazione o, per maggiore semplicità, alla prima di esse. Si possono condividere o no le critiche di coloro che hanno parlato di mito dell’oralità, ma certo non si può


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fare a meno di cogliere la carica ideologica ed astratta che si trova dietro le posizioni di Chiovenda e dei suoi commentatori. Il vero problema è che l’oralità non è migliore della scrittura, né la scrittura è preferibile all’oralità, né le terze vie utilizzabili attraverso l’applicazione dell’informatica sono in assoluto migliori dell’una e dell’altra. Trattazione orale e trattazione scritta sono due metodi, che presentano vantaggi e svantaggi e la cui più esatta corrispondenza all’idea di un processo giusto può misurarsi, in definitiva, solo in rapporto al singolo e concreto caso, come definito dalla materia trattata, dal numero delle parti, dalla qualità del giudice, dalla capacità dei difensori, dai tempi e luoghi in cui il processo si svolge. In linea teorica si afferma la prevalenza del principio di oralità, ma di fatto sussiste una tendenza alla scrittura, in quanto soprattutto i processi ad elevata difficoltà tecnica richiedono una puntualizzazione scritta. È espressione di questa tendenza allo scritto il fatto che, mentre si seguono le prescrizioni normative là dove esse indicano lo scritto, qualora la legge preveda l’oralità spesso si ricorre ad atti scritti surrogati. Si possono registrare vari esempi della prevalenza della scrittura sull’oralità. Secondo l’art. 180 c.p.c., la trattazione della causa è orale, ma è anche prescritto che della trattazione si rediga processo verbale. Secondo l’art. 126 c.p.c., in generale, dell’udienza deve essere redatto un verbale che descrive ciò che si è fatto e fa fede di quanto avvenuto. In pratica, molto spesso ciò che rimane dell’oralità è un sintetico riassunto scritto. Del resto, le parti curano che le loro prese di posizione, se importanti, vengano riportate nel verbale, perché ciò di cui non rimane traccia scritta viene a perdere ogni rilievo. Si aggiunga che, in caso di processi lunghi, nei quali si succedono più giudici, il giudice subentrante conosce la causa soltanto attraverso il verbale. La novella del 2005, modificando gli artt. 183 e 185, ha eliminato l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione (che era stata introdotta dalla riforma del 1990-95, insieme con la comparizione personale delle parti), prevedendo che il tentativo si svolga solo se tutte le parti lo richiedono. L’insuccesso nella prassi del tentativo obbligatorio costituisce il motivo di questa condivisibile riforma;

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è anche la conferma di una minore efficacia dell’oralità rispetto alla trattazione scritta. Il dilemma oralità-scrittura si ripropone nella fase della discussione della causa. Nel rito attualmente vigente, in base all’art. 275 c.p.c., la discussione orale è soltanto eventuale, in quanto è fissata solo se richiesta dalle parti. Nella prassi, era stata sostanzialmente eliminata; tuttavia, la facoltà data al giudice di invitare le parti a precisare le conclusioni e a discutere immediatamente, in base agli artt. 281-quinquies e -sexies c.p.c., sta prendendo piede e, nell’ottica di una valorizzazione della ragionevole durata del processo, reintroduce profili di oralità. Peraltro, la discussione orale, generalmente, trova spazio solo nelle controversie con maggiore tasso di semplicità. II. Il processo telematico. Si deve convenire che la disputa fra oralità e scrittura è ormai questione del secolo scorso. Certo, fra la vecchia oralità e la vecchia scrittura, quest’ultima era destinata a prevalere. Ma la nuova frontiera è il processo telematico, attraverso quella che da taluno è già stata definita la nuova oralità. Il processo civile telematico, c.d. p.c.t., è oggi una realtà, fondata da specifiche norme di legge e implementata da numerose e complesse disposizioni regolamentari, che non è utile qui citare, dato il loro rapido succedersi. Il sistema ha ad oggetto la gestione digitale del processo attraverso la dematerializzazione degli atti (vale a dire la sostituzione della forma cartacea con quella elettronica), quale strumento ordinario di veicolazione delle informazioni tra uffici giudiziari, avvocati ed altri professionisti. Le possibilità effettive, per ora, sono quelle di attuare per via telematica le comunicazioni fra il giudice e le parti, ovvero delle parti fra loro; la presentazione di atti giudiziari; l’emissione dei provvedimenti giurisdizionali; la consultazione dello stato dei procedimenti risultante dai registri di cancelleria e dei documenti contenuti nel fascicolo elettronico; il pagamento delle spese di giustizia. Il futuro, però, è aperto a molti sviluppi: è certamente immaginabile anche un’udienza telematica, in cui il confronto fra le parti e il giudice avvenga non fisicamente,


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ma nelle forme oggi già possibili con l’impiego di un comune personal computer. Un’altra funzionalità del p.c.t. riguarderà la messa a punto delle metodologie per il rilievo, la rappresentazione e la costruzione di banche dati per l’informazione giuridica, che renderanno immediatamente conoscibili a tutti – e non solo agli utenti del sistema p.c.t. – i testi delle sentenze e delle leggi vigenti. Punto di partenza per l’abbandono delle carte, o processo paperless, è stata l’accettazione della validità del documento informatico (che il legislatore italiano ha operato già a partire dal 1993) e delle condizioni di sicurezza che lo devono accompagnare, condizioni che, per consuetudine terminologica, vengono definite “firme elettroniche”. Forma elettronica e firma elettronica sono oggi compiutamente disciplinate nel codice dell’amministrazione digitale (c.d. cad., introdotto dal d.lgs. n. 82 del 2005 e successive modificazioni), attraverso varie disposizioni che ne tratteggiano sia la struttura che l’efficacia, sostanziale e probatoria, in dipendenza delle diverse caratteristiche. Le trasmissioni telematiche si basano, infine, sulla posta elettronica certificata (pec), ovvero su una tecnologia in grado di garantire aspetti che un tempo erano demandati esclusivamente ad epicentri di pubblica fede, come l’ufficiale giudiziario per il procedimento di notificazione oppure il servizio postale per le spedizioni raccomandate. L’introduzione delle modalità informatiche non incide, in sé – è bene sottolinearlo – sulla struttura del processo. Il contraddittorio, la ragionevole durata, il diritto di difesa, l’imparzialità del giudice e via dicendo, non vengono alterati e non sarebbe corretto immaginare il processo telematico come un ulteriore modello di processo. Ciò che cambia è la forma espressiva e la rapidità delle comunicazioni. Le ricadute delle modalità telematiche sono molteplici e se ne darà conto nella trattazione dei vari istituti. È bene segnalare fin da ora che, in attesa di un più completo coordinamento normativo, talora le norme del codice (pensate e scritte in relazione al tradizionale supporto cartaceo) non sono coerenti con le esigenze e le possibilità del mezzo informatico. Di qui, vengono taluni squilibri, che dovranno essere progressivamente corretti.

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III. Pubblicità e trasparenza. La giurisdizione è esercitata, secondo l’art. 101 cost., in nome del popolo. Ne segue che le sue modalità di esercizio devono presentare un profilo di pubblicità. Sono pubbliche le udienze in cui si discute la causa (art. 128 c.p.c.) e, se non lo fossero, la sanzione sarebbe quella della nullità. Solo in via eccezionale il giudice, che dirige l’udienza, può disporre che si svolga a porte chiuse, se ricorrono, secondo quanto dispone il codice, ragioni di sicurezza dello Stato, di ordine pubblico o di buon costume; al contempo, il giudice può allontanare chi contravviene alle sue prescrizioni, facendo uso dei poteri di polizia che gli sono conferiti. Sono pubbliche le sentenze: non a caso, il momento in cui la decisione esce dalla sfera di riflessione del giudice e diventa nota alle parti prende il nome tecnico di pubblicazione. Oltre al classico profilo della pubblicità, occorre però prendere in considerazione anche quello della trasparenza. La domanda sociale di trasparenza non sembra avere destato, finora, l’attenzione degli studiosi. Eppure, essa è chiaramente presente a chi appena apra le finestre della casa dei giuristi e getti uno sguardo al mondo esterno. Legislatori non privi di sensibilità politica ne hanno fatto un obiettivo di riforme (come, ad esempio, nel caso della novella tedesca del 2002). Trasparenza significa che il cittadino non giurista deve essere posto in condizioni di comprendere che cosa sta accadendo nel processo. È vero che la funzione di mediazione e di spiegazione può e deve essere svolta dagli avvocati, ma è anche vero che si infittiscono le norme finalizzate a dare al cittadino un’informazione diretta. Non vi è dubbio che il processo debba affrontare la sfida del linguaggio. Un primo livello di questa sfida è quello della comprensione linguistica nei processi transnazionali e che è sempre più sollecitato non solo dalle tradizionali esigenze di autonomia delle minoranze, ma anche dalla sempre più diffusa presenza, nei paesi europei, di minoranze etniche e di gruppi di immigrazione. Un secondo e più delicato livello è quello della comunicazione delle nozioni giuridiche. Certo, non si può compromettere l’esattezza tecnica dei concetti espressi, ma si deve pur ambire a raggiunge-


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re una modalità espressiva che risulti meno criptica e, in definitiva, meno incomprensibile ai non tecnici rispetto all’attuale linguaggio legislativo e giudiziario. I giuristi, troppo abituati a parlare fra loro, devono riuscire a farsi capire anche dai cittadini comuni. L’obbligo costituzionale di motivazione, oltre che in chiave di garanzia, deve essere letto anche da questa prospettiva. Un terzo profilo, molto collegato alla tecnica processuale, è poi quello che investe i rapporti fra il giudice e le parti e che tende ad escludere ogni forma di decisione a sorpresa, o comunque ogni soluzione del caso che non sia stata oggetto di dibattito giudiziario. La novella tedesca del 2002 ha rafforzato un metodo già noto alla Zivilprozessordnung, modificando il par. 139 e passi in questa direzione si trovano anche nel par. 182 a) della ZPO austriaca, come riformato sempre nel 2002. Tuttavia, questa evoluzione non è presente solo negli ordinamenti germanici, tradizionalmente più sensibili all’argomento, ma anche in quelli latini: in questo senso, va ricordato l’art. 16 del c.p.c. francese e va citato il nuovo testo dell’art. 101, comma 2°, c.p.c., già commentato a proposito del principio del contraddittorio. Infine, devono essere segnalate le norme che, in qualche misura, cercano di dare un’informazione diretta al cittadino o di ottenerne o semplicemente di permetterne la partecipazione all’attività processuale. Si pensi all’art. 163, comma 2°, n. 7, c.p.c., che comporta un avviso al destinatario della notifica circa gli effetti della sua contumacia; ma si pensi soprattutto al fitto impiego di modelli prestampati nei regolamenti europei, che in più occasioni consentono al cittadino o all’impresa di svolgere attività senza il necessario ausilio di un avvocato (ad esempio, nel regolamento n. 1896 del 2006, questo accade per la presentazione di una domanda di ingiunzione), oppure alle norme del regolamento n. 1206 del 2001 sull’assunzione delle prove all’estero, per quanto attiene alla diretta assistenza della parte interessata. Tutto il sistema europeo, del resto, è incentrato su questa operazione informativa, di cui è cardine la decisione del 28 maggio 2001 (e successive modificazioni) istitutiva della rete giudiziaria, il cui scopo è quello di mettere a disposizione degli utenti una notevole mole di notizie e dati.

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Certo, è lecito domandarsi quanta efficacia possano avere queste e altre disposizioni analoghe in un contesto normativo in cui è difficile muoversi anche per i più esperti. Tuttavia, l’intenzione è chiara e apprezzabile: la giustizia non può restare un terreno riservato a pochi iniziati, ma deve essere una casa di vetro, leggibile anche da parte dei non addetti ai lavori. Nello stesso tempo, si rafforza l’idea che le questioni procedurali non devono essere il terreno su cui si decide il processo a causa dell’errore di questa o di quella parte, ma che l’obiettivo di fondo è raggiungere una pronuncia sul merito.

16. IL GIUDICATO. INTRODUZIONE. I. Il giudicato come obiettivo del processo di cognizione. L’obiettivo del processo di cognizione consiste nel formarsi di un accertamento sulla controversia: si deve conoscere in maniera certa la risposta che l’ordinamento dà alla lite. Come si è accennato, il sistema ha necessità di dare certezza e quindi l’attività giurisdizionale, a un dato punto, deve arrestarsi, fissandosi su un risultato. Mentre lo storico, che ricerca la verità dei fatti, può continuare a indagare senza limiti di tempo e ciò che restava ignoto in un certo momento può essere scoperto e svelato a distanza di decenni o perfino di secoli, il giudice esercita la sua attività non solo secondo regole, ma anche secondo tempi in qualche modo predeterminati. L’accertamento del giudice si ha per vero: pro veritate habebitur. Il giudicato è l’accertamento stabile e definitivo che si ha al termine del processo di cognizione. È chiaro che i passaggi necessari per ottenere queste certezza e stabilità legali obbediscono ad una scelta convenzionale. Da un punto di vista gnoseologico, nulla suppone che la decisione del secondo giudice sia migliore di quella del primo, ovvero che dopo tre istanze di giudizio si sia ottenuto l’esito preferibile. Semplicemente, è l’ordinamento che, in un dato momento storico, annette stabilità


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all’accertamento ottenuto secondo certe modalità e non altre: modalità che, ovviamente, possono variare. Occorre ricordare qui una regola fondamentale: l’esercizio dell’attività giurisdizionale si può dare una sola volta per una data controversia. Dicendo “una sola volta” si includono, naturalmente, tutti i vari gradi di giudizio. Il motivo è evidente: può esistere una sola verità legale. II. Giudicato in senso formale e in senso sostanziale. Vi sono due diversi significati di giudicato: giudicato in senso formale ed in senso sostanziale. Il giudicato formale riguarda l’incontrovertibilità di ciò che è stato deciso, con il conseguente divieto di ripetere l’accertamento e il giudizio sulla stessa causa, in correlazione con il principio per il quale l’ordinamento prevede una tipologia chiusa di mezzi di impugnazione. In base all’art. 324 c.p.c., si intende passata in giudicato formale la sentenza che non è più attaccabile con i mezzi di impugnazione ordinari, o perché già esperiti, o perché non più esperibili, con l’effetto di impedire la proposizione di un processo identico (“ne bis in idem”). Sono mezzi di impugnazione ordinari: il regolamento di competenza, l’appello, il ricorso per cassazione e la revocazione ordinaria, regolata dai numeri 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c. Il giudicato sostanziale è invece governato dall’art. 2909 c.c.: l’accertamento contenuto in una sentenza passata in giudicato fa stato fra le parti, i loro eredi e aventi causa. Il giudicato sostanziale è la concretizzazione della norma generale ed astratta, ossia il comando normativo dato dal giudice per quel caso concreto; rappresenta la disciplina stabile della controversia, quindi la certezza raggiunta dall’ordinamento, per effetto del formarsi del giudicato formale, che impedisce la riproposizione della domanda. Per questo, non è sbagliato dire che il giudicato è la legge del caso concreto: infatti, l’ordinamento si esprime con comandi generali ed astratti (le norme), che però, in caso di controversia, si concretizza-

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no in una data fattispecie, realizzando, attraverso l’opera del giudice, un comando concreto. Dalla norma (generale, di codice) che sancisce la responsabilità patrimoniale del debitore, si passa alla norma (concreta, contenuta nell’accertamento) che impone ad A di pagare la somma X a B. Il giudicato sostanziale, in quanto legge del caso concreto, prevale anche sulle variazioni legislative. Infatti, se il giudice ha deciso in base alla legge applicabile al momento della decisione, e poi la pronuncia è passata in giudicato, eventi come la successiva abrogazione o la dichiarazione di incostituzionalità della legge ovvero la promulgazione di una diversa legge retroattiva, non travolgono gli effetti di quel giudicato. Le ragioni di certezza sono prevalenti. Sfugge a questa regola solo il caso (peraltro, rarissimo) in cui una legge successiva espressamente disponga la perdita di efficacia dei giudicati formati secondo la disciplina precedente: qui, una legge astratta successiva abroga una legge concreta precedente. Ciò che passa in giudicato non è la sentenza, ma l’accertamento in essa contenuto, in quanto accertamento di merito sul diritto, mentre la sentenza può anche pronunciarsi soltanto su profili diversi dal merito, come i presupposti processuali o le condizioni dell’azione. Pertanto, mentre tutte le sentenze sono idonee a passare formalmente in giudicato, perché la possibilità di proporre impugnazioni ha precisi limiti temporali, non tutte le sentenze danno luogo a giudicato sostanziale, perché non tutte contengono un accertamento di merito. Una decisione sulla competenza, ad esempio, superate tutte le possibili impugnazioni, dà luogo a giudicato formale sul punto, ma non a giudicato sostanziale, perché si è solo stabilito davanti a quale giudice le parti devono litigare e non anche chi ha ragione o torto sulla questione sostanziale. Non si forma giudicato sostanziale dove non si ha un accertamento tendenzialmente stabile. Per questo, le decisioni in materia di volontaria giurisdizione o comunque date rebus sic stantibus non hanno efficacia sostanziale di giudicato, ma sono costantemente modificabili, quando ne mutano i presupposti. Si è detto che costituisce ostacolo per il giudicato formale la proponibilità delle impugnazioni ordinarie. Invece, le impugnazioni stra-


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ordinarie possono essere proposte anche contro le sentenze passate in giudicato formale e contenenti un accertamento passato in giudicato sostanziale, in quanto vi sono casi in cui il mantenimento della certezza comporta un’ingiustizia così forte da risultare intollerabile. In questi casi, peraltro eccezionali, è possibile la caducazione del giudicato. Sono mezzi di impugnazione straordinaria la revocazione straordinaria e l’opposizione di terzo. La revocazione straordinaria (art. 395, comma 1°, nn. 1, 2, 3, 6 c.p.c.) è collegata ad ipotesi gravissime di ingiustizia sostanziale (si pensi al caso di dolo del giudice, con una violazione clamorosa del dovere di imparzialità), mentre l’opposizione di terzo (art. 404 c.p.c.) si ha quando la sentenza ha leso un diritto soggettivo del terzo che non ha partecipato al giudizio, in contrasto con il principio del contraddittorio. III. Giudicato e giurisdizione esecutiva e cautelare. Il giudicato è il risultato del processo di cognizione. Il processo di esecuzione e quello cautelare non danno luogo ad un accertamento definitivo: si può quindi parlare di giurisdizione, ma non di giudicato. Il processo cautelare, in particolare, porta ad un provvedimento provvisorio. Tuttavia, nei casi di tutela anticipatoria, l’ordinamento offre alla decisione una certa stabilità di effetti pratici, che non equivale a giudicato, ma che assorbe molte delle conseguenze concrete di un giudicato vero e proprio. Il processo esecutivo non conduce ad un accertamento e ha effetti giuridicamente fondati, ma materiali; invece il giudicato non ha mai conseguenze materiali dirette. In dottrina, si è impiegata l’espressione di “preclusioni pro iudicato” per indicare gli effetti materiali irreversibili di un’esecuzione forzata. Se, ad esempio, per eseguire una pronuncia in materia di contraffazione commerciale, vengono fisicamente distrutti oggetti contraffatti, è chiaro che quegli oggetti concreti non sono ricostruibili. Tuttavia, è bene non eccedere nel tentativo di esportare il giudicato al di fuori dei confini che gli sono propri e che restano limitati al processo di cognizione.

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IV. Processo moderno e ruolo del giudicato. Il concetto di cosa giudicata è assolutamente centrale nello studio del diritto processuale civile: tradizionalmente, è il perno attorno al quale tutta la materia ruota. Il processo, in un certo modo, ha senso in tanto in quanto riesca a stabilizzare l’ordinamento su un dato risultato: riesca, cioè, a produrre un giudicato e a dare certezza sulla controversia. Il valore della certezza – non lo si sottolinea mai abbastanza – viene preferito dal sistema rispetto al valore della giustizia. Nelle società moderne, tuttavia, la stabilità dell’accertamento giurisdizionale è messa in discussione sotto molti aspetti. In questo testo si darà conto del dibattito sugli effetti delle misure cautelari anticipatorie, non seguite necessariamente da un giudizio di merito, ovvero sulle fattispecie, sempre più frequenti, di decisioni sommarie, che non danno vita a giudicato. In tutte queste situazioni, il problema non è quello di superare o disapplicare gli effetti del giudicato: molto più semplicemente, del giudicato si fa a meno e si costruisce un equilibrio di interessi, a cui la stabilità proviene non dal dictum giudiziale, che in sé ne è privo, ma dall’inerzia delle parti, che di quell’equilibrio si ritengono paghe, e dal decorso del tempo, che seppellirà definitivamente la lite sotto il manto della prescrizione. Il valore dell’accertamento si muove su piani diversi da quello della giustizia, tanto che il giudicato certamente ingiusto non può essere rimosso, pur nella consapevolezza legale (e non meramente soggettiva) della sua ingiustizia, come risulta dall’emblematico e già citato art. 2738, comma 1°, c.c., in tema di giuramento falso. La prospettiva intorno a cui lavorare è quella che si propone di riportare al centro della finalità dell’attività giurisdizionale la giustizia sostanziale e non (o meglio, solo strumentalmente) la gabbia dorata del giudicato.

17. I LIMITI SOGGETTIVI DEL GIUDICATO. I. Efficacia soggettiva del giudicato. Il giudicato sostanziale ha limiti sia soggettivi che oggettivi. Il problema dei limiti soggettivi del giudicato risponde alla se-


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guente domanda: stabilire fra chi ha efficacia il giudicato sostanziale, ossia fra quali soggetti fa stato il giudicato e a chi si rivolge il comando concreto. L’art. 2909 c.c. chiarisce che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato (e quindi ha efficacia, secondo i profili dei limiti oggettivi, che si esamineranno) tra le parti, i loro eredi ed aventi causa. Il punto fondamentale è che il giudicato si forma e si esplica fra le parti del rapporto sostanziale, a prescindere da chi abbia agito nel processo. Occorre quindi brevemente ritornare sul concetto di parte processuale e sul rapporto che intercorre fra la parte sostanziale e chi propone (o contro cui si propone) la domanda nel processo. Si è distinto fra la capacità di agire e la legittimazione processuale. La capacità di agire nel processo corrisponde normalmente alla capacità di agire di diritto sostanziale (art. 75 c.p.c.): chi può fare valere un diritto sostanziale può allo stesso tempo difenderlo in sede giudiziaria. La legittimazione processuale, invece, normalmente spetta a chi ha la disponibilità del diritto, in forza del collegamento tra la titolarità del diritto e dell’azione e allo stesso tempo individua chi, fra i molti soggetti capaci di agire, può fare valere esattamente quel diritto che è reso oggetto della controversia. Come si ricorderà, la legittimazione è una delle condizioni dell’azione. Nella maggior parte dei casi, il titolare del diritto (persona fisica o giuridica), capace di agire, è parte processuale. Gli effetti del giudicato (e quindi, la definizione del diritto che esce dall’accertamento) si producono sul titolare di tale diritto. Diritto sostanziale e processo sono dunque due vasi perfettamente comunicanti. La successione a titolo universale segue questo schema: il successore entra in causa nel luogo del dante causa. L’art. 110 c.p.c. stabilisce che quando la parte viene meno per morte o per altra causa, il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto. Ciò vale per la successione ereditaria, ma anche per tutte le molteplici ipotesi di successione fra enti: dalla fusione fra società alla successione di enti pubblici.

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II. Rappresentanza e sostituzione processuale. Questo schema subisce, però, alcune varianti, nei casi di rappresentanza e sostituzione processuale. Nel caso della rappresentanza (volontaria o legale), un soggetto agisce (sostanzialmente e processualmente) in nome e per conto di un altro, sul quale però ricadono gli effetti dell’accertamento giurisdizionale (art. 75, comma 2°, c.p.c.). È evidente che qui molto dipende dalla struttura del diritto sostanziale. Si avrà allora una rappresentanza volontaria, basata su una procura; ovvero, una rappresentanza istituzionale per le persone giuridiche, private e pubbliche, che agiscono per mezzo del legale rappresentante; una rappresentanza legale dei soggetti minori o incapaci; le rappresentanze legali speciali, come quella del curatore fallimentare. È sempre necessario verificare che chi agisce in nome e per conto del rappresentato (persona fisica o ente che sia) disponga di un vero potere di rappresentanza: se così non fosse, la domanda giudiziale (o la resistenza in giudizio) risulterebbe carente di una condizione dell’azione e non potrebbe essere accolta. La rappresentanza processuale va tenuta ovviamente distinta dalla difesa o rappresentanza tecnica. Infatti, la rappresentanza processuale altro non è, se non la traduzione nel processo della rappresentanza sostanziale. La società X non potrebbe concludere un contratto, se non in persona dell’amministratore che ne ha la legale rappresentanza; allo stesso modo, non può stare in giudizio se non in persona di quell’amministratore. Invece, la difesa o rappresentanza tecnica, ossia la designazione di un soggetto (il difensore, l’avvocato) abilitato in via esclusiva a compiere gli atti del processo, che la parte non può compiere a causa del divieto di difendersi da sola (come meglio si vedrà), è un fenomeno strettamente collegato al processo e che non sussiste al di fuori del processo. Che abbia o no controversie giudiziali pendenti, la società X è sempre rappresentata dall’amministratore A; solo se ha controversie pendenti (e finché sono pendenti) essa sarà rappresentata in giudizio dall’avvocato B, scelto dall’amministratore A. Un’ipotesi ancora diversa è quella, regolata dall’art. 81 c.p.c., della sostituzione processuale (da taluno chiamata anche legittima-


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zione straordinaria): un soggetto è abilitato ad agire in giudizio in nome proprio per far valere un diritto altrui. Qui si è al di fuori del modus operandi della rappresentanza sostanziale e ci si colloca in un ambito solo processuale. La sostituzione è possibile solo nei casi previsti dalla legge: essenzialmente, quelli disciplinati dagli artt. 108 e 111 c.p.c. Nel caso della rappresentanza, gli effetti dell’accertamento e del giudicato si esplicano non sul rappresentante, ma sul rappresentato. Se il Comune di Y è condannato a risarcire ad A un danno, il relativo esborso esce dalle casse municipali e non da quelle del Sindaco legale rappresentante. Nel caso della sostituzione, invece, gli effetti si producono sia sul sostituto, che sul sostituito. Vediamo le ipotesi previste dalle due norme citate. Così recita l’art. 108: se il garante compare e accetta di assumere la causa in luogo del garantito, questi può chiedere, qualora le altre parti non si oppongano, la propria estromissione. Questa è disposta dal giudice con ordinanza; ma la sentenza di merito pronunciata nel giudizio spiega i suoi effetti anche contro l’estromesso. La norma suppone che A agisca contro B, il quale affermi di essere garantito dal terzo C. Se C non contesta il rapporto di garanzia (e quindi, di essere tenuto a pagare al posto di B, se B sarà condannato), C può entrare in causa al posto di B. C non rappresenta B, ma lo sostituisce. Se A perde la causa, gli effetti si esplicheranno sia sul patrimonio di B che su quello di C: nessuno dei due deve pagare. Se A vince la causa, B sarà condannato, ma C pagherà: gli effetti ricadono sul patrimonio di entrambi. L’art. 111 affronta invece il caso della successione a titolo particolare nel diritto controverso. Conviene partire, ancora una volta, dal testo della norma. Se nel corso del processo si trasferisce il diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti originarie. Se il trasferimento a titolo particolare avviene a causa di morte (è l’ipotesi del legato), il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto. In ogni caso il successore a titolo particolare può intervenire o essere chiamato nel processo e, se le altre parti vi consentono, l’alienante o il successore universale può esserne estromesso. La sentenza pronunciata contro questi ultimi spiega sempre i

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suoi effetti anche contro il successore a titolo particolare ed è impugnabile anche da lui, salve le norme sull’acquisto in buona fede dei mobili e sulla trascrizione. Vediamo ora un esempio. A agisce in rivendica contro B, affermando di essere proprietario del fondo Y. Durante il giudizio, B vende il fondo a C. Proprietario del fondo (e quindi, parte sostanziale) è ora C. Tuttavia, la legge impone a B (salva diversa volontà di C) di restare in giudizio per contrastare la pretesa di A. B non rappresenta C, ma lo sostituisce. Se A vince la causa, gli effetti si producono sia su C, che perde il bene acquistato, sia su B, che dovrà tenere indenne C dall’evizione e restituirgli il prezzo pagato. Pur nella varietà delle ipotesi, si può affermare comunque che, sia in caso di sostituzione processuale, sia in caso di rappresentanza, il giudicato ricade sempre sulla parte sostanziale, ossia sul sostituito o sul rappresentato. Nel caso della sostituzione, si aggiunge l’effetto anche per il sostituto processuale. III. Gli effetti del giudicato nei confronti dei terzi. Occorre poi chiedersi che effetti ha il giudicato sostanziale per i terzi. Secondo l’art. 2909 c.c., il giudicato ha effetto solo tra le parti e non ha effetti diretti rispetto ai terzi (“res inter alios iudicata tertio neque nocet neque prodest”). Tuttavia, effetti indiretti si possono produrre. Prima di tutto, vanno considerati gli effetti derivanti dalla “verità storica” della sentenza. Per il solo fatto di esistere, la sentenza esprime un atteggiamento dell’ordinamento, di cui tutti i terzi devono tenere conto, prendendo atto dei comandi in essa contenuti ovvero delle modifiche che essa apporta. Poi, vi sono i c.d. effetti riflessi: vale a dire, le situazioni di vantaggio o svantaggio fattuale che ricadono sul terzo come conseguenza del giudicato fra altri soggetti. Ancora una volta, si assiste ad un diverso modo di operare fra diritti assoluti e diritti obbligatori. In particolare, nei diritti obbligatori, l’accertamento del rapporto può comportare conseguenze patrimoniali anche su soggetti che


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a quel rapporto erano estranei. Ad esempio, la sentenza che condanna un soggetto a pagare il suo creditore con tutto il suo patrimonio priva gli altri creditori del pagamento. Normalmente, gli effetti riflessi non ricevono tutela. Tuttavia, l’ordinamento prevede almeno un caso di emersione degli interessi colpiti. Secondo l’art. 404, comma 2°, c.p.c., l’opposizione di terzo revocatoria consente al terzo di mettere in discussione sentenze passate in giudicato che hanno su di lui un riflesso negativo qualora siano l’effetto di frode (dolo o collusione) a suo danno. Nel caso di sentenza che pregiudica i diritti di un terzo non intervenuto nel processo, l’accertamento in essa contenuto ha effetto vincolante limitato alle parti del processo e non è opponibile al terzo, in quanto la sentenza non si è pronunciata sul suo diritto. Il terzo pregiudicato nel suo diritto può sia esercitare un’azione di mero accertamento del suo diritto, sia agire ex art. 404, comma 1°, c.p.c., con opposizione di terzo semplice: con tale rimedio egli non mira soltanto ad affermare il proprio diritto, ma anche a porre nel nulla la sentenza che riconosca tale diritto ad altri. Bisogna poi considerare i casi di efficacia ultra partes della sentenza o di estensione degli effetti del giudicato. Infatti, in base alla struttura del diritto sostanziale, vi sono casi in cui il giudicato fra due parti espande necessariamente i suoi effetti oltre le parti del rapporto. Ad esempio, A impugna una delibera assembleare della società X e ne ottiene l’annullamento. La situazione giuridica così modificata ha effetti anche nei confronti dei soci B, C e D, rimasti spettatori della lite, ma che, in quanto soci, sono coinvolti dal nuovo assetto. In non pochi casi, quando per il diritto materiale sussiste fra due rapporti una relazione di pregiudizialità-dipendenza, gli effetti del giudicato sul rapporto pregiudiziale si ripercuotono sul rapporto pregiudicato. Vi sono poi casi in cui l’ordinamento permette un’estensione anomala del giudicato. Si pensi all’art. 1306 c.c. La norma prevede che la sentenza pronunciata fra il creditore e uno dei debitori in solido o tra il debitore e uno dei creditori in solido non ha effetto contro gli altri debitori o contro gli altri creditori: e fin qui, si tratta di una normale applicazione delle regole sui limiti soggettivi del

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giudicato. Il comma 2°, però, aggiunge che gli altri debitori possono opporla al creditore, salvo che sia fondata su ragioni personali del condebitore. Evidentemente, essi riterranno di avvalersene se favorevole: se, cioè, la decisione abbia respinto la domanda del creditore, ovvero ne abbia ridotto l’ammontare al punto da renderla conveniente. Analogamente, gli altri creditori possono fare valere la sentenza contro il debitore, salve le eccezioni personali che questi può opporre a ciascuno di essi. Ne segue che il giudicato qui si estende soggettivamente oltre le parti, a seconda dell’esito della causa (secundum eventum litis). Il fenomeno qui accennato non va confuso con quello del litisconsorzio necessario, che si descriverà più avanti. Nel litisconsorzio necessario, vi sono più soggetti che sono necessariamente parte del processo, in quanto parti del rapporto sostanziale: se questi soggetti non sono stati coinvolti, il processo non può essere deciso e un’eventuale sentenza sarebbe inesistente. Nel caso dell’efficacia ultra partes, invece, i terzi possono legittimamente restare fuori dal processo e la sentenza è data correttamente non nei loro confronti: tuttavia, essi ne ricevono, in modo più o meno intenso, gli effetti. Infine, va esaminata la c.d. efficacia erga omnes del giudicato nei rapporti di status. Si vuole intendere con ciò, non certo che esista un giudicato nei confronti di tutti (il giudicato, infatti, è strutturalmente relativo alle parti della controversia), ma che il giudicato, pur se originato in un processo fra due parti, ha effetti che si impongono a tutti i cittadini. Se A è riconosciuto figlio di B, ciò è vero anche per ogni terzo: per la scuola che A frequenterà, per i rapporti ereditari con gli altri figli di B e via dicendo. Queste conclusioni devono però essere poste a confronto con le norme costituzionali sul processo e, in particolare, con l’art. 111 cost., che afferma i principi del contraddittorio e del giusto processo, come condizione per l’esercizio legittimo della giurisdizione. Ora, senza voler negare che, in base al diritto materiale, il giudicato possa avere effetti anche nei confronti di chi non è stato parte del processo in cui si è formato l’accertamento e quindi non si è potuto difendere, si deve rilevare che i limiti del giudicato hanno valenza costituzionale: nel senso che, tendenzialmente, il giudicato non


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può avere efficacia se non fra coloro che hanno partecipato al giudizio in contraddittorio e che ogni estensione deve essere interpretata in modo restrittivo.

18. I LIMITI OGGETTIVI DEL GIUDICATO. I. L’oggetto del giudicato. Il problema dei limiti oggettivi del giudicato risponde alla seguente domanda: che cosa (vale a dire, quale materia oggetto di controversia) deve ritenersi definitivamente accertata? Questo aspetto è di notevole importanza sotto il profilo dell’attività del giudice. Può accadere, infatti, che la parte insoddisfatta dell’esito della causa riproponga (eventualmente, in forme in qualche modo mascherate) la stessa domanda già avanzata, chiedendo quindi un secondo (e inammissibile) esercizio dell’attività giurisdizionale sulla medesima controversia. Ora, la controparte rileverà che quella domanda è già stata definitivamente decisa, sollevando pertanto l’eccezione di cosa giudicata. La parte istante replicherà che quell’aspetto, invece, non era stato effettivamente deciso. Il giudice dovrà allora stabilire quali erano i limiti oggettivi del primo giudicato, vale a dire ciò che è stato definitivamente accertato e ciò che invece è ancora possibile oggetto di dibattito. Il punto di partenza è costituito dall’individuazione del profilo oggettivo dell’azione (dato dal petitum e dalla causa petendi). Chi propone la domanda tende ad accertare una certa situazione e il giudicato, tendenzialmente, corrisponde alla medesima quantità di materia (si ricordi il principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato). Essenzialmente, il giudicato si forma sull’oggetto della domanda. In dottrina, si è ritenuto da alcuni che il giudicato riguardi il rapporto giuridico o gli effetti del rapporto. Occorre quindi individuare il fatto costitutivo e i fatti lesivi, posti a fondamento della domanda (e, naturalmente, di eventuali domande riconvenzionali). È utile ricordare qui che l’azione suppone l’allegazione di fatti.

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Al riguardo, va detto che, mentre nei diritti obbligatori il fatto costitutivo e il fatto lesivo coincidono (ad ogni fatto lesivo corrisponde una diversa domanda), nei diritti assoluti non è così: una pluralità di fatti lesivi mette in gioco un solo ed unico diritto. Gli effetti del giudicato saranno, pertanto, molto diversi. Se A chiede accertarsi il suo diritto di proprietà sul fondo F nei confronti di B (ad esempio, assumendo di averlo acquistato) e la sua domanda viene respinta con sentenza passata in giudicato, resta asseverato che, per i fatti anteriori alla pronuncia, il proprietario del fondo F è B e non A. Qualora più tardi A affermasse non di avere acquistato, ma di avere usucapito il fondo F, non potrebbe conseguire una seconda pronuncia, perché è già passato in giudicato l’accertamento del diritto di proprietà in capo a B. L’attore chiede l’accertamento di un diritto e il giudicato stabilirà se quel diritto esiste o non esiste. La dottrina tradizionale ha espresso questo profilo con formule che lasciano intendere come la realtà giuridica sia profondamente modificata dal giudicato. Il giudicato, si dice, “copre” il dedotto e il deducibile: ossia, i fatti lesivi specificati e quelli, anteriori, che avrebbero potuto essere introdotti in causa e non lo sono stati. Qui si apre un profilo che va attentamente considerato. La certezza suppone che i giochi giudiziari, ad un certo momento, si chiudano; se circostanze importanti o perfino decisive sono rimaste fuori dalla cognizione del giudice, ciò non impedisce che si raggiunga la stabilità degli effetti. Il dedotto richiama la chiarezza delle posizioni, la razionalità dell’accertamento, l’oggettività di una verità giudiziaria che forse si è formata faticosamente, ma che rappresenta il massimo livello possibile di approssimazione ai fatti. Ma sul dedotto, si allunga l’ombra del deducibile, che porta con sé un’indefinita serie di accadimenti che avrebbero potuto essere ma non erano stati, che allude a potenzialità inespresse, che suggella la fallibilità di avvocati incapaci di presentare le difese a tempo e luogo. Il giurista non può permettersi di ritornare sui propri passi e la ricerca del tempo perduto non gli appartiene. Certo, il giudicato non copre, invece, ciò che non era ancora deducibile (ad esempio, i fatti successivi).


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II. Giudicato implicito e giudicato esterno. Il giudice, per giungere alla decisione, deve compiere una serie di passaggi logici e affrontare, anche implicitamente, determinati aspetti (ad esempio, la verifica della sussistenza dei presupposti processuali). La definizione, con forza di giudicato, di un dato punto, suppone anche la definizione dei punti pregiudiziali, anche se non espressamente discussi. Si parla quindi di giudicato implicito e di giudicato interno. Si parla di giudicato implicito per affermare che il giudicato “copre” non solo l’oggetto diretto della pronuncia, ma anche tutto ciò che ne rappresenta il fondamento logico-giuridico, anche se non sia stato discusso in causa. Il giudicato implicito è una costruzione giurisprudenziale, rispetto alla quale la dottrina, basandosi specialmente sull’art. 34 c.p.c., ha talora dato una lettura parzialmente diversa. Si è rilevato, in particolare, che le questioni pregiudiziali di merito sono coperte dal giudicato solo se, per legge o per volontà delle parti, il giudice vi abbia esteso la sua diretta cognizione; diversamente, si tratterebbe di valutazioni rilevanti incidenter tantum. Altra dottrina ritiene che sia sempre comunque coperta la “pregiudizialità logica” (distinta da quella meramente “tecnica”), che comprende tutte le questioni, la soluzione delle quali in modo non coerente con la decisione sul merito ne avrebbe impedito la pronuncia. La prima tesi è preferibile, nel senso che l’estensione implicita del giudicato si deve coordinare con tutto ciò che rappresenta la volontà delle parti di litigare su una data questione e non su altre: volontà espressa dai principi del monopolio della tutela giurisdizionale, del contraddittorio, della trasparenza, della gestione degli interessi. Come si è visto, un ruolo importante è svolto dal potere del giudice di sollevare eccezioni d’ufficio. Ne è riprova il dibattito circa la rilevabilità d’ufficio o no dell’eccezione di nullità del contratto nell’ambito delle impugnazioni negoziali. Se una parte domanda la risoluzione del contratto e l’altra si difende solo sul piano dell’inadempimento (con la conseguenza che entrambe ne affermano la validità originaria), ci si chiede se il giudice, pur ritenendo che non vi siano gli estremi per la risoluzione (il che manterrebbe l’efficacia del rapporto), possa d’ufficio rilevare la nullità. Se si risponde di

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no, rispettando rigorosamente la delimitazione dei confini della lite operata dalle parti, il giudicato si verrebbe a formare solo sul punto della risoluzione: il che consentirebbe di riproporre la questione della nullità in un altro giudizio. Le sezioni unite della Cassazione, invece, si sono pronunciate di recente in senso affermativo, perché hanno ritenuto che la pronuncia sulla risoluzione darebbe per ammessa (e quindi coperta dal giudicato) la validità del contratto: ne segue che l’eccezione di nullità va sollevata nel giudizio sulla risoluzione, anche nell’ottica di regolare in modo completo e una volta per tutte la controversia. Questo orientamento giurisprudenziale costituisce probabilmente una forzatura, ma è sintomatico della complessità del problema. È comunque evidente che il giudicato si forma su ciò che, sia pure implicitamente, è stato deciso. Invece, non si ha giudicato sulle questioni che il giudice ha esplicitamente dichiarato o implicitamente considerato assorbite, nel senso che egli è pervenuto alla decisione senza considerarle. La nozione di giudicato esterno ha a sua volta notevole importanza. Per giudicato esterno si intende la decisione, emessa dal giudice con forza di giudicato nella causa X, che fissa in modo stabile l’accertamento su alcuni elementi della controversia sottoposta al giudice nella successiva causa Y. Le sentenze dei giudici di merito (ad esempio, penali o amministrativi), passate in giudicato, che abbiano statuito su profili sostanziali della controversia, sono suscettibili di acquistare autorità di giudicato esterno, diventando incontestabili nei giudizi fra le stesse parti, relativi a questioni identiche rispetto a quelle già esaminate e coperte dal giudicato. Così, un provvedimento dichiarato legittimo dal giudice amministrativo, con sentenza passata in giudicato, non può poi essere oggetto di una successiva domanda di illegittimità e disapplicazione dinanzi al giudice ordinario. Si ritiene oggi che i principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata consentano al giudice di rilevare anche d’ufficio e anche in sede di impugnazione l’esistenza di un eventuale giudicato esterno (se, ovviamente, ciò risulta dagli atti del processo).


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III. L’efficacia del giudicato penale. Un cenno va dato all’efficacia delle sentenze penali sulle azioni civili risarcitorie o restitutorie conseguenti al reato. Al riguardo, va detto che è tramontata la concezione della superiorità della giurisdizione penale su quella civile, che ha ceduto il passo ad un sistema più articolato, dopo la riforma del 1988 del codice di procedura penale. Secondo l’art. 651 c.p.p., la sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale. La stessa efficacia ha la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata a norma dell’art. 442, salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato. In base all’art. 652 c.p.p., la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso dal danneggiato o nell’interesse dello stesso, sempre che il danneggiato si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile, salvo che il danneggiato dal reato abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell’art. 75, comma 2°, c.p.c. Ha la medesima efficacia la sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata a norma dell’art. 442 c.p.p., se la parte civile ha accettato il rito abbreviato. IV. Tendenze europee. Come si vede, specialmente nei diritti assoluti, il giudicato ha un’estensione che può essere più ampia rispetto alle questioni, di fatto e di diritto, effettivamente discusse e rese oggetto di contraddittorio. Le conseguenze sono importanti sul patrimonio giuridico delle parti.

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Tuttavia, è bene sapere che emerge una tendenza europea di tipo diverso, che tende a restringere gli effetti del giudicato, limitandoli ai punti di fatto e di diritto effettivamente discussi. Di questa tendenza sono tracce l’art. 29 del regolamento n. 1215/12, nell’interpretazione della Corte di giustizia e, in qualche misura, le sentenze con cui la medesima Corte ha ritenuto inefficaci sentenze italiane passate in giudicato, in casi di contrasto con il diritto europeo (sentenza Lucchini del 18 luglio 2007; sentenza Olimpiclub del 3 settembre 2009). Di più, la stessa forza vincolante del giudicato sostanziale è posta in discussione, almeno in una certa misura. Nel caso Lucchini, la Corte di giustizia ha affermato che una norma come l’art. 2909 c.c. deve cedere di fronte all’applicazione di misure comunitarie e che il giudicato nazionale non può fungere da ostacolo alla piena efficacia del diritto europeo. Il caso di specie presentava peculiarità tali da suggerire una lettura prudente del principio affermato dalla Corte: tuttavia, un varco importante è stato aperto e l’intangibilità della cosa giudicata non può ora essere affermata come un dato assoluto. V. L’eccezione di cosa giudicata. L’ordinamento, nel suo obiettivo di dare certezza, cerca di evitare il contrasto di giudicati, vale a dire la situazione in cui, sullo stesso diritto, si formino due accertamenti contrastanti. I mezzi per evitare questo rischio sono l’eccezione di litispendenza, l’eccezione di cosa giudicata, la sospensione del processo, la revocazione ordinaria ex art. 395, n. 5, c.p.c. Mediante l’eccezione di litispendenza si cerca di evitare, sul sorgere, che nascano due processi identici, decisi da due giudici diversi (ciò che potrebbe portare a decisioni non uguali e quindi ad un contrasto). L’eccezione di cosa giudicata ha, invece, un obiettivo diverso: essa mira a paralizzare un’azione proposta dopo il passaggio in giudicato di una data sentenza, rilevando che il giudice ha già esercitato il suo potere di ius dicere esattamente sulla medesima domanda. Ovviamente, stabilire se la domanda è identica o no dipende dalle regole sui limiti soggettivi e soprattutto oggettivi del giudicato.


Capitolo I

L’eccezione di cosa giudicata è strettamente legata al profilo dell’unicità dell’esercizio del potere giurisdizionale in rapporto ad una data controversia: per questo, è rilevabile non solo su iniziativa di parte, ma anche d’ufficio. VI. Contrasto fra giudicati e contrasto di giurisprudenza. Contrasto fra giudicati è cosa diversa dal contrasto di giurisprudenza, situazione certo non gradita ma tollerata dall’ordinamento. Il contrasto fra giudicati si ha quando l’identica causa fra A e B è decisa in un modo dal giudice X e in un modo diverso dal giudice Y. Contrasto di giurisprudenza si ha invece quando la causa fra A e B è decisa del giudice X in modo diverso da come la causa fra C e D (diversa, ma di identiche basi giuridiche) è decisa dal giudice Y. Nel primo caso, manca la certezza dell’ordinamento su un identico rapporto sostanziale. Nel secondo caso, per ciascuno dei due rapporti si ha una soluzione certa, ma manca totalmente la prevedibilità nell’interpretazione della norma in un eventuale terzo caso. Il contrasto di giurisprudenza è affrontato dall’art. 374 c.p.c., in base al quale, in caso di soluzioni diverse date dalle sezioni semplici della Corte di cassazione, la questione è sottoposta all’esame delle sezioni unite, vale a dire di una composizione allargata e più autorevole della stessa Cassazione. Di fatto, il contrasto di giurisprudenza è un dato frequente, che pregiudica nel tempo la certezza del diritto. A questo proposito, la riforma del 2006 ha modificato il citato art. 374, sancendo l’obbligatorietà, per le sezioni semplici, di attenersi al principio di diritto enunciato dalle sezioni unite: infatti, le sezioni semplici, se non ritengono di condividere tale principio, non possono decidere il ricorso in maniera difforme, ma devono rimettere la relativa decisione alle sezioni unite. L’ordinamento cerca di evitare, per quanto possibile, il contrasto di giurisprudenza, anche con altri strumenti. Uno di questi è la connessione impropria, che permette la trattazione in un unico processo di più cause prive di collegamento oggettivo fra loro, ma caratterizzate dalla medesima questione di diritto. Un altro è l’a-

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zione di classe, che consente a molti soggetti di fare convergere le proprie domande, ottenendo un risultato omogeneo. In materia di lavoro, opera l’art. 420-bis c.p.c., che permette di risolvere in modo unitario le vertenze che coinvolgono l’interpretazione di un medesimo aspetto di contratti o accordi collettivi. Manca, tuttavia, una generale considerazione delle azioni seriali: vale a dire, di quelle azioni, in sé diverse, ma che si ripropongono con ampia diffusione relativamente a punti di diritto comuni. È evidente che una riflessione su questi profili potrebbe portare ad utili risultati dal punto di vista della ragionevole durata delle cause e dell’economia complessiva delle risorse. IL DISEGNO DI LEGGE DELEGA - LA SPECIALIZZAZIONE DEL GIUDICE Il d.d.l. accelera la tendenza legislativa a favorire la specializzazione del giudice, operando su due diversi livelli. In primo luogo, viene ampliata la competenza delle sezioni specializzate per l’impresa, ridenominate “sezioni specializzate per l’impresa e il mercato”. A queste sezioni (che restano invariate nel numero e nella ubicazione) vengono infatti attribuite nuove competenze, fra cui quelle in materia di concorrenza sleale, di pubblicità ingannevole, di azioni collettive risarcitorie e di contratti pubblici di lavori, servizi o forniture, in quanto rientranti nella giurisdizione ordinaria. L’intervento ha il positivo effetto di superare talune diseconomie organizzative presenti nella vigente organizzazione della giustizia. Ancora più radicale e significativo è il secondo intervento. Infatti, vengono istituite presso i tribunali e le corti d’appello sezioni specializzate per la persona, la famiglia e i minori, con la contestuale soppressione del tribunale per i minorenni. Le ricadute sull’ordinamento giudiziario sono rilevanti e altrettanto importanti sono quelle sulla competenza: viene superata la faticosa e mai risolta dicotomia fra tribunali ordinari e tribunali per i minorenni nella materia del diritto di famiglia e minorile, con un auspicabile passo avanti in termini di effettività della tutela. È utile segnalare che le nuove sezioni sono destinate ad operare nella composizione prevista per i tribunali per i minorenni, vale a dire con l’apporto degli esperti laici.


Capitolo I

IL PROCESSO COME COMPLESSO DI RELAZIONI Al termine di questo primo blocco di argomenti, si può brevemente ritornare sulla nozione di processo. Del processo, si è messa in luce la struttura semplice (due parti che si rivolgono ad un terzo imparziale per definire una controversia fra di loro), la strumentalità rispetto alla decisione sostanziale e alla tutela dei diritti, il carattere di contenitore ampio di più liti, la visualizzazione esterna come catena di atti e di incontri fra le parti e il giudice. Così pure, si è preso atto che il processo esprime una situazione intrinsecamente dialettica e contraddittoria: l’accoglimento delle domande di una parte suppone la soccombenza dell’altra. Tentando di riassumere questi vari aspetti, si può dire che il processo è (non diversamente da altre situazioni della vita umana, regolate o no dal diritto) un complesso di relazioni interpersonali. Queste relazioni sono caratterizzate fra loro in modo diverso: si pensi alle coppie attore-convenuto, parti-giudice, giudice-ausiliari, parte-difensore, giudice-difensore, giudice-testimone. Caratteristica comune è la giuridicità, nel senso che ogni relazione è tale perché così modellata dal diritto e suppone l’esercizio di diritti e doveri. Per il resto, ognuna si atteggia in modo diverso e suppone di essere riempita e sostanziata da comportamenti umani coerenti: l’imparzialità del giudice rispetto alle parti, il dovere di verità del testimone, la lealtà dell’avvocato verso la parte, la correttezza nel conflitto fra attore e convenuto. La natura relazionale del processo non è mai stata effettivamente approfondita: la concezione del rapporto giuridico processuale ne metteva in luce solo l’involucro comune, ma non ne considerava le peculiarità. La principale conseguenza operativa di questo modo di guardare al processo è che l’incoerenza interna alla relazione (e quindi una relazione vissuta in modo inadeguato) comporta l’incapacità del processo di conseguire il suo risultato: quello di risolvere la controversia in modo conforme a diritto. Per continuare nell’esempio, il giudice parziale, il testimone falso, l’avvocato colluso, l’attore o il convenuto fraudolento non soltanto pongono in essere un comportamento giuridicamente sanzionabile, ma snaturano radicalmente la relazione che li concerne. Più semplicemente, anche il giudice che non studia a fondo il fascicolo o l’avvocato che si presenta all’udienza impreparato danno luogo ad una relazione incoerente. Tradotto in concreto, questo significa che la componente umana è decisiva perché il processo civile funzioni. Nessuna riforma e nessuna alchimia potranno ottenere risultati che dipendono dalla quotidiana applicazione degli uomini.

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Capitolo II LE CONDIZIONI DI SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Le nozioni finora studiate costituiscono la base fondamentale per la nostra materia: al punto che tutto quello che si dirà, di qui in avanti, è in qualche modo una traduzione esplicita di ciò che si è esaminato. Si tratta ora di ripercorrere, più da vicino e con attenzione alle norme positive del primo libro del codice di procedura civile, il percorso che considera dapprima il giudice e la giurisdizione, poi le parti e le modalità dell’azione e infine il giudice e le parti insieme, vale a dire le norme generali sul processo. Il primo punto di questo percorso è la questione di giurisdizione.

19. LA QUESTIONE DI GIURISDIZIONE. IL REGOLAMENTO DI GIURISDIZIONE. I. La questione di giurisdizione. Si ha una questione di giurisdizione quando, nel corso del processo, sorge un contrasto fra le parti, ovvero si manifesta un diverso punto di vista del giudice, circa la sussistenza o no della giurisdizione in capo all’organo adito.


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Le condizioni di svolgimento del processo

La giurisdizione è, in senso logico, il primo presupposto processuale, nel senso che il giudice, per cominciare a prendere in considerazione il caso, deve verificare di essere investito del potere di deciderlo. Quindi la giurisdizione è il primo punto che, concettualmente, va deciso. Occorre chiarire, però, che si tratta di una priorità logica, non temporale, anche se l’ordinamento cerca di facilitarne la risoluzione prima che venga affrontato il merito della causa. In base all’art. 37 c.p.c., la questione di giurisdizione può sorgere in ogni stato e grado del processo e può essere sollevata dalle parti o d’ufficio dal giudice. L’espressione “in ogni stato e grado” allude ad ogni istanza e fase processuale, e suppone quindi che tale questione possa essere sollevata per la prima volta anche in sede di appello o di giudizio di cassazione. L’importanza politica della questione contrasta quindi con il momento in cui deve essere risolta (che dovrebbe essere il più possibile anticipato). Alcune recenti sentenze delle sezioni unite della Cassazione hanno però affermato che ogni pronuncia di merito, sebbene non accompagnata da alcuna espressa statuizione sulla giurisdizione, implica di regola la preventiva verifica della potestas iudicandi da parte del giudice che l’ha emessa. Ne segue che, data una sentenza di primo grado, la mancata proposizione in appello della questione di giurisdizione implica un comportamento incompatibile con la volontà di dedurre il difetto di giurisdizione. Questo comportamento va valutato come acquiescenza, suppone la formazione del giudicato sul punto della giurisdizione e ne preclude sia la proponibilità sia la rilevabilità d’ufficio in Cassazione. La Cassazione ha, in qualche modo, corretto praeter legem l’interpretazione dell’art. 37 c.p.c., affermando che la rilevabilità del difetto di giurisdizione, anche d’ufficio e in qualsiasi stato e grado del giudizio, deve tenere conto dei principi (di peso costituzionale) di economia processuale e di ragionevole durata del processo, con una serie di conseguenze, fra le quali è saliente quella che permette il rilievo officioso della giurisdizione soltanto fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato, anche implicito. In questo modo, la Cassazione è venuta a togliere importanza concreta al punto della giurisdizione. Occorre chiedersi da chi viene risolta la questione di giurisdizione.


Capitolo II

Ogni giudice di merito ha il potere di decidere sulla propria giurisdizione. Tuttavia, potrebbero sorgere conflitti positivi o negativi di giurisdizione: quindi, in definitiva, la decisione deve spettare ad un solo organo, individuato nella Cassazione a sezioni unite. La questione di giurisdizione può sorgere in diversi ambiti, in relazione a tutti i possibili limiti al potere giurisdizionale del giudice ordinario. Pertanto, si può trattare dell’ambito interno, e quindi dei rapporti fra giudice ordinario e giudici speciali, ovvero dei conflitti di attribuzione fra il giudiziario e la pubblica amministrazione; di quello internazionale, in relazione alle diverse sfere di potere dei sistemi giudiziari nazionali (e con coloritura sensibilmente diversa a seconda che ci si trovi all’interno dell’Unione europea o no); di quello dei rapporti con ordinamenti speciali, sia di sistemi non statuali (come nel caso dell’ordinamento canonico), sia di sistemi creati dall’autonomia privata. La questione di giurisdizione può essere risolta o attraverso la trafila delle impugnazioni ordinarie oppure in via anticipata. Vediamo il primo profilo. Il giudice chiamato a decidere la causa statuisce (sempre implicitamente, talvolta esplicitamente) sulla sussistenza della propria giurisdizione. Se le parti sono d’accordo e non impugnano, dopo che la questione è stata apertamente sollevata, sul punto si forma giudicato e non se ne può più discutere. Se, invece, il punto è stato deciso per implicito, senza che la questione sia emersa formalmente, e le parti non propongono appello, il testo dell’art. 37 c.p.c. consentiva al giudice dell’impugnazione di sollevare la questione d’ufficio. Tuttavia, la nuova linea giurisprudenziale inaugurata dalla Cassazione induce a ritenere che soltanto un’espressa iniziativa di parte permetta l’intervento del giudice. In ogni caso, contro la decisione esplicita, è possibile proporre dapprima l’appello e poi il ricorso per cassazione, portando così la questione dinanzi alla suprema Corte, che ha l’ultima parola in proposito. II. Il regolamento preventivo di giurisdizione. I lunghi tempi per compiere l’ordinario percorso delle impugnazioni inducono, però, il legislatore a facilitare la risoluzione in via anticipata della questione di giurisdizione, a mezzo di un apposi-

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to strumento: il regolamento preventivo di giurisdizione (art. 41, comma 1°, c.p.c.). Il regolamento non è un mezzo di impugnazione: infatti, può essere proposto solo prima che sia stata emessa una decisione, di merito o di rito, anche non definitiva, su una qualunque parte della materia del contendere. Questa limitazione ha una spiegazione chiara: se il giudice si pronuncia nel merito, o anche su un altro presupposto processuale, significa che ha il potere di giudicare e che, quindi, afferma implicitamente di avere giurisdizione. È opportuno notare che il regolamento può essere proposto non solo dal convenuto, al fine di contrastare la scelta della giurisdizione effettuata dall’attore, ma anche dallo stesso attore che, di fronte ad un’eccezione di giurisdizione, può avere interesse a stimolare una rapida pronuncia della Cassazione. Dal punto di vista procedurale, il regolamento ha l’obiettivo di investire le sezioni unite della Cassazione della decisione sul punto della giurisdizione in rapporto alla singola causa. Si propone con ricorso e, sul piano del procedimento, si sviluppa secondo linee simili a quelle del comune ricorso in cassazione, che saranno esaminate a suo luogo. Va subito precisato che la decisione assume le forme dell’ordinanza resa in camera di consiglio (art. 375 c.p.c.). In particolare, il presidente della Corte, se non è possibile definire la questione in modo manifesto, richiede al pubblico ministero le sue conclusioni scritte. Le conclusioni e il decreto del presidente che fissa l’adunanza sono notificati, almeno venti giorni prima, agli avvocati delle parti, che possono presentare memorie non oltre cinque giorni prima e chiedere di essere sentiti, se compaiono. Il regolamento di giurisdizione aveva, nella previgente legislazione, effetto automaticamente sospensivo del giudizio di primo grado da cui scaturiva. Purtroppo, si era creata una prassi abusiva, per cui talune parti, allo scopo di ottenere una dilazione dei tempi di decisione del processo, proponevano regolamenti di giurisdizione infondati. L’effetto era disastroso: anche una questione di giurisdizione assolutamente priva di consistenza comportava che il processo venisse sospeso e che si dovesse attendere (di solito, per qualche anno) la decisione delle sezioni unite. Il legislatore del 1990 ha pertanto modificato l’art. 367 c.p.c., con-


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sentendo che il giudice, davanti al quale pende la causa, sospenda il processo solo se non ritiene l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata. Ovviamente, in questo modo si corre un rischio: il giudice potrebbe decidere di proseguire la causa ed emettere una decisione che più tardi verrà travolta (a motivo che cadrebbe il presupposto di base del potere del giudice di statuire), se le sezioni unite dovessero negare la sua giurisdizione. Tuttavia, la possibilità di errore è meno grave degli intollerabili abusi che la sospensione automatica comportava. Se il processo viene sospeso, le parti dovranno poi riassumerlo qualora le sezioni unite dichiarino la giurisdizione del giudice ordinario. Occorre poi dare conto del fatto che l’art. 59 della l. n. 69 del 2009 ha ammesso che il processo possa essere riassunto anche davanti ad un giudice appartenente ad una giurisdizione speciale. Va infine ricordato l’istituto di cui all’art. 41, comma 2°, c.p.c., di applicazione rarissima, per non dire desueta. Esso riporta a tempi in cui l’azionabilità di pretese nei confronti della pubblica amministrazione poteva essere contrastata da una specifica iniziativa del prefetto. Questo il dettato della norma: la pubblica amministrazione che non è parte in causa (visto che, se lo è, ad essa si applicano le norme ordinarie) può chiedere in ogni stato e grado del processo che sia dichiarato dalle sezioni unite della Corte di cassazione il difetto di giurisdizione del giudice ordinario a causa dei poteri attribuiti dalla legge all’amministrazione stessa, finché la giurisdizione non sia stata affermata con sentenza passata in giudicato. 20. I LIMITI SPAZIALI DELLA GIURISDIZIONE ITALIANA. LA LEGGE N. 218/95. I REGOLAMENTI EUROPEI SULLA GIURISDIZIONE.

I. Giurisdizione e globalizzazione. La c.d. “globalizzazione” aumenta il fenomeno del contenzioso transnazionale. Le relazioni, commerciali, economiche e personali, fra cittadini di diversi paesi sono sempre più comuni. Ciò si accen-

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tua nel contesto dell’Unione europea che, sotto vari profili, può essere considerata un ordinamento unitario. Sul piano del processo, ne derivano varie conseguenze. La principale consiste nella separazione degli elementi della localizzazione delle controversie. Tradizionalmente, ogni singolo ordinamento risolveva le controversie applicando la propria legge e con effetti limitati al piano locale: la giurisdizione, il territorio e la legge sostanziale applicabile si sovrapponevano in modo coerente. Oggi, invece, non di rado le controversie sono decise da giudici diversi da quelli dello Stato sul cui territorio si spiegano gli effetti della pronuncia e con l’applicazione di norme sostanziali volute dalle parti: i tre piani non si sovrappongono più. La giurisdizione, da cinghia di trasmissione della volontà politico-legislativa di un sistema su un dato territorio, si orienta a diventare un servizio di risoluzione delle liti. Gli ordinamenti, da monadi chiuse in grado di comunicare reciprocamente solo attraverso i metodi del diritto internazionale, si aprono l’uno verso l’altro, anche se in modo imperfetto. In particolare, gli atti giurisdizionali stranieri circolano e sono riconosciuti, almeno tendenzialmente, senza riesame nel merito. In talune aree del mondo, si affermano sistemi regionali, in cui l’integrazione assume profili più intensi. È questo il caso dell’Unione europea, al cui interno vige il principio della tendenziale equivalenza delle giurisdizioni, con la considerazione dell’Unione come un solo territorio. Tutto questo investe molti aspetti della materia del diritto processuale civile: il primo è quello dei criteri di giurisdizione: vale a dire, dei parametri alla stregua dei quali si determina quale ordinamento sia dotato di giurisdizione per una data controversia. Il punto va esaminato dapprima con riferimento al sistema europeo e poi a quello internazionale. II. La giurisdizione nell’Unione europea. Nel contesto europeo, la giurisdizione in materia civile non è governata unilateralmente dalla legge italiana, ma è disciplinata (anche se non per tutte le materie) da vari regolamenti: il regolamento


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n. 1215/12, che ha sostituito la convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 e il precedente regolamento n. 44/01, in materia civile e commerciale; il regolamento n. 2201/03, in materia matrimoniale e di responsabilità genitoriale; il regolamento n. 4/09, in materia di obbligazioni alimentari; il regolamento n. 650/12, in materia di successioni. È prevedibile che, in futuro, nuovi regolamenti interverranno su altre aree del diritto. I regolamenti sono leggi europee, valide in tutti i paesi dell’Unione (salvo il peculiare regime della Danimarca, del Regno Unito e dell’Irlanda, che ne sono vincolati in modo differenziato nella specifica materia della cooperazione civile), che stabiliscono i criteri di giurisdizione. Questa determinazione vincola tutti i giudici, nel senso che, una volta fissata dal regolamento la giurisdizione, ciò è vero dall’angolo prospettico di qualsiasi giudice. Se, quindi, le norme europee indicano come giudice dotato di giurisdizione nella controversia fra A e B quello francese, questa individuazione è tale e vincolante non solo per il giudice indicato, ma anche per quelli degli altri paesi: ne segue che, se la controversia fosse portata davanti al giudice italiano o svedese, questi dovrebbero declinare la propria giurisdizione. Il rapporto fra controversia e giurisdizione è stabilito con regole che tengono in conto le caratteristiche materiali della lite, analogamente a quanto accade nell’ordinamento interno per la competenza (e che si illustrerà nelle pagine che seguono). In linea di massima, si cerca di individuare la giurisdizione più prossima ai fatti di causa e quindi potenzialmente più idonea a dare un giudizio fondato. I regolamenti attuali fissano norme diverse. Per ciò che concerne la materia civile e commerciale, si possono ricordare i criteri del domicilio del convenuto, del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio deve essere eseguita, del luogo in cui si è verificato un evento dannoso da fatto illecito, dell’ubicazione dei beni immobili. Notevole importanza ha anche il foro pattizio, vale a dire quello stabilito con un accordo fra le parti, secondo modalità che facilitano questo tipo di opzione (si vedano, in particolare, gli artt. 25 e 26 del regolamento n. 1215). Vi sono poche ipotesi di competenza esclusiva, in cui cioè soltanto una giurisdizione può conoscere della controversia, senza possibilità di deroga.

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Si deve aggiungere che non sempre viene determinata una sola giurisdizione abilitata a conoscere della controversia, ma talora vi sono casi di concorso fra giurisdizioni (per cui la controversia può essere portata, indifferentemente, dinanzi al giudice dello Stato X o dello Stato Y). L’interpretazione di queste norme è affidata alla Corte di giustizia, che può essere investita della questione, in via pregiudiziale, dai giudici nazionali, secondo il meccanismo previsto dall’art. 267 Tfue. È anche opportuno ricordare che altra cosa è la giurisdizione, altra cosa è la legge sostanziale applicabile: le due situazioni possono non individuare il medesimo ordinamento. III. La giurisdizione internazionale. Profili generali. Vediamo ora il profilo internazionale. L’attribuzione o no della giurisdizione ad un dato giudice dipende dal sistema di riferimento normativo che si adotta. L’ordinamento italiano stabilisce i criteri interni per l’attribuzione della giurisdizione, in rapporto a tutti gli altri paesi, con la l. n. 218 del 31 maggio 1995. Questa legge affronta in modo diverso dal passato il rapporto fra giurisdizione, ordinamento e territorio. Per chiarezza, è opportuno precisare il senso della terminologia impiegata. Controversia nazionale è quella priva di qualsiasi rilevante elemento di estraneità con il nostro ordinamento e che dà vita ad un giudicato con effetti solo in Italia. Controversia internazionale è quella caratterizzata da qualche elemento di estraneità, la cui decisione è destinata a produrre effetti (anche, ma non esclusivamente) nell’ordinamento italiano (ad esempio, azione obbligatoria fra un italiano e uno straniero residente in Italia, proprietario di beni soltanto in Italia; azione risarcitoria fra due cittadini italiani, entrambi residenti in Italia, per un fatto illecito verificatosi all’estero; ma anche azione di adempimento promossa da un italiano nei confronti di uno straniero residente all’estero per un’obbligazione da eseguirsi in Italia). Controversia estera o straniera è quella controversia che, pur avendo eventualmente qualche elemento di collegamento con l’ordinamento italiano, dà vita ad un giudicato inidoneo a produrre


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effetti in Italia. La nozione di controversia transnazionale, infine, è trasversale rispetto alle precedenti: essa ricomprende ogni controversia che interessa due o più ordinamenti e, quindi, sia le controversie internazionali che quelle controversie estere che riguardano più di un ordinamento (anche se si tratta di ordinamenti diversi da quello italiano). Secondo questa impostazione, si devono distinguere le controversie in nazionali, internazionali o estere a seconda degli effetti delle relative pronunce, a nulla rilevando a quale ordinamento appartenga la giurisdizione che le risolve. La l. n. 218, infatti, attribuisce fra l’altro in taluni casi al giudice italiano la cognizione di controversie estere e sottopone, in altri casi, controversie nazionali ad una giurisdizione straniera. IV. I criteri positivi di giurisdizione internazionale. In primo luogo, occorre prendere in esame i criteri generali positivi di giurisdizione, fissati dalla legge: vale a dire, le regole che permettono di includere o no una data controversia nella giurisdizione italiana. Secondo l’art. 3, comma 1°, la giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia o vi ha un rappresentante che sia autorizzato a stare in giudizio a norma dell’art. 77 c.p.c. e negli altri casi in cui è prevista dalla legge. Nessun rilievo, come si vede, ha il criterio della cittadinanza: non rileva né quella dell’attore né quella del convenuto. D’altra parte, quando si parla di domicilio o residenza si intende l’esistenza di un legame tendenzialmente stabile della persona, fisica o giuridica, con il territorio italiano: perciò, per radicare la giurisdizione italiana, non basta la mera dimora in Italia del convenuto, mentre vale il domicilio elettivo (ad esempio, scelto nell’ambito di un contratto). Quindi, è soggetto alla giurisdizione italiana chi, convenuto dinanzi ad un organo giudiziario civile del nostro paese, si trovi in una relazione tendenzialmente permanente (ancorché soggettivamente provvisoria) con il territorio italiano. Il comma 2° dell’art. 3 stabilisce un altro criterio positivo di giurisdizione, mediante il rinvio alle disposizioni della convenzione di

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Bruxelles del 27 settembre 1968 (e ora, secondo l’interpretazione preferibile, del regolamento europeo che l’ha sostituita), che vengono assunte, peraltro, solo come modalità strumentale di individuazione della competenza giurisdizionale, al di fuori dei limiti, sia oggettivi, quanto alle materie trattate, che soggettivi, quanto agli Stati aderenti, intrinseci alla convenzione. Sussiste quindi giurisdizione italiana, nei confronti di un convenuto domiciliato ovunque nel mondo, quando sussista uno dei criteri stabiliti dalle sezioni 2, 3 e 4 del titolo II della convenzione. Per l’individuazione di queste disposizioni è utile richiamare quanto si è accennato circa il regolamento n. 1215 del 2012: basti qui dire che ne risulta attribuita la giurisdizione ai giudici italiani quando, ad esempio, in materia contrattuale, l’obbligazione dedotta in giudizio debba essere eseguita in Italia, ovvero, in materia di fatto illecito, qualora l’evento dannoso sia avvenuto nel territorio nazionale, ovvero ancora quando si tratti di azione promossa da un consumatore domiciliato nella Repubblica. È interessante notare che l’art. 3 richiama, fra le norme della convenzione (e ora del regolamento) tutte quelle che contengono forme di tutela per l’effettività della difesa delle parti ritenute più deboli: i lavoratori dipendenti, i consumatori, gli assicurati. Ora, è caratteristica comune a queste norme di individuare come competente la giurisdizione del luogo in cui è domiciliata (o con cui ha comunque un forte legame fattuale) la parte più debole, anche quando sia quest’ultima a farsi attrice. Ne discende che la giurisdizione italiana potrà essere invocata dal consumatore italiano o dal lavoratore impiegato in Italia, anche contro un convenuto domiciliato all’estero (e salva sempre l’applicazione delle regole, anche queste recepite, per cui il domicilio del contraente più forte si presume coincidere con il luogo in cui questi abbia comunque un’agenzia, una succursale o, in generale, un centro di imputazione di affari). Infine, l’ultima parte del comma 2° dell’art. 3 contiene una norma di chiusura, che fa riferimento ai criteri interni di determinazione della competenza per territorio, rispetto a tutte le materie non incluse nel campo di applicazione della convenzione, affermando che rispetto alle altre materie la giurisdizione sussiste anche in base ai criteri stabiliti per la competenza per territorio.


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La norma è protettiva nei confronti dell’attore italiano perché, attraverso il richiamo all’art. 18, comma 2°, c.p.c., permette di attirare in Italia un sensibile numero di controversie. Essa traduce una duplice tendenza delle norme italiane sulla giurisdizione con elementi di estraneità. Infatti la legge, mentre nella materia contrattuale e commerciale attua una politica di ampia apertura alle giurisdizioni straniere e tende a svincolare la giurisdizione dal legame con il territorio (sia pure proteggendo talune categorie di parti, a priori qualificate come più deboli), nella materia dei diritti indisponibili (e specialmente di stato e capacità delle persone) mantiene un atteggiamento di netta conservazione della giurisdizione nazionale, con un più forte vincolo sia al territorio che allo stesso criterio della cittadinanza, non di rado ripescato, anche se in funzione di criterio speciale. V. Deroga e accettazione convenzionali della giurisdizione. Accanto al primo criterio generale, la legge n. 218 ne pone un secondo, con funzione apparentemente sussidiaria, ma in realtà prevalente, di grande importanza per i rilevanti effetti teorici che comporta in ordine ad una corretta visione del problema dei limiti spaziali della giurisdizione civile. Si tratta del criterio della accettazione e della deroga convenzionali alla giurisdizione italiana, stabilito dall’art. 4, che pone come criterio normale quello della derogabilità pattizia della giurisdizione, che in linea di massima prevale sui criteri generali oggettivi di cui all’art. 3. Al comma 1°, l’art. 4 allarga l’ambito della giurisdizione nazionale, estendendola, come criterio generale, a tutte quelle situazioni in cui essa sia stata convenzionalmente accettata dalle parti (purché se ne possa dare prova scritta), ovvero il convenuto compaia nel processo senza eccepire il difetto di giurisdizione nel primo atto difensivo (da intendersi, oggi, nel rito ordinario, come la comparsa di risposta tempestivamente depositata venti giorni prima dell’udienza di trattazione). Possono rientrare nello spazio applicativo della norma ipotesi come quella della lite fra due cittadini italiani residenti all’estero, relativa ad un rapporto obbligatorio sorto e da eseguirsi fuori Italia,

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o della lite fra due cittadini stranieri, priva di qualsiasi elemento di collegamento con l’ordinamento giuridico o il territorio nazionali. È interessante notare che, in questo modo, la giurisdizione italiana si pone al servizio della risoluzione di una lite non altrimenti collegata con il territorio e con l’ordinamento giuridico della Repubblica se non dalla volontà delle parti: ovvero, detto in altre parole, essa è chiamata a risolvere una controversia estera (eventualmente, anche applicando il diritto straniero). Nel comma 2°, l’art. 4 compie, per così dire, il cammino inverso. Se nel comma 1° la norma apre i cancelli della giurisdizione nazionale a chiunque lo voglia, qui si lascia piena libertà a coloro che sarebbero attratti nella sfera della giurisdizione italiana (perché collegati al territorio attraverso almeno uno dei molteplici criteri posti dall’art. 3) di scegliere un giudice di altro Stato o un arbitro straniero. In questo caso, oltre a dover essere provato per iscritto, l’accordo derogatorio deve però riguardare diritti disponibili. Mentre, quindi, la giurisdizione italiana si allarga verso coloro che non ne sarebbero soggetti senza limiti di materia, la rinuncia a giudicare controversie che ne sarebbero normalmente attratte si arresta di fronte alle situazioni giuridiche caratterizzate dall’indisponibilità. Con questa limitazione, il comma 2° dell’art. 4 permette che una controversia italiana o internazionale venga attribuita alla cognizione di un’autorità giurisdizionale straniera. Il comma 3° prescrive, infine, che la deroga è inefficace se il giudice o gli arbitri indicati declinano la giurisdizione o non possono conoscere la causa. Ciò significa che un eventuale diniego di giurisdizione del giudice o dell’arbitro stranieri, ovvero l’impossibilità fisica o giuridica di ottenere una pronuncia dall’autorità giurisdizionale prescelta, consente sempre ai litiganti di ritornare in un secondo momento alla giurisdizione italiana, non solo se le parti sono d’accordo, ma anche se una di esse rifiutasse la giurisdizione italiana. VI. I criteri speciali di giurisdizione internazionale. Infine, altre norme istituiscono criteri speciali di giurisdizione. Così, l’art. 5 pone un criterio negativo o limitativo, escludendo in


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ogni caso (anche se le parti fossero d’accordo) la giurisdizione italiana rispetto alle azioni reali aventi ad oggetto beni immobili situati all’estero. In materia cautelare, l’art. 10 afferma che la giurisdizione italiana sussiste quando il provvedimento deve essere eseguito in Italia o quando il giudice italiano ha giurisdizione nel merito. Infine, l’art. 9 si occupa della giurisdizione volontaria. Qui la legge ritorna, per così dire, sui suoi passi e, trattandosi di materia normalmente riferita allo stato e alla capacità delle persone, recupera in notevole misura il criterio della cittadinanza. Infatti, la giurisdizione italiana sussiste, fra l’altro, quando il provvedimento richiesto concerne un cittadino italiano o una persona residente in Italia o quando riguarda situazioni o rapporti ai quali è applicabile la legge italiana. Il sistema si completa con le norme sul riconoscimento delle sentenze straniere, che escludono il riesame nel merito e limitano i casi di non riconoscimento, in definitiva, a situazioni di gravi violazioni di regole processuali fondamentali e/o dei diritti umani. Questo aspetto sarà esaminato a suo luogo. La questione di giurisdizione nei confronti di giurisdizioni straniere è meno rilevante (paradossalmente) della questione di giurisdizione interna. Il combinato disposto degli artt. 4 e 11 della legge n. 218/95 va interpretato nel senso che, mentre nella materia a protezione elevata il difetto di giurisdizione è rilevabile in ogni stato e grado, nella materia a protezione ridotta (civile e contrattuale), il convenuto deve sollevare l’eccezione nella prima difesa, salvo pochi casi di rilevabilità d’ufficio. Va detto infine che, in base ad un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, si applica alla materia della giurisdizione internazionale il regolamento preventivo di giurisdizione. VII. Il forum necessitatis. Diritti fondamentali e globalizzazione non lambiscono tutto il mondo e non sono poche le situazioni di conflitto che lasciano ragionevolmente supporre che il cittadino di un determinato paese non possa trovare giustizia dinanzi ai tribunali dello Stato, al quale dovrebbe spettare la giurisdizione. È questa la tematica del c.d. fo-

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rum necessitatis, nettamente estranea sia alle determinazioni pattizie e contrattuali sia alla logica della rigida applicazione dei criteri oggettivi di giurisdizione. Parlando di forum necessitatis, si intende che la fondata prognosi di una violazione grave dei diritti di difesa nello Stato estero può consentire al giudice italiano, privo di giurisdizione, di accettare di conoscere la causa, al fine di rendere una decisione certo non coercibile nel paese formalmente dotato di giurisdizione, ma opponibile, previo riconoscimento, negli altri paesi, con significativi effetti di protezione patrimoniale. Si deve aggiungere che oggi il forum necessitatis trova spazio anche nel diritto processuale europeo: così all’art. 7 del regolamento n. 4 del 2009 in materia di obbligazioni alimentari e all’art. 15 del regolamento n. 650 del 2012 in materia successoria.

21. IL SISTEMA DELLA COMPETENZA. I. Nozione e criteri di competenza. La competenza può essere definita come la porzione di giurisdizione che appartiene ad un singolo organo giudiziario. La giurisdizione riguarda tutti i giudici-organo di un comparto giurisdizionale, rispetto ai quali opera una presunzione di pari tutela giurisdizionale (ossia equivalenza delle pronunce giurisdizionali) e attiene ad un profilo di potere dello Stato. La competenza, invece, viene ripartita per esigenze organizzative. Vi sono molte ragioni per cui il legislatore ha riguardo alla competenza: una migliore distribuzione dei giudici sul territorio; impedire alle parti di sottrarsi al giudice naturale; criteri di funzionalità, nel senso che i giudici più anziani e più esperti si trovano negli organi di maggiore autorevolezza, chiamati a giudicare in sede di impugnazione. Come la giurisdizione, anche la competenza è un presupposto processuale. Come vedremo a breve, il giudice, una volta accertata la propria giurisdizione, deve anche preliminarmente verificare la propria competenza.


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I criteri di ripartizione della competenza servono a stabilire quale fra i molti giudici-organo presenti nello Stato (e, per l’esattezza, i giudici-organo che fanno parte della giurisdizione civile ordinaria) è designato dalla legge (e quindi, è competente) a decidere quella determinata causa, identificata in base alle parti, all’oggetto e al titolo. I criteri di competenza sono tre: per materia, per valore e per territorio, e si applicano esattamente in questo ordine, per determinare l’organo giudiziario chiamato a decidere quella controversia. Può essere utile riflettere sul fatto che la competenza viene, almeno inizialmente, fissata dall’attore. Quindi, è chi propone la domanda a dovere per primo esaminare le norme per individuare il giudice al quale indirizzarla. In ogni caso, è all’attore che spetta la scelta strategica, rilevante soprattutto nei casi in cui concorre la competenza di più organi giudiziari e sussiste quindi una possibilità di scelta. Il momento determinativo della competenza è disciplinato dall’art. 5 c.p.c., in base al quale la giurisdizione e la competenza si determinano con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della proposizione della domanda e sono irrilevanti i mutamenti successivi. La logica di questa norma è di offrire un elemento di certezza ed evitare forme di sottrazione abusiva all’esercizio dell’attività giurisdizionale. Si deve accennare, qui, al fenomeno del c.d. forum shopping, del quale si può parlare non solo a livello interno, ma anche e soprattutto a livello internazionale. Si tratta, da parte di chi comincia la causa, della scelta del foro che garantisce le maggiori probabilità di successo (quando la scelta è compiuta unilateralmente da una parte, normalmente muovendosi fra le diverse giurisdizioni) o, quanto meno, il foro che presenta maggiori comodità logistiche e minori costi, processuali o fiscali (quando la scelta è compiuta dalle parti consensualmente). Per altro verso, per l’attore sostanziale è più adatto il foro che garantisce la decisione in tempi più rapidi, mentre per il convenuto sostanziale (che tuttavia potrebbe agire in prevenzione) è più adatto il foro che comporta tempi processuali più lunghi. Realtà di volta in volta esorcizzata o razionalizzata, il forum shopping è comunque un dato di fatto, che presenta il punto di maggiore delicatezza nei casi in cui la scelta avvenga dinanzi ad un giudice ordinario ad iniziativa di una parte soltanto.

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II. La competenza per materia e valore. La competenza per materia fa riferimento all’oggetto della controversia. Oggi è notevolmente semplificata. Il giudice al quale ordinariamente si propongono le domande è il tribunale (art. 9 c.p.c.), salvo i casi di competenza per materia del giudice di pace, elencati all’art. 7, e alcune eccezionali competenze della corte d’appello in prima istanza (ad esempio, il riconoscimento di lodi esteri ai sensi dell’art. 839 c.p.c. e delle sentenze straniere ex art. 67 l. n. 218/95). La competenza per materia del giudice di pace riguarda forme di piccolo contenzioso: le cause relative ad apposizione di termini e osservanza delle distanze stabilite dalla legge, dai regolamenti o dagli usi riguardo al piantamento degli alberi e delle siepi; le cause relative alla misura ed alle modalità d’uso dei servizi di condominio di case; le cause relative a rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione in materia di immissioni di fumo o di calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili propagazioni che superino la normale tollerabilità; le cause relative agli interessi o accessori da ritardato pagamento di prestazioni previdenziali o assistenziali. Il tribunale, oltre ad essere competente per tutte le cause che non sono di competenza di altro giudice, ha anche una specifica competenza per materia che comprende (art. 9 c.p.c.) tutte le cause in materia di imposte e tasse (se e in quanto non devolute alla giurisdizione tributaria), quelle relative allo stato e alla capacità delle persone e ai diritti onorifici, la querela di falso, l’esecuzione forzata e, in generale, ogni causa di valore indeterminabile. La competenza per valore fa invece riferimento al valore economico della controversia. In base all’art. 7 c.p.c., fino a euro 5.000 (che diventano 20.000 in materia di cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e di natanti) è competente il giudice di pace; oltre tale importo o per le cause di valore indeterminato è competente il tribunale. I criteri della materia e del valore si combinano tra loro, salvi i casi in cui una materia è attribuita in via esclusiva ad un giudice, indipendentemente dal valore della controversia (art. 7, ult. comma; art. 9, comma 2°). Dopo la loro applicazione, si determina il tipo di giudice-organo competente in primo grado.


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III. La competenza per territorio. Infine, la competenza per territorio. Il legislatore detta per ogni controversia un criterio di collegamento con un territorio per individuare il giudice territorialmente competente tra quelli dello stesso tipo: dopo aver individuato il tipo di giudice competente in base ai criteri della materia e del valore, si individua quale tra i giudici dello stesso tipo ha competenza per la controversia. È il criterio meno importante, che le riforme più recenti hanno progressivamente svalutato. Per indicare un organo giudiziario in rapporto alla sua competenza territoriale, la legge usa l’espressione foro. Si dice, quindi, foro del convenuto, se si vuole indicare che è competente il giudice del luogo ove risiede il convenuto, o foro dell’obbligazione, per riferirsi al giudice del luogo con il quale è collegato il rapporto obbligatorio, e così via. Le regole sulla competenza territoriale sono molto articolate. In questa sede basterà ricordare che, in generale, è competente il giudice del luogo dove il convenuto ha la residenza o il domicilio (o, eventualmente, la mera dimora): infatti, posto che è il convenuto a subire l’iniziativa giudiziaria, il legislatore ritiene di doverlo maggiormente garantire. Solo quando il convenuto non ha collegamenti con nessun luogo del territorio nazionale (e la giurisdizione è italiana), sopravvive, come criterio residuale, quello del luogo ove risiede l’attore. Analogamente, se convenuta è una persona giuridica o un’associazione non riconosciuta, è competente per territorio il giudice del luogo della sede (non solo legale, ma anche amministrativa e operativa) (artt. 18-19 c.p.c.). È utile ricordare che, in caso di elezione di domicilio (frequente nei contratti), il convenuto può essere citato davanti al giudice del luogo del domicilio eletto (art. 30). Si ritiene, infatti, che chi ha stabilito una relazione con un dato luogo, ne sia responsabile e possa difendersi senza difficoltà in quel luogo. Tuttavia, è possibile radicare la causa anche altrove se, come talora accade, la legge processuale stabilisce più criteri di collegamento tra la controversia e il luogo. Si parla, in questo caso, di fori concorrenti. Molto importante, per la sua frequente applicazione pratica, è il foro per le cause relative a diritti di obbligazione (che include tutta la materia contrattuale e risarcitoria): qui, secondo l’art. 20 c.p.c., oltre a quello della residenza o della sede, è competente anche il giu-

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dice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione dedotta in giudizio. Inutile sottolineare che la concreta determinazione di tale luogo, in rapporto alle diverse situazioni di diritto sostanziale, ha dato vita ad una copiosa giurisprudenza. Si parla, invece, di foro esclusivo quando la legge prevede un solo criterio di collegamento tra la controversia ed il territorio. Ciò accade nell’art. 21 c.p.c., che concentra la competenza nelle cause relative ad immobili (su diritti reali, in materia di distanze, in materia di locazione e comodato di immobili e di affitto di aziende, su azioni possessorie e nunciatorie) in capo al giudice del luogo dove è posto l’immobile; nell’art. 22 c.p.c., che collega normalmente le cause ereditarie al luogo dove si è aperta la successione; nell’art. 23, che impone a soci e condomini di radicare le cause tra loro, nonché quelle fra i condomini e il condominio, nel luogo dove ha sede la società o il condominio; nell’art. 24, che attribuisce la competenza per le cause relative alle gestioni tutelari e patrimoniali al giudice del luogo di esercizio della tutela o dell’amministrazione. IV. La deroga della competenza per territorio. È importante rilevare che la competenza per territorio può normalmente essere derogata dalle parti. Si tratta di un principio che, nel sistema interno, risponde alla fiducia che il legislatore ripone in tutti i suoi giudici, in qualunque parte del territorio nazionale si trovino ad operare. La regola è poi coerente, sul piano internazionale ed europeo, con le norme che, nella moderna società globalizzata, permettono in modo sempre più ampio di portare la lite davanti a giudici diversi da quelli dell’ordinamento o degli ordinamenti in cui la decisione produrrà i suoi effetti. La competenza per territorio, quando è derogabile, può essere modificata dalle parti (anche se il foro è esclusivo) in base a patto scritto anteriore alla controversia, secondo l’art. 29 c.p.c. (“pactum de foro prorogando”) ovvero a controversia già insorta. Nel primo caso, il codice circonda la scelta delle parti con qualche cautela: l’accordo deve riferirsi ad uno o più affari determinati e risultare da atto scritto; inoltre, esso non attribuisce al giudice designato com-


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petenza esclusiva quando ciò non è espressamente stabilito. La seconda ipotesi si ha quando l’attore radica la competenza in un foro diverso da quelli consentiti dalla legge, e il convenuto non eccepisce l’incompetenza, che rimane quindi fissata. L’accordo sulla modifica della competenza si forma, in questo caso, in modo implicito, come conseguenza del comportamento concludente del convenuto. Vi sono, tuttavia, casi nei quali la competenza per territorio non può essere derogata. Infatti, l’obiettivo di garantire la parte più debole ovvero di assicurare precise esigenze di ordine pubblico può indurre il legislatore a non permettere modifiche al foro più prossimo al luogo dei fatti di causa. Queste ipotesi sono elencate all’art. 28 c.p.c.: alcune sono tassativamente precisate, mentre per altre vi è un rinvio a specifiche disposizioni di legge. I casi di competenza territoriale inderogabile sanciti direttamente dalla norma sono quelli delle cause previste nei nn. 1, 2, 3 e 5 dell’art. 70 (azione o intervento obbligatorio del p.m.), dei casi di esecuzione forzata (di cui all’art. 26 c.p.c.) e della relativa opposizione (art. 27 c.p.c.), dei procedimenti cautelari e possessori e dei procedimenti in camera di consiglio. Fra le ipotesi in cui l’inderogabilità è disposta espressamente dalla legge, è molto importante la disposizione sull’inderogabilità della competenza territoriale nel rito del lavoro, che sarà illustrata a suo luogo. È poi utile ricordare il foro del consumatore. In base all’art. 33 del codice del consumo (d.lgs. 206 del 2005), nel contratto concluso fra il consumatore e il professionista si presumono vessatorie le clausole che hanno per oggetto o per effetto di stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore. In forza dell’art. 36 del medesimo codice, le clausole vessatorie sono nulle di diritto. La protezione del consumatore, anche sotto l’aspetto dell’individuazione del luogo in cui instaurare la lite, è, del resto, una costante nella normazione processuale europea (così gli artt. 17 ss. del regolamento n. 1215 del 2012 e l’art. 6, par. 1°, lett. c) del regolamento n. 805 del 2004). Sempre sul piano del territorio, va segnalata una norma di favore per le amministrazioni dello Stato, volta a facilitarne la difesa in giudizio. Si tratta dell’art. 25 c.p.c., che, per le cause nelle quali è parte (sia

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come attore che come convenuto) un’amministrazione dello Stato (difesa per legge dall’avvocatura dello Stato), è competente, a norma delle leggi speciali sulla rappresentanza e difesa dello Stato in giudizio e nei casi ivi previsti, il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’avvocatura dello Stato, nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie (c.d. foro erariale). Quando l’amministrazione è convenuta, tale distretto si determina con riguardo al giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione o in cui si trova la cosa mobile o immobile oggetto della domanda. Quindi A, se vuole citare in giudizio un ministero e la competenza territoriale indurrebbe a radicare la causa dinanzi al foro di Modena, posto che l’ufficio dell’avvocatura nel distretto della corte d’appello emiliana si trova a Bologna, deve radicare la causa a Bologna. Altra norma speciale è quella posta dall’art. 30-bis c.p.c., che, nelle cause in cui sono parti i magistrati, sposta la competenza ad un foro diverso da quello del distretto ove il magistrato esercita le proprie funzioni. V. Altri profili. Oltre ai tipi di competenza delineati, si parla anche di competenza funzionale, quando la competenza è attribuita essenzialmente con riguardo ad una funzione. La più classica ipotesi è quella della competenza per gradi, che governa il sistema delle impugnazioni. Se, ad esempio, è competente in primo grado il Tribunale di Modena, è competente per il grado di appello, e quindi funzionalmente, la Corte d’appello di Bologna. La competenza funzionale è sempre inderogabile. Una particolare forma di competenza, per materia e per territorio, certamente inderogabile e rilevabile d’ufficio e, con ogni probabilità, assimilabile alla competenza funzionale, è quella collegata alle sezioni specializzate per l’impresa. Infatti, nelle materie assegnate a queste sezioni, è competente solo il tribunale (o la corte d’appello) in cui è costituita la sezione. Così, l’impugnazione di una delibera di un’assemblea di s.p.a. con sede in un circondario di tribunale che non è sede di sezione specia-


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lizzata va proposta dinanzi al tribunale dove si trova la sezione. Ad esempio, se la s.p.a. ha sede a Ravenna, il giudizio va radicato dinanzi al Tribunale di Bologna (individuato dalla legge come sede della sezione specializzata per le imprese nella regione Emilia-Romagna). Occorre dire che la ripartizione di competenze introdotta dalla l. n. 27 del 2012 non è immediatamente idonea a fare chiarezza. Soprattutto la competenza in tema di società è destinata a generare dubbi, perché appartiene alle sezioni specializzate un ampio novero di controversie, individuate con la combinazione di un criterio soggettivo (la tipologia di società) e di un criterio oggettivo (la tipologia di azione proposta). Si deve parlare di competenza inderogabile e funzionale anche nel caso della speciale competenza per le controversie che, nell’ambito di quelle assegnate alle sezioni specializzate di tribunale in materia di impresa, vedono come parti società, in qualunque forma costituite, con sede all’estero. Con il d.l. n. 145 del 23 dicembre 2013, convertito in l. 21 febbraio 2014, n. 9, il legislatore, al fine di favorire gli investitori esteri, che, ove si trovino a gestire un contenzioso societario in Italia, possono concentrare la loro difesa in un numero limitato di fori, ha operato nel seguente modo. In primo luogo, è stata ritagliata una competenza basata, da un lato, su un criterio meramente soggettivo (vale a dire, la natura di società con sede all’estero di una delle parti) e, dall’altro lato, per materia (vale a dire, la materia assegnata alle sezioni di tribunale per le imprese). In secondo luogo, non attribuisce questo compito a tutti i tribunali per le imprese, ma solo ad alcuni di essi (elencati quando si è parlato di specializzazione del giudice), creando quindi dei nuovi ed originali bacini di competenza. Per comprendere le vaste dimensioni di questi nuovi bacini, si pensi che le controversie che ricadono nel distretto della Corte d’appello di Bologna sono attribuite al Tribunale di Genova e quelle che ricadono nel distretto della Corte d’appello di Firenze sono attribuite al Tribunale di Roma. Naturalmente, resta ferma la competenza territoriale ordinaria per le cause in cui è parte una società con sede all’estero, in materia diversa da quella attribuita alle sezioni specializzate per l’impresa. Queste forme di competenza funzionale si incrociano con la libertà delle parti di individuare liberamente il foro competente. La

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libertà rimane, ma poi esse devono rivolgersi al tribunale per le imprese nel cui bacino rientra il foro prescelto. Se, ad esempio, due società, una delle quali con sede all’estero, stipulano un patto di deroga della competenza fissando quella del foro di Ravenna, l’eventuale controversia in materia societaria fra loro insorta deve essere radicata dinanzi al Tribunale di Genova. Il sistema della competenza in Italia va letto con riguardo alla concretezza dell’organizzazione giudiziaria: si rimanda, quindi, ai relativi punti della trattazione, con particolare riguardo ai tentativi di razionalizzare la distribuzione dei giudici sul territorio. Nel contempo, occorre rilevare che la determinazione della competenza non si pone sempre in coerenza con il principio della ragionevole durata. Se, da un lato, il principio della predeterminazione del giudice costituisce un profilo non irrilevante dal punto di vista del diritto di difesa e della stessa garanzia del giudice naturale, è anche vero che si discute pur sempre dell’attribuzione del compito di conoscere una data causa a giudici dello Stato, tutti ugualmente dotati di affidabilità. Le sentenze sui presupposti processuali, anche se del tutto legittime, costituiscono però il segno che non si è conseguito l’obiettivo di una pronuncia sul merito. Per questo, il legislatore è intervenuto specialmente limitando i tempi e i modi per sollevare l’eccezione di incompetenza, come si vedrà fra breve, essenzialmente allo scopo di ridurre l’importanza di questo aspetto del processo.

22. LE MODIFICHE ALLA COMPETENZA PER RAGIONI DI PREGIUDIZIALITÀ E CONNESSIONE. L’ACCERTAMENTO INCIDENTALE. I. Pregiudizialità e connessione modificatrici della competenza.

come

cause

Le regole finora studiate consentono di determinare il giudiceorgano competente. Talvolta, però, queste regole subiscono una modifica per effetto dei rapporti che una singola causa ha con altre


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cause. È utile notare che normalmente il codice si occupa del singolo processo, e non del rapporto fra quel processo e l’insieme della macchina giudiziaria. Una prospettiva più orientata a valorizzare l’efficienza della giustizia e la giurisdizione come servizio pubblico imporrebbe, invece, una valutazione più completa. Si hanno quindi spostamenti della competenza dovuti a pregiudizialità o connessione fra cause. Di connessione si è già parlato, descrivendo i criteri di individuazione delle azioni. Si tratta di un legame strutturale fra azioni diverse, che suggerisce abitualmente la trattazione comune. La nozione di pregiudizialità è più complessa. In senso ampio, si può richiamare il concetto, già espresso, per cui il giudice deve decidere in base ad un ordine logico-giuridico, che suppone di prendere in considerazione i presupposti processuali e le condizioni dell’azione prima del merito. Quando un dato passaggio logico-giuridico è oggetto di diverse vedute fra le parti (o fra le parti e il giudice), sorge una questione che, dovendo essere decisa prima che il giudice possa proseguire l’iter decisionale, prende il nome di questione pregiudiziale. Vi è, però, anche una pregiudizialità di tipo sostanziale, che dipende dal diritto materiale, per cui un dato rapporto giuridico è costituito da una fattispecie complessa, uno degli elementi della quale è pregiudiziale rispetto al rapporto che si configura da esso dipendente. Si parla, a questo riguardo, di pregiudizialità-dipendenza. In questi casi, non vi è soltanto un criterio di successione logico-giuridica nel ragionamento del giudice, ma è la stessa struttura del diritto fatto valere che genera una particolare relazione. L’accertamento chiesto nella causa dipendente e pregiudicata suppone l’accertamento sul rapporto pregiudiziale. Si ha, dunque, una pregiudizialità-dipendenza fra cause tale per cui il giudice, nel suo sillogismo, si imbatte in un elemento (un effetto giuridico o una fattispecie materiale) che deve essere accertato, con carattere di antecedente logico-giuridico, in un’altra causa. Questa pregiudizialità ha vari possibili effetti, fra i quali l’estensione oggettiva del giudicato sostanziale: uno di questi effetti, di cui ora ci si deve occupare, è la modifica della competenza.

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II. L’accertamento incidentale. In questo senso, va esaminato l’art. 34 c.p.c. sull’accertamento incidentale. Il giudice, così recita la norma, se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest’ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui. Si ha riguardo, qui, all’ipotesi di un accertamento che va compiuto con effetto di pregiudizialità su un altro all’interno del medesimo processo (ad esempio, la sussistenza di un certo rapporto familiare di parentela come pregiudiziale per l’accoglimento di una domanda di alimenti). In linea di massima, al giudice basta accertare il rapporto pregiudiziale, nei limiti in cui ciò è necessario ai fini della decisione della causa: di qui, l’espressione accertamento incidentale. In diritto processuale, il termine “incidente” si riferisce ad una situazione che costituisce una parentesi all’interno di una vicenda più complessa, entro la quale si inserisce (cioè, incide). Talvolta però, per volontà delle parti o per legge, si tratta di dover decidere anche il rapporto pregiudiziale con efficacia di giudicato. In quest’ultima ipotesi il giudice, se non è competente ad accertare anche il rapporto pregiudiziale, deve spogliarsi della competenza (che in origine aveva) a decidere quello pregiudicato: l’intero processo passa al giudice competente a conoscere il rapporto pregiudiziale; la causa pregiudicata segue quella pregiudiziale. Il punto di difficoltà per comprendere la norma sta nella distinzione fra i casi in cui l’accertamento è soltanto incidentale o deve invece acquisire efficacia di giudicato. Qui occorre risalire al principio della domanda. Il giudice è chiamato ad accertare ciò che le parti hanno chiesto, e non altro. Ne segue che ogni diverso profilo, sebbene pregiudiziale (nel senso dell’antecedenza logico-giuridica), rimane estraneo all’accertamento: quindi, il giudice lo verifica solo in tanto in quanto necessario per statuire sulla domanda principale. Se A chiede la condanna di B a pagare la rata di un contratto a prestazioni periodiche e B eccepisce la nullità del contratto, al solo fine di evitare il pagamento della rata ma senza chiedere al giudice


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di decidere sull’efficacia del contratto, il giudice esaminerà il punto, ma la sua decisione sarà semplicemente di condannare o no B al pagamento. Si formerà un giudicato sull’esigibilità della somma domandata. Se invece B, per difendersi dalla richiesta di pagamento, domanda al giudice, in via di accertamento negativo, di pronunciarsi sulla nullità, l’oggetto del processo e quindi l’estensione oggettiva del giudicato comprenderanno pregiudizialmente il punto della nullità e, se il contratto sarà ritenuto valido, l’obbligo o no di pagamento della rata. A volte può accadere che sia la legge ad imporre l’accertamento con efficacia di giudicato. Ciò accade, ad esempio, nei rapporti di stato: se la qualità di parente viene in gioco per stabilire l’obbligo o no di versare gli alimenti, non è possibile esaminarla solo incidentalmente. In questo caso, la pregiudizialità comporta che la domanda (la corresponsione degli alimenti) supponga necessariamente la dimostrazione del rapporto di parentela. Se questo rapporto è contestato, la decisione deve investirne direttamente, e quindi con efficacia di giudicato, l’esistenza. III. Compensazione e domanda riconvenzionale. Non molto diverso è il meccanismo previsto per il caso di compensazione (art. 35 c.p.c.). Secondo questa norma, quando è opposto in compensazione un credito che è contestato ed eccede la competenza per valore del giudice adito, questi normalmente rimette tutta la causa al giudice superiore (applicando cioè il meccanismo dell’art. 34). Solo se la domanda originaria è fondata su titolo non controverso o facilmente accertabile, può decidere su di essa e rimettere le parti al giudice competente per l’esame della sola eccezione di compensazione. Si noti che il convenuto che oppone in mera compensazione un credito superiore a quello dell’attore non chiede il pagamento a proprio favore della differenza: se ciò avvenisse, si ricadrebbe nel caso della domanda riconvenzionale. Il fenomeno della domanda riconvenzionale (art. 36 c.p.c.) è già stato esaminato parlando della difesa del convenuto e qui deve essere ripreso per i riflessi che ha sulla competenza. Il meccanismo è analogo a quel-

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lo che si è visto per l’accertamento incidentale. Se, proposta dall’attore una certa domanda, il convenuto spiega una domanda riconvenzionale (connessa per l’oggetto o per il titolo alla domanda principale) che deve essere decisa, per materia o valore, da un altro giudice, l’intera materia del contendere viene portata dinanzi a questo giudice. Nel caso del valore, è bene precisare che questo meccanismo funziona per il passaggio a favore di un giudice superiore. L’art. 36, quando ricorda che il giudice competente per la causa principale conosce anche delle domande riconvenzionali che dipendono dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione, fa riferimento alla connessione propria e oggettiva. Per quanto forse superfluo, va sottolineato che l’effetto di spostamento della competenza è una conseguenza solo eventuale della proposizione della domanda riconvenzionale: nella maggior parte dei casi, quando il giudice è competente sia per la domanda principale che per quella riconvenzionale, l’effetto di questa domanda è solo quello di ampliare la materia del contendere. IV. Connessione e cumulo di cause. Fra gli effetti modificativi della connessione sulla competenza, si devono poi considerare gli artt. 31, 32, 40, 33 e 103 c.p.c. (connessione oggettiva o cumulo soggettivo) e 104 e 10 c.p.c. (connessione soggettiva o cumulo oggettivo). L’art. 31 stabilisce che quando una causa è accessoria ad un’altra, le due siano decise nello stesso processo della causa principale. Infatti, la domanda accessoria può essere proposta al giudice territorialmente competente per la domanda principale affinché sia decisa nello stesso processo, osservata, quanto alla competenza per valore, la disposizione dell’art. 10, comma 2°, c.p.c. Più delicato è il profilo della garanzia, governato dall’art. 32. La domanda di garanzia può essere proposta al giudice competente per la causa principale perché sia decisa nello stesso processo, ma se eccede la competenza per valore del giudice adito, comporta il passaggio di entrambe la cause, quella principale e quella di garanzia, al giudice superiore.


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Ora, si distingue fra garanzia propria ed impropria. Si ha garanzia propria quando l’obbligo principale e l’obbligo di garanzia sono fondati sul medesimo titolo o su titoli connessi; si ha invece garanzia impropria quando l’obbligo principale e quello di garanzia sono fondati su titoli diversi, ovvero solo occasionalmente connessi. Nel primo caso, l’accertamento dell’obbligo principale si espande sulla garanzia; nel secondo caso, no. Le conseguenze più rilevanti si verificano quando la domanda di garanzia fonda la chiamata in causa di soggetti terzi. Si è visto che la connessione può essere oggettiva o soggettiva. Si può ricordare che è oggettiva quando le due o più azioni hanno in comune uno o entrambi gli elementi oggettivi (causa petendi e petitum); è soggettiva quando le due o più azioni hanno in comune solo le parti. La connessione oggettiva è evidentemente più forte. Se sussiste, l’effetto è quello di modificare la competenza per territorio: l’art. 33 precisa che le cause contro più persone che a norma degli artt. 18 e 19 (e cioè in base alla regola del foro del convenuto) dovrebbero essere proposte davanti a giudici diversi, se sono connesse per l’oggetto o per il titolo possono essere proposte davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di una di esse, per essere decise nello stesso processo. Si attua così un cumulo soggettivo, nel senso che più parti, che avrebbero dovuto essere convenute dinanzi a fori diversi, sono citate insieme (e perciò, cumulativamente) davanti allo stesso foro. Questa disposizione facilita l’attuazione del litisconsorzio facoltativo, consentito dall’art. 103, ma che, senza l’art. 33, sarebbe limitato ai soli casi in cui la competenza per territorio individua il medesimo foro per tutte le diverse cause. La connessione meramente soggettiva è più debole: una domanda di pagamento somma e una domanda di risarcimento del danno, riferita ad un rapporto totalmente diverso, seppure proposte contro la stessa persona, sono radicalmente differenti e suppongono indagini diverse. L’art. 104 c.p.c. permette che più domande non altrimenti collegate contro la medesima persona possano essere proposte nello stesso processo; tuttavia, secondo l’art. 10, comma 2°, tali domande si sommano tra loro e gli interessi scaduti, le spese e i danni anteriori alla proposizione si sommano col capitale. Ne segue che la proposizione congiunta di queste domande (e quindi, il

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cumulo oggettivo) è possibile solo se la competenza per ogni azione individua il medesimo foro. Infine, l’art. 40 si occupa dell’ipotesi in cui più cause connesse siano state proposte dinanzi ad organi giudiziari diversi. Mentre gli artt. 10, 33, 103 e 104 si occupano di stabilire le regole per cui più cause possono essere promosse fin dall’inizio dinanzi allo stesso organo, la norma ora in esame suppone il caso inverso e si preoccupa di facilitare la riunificazione in un solo contenitore processuale di cause avviate separatamente. Il criterio è quello di individuare, nel caso di accessorietà (art. 31), la causa principale e ad essa riunire quella accessoria e, nelle altre ipotesi, la causa iniziata per prima, alla quale vengono associate le cause iniziate successivamente. Opera, cioè, il criterio della prevenzione. Si vedrà più avanti in base a quali regole si stabilisce quale causa è iniziata per prima e come venga risolta la questione di connessione.

23. LA QUESTIONE DI COMPETENZA. I. La questione di competenza. Anche se le regole sulla competenza dovrebbero consentire l’individuazione certa del giudice-organo competente (o di uno dei giudici-organo competenti) a conoscere della controversia, può sorgere un contrasto circa l’esatta applicazione delle norme attinenti a questo presupposto processuale. Di qui, la questione di competenza. È opportuno chiedersi per quali motivi una parte, ammesso che l’attore abbia individuato un giudice non competente, abbia interesse a sollevare la relativa eccezione: il che, è bene precisarlo, non è mai automatico e non dipende da una fanatica volontà di assicurare l’adempimento della legge processuale. Talvolta, vi potrà essere il timore di un condizionamento ambientale; in altri casi, sarà decisiva la minore comodità geografica; in altri casi ancora, e forse più spesso, si tratterà del tentativo del convenuto di guadagnare tempo, impegnando l’attore in un giudizio su di un presupposto processuale al termine del quale, dopo mesi o anni, il giudizio riprenderà dinanzi all’organo giudiziario dichiarato competente.


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Nelle riforme recenti il legislatore ha cercato di ridurre l’importanza sistematica della questione di competenza, anticipando progressivamente i tempi processuali in cui la questione può essere sollevata, diminuendo i poteri del giudice di sollevarla d’ufficio e limitando le possibilità di controllo. II. L’eccezione di incompetenza. La questione può essere sollevata, con la relativa eccezione, dalla controparte o dal giudice. L’art. 38 c.p.c. limita la possibilità di sollevare l’eccezione, fissando in ogni caso uno sbarramento temporale. Nel sistema previgente, l’eccezione di incompetenza per materia, valore o territorio inderogabile, poteva essere sollevata in ogni stato e grado del processo. Oggi l’art. 38 c.p.c. prevede che l’incompetenza debba essere eccepita nella comparsa di risposta, che il convenuto deve presentare entro i venti giorni che precedono la prima udienza. Nel caso dell’eccezione di incompetenza per territorio derogabile, inoltre, il convenuto deve rendere esplicita l’indicazione del giudice che egli ritiene competente: se l’indicazione manca, l’eccezione si ha per non proposta. Il giudice non può discostarsi dalle posizioni delle parti per quanto concerne la competenza per territorio derogabile (con la conseguenza che la mancata proposizione dell’eccezione fissa ormai stabilmente la competenza); può ancora rilevare d’ufficio l’incompetenza per materia, valore e territorio inderogabile, ma soltanto fino alla prima udienza di trattazione. Si può aggiungere (anticipando ciò che meglio si dirà a suo luogo) che anche l’eccezione di incompetenza del giudice a motivo dell’esistenza di un patto di arbitrato deve essere proposta, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta. III. La pronuncia sulla competenza. È lo stesso giudice, designato dall’attore come competente, a dover decidere la questione di competenza. Si tratta di un principio generale, che rafforza l’indipendenza del potere giudiziario, assegnando ad ogni organo giurisdizionale il compito di verificare da

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solo l’esistenza del proprio potere decisorio, senza che debba essere un organo esterno a confermare preventivamente la sua scelta. Certo, la decisione deve essere presa secondo legge e potrà essere poi controllata da un organo superiore. La forma del provvedimento, in base alle recenti riforme, non è più quella della sentenza, ma quella dell’ordinanza, che permette una stesura e una motivazione più rapide. La pronuncia sulla competenza non tocca il merito della controversia, ma riguarda solo un presupposto processuale. È quindi una pronuncia di rito, che non dà luogo a giudicato sostanziale. L’efficacia dell’ordinanza sulla competenza del giudice di merito è limitata al concreto processo in cui è emanata e non si riferisce ad eventuali futuri processi che dovessero riguardare la medesima causa (c.d. efficacia endoprocessuale). Quindi, se il processo si estingue e viene successivamente ricominciato, il nuovo giudice non è vincolato dalla pronuncia del giudice adito per primo. Il giudice può decidere sulla competenza anche insieme al merito. Le pronunce pure sulla competenza, ossia che decidono solo sulla competenza, possono essere affermative o negative della competenza; le pronunce che decidono insieme su competenza e merito non possono che essere affermative circa la competenza. È evidente, infatti, che se il giudice si considerasse incompetente, non potrebbe passare ad esaminare il merito, non avendone il potere. In particolare, l’art. 44 si occupa dell’efficacia dell’ordinanza che pronuncia negativamente sulla competenza: quando, cioè, l’organo giudiziario adito si dichiara incompetente. In questo caso, il giudice indica quale altro organo giudiziario è competente e assegna alle parti un termine per proseguire (tecnicamente, per riassumere) il processo dinanzi a tale nuovo giudice. Se la riassunzione della causa davanti al giudice dichiarato competente avviene nel termine fissato nell’ordinanza dal giudice e, in mancanza, in quello di tre mesi dalla comunicazione dell’ordinanza che dichiara l’incompetenza del giudice adito, il processo continua davanti al nuovo giudice: se invece la riassunzione non avviene nei termini, il processo si estingue, per mancanza del necessario impulso di parte (art. 50 c.p.c.).


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Ora, se l’ordinanza negativa di competenza e che indica un altro organo giudiziario come competente (anche eventualmente in applicazione delle regole sulla litispendenza e la connessione), non è impugnata con l’istanza di regolamento e se la causa è riassunta nei termini dinanzi al nuovo giudice, l’incompetenza dichiarata e la competenza positivamente affermata del nuovo giudice resta incontestabile, sia pure all’interno di quel concreto processo. Ne segue che il giudice, la cui competenza è stata indicata, non può a sua volta dichiararsi incompetente, neppure se avesse fondato motivo di ritenere che il primo giudice abbia sbagliato. Da quanto si è detto, rimane eccettuata un’ipotesi: quella, cioè, che la sentenza negativa sulla competenza riguardi la competenza per materia o per territorio inderogabile. Qui, infatti, resta salva la possibilità per il giudice a cui la causa è pervenuta di sollevare d’ufficio il regolamento di competenza. Naturalmente, la decisione del giudice sulla competenza può essere impugnata, o secondo l’ordinaria trafila delle impugnazioni (appello e ricorso in cassazione), ovvero con un apposito mezzo di impugnazione ordinario: il regolamento di competenza. Mentre il regolamento di giurisdizione è un mezzo di controllo preventivo, esperibile prima che il giudice abbia deciso sulla giurisdizione, il regolamento di competenza è un vero e proprio mezzo di impugnazione volto a contestare la pronuncia sulla competenza, proponibile alla Corte di cassazione. Verrà esaminato insieme agli altri mezzi di impugnazione, specialmente perché le regole procedurali sono quelle del ricorso per cassazione, che non è possibile anticipare a questo stadio dell’esposizione della materia. Va precisato fin da ora che il controllo sulla competenza, esercitato dalla Cassazione mediante il regolamento non riguarda solo il punto dell’esatta individuazione o no del giudice competente, ma anche quello della correttezza delle modalità processuali con cui la questione è stata sollevata. Così, per non fare che un esempio, se un’eccezione di incompetenza, in sé fondata ma sollevata tardivamente, nonostante ciò viene accolta dal giudice, la sentenza che ne esce può essere impugnata con il regolamento.

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IV. La questione di litispendenza, continenza o connessione fra cause. Distinta dalla questione di competenza è quella che concerne la litispendenza, la continenza e la connessione di cause. Tuttavia, anche in queste ipotesi l’organo giudiziario deve comunque stabilire se una data causa sarà trattata davanti a lui o davanti ad altro giudice. È quindi opportuno esaminare qui le disposizioni che il codice detta per regolare questa materia. Le nozioni di litispendenza, continenza e connessione sono già state spiegate. È bene avere chiaro, piuttosto, che qui si parla di cause (identiche o connesse) proposte dinanzi ad organi giudiziari diversi: quando lo stesso fenomeno si produce dinanzi allo stesso organo giudiziario, la soluzione consiste nella riunione delle cause (istituto che sarà esaminato a suo luogo). Per quanto riguarda la litispendenza, l’art. 39, comma 1°, precisa che se una stessa causa (quindi con parti, oggetto e ragione del chiedere identici) è proposta davanti a giudici diversi, quello successivamente adito, in qualunque stato e grado del processo, anche d’ufficio, dichiara con ordinanza la litispendenza e dispone, sempre con ordinanza, la cancellazione della causa dal ruolo. Per chiarezza, è bene precisare che il giudice adito per secondo è tenuto a dichiarare la litispendenza anche se la prima causa è già in sede di impugnazione. La soluzione è obbligata, visto che la giurisdizione non può essere esercitata due volte sulla stessa controversia. Del resto, il primo metodo per prevenire il rischio di più pronunce e di giudicati contraddittori consiste nell’impedire che la stessa controversia sia portata dinanzi a più giudici. Rispetto all’eccezione di competenza, quella di litispendenza non è soggetta ai ristretti limiti di esercizio posti dall’art. 38. La situazione può prodursi, ad esempio, nel caso in cui A citi B per ottenerne la condanna a pagargli X e, più tardi, B citi A per ottenere l’accertamento negativo del debito. Per stabilire quale dei due processi sull’identica controversia debba essere eliminato, il codice usa il criterio temporale della prevenzione: la causa iniziata per prima prosegue, quella iniziata per seconda si estingue. Per determinare, poi, quale sia il giudice adito


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per primo, e quindi quale dei due (cioè il secondo) debba dichiarare la litispendenza, il comma 3° dell’art. 39 collega la prevenzione a quello della nascita del processo, che avviene con la notificazione dell’atto di citazione, ovvero con il deposito del ricorso, a seconda del tipo di atto introduttivo previsto dal rito. Il comma 2° dell’art. 39 regola il caso della continenza: qui, se il giudice preventivamente adito è competente anche per la causa proposta successivamente, il giudice di questa dichiara con ordinanza la continenza e fissa un termine perentorio entro il quale le parti debbono riassumere la causa davanti al primo giudice. Se questi non è competente anche per la causa successivamente proposta, la dichiarazione della continenza e la fissazione del termine sono da lui pronunciate. Più complessa è la disciplina della connessione. Come si è visto, la connessione sussiste quando le azioni hanno in comune alcuni, ma non tutti gli elementi identificativi. Qui, infatti, oltre al criterio della prevenzione, gioca quello dell’attrazione: la causa principale attira quella dipendente. Inoltre, mentre nel caso della litispendenza vi è la necessità di impedire sul nascere giudicati contraddittori, la situazione nella connessione è più sfumata, a motivo che giocano ragioni di opportunità. Ad esempio, la rimessione della causa ad altro giudice non può essere ordinata quando lo stato della causa principale o preventivamente proposta non consente l’esauriente trattazione e decisione delle cause connesse. Infine, va rilevato che, in coerenza con questo ruolo meno marcato, la connessione non può essere eccepita dalle parti né rilevata d’ufficio dopo la prima udienza e, quindi, può essere oggetto di intervento del giudice solo in una fase iniziale del processo. Con queste premesse, si può esaminare la disciplina specifica che alla materia detta l’art. 40 c.p.c. In primo luogo, se sono proposte davanti a giudici diversi più cause connesse, che possono essere decise in un solo processo, il giudice fissa con ordinanza alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa accessoria davanti al giudice della causa principale, e negli altri casi davanti a quello preventivamente adito. L’accessorietà è regolata dall’art. 31; le altre ipotesi di connessione sono invece disciplinate in base alla prevenzione.

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La connessione, peraltro, è un profilo che suggerisce, ma non impone necessariamente la trattazione congiunta delle cause. L’art. 40 lo ribadisce, da un lato, limitando la possibilità di rilevare la connessione (su istanza di parte o d’ufficio) solo in una fase prettamente iniziale del processo, vale a dire entro la prima udienza di trattazione e, dall’altro lato, precisando che la rimessione ad altro giudice non può avvenire quando lo stato della causa principale o proposta preventivamente non consente l’esauriente trattazione e decisione delle cause connesse. Il codice passa poi a regolare che cosa accade quando le cause connesse, oltre ad essere pendenti dinanzi ad organi giudiziari diversi, siano assoggettate a riti diversi. Infatti, altro è stabilire se e come devono essere riunite o decise cumulativamente, e altra cosa è determinare quale rito si applica al processo che ne risulta. La regola è che prevale il rito ordinario sui riti speciali, a meno che non si tratti del processo del lavoro, che allora risulta prevalente anche sul rito ordinario. Se le cause connesse sono soggette a diversi riti speciali, esse vanno invece trattate con il rito previsto per quella tra esse in ragione della quale viene determinata la competenza o, in subordine, con il rito previsto per la causa di maggior valore.

24. IL GIUDICE-ORGANO. CENNI DI ORDINAMENTO GIUDIZIARIO. I. Gli organi giudiziari civili. A fianco del diritto processuale civile, si trova una disciplina che studia la struttura organizzativa del sistema: la scienza dell’ordinamento giudiziario. Si tratta di una materia di importanza centrale in vista della risoluzione dei problemi della giustizia, che non dipendono tanto dalla determinazione delle regole procedurali, quanto da necessarie riforme delle strutture. In questa sede è possibile solo farvi qualche cenno, in specie esaminando gli organi giudiziari investiti del compito di esercitare le funzioni giurisdizionali civili. Gli organi giudiziari (o giudici-organo) civili nel sistema italiano sono indicati all’art. 1 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 sull’ordi-


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namento giudiziario. Essi sono il giudice di pace, il tribunale ordinario, il tribunale per i minorenni, la corte d’appello, la Corte di cassazione. I giudici di pace sono magistrati onorari; sono magistrati di carriera, invece, i componenti gli altri uffici giudiziari. Il reclutamento dei magistrati (giudici-persone fisiche) avviene mediante concorso. I vincitori del concorso assumono il grado di magistrati ordinari tirocinanti e, prima di essere assegnati alle funzioni (giudicanti o requirenti) in una determinata sede, seguono un periodo di tirocinio pratico. Le modalità di accesso alla magistratura sono un punto di notevole importanza: la selezione dei futuri giudici ha notevole impatto sulla qualità della giustizia. Nel sistema attuale, il giudice è un giurista, di cui si valuta la stretta capacità tecnica e la conoscenza del diritto, ma di cui non si saggiano in alcun modo le qualità attitudinali. Chi vince il concorso, non ha mai avuto esperienza di lavoro giudiziario e, quindi, completa la sua formazione attuando la funzione giurisdizionale. Vi sono stati, negli anni recenti, taluni tentativi di riforma, che però non hanno avuto esito. II. Giudice monocratico e giudice collegiale. I giudici-organo possono avere composizione monocratica (quando decide un solo giudice) o collegiale (quando decidono più giudici, anche se talune funzioni preparatorie della decisione possono essere affidate ad uno soltanto di essi). La scelta fra il modello del giudice monocratico o del giudice collegiale è difficile. Sotto il profilo teorico, il giudice collegiale offre più garanzie: la decisione è frutto di un dibattito fra più persone, in cui non di rado l’esperienza dei colleghi più navigati può agevolare le scelte dei magistrati più giovani. Tuttavia, ciò suppone un impegno di più giudici per una sola controversia. Il giudice monocratico, invece, è più esposto al rischio di errori, ma assicura maggiore efficienza. Il modello italiano del codice di rito del 1942 prevedeva la seguente articolazione: giudici monocratici per le controversie di minor valore (uno onorario, come il giudice conciliatore prima e il giudice di

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pace poi, e uno togato, come il pretore); invece, il tribunale e la corte d’appello operavano collegialmente. Entrambi gli organi collegiali, poi, seppure con modalità procedurali diverse, conoscevano la figura del giudice istruttore. Questi era un magistrato singolo a cui era affidata la trattazione della causa, che poi ritornava sul tavolo del collegio al momento della decisione finale o per taluni incombenti di particolare rilevanza. Occorre dire, peraltro, che si era potuto verificare come all’interno del collegio, nella maggior parte dei casi, soltanto il giudice istruttore (che l’aveva seguita dall’inizio) avesse una completa conoscenza della causa, finendo con il fare prevalere la propria opinione su quella degli altri componenti. Dietro lo schermo della collegialità si celava, dunque, una monocraticità strisciante. Le varie riforme, sotto la pressione dei gravissimi ritardi nei tempi di giustizia, hanno decisamente optato a favore del giudice monocratico. Ciò è avvenuto, in primo luogo, con l’ampliamento delle funzioni del pretore (si pensi alla competenza in materia di controversie di lavoro, prevista dalla l. n. 533 dell’11 agosto 1973) e, poi, con l’abolizione delle preture, accompagnata dalla previsione della composizione monocratica del tribunale, ai sensi del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51. Ora, la normalità è il giudice monocratico: così il giudice di pace, così il tribunale (art. 50-ter c.p.c.), anche quando giudica in sede di appello contro le sentenze del giudice di pace. Hanno invece composizione collegiale: la corte d’appello in sede di appello (art. 350 c.p.c.) e in altre sedi (art. 56 ord. giud.); il tribunale nei casi dell’art. 50-bis c.p.c.; la Corte di cassazione. Quando opera collegialmente, il tribunale decide nella composizione di tre membri. Non è inutile precisare che il tribunale in composizione monocratica è costituito da un magistrato che abbia esercitato la funzione giurisdizionale per non meno di tre anni, in modo da garantire ai cittadini un sufficiente grado di esperienza (art. 7-bis, comma 2°-quater, ord. giud.). L’art. 50-bis c.p.c. elenca i compiti residualmente affidati al tribunale in composizione collegiale. Si tratta di un’opzione discutibile e, soprattutto, inutilmente rigida, che non tiene conto delle peculiarità delle singole cause. Le materie incluse nell’area della collegialità non sono, sempre e comunque, le più significative. Si tratta, infatti, delle (poche) cause in cui è obbligatorio l’intervento del pubblico


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ministero, di quelle fallimentari e societarie, di quelle devolute alle sezioni specializzate e di quelle relative ad alcuni aspetti delle successioni testamentarie. Non vi è traccia di riferimento alla concreta difficoltà della causa, né al suo valore: una modesta controversia testamentaria suppone quindi un collegio, mentre una domanda risarcitoria conseguente ad un disastro ambientale viene esaminata da un solo magistrato. La composizione collegiale è poi stabilita da singole disposizioni, che si incontreranno durante l’esposizione della materia: così per la decisione sulla querela di falso o sulle azioni collettive risarcitorie. Significativa è poi la disposizione di cui al n. 7 dell’art. 50-bis c.p.c., molto eloquente sull’effettiva considerazione dei rapporti fra collegialità e monocraticità. Essa si riferisce, infatti, alle cause concernenti la responsabilità civile dei magistrati. Quando è in gioco la possibilità che un giudice paghi per le conseguenze di un grave errore giudiziario, la monocraticità (solitamente invocata come metodo di migliore efficacia) cede il passo alla collegialità. Sul piano processuale, è opportuno aggiungere, per completezza, che secondo l’art. 50-quater c.p.c. le disposizioni ora esaminate non si considerano attinenti alla costituzione del giudice e la loro inosservanza comporta una semplice nullità. III. Il tribunale. È ora opportuno dare qualche cenno alla struttura organizzativa degli organi giudiziari, sapendo che dalle concrete modalità di tale struttura dipende molto dell’efficienza (o della non efficienza) della macchina giudiziaria. I tribunali sono normalmente articolati in più sezioni, che raggruppano i magistrati assegnati alla pianta organica. Normalmente, i giudici destinati a ciascuna sezione non possono essere meno di cinque, per consentire la formazione dei collegi. Le sezioni costituiscono una forma puramente interna di divisione del lavoro. La ripartizione delle cause fra le diverse sezioni non riguarda solo l’ovvia distinzione fra civile e penale ma, all’interno dei due grandi settori, comporta una sorta di specializzazione

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dei giudici. Giocano un ruolo di notevole importanza, in questo senso, le tabelle degli uffici giudicanti e i criteri per l’assegnazione degli affari alle sezioni e ai giudici (artt. 7-bis e 7-ter ord. giud.): la distribuzione del lavoro non rileva sotto il profilo della competenza esterna, ma va comunque effettuata secondo criteri obiettivi e predeterminati, indicati in via generale dal Csm. Di grande rilievo è il ruolo del presidente del tribunale che, sotto il profilo amministrativo, è il capo dell’ufficio giudiziario e che, oltre alle singole attribuzioni che riceve dalla legge, ha il compito di distribuire il lavoro fra le sezioni. Anche le sezioni sono rette da un presidente, che sorveglia l’andamento dei servizi di cancelleria ed ausiliari, distribuisce il lavoro fra i giudici e vigila sulla loro attività, curando anche lo scambio di informazioni sulle esperienze giurisprudenziali all’interno della sezione (così, letteralmente, l’art. 47-quater ord. giud.). La l. n. 420 del 1998 aveva previsto la possibilità di istituire sezioni distaccate del tribunale nell’ambito del medesimo circondario, con il potere di trattare talune tipologie di affari civili. La distribuzione delle cause fra la sede principale e le sezioni distaccate del tribunale aveva carattere interno e non era rilevante sotto il profilo della disciplina della competenza per territorio. In realtà, l’istituzione di queste sezioni distaccate era avvenuta in contestualità con la soppressione delle preture, allo scopo di mantenere una sede giudiziaria in centri che, diversamente, ne sarebbero stati privati. Per questo, la freschissima riforma della geografia giudiziaria italiana, che peraltro è ancora in via di attuazione, le ha soppresse. Un altro criterio di suddivisione delle cause è quello collegato alla specializzazione del giudice: ciò vale per la sezione per le controversie di lavoro e previdenza, per la sezione fallimentare e (ove prevista) per la sezione specializzata in materia di impresa. IV. La corte d’appello. La corte d’appello è un organo giudiziario ordinario che decide in composizione collegiale, con il numero invariabile di tre votanti (art. 56 ord. giud.). Come il tribunale, può essere articolata in sezioni, fra le quali una incaricata esclusivamente della trattazione delle contro-


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versie in materia di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatorie. La struttura della corte prevede sempre anche una specifica sezione per i minorenni ed, eventualmente, quella che funziona da tribunale regionale delle acque pubbliche (artt. 54 e 58 ord. giud.). Sul piano territoriale, sono previste sezioni distaccate di corte d’appello. La principale competenza della corte d’appello è quella di decidere sugli appelli proposti contro le sentenze dei tribunali che si trovano all’interno del distretto (art. 53 ord. giud.; art. 341 c.p.c.). Si tratta, quindi, di una tipica competenza funzionale. Vi sono, tuttavia, alcune materie in cui la corte d’appello giudica in unico grado: così per il riconoscimento delle sentenze straniere e quello dei lodi esteri (artt. 839-840 c.p.c.) e per le opposizioni alla stima in materia di espropriazione per pubblica utilità. È opportuno ricordare che il sistema italiano della giustizia civile si caratterizza per la regola del doppio grado di giurisdizione di merito, in base alla quale è normalmente previsto un duplice livello di decisione sulla materia oggetto di causa, prima dell’eventuale giudizio di legittimità in Cassazione. Non si tratta di un principio costituzionale, ma di una regola posta dalla legge ordinaria e che ammette possibili eccezioni (ad esempio, i casi in cui è prevista la competenza della corte d’appello in unico grado). È bene mettere in luce che questa scelta, rispondente ad un’esigenza di garanzia, comporta un sensibile aggravio di mezzi e strutture: ciò spiega, anche se non giustifica pienamente, la scelta legislativa del 2012 di comprimere l’operatività dei giudizi di appello. La possibilità di errore e l’opportunità di offrire al cittadino un secondo livello di riesame della sua questione inducono, però, a valutare con molta cautela questa via di razionalizzazione della giustizia civile. Alla Corte di cassazione sarà dedicata specifica attenzione a suo luogo. V. La geografia giudiziaria italiana. Gli artt. 52 e 42 ord. giud., rispettivamente, prescrivono la costituzione di una corte d’appello nel capoluogo di ciascun distretto ed un tribunale ordinario nel capoluogo di ciascun circondario. Tutta-

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via, la geografia giudiziaria italiana ha presentato a lungo profili di non piena razionalità. Il punto di fondo è il seguente. Da un lato, il precetto costituzionale dell’accesso alla giustizia (art. 24 cost.) implica che la struttura giudiziaria sia sufficientemente vicina al cittadino: ciò, però, va valutato alla luce dei moderni mezzi di comunicazione e di trasporto. Dall’altro lato, l’organico dei magistrati, che non può essere incrementato a piacere in base alle esigenze del bilancio dello Stato, deve essere utilizzato in modo appropriato, concentrando le forze ed evitando la dispersione. Tutto questo porta ad una riduzione complessiva del numero degli uffici giudiziari, ciascuno dei quali dovrebbe però disporre di un maggior numero di giudici. Tendenzialmente, i distretti di corte d’appello coincidono con il territorio amministrativo delle regioni, mentre i circondari di tribunale coincidono con il territorio delle province. Ma questa soluzione ha patito a lungo molte eccezioni e troppi uffici giudiziari affollavano il territorio. Solo di recente si è cominciato ad affrontare il problema. Infatti, la l. n. 148 del 2011 ha conferito al governo la delega di adottare uno o più decreti legislativi, al fine di attuare una profonda riorganizzazione della geografia giudiziaria italiana, con l’obiettivo, ampiamente condivisibile, di ridurre il numero degli uffici giudiziari, in modo da meglio distribuire i magistrati e i giudici di pace sul territorio, tenendo conto dei carichi di lavoro dei diversi bacini di utenza e razionalizzando il servizio giustizia nelle grandi aree metropolitane. La delega è stata attuata con i d.lgs. n. 155 e n. 156 del 7 settembre 2012: sono stati soppressi numerosi tribunali minori (passando da 165 a 137), tutte le sezioni distaccate di tribunale e un cospicuo numero di uffici del giudice di pace. VI. Organizzazione e risorse della giustizia civile. L’opinione che la crisi della giustizia civile non dipenda, se non in misura ridotta, dalle regole processuali è largamente condivisa. Lo conferma il fatto che in altri paesi europei, governati da disposizioni di rito non molto diverse, la durata delle cause è notevolmente minore. Invece, risultano decisivi gli aspetti strutturali ed organiz-


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zativi: il numero dei giudici, quello degli avvocati, la funzionalità degli apparati. Negli anni recenti, si è venuto a sviluppare, anche sul piano scientifico, un approccio che privilegia il funzionamento concreto, in chiave di efficienza aziendale, degli uffici giudiziari. Date le risorse esistenti, si tenta di individuare soluzioni che possano migliorare il lavoro degli uffici. Una delle strade che si cerca di percorrere è quella di un maggiore impiego degli strumenti informatici: si tratta del c.d. processo civile telematico, a cui si è ripetutamente fatto cenno e che favorisce la semplificazione di molte attività, con significativo risparmio di costi. Un secondo aspetto, da tempo al centro del dibattito, è quello di dotare i magistrati, che finora hanno sempre lavorato da soli, di collaboratori che, sotto la loro direzione, li possano efficacemente coadiuvare. Le prime aperture sono venute dall’art. 37 della l. 15 luglio 2011, n. 111 e dall’art. 73 del d.l. n. 69 del 2013, come convertito dalla l. n. 98 del 9 agosto 2013. Un deciso e positivo passo avanti è stato compiuto con la formale istituzione dell’ufficio per il processo (art. 50 della l. 11 agosto 2014, n. 114). La norma, tuttavia, non chiarisce che cos’è e che cosa dovrà fare l’ufficio per il processo. Si limita a dire che vi fanno parte le figure di giudici non togati (i giudici onorari dinanzi ai tribunali, i giudici ausiliari dinanzi alle corti d’appello) e i tirocinanti, vale a dire i laureati in giurisprudenza che già collaborano con i magistrati in base alle disposizioni sopra citate e che, al termine del periodo di tirocinio, possono accedere al concorso per la magistratura. Si deve auspicare che questa disposizione possa trovare al più presto una concreta attuazione. Il buon funzionamento degli organi giudiziari va poi collegato alle disposizioni sui trasferimenti e gli avvicendamenti dei magistrati. È una triste realtà italiana vedere una singola causa transitare da un magistrato all’altro: tanto più che non esiste alcuna forma di passaggio delle consegne e il nuovo giudice deve studiare il fascicolo ripartendo da zero. Giuseppe Chiovenda invocava, all’inizio del secolo scorso, un processo civile articolato sui capisaldi dell’oralità, dell’immediatezza e della concentrazione. Se l’oralità deve essere oggi fortemente ripensata, non vi è dubbio che un giudizio concen-

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trato, dinanzi ad un magistrato soltanto, possa presentare migliori garanzie di risultato, rispetto ad un processo non solo diluito nel tempo, ma anche gestito, successivamente, da persone diverse. A volte, è un magistrato a decidere quale istruttoria svolgere, è un altro che ascolta le prove ed è un terzo che emette la sentenza, attraverso un approccio alla verità limitato dallo stile burocratico dei verbali. COME RIFORMARE LA GIUSTIZIA CIVILE? I dati sull’entità del contenzioso civile italiano non sono confortanti, seppure in progressivo miglioramento. Al 30 giugno 2015, i giudizi pendenti dinanzi alle corti d’appello erano 334.928; dinanzi ai tribunali per i minorenni 90.208; dinanzi ai tribunali ordinari 2.633.950; dinanzi ai giudici di pace 1.059.701. Alla stessa data, i procedimenti civili pendenti erano complessivamente 4.221.949 (quattro anni prima erano 5.527.690). La durata varia molto da un organo giudiziario all’altro: in media, dinanzi ai tribunali un giudizio ordinario di primo grado dura circa due anni e mezzo, dinanzi alle corti d’appello oltre tre anni. Non è certo possibile sviluppare qui un ragionamento completo su possibili percorsi virtuosi per il rilancio della giustizia civile e la sua capacità di raggiungere livelli di efficienza competitivi rispetto agli altri paesi europei. Tuttavia, si possono indicare i seguenti passaggi: unità della giurisdizione, insieme a sviluppo dei giudici specializzati; aumento del numero dei magistrati di carriera; semplificazione della procedura e delle impugnazioni; razionalizzazione organizzativa; migliore formazione e aggiornamento del personale; potenziamento delle modalità informatiche; profonda revisione dell’assetto della professione forense. È importante riaffermare che la società civile non si deve rassegnare all’attuale inefficienza e che deve tendere alla piena e sostanziale attuazione del precetto dell’art. 24 cost.

25. I MAGISTRATI ONORARI. IL PUBBLICO MINISTERO. IL CANCELLIERE. L’UFFICIALE GIUDIZIARIO. I. I magistrati onorari. Occorre un cenno al ruolo – di grande rilievo pratico – dei magistrati onorari.


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La giustizia civile è assicurata sia da giudici di carriera, che in senso proprio costituiscono la magistratura, sia da giudici non di carriera. La differenza essenziale sta nel fatto che i giudici non di carriera, definiti onorari, accedono alle funzioni giudiziarie per nomina e non per concorso, senza che si instauri un rapporto di servizio di pubblico impiego. I giudici onorari fanno quindi parte dell’ordine giudiziario, ma non sono incardinati nella struttura burocraticogerarchica cui appartengono i magistrati di carriera ed esercitano le funzioni giudiziarie in via non esclusiva ed a tempo determinato. Non è invece elemento identificativo la gratuità dell’incarico, che storicamente caratterizzava le funzioni giudiziarie onorarie ma che oggi in pratica è scomparsa. La presenza di giudici non di carriera trova il suo fondamento nella carta costituzionale. Infatti, secondo l’art. 106, comma 2°, cost., la legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite ai giudici singoli. La nozione di giudice onorario è poi fatta propria dall’art. 4, comma 2°, ord. giud., ai sensi del quale appartengono all’ordine giudiziario come magistrati onorari, in sede civile, i giudici di pace, i giudici onorari di tribunale, gli esperti del tribunale e della sezione di corte d’appello per i minorenni e gli esperti della magistratura del lavoro nell’esercizio delle loro funzioni giudiziarie. Al di là della formulazione ampia della norma, la qualifica di magistrati onorari appartiene in senso proprio soltanto ai giudici di pace e ai giudici onorari di tribunale. Per le altre figure a cui si riferisce l’art. 4 ord. giud. si può parlare di svolgimento occasionale di funzioni giudiziarie, ma non di appartenenza alla magistratura onoraria. In questo senso, occorre distinguere fra giudici onorari, magistrati togati e giudici laici in genere. Come detto, i giudici onorari si distinguono dai magistrati di carriera perché l’incarico viene loro attribuito per nomina e non per concorso, oltre che per le funzioni loro assegnate, che sono unicamente quelle spettanti ai giudici singoli (oggi, peraltro, molto ampie, dopo che il d.lgs. n. 51 del 1998 ha reso normale la composizione monocratica del tribunale ed eccezionale la decisione in collegio). Nel contempo, i

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giudici onorari non vanno confusi con le altre figure di soggetti laici che partecipano all’esercizio delle funzioni giurisdizionali: si tratta delle ipotesi contemplate dall’art. 102, commi 2° e 3°, cost., rispettivamente con riferimento ai cittadini che fanno parte delle sezioni specializzate (come, ad esempio, gli esperti del tribunale per i minorenni) ed ai casi di partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia (come i giudici popolari presso la corte d’assise d’appello). L’esigenza di arruolare altre braccia per contrastare il sempre crescente contenzioso dà vita periodicamente a nuove figure di magistrati onorari. Nel 1997, per smaltire le cause arretrate al momento di entrata in vigore della riforma, furono introdotti i giudici onorari aggregati (Goa), che, seppure in ritardo rispetto alle previsioni, hanno esaurito la loro funzione. Il d.lgs. n. 98 del 1998 ha dato vita ai giudici onorari di tribunale, tuttora operativi. La l. n. 98 del 2013, agli artt. 62 ss., ha istituito i giudici ausiliari: si tratta di magistrati a riposo e altri profili professionali (docenti universitari, avvocati, notai, anch’essi per lo più a riposo), destinati a restare in servizio per cinque anni prorogabili e applicati alle corti d’appello per collaborare allo smaltimento delle cause arretrate. Il tema dei giudici onorari costituisce il luogo di uno dei più vivaci dibattiti, ricco di suggestioni politiche ed ideologiche, sull’organizzazione della giustizia. Al modello gerarchico e burocratico di una magistratura professionale, che esercita stabilmente le funzioni giudiziarie ed è dotata di elevata e specifica competenza, si affianca quello di un giudice popolare ed occasionale (si pensi alle giurie, tuttora così importanti nel modello statunitense) ovvero quello di un giudice parzialmente stabile ed elettivo. L’idea che il giudice non togato sia più vicino alle istanze popolari è ampiamente circolata ed ha dato vita, durante il secolo passato, a non pochi esperimenti. Oggi è più fortemente consolidata l’opinione che un giudice professionale, adeguatamente formato e sensibile ai valori costituzionali, possa interpretare, in realtà, l’evoluzione del diritto in modo più raffinato. Ai giudici onorari, in definitiva, sono assegnati compiti di smaltimento del contenzioso, più che di espressione qualificata dell’opinione pubblica.


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Una ricaduta emblematica del dibattito a cui si è appena accennato è data dalla vicenda dei giudici di pace, istituiti con la l. n. 374 del 21 novembre 1991, in sostituzione dei precedenti giudici conciliatori, ed entrati in funzione il 1° maggio 1995. L’art. 1 l. istit. afferma che l’ufficio del giudice di pace è ricoperto da un magistrato onorario appartenente all’ordine giudiziario, eliminando ogni riferimento alla gratuità dell’incarico, che era invece prevista per il giudice conciliatore. I giudici di pace, infatti, sono retribuiti con un’indennità commisurata alla quantità e alla tipologia del lavoro svolto. Gli uffici del giudice di pace avevano sede nei capoluoghi dei mandamenti (art. 2 l. istit.) e, ora, dopo la revisione della geografia giudiziaria, in una serie di comuni precisati in una tabella apposita allegata al d.lgs. n. 156 del 2012. Il giudice di pace è in ogni caso l’organo giudiziario più diffuso sul territorio dello Stato. Il tentativo è dunque quello di arricchire il sistema con un giudice territorialmente molto prossimo al cittadino, in grado di raccogliere le istanze di giustizia minore. Per diventare giudici di pace, occorre avere almeno trent’anni ed avere superato l’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense, salvo che non si tratti di soggetti che hanno esercitato funzioni giuridiche rilevanti, come i notai o i professori universitari. L’esercizio attuale della professione forense non è escluso, purché avvenga in un circondario di tribunale diverso da quello nel quale si esercitano le funzioni di giudice di pace (rilevando tale elemento quale causa di incompatibilità). Ciò ha, di fatto, immesso nelle file dei giudici di pace molti avvocati, soprattutto giovani, con l’unico onere di esercitare l’attività in un’area geografica finitima a quella del loro esercizio professionale. Sotto questo profilo, il giudice di pace è di fatto ritornato alla configurazione sociologica del giudice conciliatore. La possibilità di proroga dell’incarico è limitata e la cessazione dalle funzioni è comunque prevista con il raggiungimento dei settantacinque anni di età. I giudici di pace sono nominati con decreto del ministero di giustizia, previa deliberazione del Csm e dopo un articolato procedimento di valutazione e un periodo di tirocinio (artt. 4 e 4-bis l. istit.): quindi, né mediante concorso, come i magistrati di carriera, né mediante elezione.

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II. Il pubblico ministero. Il ruolo del pubblico ministero in sede civile è obiettivamente marginale. Residuo di una concezione fortemente pubblicistica e statualista, la presenza della magistratura requirente è resa meno incisiva anche per la necessità delle procure di dedicare le proprie migliori energie all’esercizio dell’azione penale. Il codice colloca la presenza del p.m. in tre modi diversi. Prevede, in primo luogo, che esso eserciti l’azione civile (nel ruolo di parte), nei casi previsti dalla legge (art. 69 c.p.c.). Sancisce, poi, all’art. 70, che il p.m. debba intervenire obbligatoriamente (a pena di nullità, rilevabile d’ufficio) in talune cause (in quelle che egli stesso potrebbe proporre; nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione personale dei coniugi; nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone; negli altri casi previsti da specifiche norme di legge). L’intervento obbligatorio si ha anche in Cassazione, nelle udienze dinanzi alle sezioni unite e nelle udienze pubbliche dinanzi alle sezioni semplici, escluse quelle dinanzi alla c.d. sezione filtro. Infine il p.m. ha la facoltà di intervenire in ogni altra causa in cui ravvisi un pubblico interesse. Altre ipotesi di partecipazione del p.m. sono governate da singole norme speciali. L’intervento del p.m., reso possibile da una comunicazione che questi riceve dal giudice (art. 71), raramente si traduce in una partecipazione incisiva alla causa e spesso si limita all’espressione di un parere. È in Cassazione che l’opinione espressa dal procuratore generale in sede di discussione, nei casi previsti, mantiene un importante significato. Per quanto concerne i poteri del p.m., va detto che egli, a norma dell’art. 72, nelle cause che avrebbe potuto proporre, ha gli stessi poteri delle parti e li esercita nelle forme che la legge stabilisce per queste ultime. Nei casi di intervento, in cui però non avrebbe potuto proporre la causa, il p.m. può attivarsi (producendo documenti, deducendo prove e prendendo conclusioni), solo nei limiti delle domande proposte dalle parti. Uno specifico potere è assegnato al p.m. in tema di impugnazioni delle sentenze nelle cause matrimoniali e di quelle che dichiarano l’efficacia o l’inefficacia di sentenze straniere, sempre in materia matrimoniale.


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Infine, il codice precisa che i magistrati del pubblico ministero possono astenersi, alle stesse condizioni dei giudici, ma non possono essere ricusati (art. 73). III. Gli ausiliari del giudice. La struttura degli organi giudiziari suppone un complesso di mezzi e di personale, con il compito di svolgere una vasta gamma di funzioni, ausiliarie rispetto a quella essenziale, vale a dire la funzione giurisdizionale. Occorre pensare, in primo luogo, che per il buon funzionamento di un ufficio giudiziario occorrono mezzi materiali, dalla sede agli indispensabili strumenti informatici. Si è a lungo discusso del profilo organizzativo, fino a parlare, non inesattamente, di azienda-giustizia. Di fatto, la scarsità di risorse incide spesso anche sotto questi profili e gli uffici giudiziari lavorano non di rado con mezzi e personale del tutto inadeguati a svolgere efficacemente i compiti che la legge loro affida. Si è soliti parlare di ausiliari del giudice, per indicare le figure che, come il cancelliere e l’ufficiale giudiziario, sono stabilmente chiamate a svolgere specifiche funzioni a fianco di quelle propriamente giurisdizionali dei magistrati. Va detto, però, che questi soggetti ricevono compiti direttamente dalla legge, sicché appare più corretto parlare di diverse funzioni e professionalità all’interno degli uffici giudiziari. È più opportuno parlare di ausiliari, invece, per le figure che cooperano con il giudice episodicamente: così i custodi, i consulenti tecnici, i traduttori e gli interpreti. Qui, infatti, la nomina viene solitamente compiuta dal giudice, in relazione a dati specifici incarichi. IV. Il cancelliere. Il cancelliere è il primo e principale collaboratore del giudice. L’organizzazione e l’operatività degli uffici di cancelleria degli organi giudiziari (che impiegano numeroso personale, sotto la direzione del cancelliere capo) sono un aspetto centrale per il concreto funzionamento della giustizia.

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Le funzioni del cancelliere (di cui si darà man mano atto, descrivendo le varie fasi del processo) sono riassunte dal codice in due rapide norme generali (artt. 57-58 c.p.c.). Il cancelliere, in primo luogo, documenta a tutti gli effetti, nei casi e nei modi previsti dalla legge, le attività proprie e quelle degli organi giudiziari e delle parti. Assiste il giudice in tutti gli atti dei quali deve essere formato processo verbale. Quando il giudice provvede per iscritto, salvo che la legge disponga altrimenti, il cancelliere stende la scrittura e vi appone la sua sottoscrizione dopo quella del giudice. Inoltre, il cancelliere attende al rilascio di copie ed estratti autentici dei documenti prodotti, all’iscrizione delle cause a ruolo, alla formazione del fascicolo d’ufficio e alla conservazione di quelli delle parti, alle comunicazioni e alle notificazioni prescritte dalla legge o dal giudice, nonché alle altre incombenze che la legge gli attribuisce. Come di consueto, queste funzioni devono essere rilette alla luce dei profili tecnici imposti dal processo telematico. V. L’ufficiale giudiziario. L’ufficiale giudiziario è ausiliario del giudice per tutte le funzioni in cui occorre mettere in atto la forza coercitiva dello Stato: si pensi (e ne troveremo traccia nella trattazione) alle notificazioni e all’attività di esecuzione forzata. L’art. 59 ne riassume le funzioni, affermando che l’ufficiale giudiziario assiste il giudice in udienza, provvede all’esecuzione dei suoi ordini, esegue la notificazione degli atti e attende alle altre incombenze che la legge gli attribuisce. Sia il cancelliere che l’ufficiale giudiziario sono soggetti a responsabilità civile, in talune limitate ipotesi (art. 60): se cioè, senza giusto motivo, ricusano di compiere gli atti che sono loro legalmente richiesti oppure omettono di compierli nel termine che, su istanza di parte, è fissato dal giudice dal quale dipendono o dal quale sono stati delegati, ovvero quando hanno compiuto un atto nullo con dolo o colpa grave. Le operazioni degli ufficiali giudiziari sono vincolate al rispetto di norme di competenza. In linea di massima, gli ufficiali giudiziari sono organizzati in strutture collegate ai distretti di corte d’ap-


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pello e possono svolgere attività solo all’interno di tale distretto. Dispone, al riguardo, il d.p.r. 15 dicembre 1959, n. 1229: in base all’art. 106, l’ufficiale giudiziario compie con attribuzione esclusiva gli atti che deve compiere per legge all’interno della circoscrizione giudiziaria in cui ha sede l’ufficio a cui è addetto, ma non al di fuori di essa. Tuttavia, secondo l’art. 107, gli ufficiali giudiziari possono compiere le notificazioni degli atti, relativi a giudizi di competenza delle autorità giurisdizionali della sede a cui sono addetti, su tutto il territorio nazionale, se si avvalgono del servizio postale. La violazione di queste regole comporta nullità delle attività poste in essere. 26. IMPARZIALITÀ E INDIPENDENZA DEL GIUDICE. PROFILI COSTITUZIONALI. L’ASTENSIONE E LA RICUSAZIONE. LA RESPONSABILITÀ DEL GIUDICE.

I. L’indipendenza del giudice. Essenziale alla stessa struttura del processo di cognizione è la terzietà del giudice. Terzietà significa che il giudice non è parte e che non ha interessi, legami o condizioni strutturali che lo avvicinino più ad una parte che all’altra. La terzietà è garantita da due profili: l’indipendenza e l’imparzialità. L’indipendenza attiene al modo di nomina e alle condizioni di lavoro del giudice (qui inteso come persona fisica); è un insieme di situazioni che rendono il giudice libero di rispondere soltanto alla legge. L’indipendenza è una condizione che consente l’imparzialità. L’imparzialità, a sua volta, è l’equidistanza effettiva del giudice rispetto alle posizioni (in fatto e in diritto) e agli interessi delle parti. L’indipendenza va vista sotto diversi profili: nei confronti del potere esecutivo, nei confronti del potere giudiziario, nei confronti delle appartenenze ideologiche. L’indipendenza nei confronti dell’esecutivo è la più classica delle preoccupazioni di ogni ipotesi garantista. La Costituzione ha cer-

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cato di assicurarla sia sancendo che i giudici sono soggetti soltanto alla legge e che la magistratura è autonoma ed indipendente da ogni altro potere (art. 104), sia istituendo un apposito organo di autogoverno dei giudici, il Consiglio superiore della magistratura, al quale sono affidate tutte le decisioni che potrebbero compromettere la serenità di un magistrato (ad esempio, quelle relative alla carriera e ai trasferimenti). L’indipendenza nei confronti del giudiziario significa che ogni giudice è vincolato solo all’osservanza della legge e non a direttive provenienti da altri giudici, che occupino posizioni di vertice nell’organizzazione giudiziaria. È vero che, come si vedrà, si stanno facendo strada formule che richiamano il giudice all’applicazione dei precedenti consolidati, ma ciò non implica alcun vincolo formale: il precedente funge da criterio interpretativo della legge e non va in alcun modo confuso con direttive di servizio o istruzioni operative. Il profilo più delicato è forse quello dell’indipendenza dalle appartenenze politiche e ideologiche. Il giudice non può non avere idee o non schierarsi; è indipendente, però, se l’esercizio delle sue funzioni non è (sensibilmente) condizionato da tale opinione ed appartenenza. Senza dubbio, contribuisce a dare un’immagine corretta del giudice la sobrietà nelle comunicazioni, che dovrebbero limitarsi ai profili istituzionali e non estendersi, se non in quanto strettamente necessario, ai rapporti con la stampa e con i media. II. L’imparzialità del giudice. Mentre l’indipendenza ha portata generale, l’imparzialità riguarda il caso concreto. È già noto il riferimento all’art. 111, comma 2°, cost., secondo cui ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale. La carta repubblicana ribadisce l’esistenza di un principio profondamente radicato nel cuore di ogni riflessione in tema di giustizia: l’imparzialità del giudice. Non si tratta soltanto di una regola nazionale, ma di un portato di civiltà, espresso da norme come l’art. 6 Cedu, l’art. 14 del patto internazionale sui diritti civili e politici, ratificato dall’Italia


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ed entrato in vigore il 15 dicembre 1978 e l’art. 47, comma 2°, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il significato di imparzialità è intuitivo. Eppure, si tratta di un concetto facile da comprendere, ma difficile da delimitare e spiegare. Il giudice è imparziale quando non prende le parti di nessuno dei contendenti e la sua decisione discende da una comprensione oggettiva della fattispecie e da una corretta applicazione della norma giuridica. Questo obiettivo si scontra non soltanto con la possibilità di errore umano, vuoi nella percezione e ricostruzione del fatto, vuoi nell’esatta interpretazione dell’ordinamento, ma anche con il rilievo, di assoluta evidenza, dell’intreccio fra il momento volitivo e quello puramente noetico e conoscitivo in qualunque manifestazione dell’agire umano. In realtà, le scelte valoriali della persona del giudice finiscono per condizionare in molte maniere il suo atteggiamento di fronte al caso, anche al di là della sua sicura intenzione di statuire con la massima correttezza. Ne segue che l’imparzialità non è un dato acquisito una volta per tutte ma un obiettivo etico, al quale il magistrato, non senza sforzo, deve costantemente tendere. Nessun giudice può ritenere di essere sicuramente imparziale ma, ogni volta, deve impegnarsi ad esserlo. Il XX secolo ha visto lo scontro fra due concezioni: da un lato, quella del giudice distaccato applicatore dell’ordinamento positivo e quindi imparziale trasmettitore nel caso concreto di un esito, già voluto dalla norma obiettivata; dall’altro lato, quella del giudice consapevole portatore di valori, se non di ideologie, da applicare anche oltre la lettera delle norme e, quindi, pur se imparziale nel caso specifico, certo non neutrale di fronte al contrasto di posizioni implicato nella lite. Se la prima visione, frutto del positivismo giuridico, ha mostrato i suoi limiti e non è apparsa in grado di reggere pienamente alle critiche, la seconda ha finito per condurre il processo e l’attività giurisdizionale su sentieri molto lontani dall’attesa di equilibrio che ogni cittadino presenta a chi giudica il suo caso. Tutta la struttura del titolo IV della seconda parte della Costituzione è impegnata a garantire l’imparzialità concreta del giudice, attraverso le regole che ne consentono l’indipendenza. L’affermazione

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dell’art. 101, comma 2°, cost., secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge, vuole collocare i magistrati in una posizione che li liberi dai condizionamenti degli altri poteri dello Stato e di ogni altro potere che in qualsiasi modo si esprima nella società. È a questa ansia di assicurare al cittadino un giudice libero che si deve fare riferimento, in vista di una lettura corretta delle norme positive. Nell’ambito della giustizia civile, il dibattito sull’imparzialità è collegato essenzialmente a due aspetti. Il primo è quello del ruolo del giudice nel processo. Il secondo concerne le condizioni personali del giudice e il suo rapporto con le parti della lite. Sotto il primo profilo, occorre dire che le tendenze moderne del processo civile privilegiano la nozione di giudice attivo: un giudice, cioè, che pur non investigando direttamente i fatti, che sono soltanto quelli presentati dalle parti, dispone però di ampi poteri inquisitori finalizzati alla ricerca della verità. Non vi è dubbio (per quel collegamento fra la conoscenza e la volontà, che si è prima posto in luce) che un giudice particolarmente attivo possa correre il rischio di fare propria quella che, inizialmente, è una semplice ipotesi ricostruttiva. In effetti, ogni giurista corre il pericolo di immaginare una tesi e, a poco a poco, di innamorarsi di quella soluzione e, certamente, il giudice deve guardarsi dal decidere istintivamente e cercare poi le ragioni (e ne troverà sempre) a sostegno di quel teorema. Tuttavia, la necessità di riequilibrare posizioni diseguali e di accertare la verità dei fatti fanno propendere a favore dell’attivismo giudiziale nel processo civile. III. L’astensione. Sotto il secondo profilo, si devono prendere in esame i rimedi che il codice appronta per garantire l’imparzialità del giudice: l’astensione e la ricusazione. L’istituto dell’astensione comprende i casi in cui il singolo magistrato, inteso come persona fisica, deve o può rinunciare a decidere un dato processo civile. L’art. 51 c.p.c., al comma 1°, prevede che il giudice ha l’obbligo di astenersi, quando ricorrono le specifiche condizioni elencate nei


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cinque punti successivi. Al comma 2°, la norma prevede che in ogni altro caso in cui esistono gravi ragioni di convenienza, il giudice possa astenersi, chiedendone l’autorizzazione al capo dell’ufficio. Ai sensi della norma citata (e nel suo linguaggio, per certi versi, risalente), il giudice deve astenersi: 1) se ha interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto; 2) se egli stesso o il coniuge è parente fino al quarto grado o è convivente o commensale abituale di una delle parti o di alcuno dei difensori; 3) se egli stesso o il coniuge ha causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuno dei difensori; 4) se ha dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o ha deposto in essa come testimone, oppure ne ha conosciuto come magistrato in altro grado del processo o come arbitro o vi ha prestato assistenza come consulente tecnico; 5) se è tutore, curatore, amministratore di sostegno, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti o se è amministratore o gerente di un ente, di un’associazione anche non riconosciuta, di un comitato, di una società o stabilimento che ha interesse nella causa. Queste disposizioni si applicano anche ai giudici onorari, per i quali (tenuto conto che possono contestualmente svolgere un’attività libero-professionale forense) si aggiungono ulteriori ipotesi di astensione: ad esempio, per il giudice di pace (art. 10 l. istit.) l’aver avuto o avere rapporti di lavoro autonomo o di collaborazione con una delle parti. In tutte queste ipotesi, è la legge a presumere che il singolo giudice possa essere privo del necessario requisito della terzietà o, per lo meno, che egli possa apparire tale agli occhi delle parti. Non si può, quindi, fare un’analisi sull’imparzialità concreta, ma la sussistenza di queste situazioni obbliga comunque il magistrato ad astenersi. Nel contempo, si deve ritenere che questi motivi vadano considerati come tassativi e, quindi, non suscettibili di interpretazione estensiva e tanto meno analogica. Non rientra negli scopi di queste pagine un esame dettagliato di ciascun motivo. Basti qui una duplice considerazione di fondo. In primo luogo, l’elenco dei motivi appare fortemente inadeguato alla complessità della società moderna. Certo, avere già cono-

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sciuto della causa è una ragione permanente di non adeguatezza del giudice che, avendo già espresso un’opinione, finirebbe per esserne vincolato. Tuttavia, condizioni come l’inimicizia, la commensalità abituale o i rapporti di debito e credito descrivono meglio la vita di un borgo agricolo della prima metà del secolo scorso che non quella di una megalopoli urbana. Per altro verso, mancano motivi che certo mettono una delle parti in grave sospetto di essere giudicata non parzialmente, come l’affinità conclamata di appartenenza politica ed ideologica in questioni sensibili sotto questo profilo, ovvero la comune appartenenza a contesti associativi non trasparenti. In secondo luogo, non esiste un generale dovere del singolo giudice di dichiarare eventuali situazioni che possano, per qualsiasi ragione, fare sospettare la sua mancanza di imparzialità. L’obbligo della disclosure, previsto nella prassi per gli arbitri privati, non si estende ai giudici: qui, prevale ancora il senso dell’autorità dello Stato, di cui il giudice è portavoce e che, normalmente, non può essere discussa, se non (come si è appena visto) per ragioni tassativamente specificate. Nei casi dell’art. 51, comma 1°, la dichiarazione del giudice di volersi astenere è necessaria e sufficiente: essa non è sindacabile e produce un effetto automatico, con la conseguenza che può astenersi anche il giudice che, semplicemente, non voglia decidere quella concreta causa. Il dovere di astensione del giudice (salvo quello che si dirà fra poco sulla ricusazione) non è sanzionato, se non eventualmente sul piano deontologico e disciplinare (in questo senso, al pari del caso in cui il magistrato si sia illegittimamente astenuto, invocando un motivo inesistente). È anche opportuno dire che la violazione del dovere di astensione, eventualmente causata anche dall’ingiusto rigetto dell’istanza di ricusazione, non è motivo di impugnazione della sentenza. La clausola generale, che si è vista mancare fra i motivi di astensione obbligatoria, ricompare al comma 2° dell’art. 51, che prevede la possibilità per il giudice di astenersi dal giudicare qualora ritenga sussistere gravi ragioni di convenienza. Tali ipotesi danno adito ad un’ampia potenzialità applicativa in quanto sono apprezzate personalmente e direttamente dal giudice e rilevano sul piano processuale


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solo se sono da quest’ultimo dichiarate mediante la richiesta d’autorizzazione al capo dell’ufficio o al capo dell’ufficio superiore, nel caso in cui ad astenersi sia lo stesso capo dell’ufficio. L’autorizzazione, che qui viene richiesta, serve a mediare fra le esigenze espresse dal magistrato e il criterio di buon andamento dell’ufficio giudiziario. IV. La ricusazione. Al dovere di astensione da parte del giudice corrisponde il potere di ricusazione in capo a ciascuna delle parti. Mediante l’istanza di ricusazione, infatti, la parte, allegando una temuta situazione di non imparzialità del magistrato, chiede che quella singola persona fisica sia sostituita da altra, nell’ambito del medesimo ufficio giudiziario. Non viene in gioco, quindi, né la competenza dell’organo né il principio costituzionale del giudice precostituito per legge (art. 25 cost.). La simmetria, però, non è perfetta. Infatti, la ricusazione è possibile solo quando il giudice si trovi in una delle condizioni (la cui modesta efficacia è stata più sopra sottolineata) dell’art. 51, comma 1°. Manca ogni possibilità di ricusare il giudice sulla base di una clausola elastica, seppure ovviamente riempita, nel caso concreto, da addebiti gravi. Inoltre, mentre l’astensione ha effetti automatici, la ricusazione suppone un subprocedimento, che prende vita dall’apposita istanza (art. 52 c.p.c.), in cui il ricusante deve precisare i motivi della propria iniziativa e le prove che la sostengono. Punto fondamentale della vicenda è che a giudicare sulla ricusazione sono normalmente i colleghi del ricusando. Infatti, secondo l’art. 53, sulla ricusazione decide il presidente del tribunale se è ricusato un giudice di pace, ma decide il collegio (di quella sezione) se è ricusato uno dei componenti del tribunale o della corte d’appello. Altre ombre, sul piano delle garanzie, discendono dalle modalità del procedimento. Prima di giungere all’ordinanza decisoria, viene ascoltato il giudice ricusando e vengono assunte le eventuali prove, senza che la parte ricusante possa essere sentita. Una giurisprudenza particolarmente protettiva ha escluso l’ammissibilità di un ricorso straordinario per

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cassazione ex art. 111 cost. contro l’ordinanza: questo ricorso avrebbe l’effetto di sottrarre la questione alla giurisdizione domestica dell’organo giudiziario a cui appartiene il giudice ricusando. Nella prassi, la ricusazione del giudice civile è rara: troppo elevato, per la parte, è il rischio che l’istanza venga respinta e che la causa venga decisa da un magistrato che forse prima era imparziale, ma che dopo, almeno psicologicamente, di certo non lo è più. Sul piano propositivo, è certo doveroso riconoscere che maglie troppo larghe potrebbero condurre ad abusi dell’istituto della ricusazione. Tuttavia, la struttura attuale appare non sufficiente a garantire le legittime aspettative delle parti di essere giudicate imparzialmente. V. La responsabilità civile del giudice. Un breve cenno va dato al punto della responsabilità civile dei giudici. Se un comportamento illecito del magistrato nell’esercizio dei suoi doveri suppone che il cittadino leso venga risarcito, è fondamentale tutelare la libertà del giudice, che deve poter decidere secondo serena coscienza. È necessario essere molto cauti nell’attribuire una responsabilità civile ai giudici e bisogna evitare il pericolo che la minaccia di un’azione legale possa essere utilizzata come forma di indebita pressione. Nella ricerca di un delicato equilibrio, dopo che un referendum popolare aveva abrogato le precedenti norme molto protettive per i magistrati, fu emanata la l. 13 aprile 1988, n. 117. Nel corso degli anni, però, sono stati pochi i casi in cui è stata pronunciata la responsabilità del giudice. L’impressione di una copertura corporativa ha alimentato le posizioni di chi proponeva un ampliamento della sfera di responsabilità dei magistrati. Alcuni orientamenti della Corte di giustizia (e in specie la sentenza del 13 giugno 2006 nel caso Traghetti del Mediterraneo) hanno indotto il legislatore, nel quadro di un mutato contesto politico, a dare corso ad una riforma: il che è avvenuto attraverso la novellazione attuata dalla l. n. 18 del 27 febbraio 2015.


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Il sistema complessivo attuale è il seguente. La legge attribuisce al cittadino, che ritenga di essere stato danneggiato ingiustamente da comportamenti, atti o provvedimenti giudiziari posti in essere da un magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni o per effetto di un diniego di giustizia, un’azione volta a conseguire il risarcimento dei danni, anche non patrimoniali, da proporre non contro il giudice ma nei confronti dello Stato. Se la domanda viene accolta, potrà poi seguire l’azione di rivalsa dello Stato verso il magistrato responsabile. Obiettivo del legislatore è quello di evitare un diretto contrasto fra il cittadino e il magistrato (che può però intervenire volontariamente nella causa civile promossa dal presunto danneggiato), ponendo lo Stato in una collocazione intermedia. Costituisce colpa grave, secondo l’art. 2 della legge, la violazione manifesta della legge (italiana o europea), il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontestabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, ovvero ancora l’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione. L’art. 3-bis come novellato chiarisce, poi, le circostanze che rendono “manifesta” la violazione della legge. Al riguardo, si tiene conto del grado di chiarezza e precisione delle norme violate e dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza. Infine, se la violazione concerne il diritto dell’Unione europea, si deve tenere conto dell’eventuale inosservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267 Tfue, nonché del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia. Nel riassetto dell’istituto, non è più radicalmente esclusa, come in precedenza, quale possibile fonte di responsabilità del magistrato, l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove. Anche se è lecito pensare che vi sarà un’applicazione prudente delle nuove disposizioni, non vi è dubbio che il sillogismo giudiziale viene in qualche modo investito dalla nuova sfera di controllo. La fattispecie del c.d. diniego di giustizia, secondo l’art. 3 della legge, sussiste invece in caso di rifiuto, omissione o ritardo del ma-

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gistrato nel compimento di atti del suo ufficio, quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria (termine che è però prorogabile dal dirigente dell’ufficio). La disciplina della materia, a cui in questa sede non si può dare che un cenno, si completa con altre disposizioni. L’azione risarcitoria per colpa del magistrato è proponibile solo dopo l’esperimento di tutti i mezzi ordinari di impugnazione. Sussiste un termine triennale di decadenza, che decorre dal momento in cui l’azione è esperibile. La competenza a conoscere della domanda di risarcimento spetta al tribunale in composizione collegiale nella sede della corte d’appello del distretto più vicino a quello in cui è compreso l’ufficio giudiziario nel quale operava il magistrato al momento del fatto. Non resta che auspicare che il diritto vivente regoli con prudenza questa materia così delicata.

27. IL DIFENSORE E LA DEONTOLOGIA FORENSE. I. Il difensore: profili generali. L’ordinamento prevede che le parti, dinanzi al giudice civile, normalmente non svolgano in proprio l’attività defensionale, ma si avvalgano di un (necessario) ausilio tecnico: il difensore. La difesa tecnica è diversa dalla rappresentanza processuale. Con la rappresentanza processuale nel processo agisce un soggetto diverso da quello nella cui sfera giuridica ricadono gli effetti della decisione; invece, la difesa tecnica comporta che la parte agisca nel processo, ma con l’intermediazione di un difensore. La regola di base (nota come divieto dello jus postulandi) è posta dall’art. 82, comma 3°, c.p.c.: salvi i casi in cui la legge dispone altrimenti, davanti al tribunale e alla corte d’appello le parti debbono stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente e davanti alla Corte di cassazione col ministero di un avvocato iscritto nell’apposito albo. La parte, insomma, non può presentarsi


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e difendersi da sola davanti al giudice, ma solo per il tramite di un intermediario tecnico: l’avvocato. L’obbligo di farsi difendere è in funzione di protezione della parte. Il cittadino comune non è tecnicamente in grado di rispettare le molteplici regole, processuali e sostanziali, che condizionano l’esercizio e la tutela dei suoi diritti. Ignorantia legis non excusat, e quanto sia complesso maneggiare le norme è un dato che non deve essere dimostrato agli studenti dei corsi di laurea in giurisprudenza. La parte può difendersi da sola in pochi casi, espressamente precisati dalla legge. Così, ciò può accadere davanti al giudice di pace, se il valore della controversia non eccede euro 1.100 (tetto di valore elevato a questo importo dalla l. n. 10 del 2012, in modo da farlo coincidere con quello previsto per la decisione secondo equità del giudice onorario) o se il giudice di pace, in considerazione della natura ed entità della causa, espressamente la autorizza (art. 82 c.p.c.); nel rito del lavoro in primo grado, quando il valore della causa non eccede euro 129,11 (art. 417 c.p.c.); ovvero se si tratta di una persona che ha la qualità necessaria per esercitare l’ufficio di difensore con procura presso l’organo giudiziario che tratta la causa (art. 86 c.p.c.). Un avvocato, quindi, può difendersi da solo in una controversia personale. Tuttavia, va detto che difendersi personalmente, anche quando è consentito dalla legge processuale, non è mai consigliabile: si è sempre cattivi giudici delle proprie cause e manca il necessario distacco, che costituisce invece uno dei maggiori pregi della presenza del difensore tecnico. I poteri del difensore sono indicati all’art. 84 c.p.c. Il difensore può compiere e ricevere, nell’interesse della parte, tutti gli atti del processo che non sono ad essa espressamente riservati. Per le attività processuali, il difensore è una sorta di alter ego della parte (con salvezza delle situazioni in cui la parte può o deve disporre dei diritti). L’art. 125 c.p.c. stabilisce che gli atti processuali di parte devono essere sottoscritti dal difensore. Pertanto, quando nell’esposizione dello svolgimento del processo si fa riferimento ad attività, iniziative o scelte della parte, ci si riferisce normalmente ad attività, iniziative o scelte del difensore. La parte, quindi, beneficia o subisce tutte le conseguenze dell’agire del difensore: ciò che dice o scrive il

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difensore al giudice, è ciò che la parte dice o scrive al giudice. Restano fuori da questo quadro solo le poche situazioni, in cui la parte è chiamata ad esercitare nel processo poteri dispositivi o negoziali (come meglio si vedrà, la confessione, il giuramento, la conciliazione), ovvero a riferire personalmente al giudice (l’interrogatorio libero): qui, il ruolo del difensore si riduce al profilo dell’assistenza prestata alla parte, ma non alla sua sostituzione. Il codice distingue due funzioni del difensore: il compimento degli atti processuali dinanzi al giudice in rappresentanza della parte (e qui si parla di procuratore) e lo studio del caso e l’assistenza alla parte (qui invece si parla di avvocato: art. 87 c.p.c.). Le due funzioni possono essere cumulate nella medesima persona. La legge professionale non distingue più, come per il passato, fra procuratore e avvocato. II. L’incarico al difensore. La designazione del difensore avviene mediante uno specifico negozio, la procura alle liti. Mediante la procura, viene conferito dalla parte al procuratore il compito di rappresentarla e difenderla nel processo. Non si può rappresentare una parte senza averne ricevuto procura (art. 83, comma 1°, c.p.c.). Nel contempo, vi è un profilo sostanziale che lega la parte al difensore: si tratta di un contratto d’opera professionale, disciplinato dagli artt. 2229 ss. c.c. Conviene esaminare separatamente i due aspetti. In base all’art. 83, comma 2°, la procura alle liti può essere generale (vale a dire, riferita a tutte le controversie in cui quella parte è o sarà coinvolta) o, come più spesso accade, speciale (vale a dire, per una determinata controversia) e deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata. La legge precisa, anzi, che la procura speciale si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo quando nell’atto non è espressa volontà diversa. Il comma 3° dell’art. 83 detta, poi, una disposizione di grande rilievo pratico. Infatti, la procura speciale può essere anche apposta in calce o a margine di un ampio novero di atti processuali di parte: la citazione, il ricorso, il controricorso, la comparsa di risposta o di intervento, il precetto, la domanda di intervento nell’esecuzione, la


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memoria di nomina del nuovo difensore, in aggiunta o in sostituzione del difensore originariamente designato. In tutti questi casi, l’autografia della sottoscrizione della parte deve essere certificata dal difensore, senza che si debba ricorrere alla certificazione di un pubblico ufficiale. Occorre brevemente spiegare che cosa significhi che la procura può essere apposta in calce o a margine di un atto. Intanto, la dizione essenziale di una procura è la seguente: la parte (persona fisica o legale rappresentante di una persona giuridica) delega a rappresentarla davanti al giudice e a difenderla (come si è visto, rappresentanza e assistenza sono due attività concettualmente distinte) un certo avvocato, munito degli opportuni requisiti fissati dalle legge professionale. Ora, questa indicazione può essere scritta alla fine (e quindi, in calce), oppure nel margine bianco di una pagina di un atto giudiziario. Il significato della procura è quello di munire un avvocato dei poteri rappresentativi della parte dinanzi al giudice e alla controparte. Se dinanzi al giudice compare l’avvocato A, sostenendo di rappresentare la parte B, il giudice e la controparte devono essere messi in condizione di verificarlo: ecco perché, come meglio si vedrà, la presentazione della parte dinanzi all’organo giudiziario presuppone sempre una valida procura alle liti, la cui mancanza comporta nullità degli atti compiuti. Se questo è vero, dovrebbe poter bastare un qualunque atto (ad esempio, una lettera di incarico) che conferma questo conferimento di poteri. La legge, invece, richiede le forme più rigorose che si sono appena esaminate. E non basta: una fitta giurisprudenza, negli anni passati, ha colpito le procure alle liti esigendo il rispetto di formalità obiettivamente eccessive. Per questo, il legislatore ha dovuto precisare, sempre all’art. 83, che la procura si considera apposta in calce anche se rilasciata su foglio separato che sia però congiunto materialmente all’atto cui si riferisce (e quindi, con punti metallici, un timbro di congiunzione e via dicendo), ovvero (e qui trascriviamo la norma) su documento informatico separato sottoscritto con firma digitale e congiunto all’atto cui si riferisce mediante strumenti informatici, individuati con apposito decreto del ministero della giustizia. Se la procura alle

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liti è stata conferita su supporto cartaceo, il difensore che si costituisce attraverso strumenti telematici ne trasmette la copia informatica autenticata con firma digitale, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e trasmessi in via telematica. Dietro alla procura, vi è un rapporto di fiducia fra la parte e il difensore. Una parte sceglie il proprio avvocato, rispetto ad una data causa, per molte ragioni: per fama dell’avvocato, perché consigliata da altri, perché si tratta di un amico o di un parente, perché l’avvocato ha già curato con successo altri incarichi e così via. A sua volta, l’avvocato deve accettare l’incarico. Ora, nel corso della causa, il rapporto di fiducia può venire meno. Perciò, occorre garantire alla parte il diritto di cambiare difensore e all’avvocato quello di chiudere il rapporto con la parte. La prima situazione prende il nome di revoca della procura (o del mandato, visto che la procura è un mandato); la seconda, di rinuncia alla procura (o al mandato). Per entrambe, l’art. 85 c.p.c. garantisce piena libertà reciproca, in qualsiasi momento: non occorrono preavvisi o motivazioni di giusta causa. Tuttavia, vi è la necessità di tutelare non la parte che sta attuando l’avvicendamento (che ne è responsabile e se ne assume le conseguenze), ma la controparte che, a molteplici fini, deve sapere a chi indirizzare taluni atti. Di qui, la previsione secondo cui la revoca e la rinuncia non hanno effetto nei confronti dell’altra parte finché non sia avvenuta la sostituzione del difensore. L’avvocato che ha subito la revoca o ha effettuato la rinuncia ha ancora taluni specifici doveri verso il cliente: in primo luogo, quello di informarlo di eventuali comunicazioni o atti ricevuti, nel periodo antecedente alla nomina del nuovo difensore; in secondo luogo, quello di restituirgli tutta la documentazione ricevuta, della quale peraltro può trattenere copia, ai fini di eventuali controversie circa il pagamento delle prestazioni effettuate. Questa precisazione consente di passare al profilo sostanziale. Il rapporto fra il difensore e il cliente è un contratto d’opera intellettuale (artt. 2222 e 2229 c.c.) che richiede, per la sua validità, l’iscrizione del professionista all’albo degli avvocati, tenuto, per ogni circoscrizione, dal Consiglio dell’ordine degli avvocati. L’avvocato


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deve svolgere la propria opera personalmente, ovvero avvalendosi di sostituti e ausiliari, sotto la propria direzione e responsabilità (art. 2232 c.c.). La professione forense si deve rapportare alla forte spinta liberalizzatrice impressa di recente dal legislatore, in coerenza con una generale tendenza europea. In base all’art. 9 della l. n. 27 del 2012 e all’art. 13 della nuova legge professionale forense, il compenso dell’avvocato non è più stabilito in base al precedente sistema delle tariffe fissate normativamente, che, in quanto limitativo del libero mercato, è stato abolito. Invece, la remunerazione del professionista va fissata d’accordo con il cliente e l’avvocato, se richiesto, deve preventivare i costi della sua attività. In mancanza, si applicano appositi parametri stabiliti con d.m. Un punto importante è quello della responsabilità. Posto che è il difensore ad agire per la parte dinanzi al giudice, gli errori del difensore, sotto il profilo processuale, sono errori della parte. Se, ad esempio, il difensore omette una certa attività in un dato termine, è la parte ad averla omessa, con ogni conseguenza sul piano della perdita dei diritti. La decisione della causa ne seguirà di conseguenza; certo, però, sul piano del rapporto sostanziale, la parte-cliente potrà chiedere il risarcimento dei danni all’avvocato. I professionisti forensi sono obbligati per legge a stipulare polizze assicurative di responsabilità civile e a renderne note ai clienti le caratteristiche essenziali. L’art. 2236 c.c., peraltro, dispone che se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il professionista intellettuale risponde dei danni solo in caso di dolo o di colpa grave. È opportuno chiarire, sotto questo profilo, che il difensore assume un obbligo di mezzi e non di risultato: sul professionista incombe il dovere di diligenza, non quello di vincere la causa. Se è vero che il processo si struttura su un conflitto dialettico e che compito delle parti (cioè, dei difensori) è quello di sostenere le rispettive tesi, lasciando al giudice terzo e imparziale il compito di dire il diritto, ne consegue che una sola delle parti potrà essere pienamente vittoriosa. È nelle cose che uno dei due avvocati perda la causa: ma questo non è, di per sé, fonte di alcuna responsabilità.

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III. La deontologia professionale. Il ruolo e la funzione dell’avvocato incontrano oggi una netta crisi di immagine, dovuta, fra l’altro, al livellamento culturale, alla crescita numerica degli avvocati, ai comportamenti eticamente non corretti di taluni. Alle sfide dei tempi nuovi potranno forse rispondere la specializzazione, il lavoro in équipe, una rinnovata coscienza etica. L’avvocato è chiamato a rispettare le norme della deontologia professionale, verso i clienti, i colleghi e i giudici, che sono tradotte in un apposito codice deontologico, emanato dal Consiglio nazionale forense, vale a dire dall’organo esponenziale della categoria a livello nazionale. La deontologia era, un tempo, il lessico di comportamento di una ristretta cerchia di professionisti, normalmente provenienti dal ceto borghese, legati da reciproci rapporti di conoscenza. Non è facile trapiantare le stesse regole in una società di massa, in cui anche la professione forense è massificata. Il profilo fondamentale è che queste norme morali oggettive si traducano in impegno di preparazione professionale e di correttezza. Uno dei principali doveri dell’avvocato è quello della formazione: non basta, oggi, evidentemente, avere acquisito una laurea in giurisprudenza e superato l’esame per l’accesso alla professione. Le norme cambiano, la giurisprudenza si evolve e solo uno studio continuo permette all’avvocato di fornire un servizio efficace ed utile. Oggi, la formazione continua dell’avvocato è un preciso obbligo. Per quanto riguarda la correttezza, il codice di procedura civile affianca le regole deontologiche dettando due norme. L’art. 88 ribadisce il dovere delle parti e dei loro difensori di comportarsi in giudizio con lealtà e probità. L’art. 89 pone il divieto di usare, negli scritti e nelle difese orali dinanzi al giudice, espressioni sconvenienti od offensive. Questa materia si ricollega al tema dell’abuso del processo e della strumentalità del processo rispetto alla tutela dei diritti. Tuttavia, non si deve cadere in una concezione che dimentichi la struttura conflittuale del processo civile. La teoria della collaborazione fra parti e giudice nel processo ai fini di un migliore accertamento dei fatti e di una corretta applicazione del diritto deve essere intesa nel senso che i contendenti, senza comportamenti abusivi o


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penalmente rilevanti, hanno il pieno diritto di dare prospettazioni antitetiche e di difendere, con energia, le rispettive posizioni. Il giudice, a sua volta, non è un notaio che raccoglie un accordo, ma deve assumersi il compito di decidere, necessariamente scontentando qualcuno. Pur con i suoi evidenti limiti attuali, la funzione dell’avvocato, come garante di libertà, è insostituibile. L’esperienza delle dittature più cupe dimostra che uno dei primi ceti ad essere colpito è quello degli avvocati, spesso troppo indipendenti per chi aspira ad inquadrare un’intera società sotto un regime. AVVOCATO O GENTILUOMO? Antica e nobile, la professione forense conosce in questi tempi una crisi profonda. Gli avvocati sono troppi (circa 250.000 iscritti agli albi in Italia), non sempre adeguatamente formati, privi di prestigio agli occhi dell’opinione pubblica, che ne vede – non a torto – una delle cause del moltiplicarsi del contenzioso e delle difficoltà della giustizia. Basta guardare la figura dell’avvocato nella fiction televisiva italiana: mentre il giudice è, normalmente, un personaggio positivo, l’avvocato è, di solito, corrotto, colluso con la criminalità e riveste comunque un ruolo negativo o per lo meno ambiguo. Di tanto in tanto, poi, riemerge l’idea illuministica del cittadino bon sauvage, che non vorrebbe litigare ma che il malvagio avvocato induce ad andare in giudizio per bieco fine di lucro. Ne seguono tentativi di intervento normalmente scomposti, come l’allargamento delle ipotesi di difesa personale o la forte spinta verso le soluzioni non processuali del contenzioso. Anche se il reddito di pochi grandi studi legali è elevatissimo, la maggior parte degli avvocati guadagna come un discreto impiegato: senza contare l’ampio Lumpenproletariat forense, fatto da eserciti di giovani legali, pagati in misura inadeguata alle loro capacità. Le regole europee non consentono, in prospettiva, il mantenimento di albi chiusi e, di fatto, entrano nel mercato legale molti più professionisti di quelli che sarebbe opportuno. È quindi indispensabile fissare regole per poter restare all’interno del mercato: un aggiornamento comprovato (e qui molto si sta lavorando); un livello minimo di reddito, che sia indice di una struttura organizzativa efficiente; un rafforzamento dei requisiti di specializzazione. ➔

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➔ La legge professionale forense, che risaliva al 1933, è stata finalmente rinnovata con la l. n. 247 del 31 dicembre 2012. Merito della nuova disciplina è quello di avere mantenuto una normazione specifica per coloro che sono chiamati a difendere i diritti, senza confonderli nel coacervo indistinto delle altre professioni. Tuttavia, si può dubitare che la legge, da sola, serva a risolvere le difficoltà di una categoria. Al di là di tutto, gli avvocati devono però recuperare pienamente una dimensione etica corretta, delineata, oltre che dalle regole di deontologia, da un reale atteggiamento di servizio nei confronti del cliente. Essere avvocato è una mission: chi intraprende questa strada con il miraggio del guadagno non ha certamente colto nel segno.

28. PLURALITÀ DI PARTI NEL PROCESSO. LITISCONSORZIO NECESSARIO E FACOLTATIVO. L’AZIONE COLLETTIVA RISARCITORIA. I. Il processo a pluralità di parti. Fino a questo momento della trattazione, ci si è riferiti normalmente all’ipotesi in cui le parti del processo sono due. È lo schema più semplice per un immediato approccio alla materia. Il diritto processuale, però, si trova a dover affrontare situazioni in cui la controversia riguarda non due, ma più parti. Non è il diritto processuale a dare vita a queste situazioni: è, invece, il diritto sostanziale a creare legami, la cui soluzione, quando sorge la controversia, coinvolge una pluralità di soggetti. Si tratta, insomma, di costruire il remedium adatto alle variazioni del diritto materiale. Questo problema conosce le soluzioni tradizionali del litisconsorzio e dell’intervento di terzi. In realtà, vanno considerate anche altre fattispecie, come le azioni a tutela di interessi collettivi o diffusi (in cui si cerca di concentrare un ampio numero di interessati nella sfera di un solo soggetto agente). Rientra in queste ultime anche l’azione collettiva risarcitoria, introdotta con l’art. 140-bis del codice del consumo. Di fatto, non è la stessa cosa organizzare adeguatamente un processo con due o con molte parti. Si parla di complex litigation tut-


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te le volte che, per il numero di soggetti coinvolti, la gestione del processo assume caratteristiche peculiari. Un’ipotesi particolare è quella dell’arbitrato multi-parti, che ora viene affrontata dagli artt. 816-quater e 816-quinquies c.p.c. e di cui si dirà a suo luogo. La pluralità di parti nel processo può essere originaria o successiva. Quando è originaria, si parla di litisconsorzio: il processo, a seconda dei casi, nasce o deve nascere con più parti. Quando è successiva, si parla di intervento o litisconsorzio successivo: le parti aumentano a processo già iniziato. Si ha litisconsorzio quando il processo comincia o deve cominciare con più parti; ciò corrisponde a situazioni plurisoggettive sul piano sostanziale. Come si ripete, è questo uno dei molti snodi della materia processuale in cui le regole sono dettate dal diritto sostanziale: il processo si adegua e si adatta a rispondere in modo efficace ad una lite complessa. II. Il litisconsorzio necessario. Si distingue fra litisconsorzio necessario e litisconsorzio facoltativo. Il litisconsorzio è necessario (art. 102 c.p.c.) quando oggetto della causa è un unico rapporto sostanziale con più parti. Infatti, l’attività giurisdizionale deve regolare la lite, con effetti su tutto il rapporto sostanziale dedotto e nei confronti di tutte le parti di quel rapporto. Come si ricorderà, è questo il tema dei limiti oggettivi del giudicato e, per altro verso, quello della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato. Vi sono situazioni sostanziali in cui la controversia e la relativa decisione inevitabilmente (cioè, necessariamente) coinvolgono più soggetti. Una decisione che coinvolgesse solo alcuni e non altri non sarebbe quindi giuridicamente pensabile. Una sola è la decisione, perché una sola è l’azione e una sola è la domanda, per quanto indirizzata nei confronti di più soggetti, o proposta da più soggetti. L’individuazione delle ipotesi in cui devono essere necessariamente presenti nel processo più di due parti deriva dal diritto sostanziale. Un esempio facile è quello del giudizio di divisione di una comunione ereditaria con più di due coeredi: l’azione è una sola, la causa pure, e uno solo sarà il processo e la sentenza che lo decide. Occorre ave-

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re chiaro, però, che, se in molte ipotesi il litisconsorzio è necessario perché una sola è la causa di cui si controverte, in altre è la volontà del legislatore a fondarne, convenzionalmente, i presupposti. La giurisprudenza è orientata a ritenere che, al di fuori dei casi di legge, vi sia litisconsorzio necessario solo quando l’azione tende alla costituzione o alla modifica di un rapporto plurisoggettivo unico, ovvero all’adempimento di una prestazione inscindibile comune a più soggetti. La mancata presenza di un litisconsorte necessario rende totalmente inesistente il rapporto processuale. Se il fondo X appartiene in comunione ai soggetti A, B, C e D, una divisione fra i soli A, B e C sarebbe priva di qualsiasi efficacia, non solo nei confronti di D, ma anche nei rapporti interni fra i primi tre soggetti. Un processo in cui manchi un litisconsorte necessario è esattamente come un processo a due parti in cui fosse presente solo l’attore. Se il giudice rileva questa mancanza, ordina l’integrazione del contraddittorio nei confronti della parte dimenticata, che si è soliti definire litisconsorte (in quanto componente del litisconsorzio) pretermesso. In altre parole, dispone che vengano chiamati in giudizio tutti coloro che devono parteciparvi, e che avrebbero dovuto parteciparvi fin dall’inizio, per ottenere un risultato utile. D’altra parte, il processo è retto, come è noto, dal principio della domanda e dall’impulso di parte: quindi, solo una parte può provvedere a dare luogo all’integrazione. Fino a che tutti i litisconsorti necessari non sono stati correttamente chiamati in giudizio (e fermo restando che è loro diritto partecipare attivamente, oppure rimanere contumaci), il processo non può utilmente avviarsi: a rigore, fino a quel momento il processo non esiste. Per questo, l’ordine di integrazione del processo deve essere dato, possibilmente, all’inizio del processo (art. 183, comma 1°, c.p.c.): tuttavia, occorrendo, può essere dato in ogni momento successivo. Se nessuna delle parti provvede, il giudice deve prendere atto che il processo non può avviarsi e ne dichiara immediatamente l’estinzione (anche se, nella sostanza, qui il processo non muore, ma semplicemente non è mai nato). Se non viene percepita la necessità di integrare il contraddittorio e la sentenza passa in giudicato senza che sia rilevata la mancanza di


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qualche litisconsorte necessario, il risultato del processo è solo apparente: in realtà, ad un non-processo consegue un non-giudicato. Si dice quindi che il giudicato così ottenuto è inesistente o “inutiliter datum” e il litisconsorte pretermesso può dare vita ad un nuovo (o meglio, ad un primo) accertamento di cognizione. In specie, egli può spiegare opposizione di terzo ovvero esperire un’azione di accertamento negativo. Può spiegare opposizione di terzo, perché si ha una sentenza pronunciata fra altri soggetti che pregiudica il suo diritto: lo pregiudica non in linea teorica, perché quel diritto non è toccato da un giudicato inesistente, ma in linea pratica, perché nell’ordinamento circola una pronuncia assistita da una presunzione di legittimità che non considera il suo diritto. Tuttavia, proprio perché il diritto è rimasto intatto, può anche decidere di proporre un’azione di accertamento dell’inesistenza del diritto altrui che, apparentemente, è fondato sulla sentenza. In caso di litisconsorzio necessario la pluralità di parti permane in tutti i gradi del processo. Ad esempio, la sentenza di divisione deve essere impugnata contro tutti i coeredi. Di più, il codice prevede forme di litisconsorzio necessario c.d. processuale in sede di impugnazione, per cui un legame non necessario in primo grado lo diventa nelle fasi successive (art. 331 c.p.c.). Su questo punto, si ritornerà parlando di impugnazioni. III. Il litisconsorzio facoltativo. Il litisconsorzio facoltativo (art. 103 c.p.c.), invece, è legato ad ipotesi di connessione tra azioni. Si tratta di azioni diverse, ma con un elemento in comune (parti, titolo, oggetto); il collegamento può perfino essere estrinseco, come nel caso in cui le cause, fra loro diverse, dipendono però dalla risoluzione delle medesime questioni (situazione in cui si parla di connessione impropria). In queste ipotesi, possono legittimamente nascere tanti processi diversi quante sono le azioni; tuttavia, le parti possono scegliere di favorire la trattazione comune delle varie cause. Le ragioni di una trattazione unitaria sono almeno due: l’esigenza di un risparmio di energie processuali

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e, forse soprattutto, l’opportunità di evitare che si arrivi a giudicati contraddittori. La differenza con il litisconsorzio necessario è netta: nel litisconsorzio necessario vi è una causa sola, con più parti; in quello facoltativo, vi sono più cause. Così recita testualmente l’art. 103, comma 1°, c.p.c.: più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo, quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l’oggetto o per il titolo dal quale dipendono, oppure quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni. Un esempio. Il committente A, non soddisfatto delle modalità di esecuzione di un contratto di appalto, intende agire, a titolo di responsabilità contrattuale, contro l’impresa appaltatrice B e il progettista C. È certo che è titolare di due azioni distinte e può iniziare due diversi giudizi. Tuttavia, in questo caso, non soltanto dovrà svolgere due volte l’attività istruttoria, ma correrà il rischio che il giudice davanti al quale ha convenuto in causa l’impresa appaltatrice B ritenga sussistente l’inadempimento ma lo imputi al progettista C e che, viceversa, l’altro giudice, davanti al quale ha instaurato il giudizio contro C, attribuisca la responsabilità a B. Il committente A, che pure ha certamente subito un torto, si vedrebbe così respinta la domanda e non otterrebbe soddisfazione. È opportuno ricordare qui la distinzione fra cumulo oggettivo e cumulo soggettivo. Nel primo caso (art. 104 c.p.c.), il medesimo attore (o i medesimi attori) propongono contro la stessa parte nel medesimo processo più domande anche non altrimenti connesse, purché sia osservata la norma dell’articolo 10, comma 2° (vale a dire, il valore delle singole domande si somma, per stabilire il valore della controversia). Il cumulo è oggettivo, perché si cumulano domande. Nel secondo caso, disciplinato dall’art. 33 c.p.c., più cause oggettivamente connesse contro più parti possono essere proposte dinanzi al medesimo foro, in deroga alle norme sulla competenza per territorio. Qui il cumulo è soggettivo, perché si sommano, per così dire, più azioni contro parti diverse. L’art. 103 si estende anche al caso della connessione c.d. impropria, in cui il legame fra le cause non è sostanziale, nel senso che cia-


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scuna di esse è totalmente diversa dalle altre, ma suppone soltanto la decisione di identiche questioni giuridiche. Sia l’obiettivo di evitare, per quanto possibile, il contrasto di giurisprudenza, sia quello dell’economia processuale spiegano questa scelta legislativa. È utile avere chiaro che la scelta di dare vita ad un litisconsorzio facoltativo originario spetta solo all’attore (ovvero a più attori, che decidono di agire insieme contro uno o più convenuti). Gli effetti del litisconsorzio facoltativo si producono essenzialmente sulla competenza territoriale, che può essere modificata rispetto ai criteri originari. Infatti, secondo l’art. 33 c.p.c., le cause che in base alle norme sul foro del convenuto dovrebbero essere proposte dinanzi a organi giudiziari diversi, perché diversa è l’indicazione che discende dalla competenza territoriale, se sono connesse per l’oggetto o per il titolo, possono essere proposte dinanzi al giudice del luogo di residenza o domicilio di una di esse, per essere decise nello stesso processo. IV. La separazione delle cause. L’inserimento di più azioni e più cause all’interno dello stesso processo non è, nel caso del litisconsorzio facoltativo, un elemento strutturale, ma soltanto una circostanza eventuale. Nel litisconsorzio necessario, l’azione è unica. Qui le azioni e le cause sono più d’una e conservano, entro certi limiti, la loro autonomia. Così come sono state riunite, le cause possono anche essere separate. La separazione è possibile, con provvedimento del giudice, secondo l’art. 103, comma 2°, quando, nel corso della istruzione o nella decisione, vi è istanza di tutte le parti, ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe più gravoso il processo. Così pure, il giudice può spezzare il cumulo oggettivo realizzato dall’attore: si pensi al caso in cui siano cumulate, contro lo stesso convenuto, una semplice domanda di pagamento di somme e una più complessa richiesta di accertamento di una servitù (art. 104, comma 2°). Separate le cause, il giudice che le trattava può rimettere al giudice inferiore le cause di sua competenza.

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In caso di litisconsorzio facoltativo le parti in appello possono essere meno numerose rispetto al primo grado. Ad esempio (ma si ritornerà su questo punto) la sentenza può essere impugnata nei confronti di alcune soltanto delle parti (artt. 326 e 332 c.p.c.). V. Le azioni collettive: profili generali. Conviene esaminare qui il fenomeno delle azioni collettive o di classe, che in Europa è rimasto a lungo negletto e che sta però conoscendo una fase di notevole attualità. Qui l’obiettivo è quello di riportare all’interno del processo civile, sia pure in forma collettiva, domande che ne resterebbero fuori, per l’incapacità dei singoli interessati di fronteggiare da soli procedure di particolare complessità. Sul piano politico, le azioni di classe dipendono dalle politiche a favore dei consumatori. Nell’Europa del tramonto del socialismo reale e del benessere diffuso, le masse da spostare non sono più, da molto tempo, i contadini o gli operai, ma un ceto sociale variegato, di modesta capacità economica, legato alla necessità di comperare prodotti e particolarmente attento alle condizioni di acquisto: vale a dire, i consumatori. L’Unione europea ha manifestato in modo formale una ripetuta attenzione alle politiche sostanziali di consumerism ma, sul piano processuale, non ha mai generato modelli comuni di azioni collettive. La situazione attuale è, dunque, quella di una rilevante tensione verso questo tipo di tutela, ma di una grande varietà di soluzioni, il più delle volte oggettivamente inefficaci. I due grandi nodi da sciogliere sono quelli della legittimazione attiva e degli effetti del giudicato nei confronti di chi non è stato parte del processo. Può essere interessante segnalare la soluzione tedesca introdotta con la legge del 16 agosto 2005 (Kapitalanleger-Musterverfahrengesetz) di un processo modello, dalla cui soluzione dipendono effetti vincolanti, almeno sui punti essenziali del contendere, per tutti i processi della medesima serie. Finalizzata ad ottenere decisioni uniformi con un significativo risparmio di energie, la normativa tedesca, tuttavia, può fare sorgere perplessità sui rischi derivanti dalla espansione degli eventuali errori del processo-tipo.


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È anche opportuno mettere in collegamento la problematica delle azioni di classe con quella, di notevole rilievo nell’Europa del mercato unico, del governo della concorrenza. Si pone infatti il problema dei processi intentati dai singoli consumatori a seguito di decisioni delle autorità (europee e nazionali) garanti della concorrenza. Lo sfondo è quello delle modalità di controllo giurisdizionale, non sufficientemente sviluppate, sulle pronunce delle autorità garanti, che si pongono come presupposto per i successivi processi, individuali o collettivi che siano, promossi dai consumatori. Il panorama europeo è in piena evoluzione. La direttiva n. 104 del 26 novembre 2014 è intervenuta a fissare regole comuni per le azioni di risarcimento del danno, proposte all’interno dei singoli paesi membri, per violazioni delle norme sul diritto della concorrenza: fra le soluzioni adottate, non appare però l’imposizione ai vari Stati membri di stabilire forme di ricorsi collettivi. Si procede, quindi, in ordine sparso. Accanto ad ordinamenti che hanno affrontato di recente questa problematica (oltre alla normazione tedesca, si possono ricordare l’art. 15 della Ley de enjuiciamiento civil spagnola e le rules inglese 19.10 ss., sulla group litigation), ve ne sono altri che ancora la dibattono fra mille incertezze. In Italia, oltre all’azione collettiva risarcitoria, il d.lgs. n. 198 del 20 dicembre 2009 ha previsto l’azione di classe per l’efficienza della pubblica amministrazione. Di certo, in una società di massa, questo tipo di sfide non può essere facilmente eluso. VI. L’azione collettiva risarcitoria. L’art. 140-bis del codice del consumo (come modificato dall’art. 49 della l. 23 luglio 2009, n. 99 e dalla l. 24 marzo 2012, n. 27) introduce in Italia l’azione di classe (che peraltro dovrebbe più opportunamente essere chiamata azione collettiva risarcitoria). Si tratta di un’ipotesi del tutto peculiare di processo a pluralità di parti: è quindi utile esaminarla a questo punto dell’esposizione della materia anche se, per taluni aspetti, sarà utile rileggere queste pagine al termine dello studio del processo di cognizione in primo grado.

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L’azione di classe ha un oggetto specifico: l’accertamento della responsabilità e la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni in favore degli utenti consumatori. Sotto il profilo delle posizioni soggettive tutelate, essa normalmente suppone che sussista una pluralità di diritti individuali, fra loro omogenei. Omogenei non significa identici (se non altro perché vi è sempre una diversità soggettiva e oggettiva fra di essi), ma fondati sui medesimi presupposti di fatto e di diritto. Questi diritti possono essere fatti valere individualmente e a prescindere da un’azione di classe proposta da altri (art. 140-bis, comma 14°), ma la norma consente (e qui sta la novità rispetto allo schema tradizionale) che siano azionati in modo collettivo. Peraltro, l’azione di classe può tutelare anche interessi collettivi: e qui la natura collettiva dell’azione è imposta dalla struttura dell’interesse tutelato. Questo è lo schema. Sul piano sostanziale, ci si trova in una delle seguenti situazioni: a) sono in gioco i diritti contrattuali di una pluralità di consumatori e utenti che versano nei confronti di una stessa impresa in situazione omogenea, inclusi i diritti relativi a contratti stipulati ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.c.; b) si discute di diritti omogenei spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto nei confronti del relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale; c) la controversia riguarda i diritti omogenei al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori e utenti da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali. Gli esempi sono molteplici: ne basti uno. Un’impresa mette in commercio un prodotto difettoso, in un grande numero di esemplari. Molti consumatori sono danneggiati da questo difetto, anche se forse in misura modesta per ciascuno. Ognuno di essi potrebbe avviare una controversia individuale ma, nell’analisi costi-benefici, difficilmente investirebbe il tempo e il denaro necessari per un vantaggio, in definitiva, limitato. L’azione di classe unifica le forze e trasforma molti piccoli soggetti in una sola squadra, in grado di mettere in difficoltà l’impresa danneggiante mediante un solo processo. L’illecito dell’impresa genera una classe: vale a dire, l’insieme di tutti i consumatori che hanno di fatto


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acquistato quel prodotto. Si noti che l’identificazione della classe avviene ex post, cioè dopo l’illecito, e non ex ante: è, dunque, la tipologia dell’illecito a conformare la classe. Si noti, inoltre, che le singole situazioni sono fra loro omogenee (parliamo del medesimo prodotto), ma non identiche (ogni consumatore ha acquistato un esemplare diverso di quel prodotto). A questo punto, ciascun componente della classe, utente o consumatore, può agire per l’accertamento della responsabilità e per la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni. Lo può fare da solo o, più ragionevolmente, mediante associazioni a cui dà mandato o comitati a cui partecipa. La posizione degli altri componenti della classe è così definita. Essi possono aderire all’azione collettiva: il che, peraltro, comporta la rinuncia ad un’eventuale azione individuale. Chi aderisce entra nella squadra e ne segue le sorti. Infatti, la sentenza che definisce il giudizio fa stato non solo nei confronti del componente della classe che l’ha iniziata, ma anche nei confronti degli aderenti. Chi non aderisce, invece, non ottiene nessun vantaggio in caso di successo, né subisce alcun pregiudizio in caso di sconfitta. Tuttavia, non possono essere proposte più azioni collettive in rapporto ai medesimi fatti. Inoltre, le rinunce e le transazioni intervenute tra le parti non pregiudicano i diritti degli aderenti che non vi hanno espressamente consentito e gli stessi diritti sono fatti salvi anche nei casi di estinzione del giudizio o di chiusura anticipata del processo. In altre parole, il rispetto per i diritti individuali di ciascuno comporta che eventuali accordi fra il componente della classe (o l’associazione che lo rappresenta) e l’impresa non siano opponibili a quei componenti della classe che non li abbiano accettati. Si attua, con queste regole, un legame complesso fra i vari componenti la classe, che ha indotto la dottrina ad impiegare la nozione di litisconsorzio aggregato. Ancora, la norma esclude l’intervento volontario di terzi. Infatti, i componenti la classe possono scegliere se aderire all’azione originaria, o mantenere in vita le azioni individuali, ma non possono agire individualmente nel quadro del processo collettivo.

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VII. I soggetti portatori di interessi plurimi. Il legislatore utilizza talora la tecnica di concentrare una pluralità di interessi intorno ad un solo soggetto dotato di legittimazione per legge. In questo modo, si realizza un processo che non è, formalmente, a pluralità di parti, ma governa una molteplicità di interessi che, diversamente, darebbero luogo ad una pluralità di azioni. Va notato che nell’azione di classe si ottiene un risultato analogo, ma l’individuazione del soggetto attore non è predeterminata: chi agisce deve, in qualche modo, candidarsi a rappresentare la classe. Nello schema qui descritto, invece, l’ente legittimato è determinato a priori (prima, cioè, che sorga la lesione) o, per lo meno, vi è un ristretto novero di enti potenzialmente legittimati. È questo il caso dell’azione inibitoria, regolata dall’art. 37 del codice del consumo. In base a questa norma, le associazioni rappresentative dei consumatori, le associazioni rappresentative dei professionisti e le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, possono convenire in giudizio, anche in via di urgenza, il professionista o l’associazione di professionisti che utilizzano o che raccomandano l’utilizzo di condizioni generali di contratto e richiedere al giudice competente che inibisca l’uso delle condizioni di cui sia accertata l’abusività. In questa e in simili ipotesi, si svolge un normale processo civile, che non desta particolari problemi dal punto di vista della formazione del contraddittorio, ma il cui esito è destinato a riverberarsi nella sfera di interesse di una pluralità di soggetti.

29. L’INTERVENTO DI TERZI. I. Introduzione. L’intervento (o litisconsorzio successivo e non necessario) comporta una pluralità di parti nel processo non originaria, ma successiva, in quanto le parti aumentano a processo già iniziato. Infatti, alle parti originarie si aggiungono una o più parti (definite in sintesi “terzi”).


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Il terzo potrebbe, normalmente, proporre la domanda (o essere convenuto) in un altro processo. Tuttavia, vi è una ragione di politica legislativa che suggerisce di permettere al terzo di farsi attivo (o di essere chiamato) nel processo già instaurato: si tratta non solo di un motivo di economia processuale, ma anche dell’opportunità di dare una decisione contestuale e quindi più equilibrata. L’intervento può essere volontario o coatto. È volontario, quando il terzo entra nel processo di sua iniziativa; è coatto, quando il terzo è chiamato forzatamente a partecipare al giudizio per iniziativa di una delle parti già in esso presenti (che si possono definire parti principali). In ogni caso, la posizione dell’interveniente, sul piano sostanziale, deve presentare un rapporto qualificato con la causa pendente fra le parti principali: un rapporto di connessione, di garanzia, di comunanza. II. L’intervento volontario. L’intervento volontario (la cui realizzazione è stata resa più difficile a partire dalla riforma del 1990, attraverso la previsione di preclusioni) può essere di tre tipi (art. 105 c.p.c.). La prima fattispecie è quella dell’intervento principale o “ad infringenda utriusque iura”: il terzo interviene per contrastare le pretese di tutti gli altri contendenti, facendo valere una propria posizione di diritto sostanziale che confligge con quella delle altre parti (la domanda del terzo potrebbe anche essere fatta valere in un separato processo). È questo ciò che afferma l’art. 105, comma 1°, quando statuisce che “ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone per far valere, in confronto di tutte le parti […], un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo”. Ad esempio, sorta controversia fra A e B circa la proprietà del fondo X, interviene C affermando di essere a sua volta proprietario, nei confronti sia di A che di B. Il secondo caso è quello dell’intervento litisconsortile o adesivo autonomo: l’interveniente entra nel processo facendo valere una

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domanda autonoma, ma collegata a quella di una delle parti e confliggente con quella dell’altra. A questa ipotesi si riferisce sempre l’art. 105, quando specifica che l’interveniente può fare valere un diritto in confronto non di tutte le parti, ma solo “di alcune di esse”. Ad esempio, il socio A impugna la delibera assembleare della società B, ritenendola nulla; il socio C, anziché proporre un giudizio autonomo, interviene (nel rispetto dei termini di proposizione della domanda) in quello già iniziato da A, domandando a sua volta la nullità della stessa delibera. Oppure, A, quale erede di Z, cita in giudizio C per ottenere il pagamento pro-quota di un credito ereditario; B, coerede al pari di A, interviene in causa proponendo la domanda relativa alla propria quota nei confronti di C. Infine, si ha l’ipotesi dell’intervento adesivo o adesivo dipendente: il terzo non è titolare di un autonomo diritto soggettivo, ma ha un interesse a che vinca una o l’altra parte e interviene quindi nel processo sostenendo la posizione di una delle parti, senza proporre una propria domanda. Questa fattispecie è regolata dall’art. 105, comma 2°, secondo cui ciascuno “può altresì intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un proprio interesse”. Ad esempio, A è proprietario di un immobile che ha concesso in locazione a B, il quale a sua volta lo ha concesso in sublocazione a C. Ove A agisca contro B per ottenere lo sfratto, C, che subirebbe le conseguenze dell’accoglimento della domanda di A, può intervenire per sostenere le ragioni di B. Sia nell’intervento principale che in quello adesivo autonomo, il terzo propone una domanda autonoma, che avrebbe potuto spiegare anche in un altro processo: non così, invece, nell’intervento adesivo dipendente, in cui il terzo è privo di un’azione autonoma e non fa valere un diritto soggettivo, ma un semplice interesse. In entrambi i casi degli interventi adesivi, il terzo affianca la posizione di una delle parti principali; invece, nell’ipotesi di intervento principale, egli assume una posizione di scontro con entrambe le parti principali. Nella prassi, l’intervento principale è poco frequente; l’intervento adesivo a sua volta è abbastanza raro, perché poche volte apporta


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un’utilità concreta all’interveniente e non di rado è pilotato da una delle parti, per rappresentare al giudice l’esistenza di un interesse di fatto, privo di giuridica autonomia. Decisamente più comune è l’intervento adesivo autonomo. Esso trova spazio quando vi sono più posizioni allineate, ma non così omogenee da essere affidate alla regia di un solo difensore (come pure potrebbe accadere). Si ripensi all’esempio dei due coeredi: uno di essi ha buoni rapporti con il debitore e, pur dovendo tutelarsi per evitare che il suo credito si prescriva, confida di poter trovare un accordo. Quindi, preferisce intervenire nel giudizio iniziato dall’altro coerede, per mantenere meglio la sua libertà di azione. III. L’intervento coatto su istanza di parte. L’intervento coatto può verificarsi su istanza di parte o per ordine del giudice. Nell’intervento coatto su istanza di parte (art. 106 c.p.c.), esiste un legame di diritto sostanziale tra il rapporto giuridico dedotto in giudizio e un altro rapporto giuridico che intercorre tra il convenuto o l’attore e un terzo, onde il convenuto o l’attore hanno interesse a chiedere l’estensione del giudizio al terzo (generalmente l’istanza è del convenuto). Chi chiama in causa un terzo, propone una domanda contro di lui. Nel contempo, a seconda delle ipotesi, la domanda originaria dell’attore contro il convenuto può estendersi automaticamente contro il terzo, ovvero è necessario che l’attore, se lo ritiene, la proponga espressamente. Le fattispecie contemplate dalla norma sono due: la chiamata in garanzia e la comunanza di causa. La chiamata in garanzia si ha quando il convenuto pretende di essere garantito, per varie possibili ragioni, da un terzo, nei confronti della domanda dell’attore. È questo il caso della fideiussione o del contratto di assicurazione. La banca creditrice A chiede a B la restituzione di una somma mutuata. B chiama in giudizio il fideiussore C perché, qualora sussista il credito di A, sia questi a versare le somme richieste. Oppure, il danneggiato A chiede il risarcimento dei danni subiti al responsabile B: questi chiama a garanzia la società

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di assicurazione C perché, in forza del contratto di assicurazione stipulato, paghi A al suo posto. È necessario distinguere, in proposito, fra garanzia propria e garanzia impropria. Come si è detto e qui conviene ribadire, la garanzia propria si ha quando la causa principale e quella accessoria hanno in comune lo stesso titolo e anche quando ricorra una connessione oggettiva tra i titoli delle due domande; la garanzia impropria, quando il convenuto tende a riversare le conseguenze del proprio inadempimento su di un terzo in base ad un titolo diverso da quello dedotto con la domanda principale, ovvero in base ad un titolo connesso al rapporto principale solo in via occasionale. Nel primo caso, l’accertamento dell’obbligo principale investe anche l’obbligo del garante; nel secondo caso, non sussiste questo effetto automatico. Ora, nel primo caso, la domanda dell’attore si estende automaticamente al garante quando questi è chiamato in causa. Nel secondo caso, invece, l’attore chiede la condanna del convenuto e questi deve chiedere che il giudice condanni il garante a tenerlo indenne. Ad esempio, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che la chiamata in causa del progettista o del direttore dei lavori da parte dell’appaltatore, convenuto in giudizio per rispondere dell’esistenza di gravi difetti dell’opera, e la successiva chiamata in causa di chi ha effettuato i calcoli relativi alla struttura e statica dell’immobile da parte del progettista o del direttore dei lavori, effettuata non solo a fini di garanzia ma anche per rispondere della pretesa dell’attore, comporta, in virtù di quest’ultimo aspetto, che la domanda originaria, anche in mancanza di espressa istanza, si intende automaticamente estesa al terzo, trattandosi di individuare il responsabile nel quadro di un rapporto oggettivamente unico. Infatti, la chiamata in causa del terzo, ai sensi dell’art. 106 c.p.c., può essere disposta perché questi risponda, in luogo del convenuto, oppure sia condannato a rispondere di quanto il convenuto sarà eventualmente tenuto a prestare all’attore: nel primo caso, quando l’affermazione della responsabilità dell’obbligato principale e del garante trovano fondamento negli elementi costitutivi della medesima fattispecie, la garanzia si definisce propria; nel secondo caso, quando la responsabilità dell’uno e dell’altro traggono origine da rapporti o situazioni giuridiche


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diversi, ed è esclusa l’esistenza di ogni legame tra il preteso creditore e il garante, la garanzia si definisce impropria, che tale è anche quando il convenuto in giudizio designa un terzo come responsabile di quanto lamentato dall’attore. Nel caso che si è fatto, la Cassazione inquadra la responsabilità del progettista e del direttore dei lavori nell’ambito della prima categoria, trattandosi di soggetti personalmente e direttamente obbligati alla prestazione rivendicata dall’attore, con la conseguenza che la domanda introduttiva del giudizio può ritenersi loro automaticamente estesa se chiamati in causa. Diverso è il profilo della comunanza di causa. Esso si verifica quando vi è una relazione giuridicamente rilevante (ma diversa dalla garanzia), fra le posizioni sostanziali della parte e del terzo: si tratta generalmente di connessione, anche impropria. IV. L’intervento coatto per ordine del giudice. Vi è poi l’ipotesi dell’intervento coatto per ordine del giudice, disciplinata dall’art. 107 c.p.c.: il giudice, quando ritiene la causa comune ad un terzo, può ordinarne la chiamata in causa. È evidente che qui ci si trova ai confini della regola del monopolio della tutela giurisdizionale in capo alle parti. Infatti, in questo caso è il giudice che decide chi deve essere parte del processo, oltre la volontà delle parti. In effetti, ciò comporta il grave onere per le parti di chiamare in causa un terzo che nessuna delle due aveva intenzione di coinvolgere, visto che, se nessuna delle parti provvede, il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo. Tuttavia, altra cosa è la chiamata in causa (come detto, necessaria per evitare la paralisi dell’azione giudiziaria intrapresa) e altra cosa è la concreta proposizione di domande nei confronti del terzo. Infatti, le parti originarie restano libere non solo di determinare il contenuto delle loro domande nei confronti del terzo, ma anche di non proporne nessuna, se ritengono che la prospettiva seguita dal giudice sia in realtà errata. È utile notare che questo istituto acquista un notevole rilievo per effetto delle norme costituzionali sul giusto processo e la ragionevole durata. Può accadere, infatti, che il giudice ravvisi, in una data situazione, il collegamento fra le posizioni di una delle parti e di un

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terzo e si prospetti l’ipotesi di future cause o di contrasto pratico fra giudicati. Per evitare queste conseguenze, il giudice può ordinare la chiamata del terzo, per favorire la trattazione in un unico contesto processuale delle diverse questioni. Le modalità di ingresso (volontario o coatto) di un terzo nel processo saranno studiate a suo luogo. È anche utile anticipare che, in sede di impugnazione, normalmente l’intervento dà luogo a situazioni di litisconsorzio processuale, ai sensi dell’art. 331 c.p.c.

30. GLI ATTI PROCESSUALI. I. La nozione di atto processuale. Il contenuto-forma degli atti. Si può definire atto processuale ogni atto (cioè, ogni comportamento umano volontario) compiuto nel processo, da soggetti del processo e con efficacia sul processo. Per affrontare l’argomento, è utile premettere che il diritto conosce una costante antinomia fra forma e volontà. Infatti, il diritto regola comportamenti esterni e valutabili, mentre non considera gli atti meramente interni dell’uomo. Per questo, è tipico delle strutture giuridiche primitive riconnettere effetti agli atti che possono essere misurati e, quindi, alla forma; mentre quelle più evolute trovano modo di risalire il più possibile alla volontà di chi agisce, seppure tale volontà debba necessariamente tradursi in atti esterni. In questo senso, si può affermare che il diritto sostanziale è più evoluto del diritto processuale. Nell’atto processuale non viene in gioco la caratteristica essenziale della negozialità di diritto civile, vale a dire la volontà degli effetti. Rileva soltanto la volontà dell’azione (la c.d. volontarietà) e gli effetti sono predeterminati oggettivamente dalla legge, mentre non vengono in gioco i vizi del volere, caratteristici del diritto civile (la violenza, l’errore, il dolo). Solo eccezionalmente taluni atti processuali, che comportano anche disposizione di diritti, assumono le caratteristiche


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della negozialità e ne condividono le patologie. Ad esempio, la confessione (vale a dire, la dichiarazione di fatti a sé sfavorevoli e favorevoli alla controparte, compiuta in giudizio dalla parte personalmente o a mezzo di un rappresentante di diritto sostanziale) può essere revocata se determinata da errore di fatto o violenza (art. 2732 c.c.). È invece essenziale la forma, che nell’atto processuale assume una caratteristica connotazione di forma-contenuto. Infatti, ogni atto del processo ha una funzione oggettiva. Per adempiere a questa funzione, esso deve avere un contenuto determinato e oggettivo, che si specifica, poi, nelle dimensioni concrete di ogni singola controversia. Ad esempio, un atto di citazione deve contenere una domanda giudiziale, anche se ogni domanda è diversa dalle altre. La funzione che la legge processuale affida all’atto e che ne impone un certo tipo di contenuto non va confusa con la funzione, soggettiva e strategica, propria degli atti di parte. Proseguendo nell’esempio, l’atto di citazione può essere stato predisposto per indurre l’avversario ad una trattativa o per mostrare a soggetti terzi una determinata reattività. Tutto questo non interessa all’ordinamento, che si preoccupa che l’atto di citazione valga a dare vita correttamente al processo. Normalmente, la legge eleva questo contenuto oggettivo a requisito di forma, trasformando quindi i contenuti essenziali di ogni atto in requisiti formali. In altre parole, per assicurarsi che l’atto processuale sia coerente con la sua funzione, la legge gli impone di rispettare taluni requisiti formali, il cui significato, però, è esattamente quello di veicolare e garantire il contenuto. Per comprendere questo passaggio, si possono considerare norme come gli artt. 125 e 163 c.p.c. Ad esempio, l’art. 163 disciplina il contenuto dell’atto di citazione, vale a dire dell’atto con cui nel processo ordinario si propone la domanda. La domanda, come si è visto, presuppone la violazione concreta di un diritto e quindi un fatto lesivo. Per garantire che la citazione esprima il fatto lesivo e lo porti a conoscenza del giudice e della controparte, il codice impone “l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragio-

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ni della domanda”. Ora, quei fatti potranno essere veri e dimostrabili o no, e potranno essere giuridicamente rilevanti o no: ma ciò è materia del giudizio di merito. A livello di regole processuali, basta che i fatti ci siano. Elevare l’esposizione dei fatti a requisito formale significa che un atto di citazione che ne prescindesse sarebbe nullo e il giudice non potrebbe pronunciare validamente sulle richieste dell’attore. La forma degli atti processuali è quindi, al contempo, libera (art. 121 c.p.c.) e strumentale allo scopo oggettivo dell’atto. Secondo l’art. 121, rubricato “libertà di forme”, gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo. I vincoli formali sono soltanto quelli che la legge prevede (e si parla a questo proposito di tassatività delle forme). In realtà, la libertà è poca, perché molti sono gli elementi essenziali dei vari atti. Si può ribadire il concetto rilevando che per conseguire effetti nel processo, per muoversi sulla scena del processo, le parti non possono, per così dire, recitare a soggetto, ma devono seguire delle modalità espressive precise. Ad esempio, la domanda giudiziale non può essere proposta in modo casuale, ma seguendo le indicazioni che le norme danno per gli atti introduttivi. Il mancato rispetto delle forme comporta in molti casi una sanzione di inefficacia: la volontà della parte non produce effetti. II. La lingua degli atti processuali. Il codice disciplina alcuni elementi comuni agli atti processuali. Uno di questi, su cui è utile soffermarsi, concerne la lingua con la quale si redigono gli atti. Il profilo linguistico del processo, parte integrante del diritto di difesa, acquisisce sempre più importanza nel contenzioso transnazionale (se ne trova traccia, in materia di arbitrato, nell’art. 816-bis c.p.c.). In particolare, nel contesto della giurisdizione delocalizzata, occorre verificare che la parte, convenuta in giudizio davanti ad un foro caratterizzato da una lingua che il soggetto o il suo difensore abituale non comprendono, non abbia subìto una diminuzione


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troppo grave della facoltà di incidere sul convincimento del giudice, tale da svuotare il concreto esercizio del diritto di difesa. In linea di massima, si può ritenere che non si abbia una violazione del diritto di difesa quando la lingua del processo sia la lingua del rapporto sostanziale, al quale il processo inerisce e, in ogni caso, la parte convenuta deve dimostrare di avere cercato di sopperire al deficit linguistico con ogni ragionevole iniziativa. Se, tuttavia, le regole linguistiche del caso concreto avessero dato luogo ad una grave lesione delle facoltà defensionali, se ne può dedurre un ostacolo per la circolazione all’estero di un provvedimento giurisdizionale così ottenuto. È opportuno rilevare, ancora, che il problema della lingua del processo, in chiave di protezione del diritto di difesa, è questione del tutto distinta da quella del diritto all’identità etnica e nazionale, ovvero alla tutela delle minoranze, ma va considerato come una componente della tutela giurisdizionale, rilevante ad ogni latitudine. Il rapporto fra lingua e diritto di difesa va poi considerato sotto il profilo dei modi di comunicazione nel processo, senza essere rinchiuso nelle anguste barriere di una problematica organizzativa delle strutture giudiziarie, che, se va ovviamente e realisticamente tenuta ben presente, non può costituire un alibi di fronte al problema di fondo. Il nostro ordinamento si caratterizza, sul piano generale, per un rigido monolinguismo, sia processuale che organizzativo. L’uso della lingua italiana è prescritto, in sede civile, per tutto il processo (art. 122, comma 1°, c.p.c.) e l’apporto di traduttori ed interpreti è limitato al piano probatorio, quando si tratta di acquisire una deposizione orale (art. 122, commi 2° e 3°, c.p.c.) o di tradurre documenti (art. 123 c.p.c.). Queste disposizioni si riconducono, in tutta evidenza, alla sostanziale compattezza linguistica della comunità nazionale, da un lato, e, sul piano storico, all’esigenza di inibire l’uso di espressioni dialettali, dall’altro. Si devono, peraltro, segnalare le leggi destinate a tutelare le (ma si dovrebbe meglio dire alcune delle) minoranze linguistiche nel nostro paese. In questo settore, si attuano interessanti forme di regime plurilinguistico, sia processuale che organizzativo.

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Il d.p.r. 15 luglio 1988, n. 574 attua la parificazione della lingua tedesca a quella italiana nella regione del Trentino-Alto Adige, per una serie di rapporti elencati all’art. 1 e comprensivi di quelli con le autorità giudiziarie con sede nella provincia di Bolzano ovvero in quella di Trento con competenza anche per la provincia di Bolzano. Gli artt. 20 e 21 del d.p.r., dedicati al processo civile, consentono lo svolgimento del processo in forma monolingue o bilingue, lasciando ad ogni parte la piena libertà di scegliere la lingua per la redazione dei propri atti processuali. Se entrambe le parti, nei rispettivi atti introduttivi, usano la stessa lingua, si ha un processo monolingue (in italiano o in tedesco). Se, invece, esse scelgono lingue diverse, si ha un interessante fenomeno di processo perfettamente bilingue: la trattazione orale viene contestualmente verbalizzata nelle due lingue, gli atti vengono tradotti nell’altra lingua a richiesta del destinatario, i testimoni sono interrogati e rispondono nella loro madrelingua e, infine, la sentenza e gli altri provvedimenti del giudice vengono redatti contestualmente nelle due lingue. È anche regolato l’obbligo, per la pubblica amministrazione attrice o convenuta, di usare la lingua dell’altra parte. Sotto il profilo organizzativo, gli uffici giudiziari sono strutturati in modo da consentire l’uso di entrambi gli idiomi. Il bilinguismo processuale altoatesino costituisce d’altronde un unicum nel quadro del nostro ordinamento. La normativa per la Valle d’Aosta, ad esempio, permette l’uso della lingua francese nel processo, ma riserva alla lingua italiana le sentenze e gli atti del giudice. Le espressioni linguistiche delle altre minoranze non ricevono analoga tutela legislativa. Sotto il profilo dell’organizzazione giudiziaria va infine segnalato che le regole sul reclutamento dei giudici conoscono deroghe, rispetto al regime ordinario, dettate dall’esigenza di garantire, in Trentino-Alto Adige e in Valle d’Aosta, sia pure nell’ambito della già segnalata difformità normativa, la trattazione del processo, rispettivamente, in tedesco e francese. Qui, il valore protetto è, però, soprattutto quello dell’equilibrio esponenziale fra la comunità italiana e quella alloglotta.


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III. Tipologie di atti processuali. Gli atti di parte. Gli atti processuali comprendono due tipologie: gli atti scritti e quelli orali. Gli atti orali, specie quelli compiuti nell’udienza, vale a dire il momento di incontro delle parti con il giudice (artt. 127 ss. c.p.c.) vengono tradotti in forma scritta nel processo verbale (art. 126 c.p.c.). Si distingue anche fra atti di parte e atti del giudice. Gli atti di parte (per cui vige la disposizione generale dell’art. 125 c.p.c.) si distinguono in atti introduttivi (che presentano la domanda, come la citazione e il ricorso, ovvero la difesa della controparte, come la comparsa di risposta e il controricorso), atti illustrativi di difese (memorie, comparse) e atti di istanza (con cui si chiede al giudice o a un suo ausiliario il compimento di qualche specifica attività). La funzione e la natura di ciascuno di questi atti saranno illustrate durante la spiegazione delle varie fasi del processo. L’art. 125 prevede che, salvo diverse disposizioni di legge, gli atti di parte (la norma elenca la citazione, il ricorso, la comparsa, il controricorso, il precetto) devono indicare l’ufficio giudiziario, le parti, l’oggetto, le ragioni della domanda e le conclusioni o la istanza e dettano disposizioni sulla sottoscrizione del difensore e sulle modalità di conferimento della procura. IV. Atti processuali di parte e giustizia digitale. Le modalità di esercizio dell’attività giudiziaria, come si è avvertito, sono sempre più improntate alle forme telematiche. Molti dei recenti interventi normativi si sono dedicati a questi profili: non a torto, il legislatore ritiene che l’adozione di tecnologie moderne possa rendere la giustizia, al contempo, più efficace e meno costosa. In primo luogo, è divenuta obbligatoria l’indicazione negli atti di parte (art. 125 c.p.c.) del numero di fax del difensore. L’omissione è anche sanzionata con maggiori costi fiscali a carico dell’inadempiente, ma non si può ritenere che ciò dia luogo a nullità. Non è più indispensabile, invece, dopo la l. n. 114 del 2014, quella dell’indirizzo di posta elettronica certificata del difensore (che era stata introdotta nel 2012). Infatti, l’istituzione del registro generale

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degli indirizzi elettronici (Reginde), pubblicamente consultabile, permette di desumere l’indirizzo di pec di ogni avvocato. L’impiego della posta elettronica certificata acquista un rilievo crescente. Ogni comunicazione o notificazione a un difensore (se ne vedranno molti esempi nel corso dell’esposizione della materia) può essere validamente effettuata all’indirizzo di pec. Di conseguenza, è definitivamente acquisito il principio per cui non è più necessaria la domiciliazione nel foro di svolgimento della causa. Quest’ultimo punto richiede un chiarimento. La parte è normalmente domiciliata in giudizio presso l’avvocato che la difende. L’art. 82 del r.d. n. 37 del 1934 (vale a dire, di un testo integrativo dell’abrogata legge professionale forense) dispone che gli avvocati che svolgono l’attività difensiva davanti ad un foro che non si trova nella circoscrizione di tribunale della loro sede (in pratica, quella dell’albo a cui sono iscritti) devono eleggere domicilio nel luogo di quella autorità giudiziaria. In mancanza, il domicilio si intende quello della cancelleria dell’autorità giudiziaria. Ciò significa, ad esempio, che tutte le comunicazioni e le notificazioni, da effettuarsi nel domicilio eletto, arriverebbero in cancelleria, con la conseguente difficoltà di prenderne conoscenza. Ciò ha dato luogo, tradizionalmente, al fenomeno del c.d. avvocato domiciliatario: vale a dire, l’avvocato con studio nella città A presso cui prende domicilio l’avvocato che risiede nella città B, ma che deve difendere una parte dinanzi al foro di A. La parte risulta a sua volta domiciliata all’indirizzo di A. Ora, per effetto delle modifiche normative sul processo telematico (e come era stato anticipato dalle sezioni unite della Cassazione), l’onere di domiciliazione nel foro dove si svolge il giudizio viene meno: infatti, la possibilità di dare comunicazioni a distanza mediante la pec fa cadere la ratio della norma del 1934 (che sarà verosimilmente aggiornata, in attuazione del nuovo quadro normativo forense). In secondo luogo, la l. n. 228 del 24 dicembre 2012 ha previsto (inserendo l’art. 16-bis nel d.l. n. 179 del 18 ottobre 2012) che tutti i depositi di atti giudiziari di parte e di documenti siano effettuati non attraverso la tradizionale forma cartacea, ma in via telematica. L’attuazione di questo programma è progressivamente in atto e le relative scansioni sono state dettate da leggi successive, come la n.


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114 del 2014. Per il momento, ciò riguarda obbligatoriamente, dinanzi ai tribunali e alle corti d’appello, i soli atti endoprocessuali e i documenti ad essi allegati (vale a dire, quelli successivi all’atto con cui si propone la domanda e all’atto di prima difesa per il processo di cognizione e cautelare; quelli successivi al primo atto di esecuzione, per il processo esecutivo). È in corso l’adeguamento del sistema ai giudici di pace e alla Cassazione. Con opportuna prudenza, la legge assegna comunque al giudice la facoltà di permettere il deposito di atti e documenti in modalità non telematiche in caso di non funzionamento dei sistemi informatici del ministero e, in ogni caso, di ordinare il deposito di documenti e atti cartacei per ragioni specifiche (si pensi a documenti voluminosi, a produzioni di oggetti, agli originali di scritture di cui si assuma la falsità e via dicendo). È utile notare che le norme del codice, pensate e scritte per un sistema basato sulla carta, non sono ancora coordinate con le esigenze del processo telematico. In questo testo, vengono citate nella formulazione vigente. Tuttavia, è opportuno leggerle secondo le nuove esigenze. Perciò, quando si dice (ad esempio) che la cancelleria dell’organo giudiziario forma un fascicolo di atti e documenti o che inserisce un atto nel fascicolo, occorre pensare al fascicolo telematico e quando si dice che effettua una comunicazione, che la effettua in via telematica. Così pure, i riferimenti ai depositi in cancelleria vanno normalmente intesi come depositi telematici. Al contempo, occorre tenere presente che, in questa fase di transizione, la forma cartacea e quella telematica non di rado coesistono. V. La redazione degli atti processuali. La redazione degli atti processuali risente di modalità stilistiche variabili. La tendenza attuale va verso la sintesi e la concisione. Anche qui si trova, in un certo modo, una traccia del principio di ragionevole durata e di ponderata gestione delle risorse: un atto troppo lungo impegna inutilmente un giudice. Nel contempo, la sobrietà espositiva è un vantaggio anche per la parte: chi ha idee chiare, sa esporle in modo conciso.

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IL DISEGNO DI LEGGE DELEGA - IL PROCESSO TELEMATICO Uno dei principali ed attesi obiettivi del d.d.l. è l’adeguamento delle norme processuali all’introduzione del processo telematico. L’intervento affidato al legislatore delegato sarà necessariamente ampio e in gran parte dedicato alla normazione tecnica. Per ciò che concerne la materia più strettamente processuale, è utile sottolineare i seguenti aspetti. Si predispongono precise modalità di deposito degli atti, con opportune garanzie per le ipotesi di malfunzionamento del sistema informatico. Viene sancito il divieto di sanzioni processuali quando l’atto, pur difettoso sotto il profilo del rispetto delle regole tecniche, abbia comunque raggiunto lo scopo. Il fascicolo telematico dovrà essere facilmente accessibile alle parti e al giudice. Guardando al futuro, il legislatore propone l’attivazione di sistemi di riconoscimento vocale e di redazione automatica del verbale di udienza, nonché di attrezzature che consentano la partecipazione a distanza all’udienza. Le notificazioni telematiche, già oggi possibili, diventano obbligatorie quando il destinatario sia un professionista (ad esempio, un altro avvocato) o un’impresa, inserita nell’apposito indice nazionale. Speciali disposizioni regolano i casi in cui la notificazione telematica non abbia esito positivo per causa imputabile al destinatario: si tratta di attuare con modalità informatica un sistema analogo a quello dell’attuale art. 140 c.p.c. Ne segue che le notificazioni tradizionali, eseguite dall’ufficiale giudiziario, restano applicabili solo a situazioni residuali. Così pure, si istituisce un coordinamento fra il sistema telematico e le notificazioni a mezzo del servizio postale. Un ultimo profilo da segnalare è la modifica alla disciplina del rilascio delle copie esecutive. Viene eliminato il divieto di rilascio di più di una copia esecutiva alla stessa parte, che potrà poi procedere all’esecuzione solo in base a una copia munita di attestazione di conformità alla copia esecutiva rilasciata dal cancelliere. In questo settore, come e più che altrove, soltanto l’emanazione delle norme delegate potrà consentire una lettura sufficientemente chiara dei nuovi istituti.

Del resto, scrivere un atto processuale può supporre, talvolta, un sapiente esercizio non soltanto di cultura giuridica, ma anche di tecnica argomentativa: il che è tanto più vero quanto lo sforzo che l’estensore dell’atto deve compiere per convincere coloro ai qua-


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li l’atto è diretto (le parti nei confronti del giudice, in primo luogo, ma anche il giudice nei confronti di chi legge la motivazione della decisione) tocca profili di fatto. L’apporto del diritto europeo e dell’esigenza di disporre di testi impiegabili in via telematica sta introducendo nel processo civile la sempre più ampia utilizzazione di moduli e formulari. Nel contesto del diritto dell’Unione europea, si è da tempo suggerita l’utilizzazione di formulari o documenti multilingue da utilizzare nelle cause transnazionali, tali da poter essere accettati come documenti validi in tutti i procedimenti che si svolgono nell’Unione. Lo scopo è prima di tutto pratico: immaginare atti preformati, in cui ogni aspetto di contenuto-forma è incasellato secondo espressioni, contestualmente tradotte in tutte le lingue, agevola la circolazione delle liti e dei provvedimenti giudiziari. Di fatto, molte attività processuali rilevanti per i regolamenti europei devono essere compiute mediante i formulari. Tuttavia, queste forme stanno entrando anche nel diritto prettamente interno: si pensi al modulo per la raccolta di una deposizione da valere come testimonianza scritta, a norma dell’art. 257-bis c.p.c. Il ruolo dei formulari, tuttavia, va oltre a ragionevoli aspetti di semplificazione: esso incide anche sul modo di esprimere i concetti giuridici. Anche per quanto concerne i riferimenti oggettivi, in apparenza più banali, non sarebbe esatto dire che non vi sono problemi, perché non di rado sorgono delicate questioni giuridiche (dall’individuazione del domicilio alla data di entrata in vigore di un provvedimento). Riempire una casella del formulario significa quasi sempre avere risolto un problema di qualificazione giuridica di un dato. Inoltre, di spessore più significativo sono i problemi che si pongono quando il formulario chiede di sintetizzare una nozione giuridica complessa, che, nell’esperienza comune, viene solitamente espressa in modo ampio e comunque non limitato da precisi confini di spazio e non racchiuso in un numero limitato di parole. Di recente, la l. n. 132 del 2015, modificando l’art. 16-bis della l. n. 221 del 2012, ha sancito che gli atti di parte e i provvedimenti del giudice depositati con modalità telematiche (il che significa, almeno potenzialmente, tutti) sono redatti in manie-

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ra sintetica. Che cosa la norma prescriva realmente è ancora da chiarire e, in specie, si tratta di stabilire se si vogliano immaginare o no parametri quantitativi. Di certo, però, la strada per il futuro è nettamente indicata. 31. LA SENTENZA E GLI ALTRI PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE. SENTENZE DEFINITIVE E NON DEFINITIVE.

I. I provvedimenti del giudice. L’ordinanza e il decreto. Il codice conosce tre tipi di provvedimenti nominati del giudice: la sentenza, l’ordinanza e il decreto. La sentenza è il principale atto del giudice. Ha contenuto decisorio di tutto il processo o di parte di esso. Suppone una piena motivazione ed è impugnabile. L’ordinanza ha invece contenuto ordinatorio (di direzione del processo: ad esempio, di sospensione), istruttorio e solo talora decisorio. Normalmente non è impugnabile, ma revocabile e modificabile. Tradizionalmente, le ordinanze decisorie non erano impiegate sul merito o comunque in casi di cognizione completa: esempi di ordinanze decisorie si trovano di frequente, in questo senso, fuori dal processo ordinario di cognizione (ad esempio, in materia di procedimenti cautelari o di convalida di sfratto). Negli anni recenti, l’impiego dell’ordinanza è stato fortemente esteso, anche oltre i limiti classici: si pensi oggi alle pronunce sulla competenza, alla decisione di inammissibilità dell’appello per carenza di ragionevole probabilità di accoglimento, a molte decisioni anche sulla fondatezza dei ricorsi da parte della Cassazione, al processo a cognizione semplificata. Il codice, che si preoccupa di contenere il lavoro del giudice sul piano della motivazione, precisa che l’ordinanza è succintamente motivata (art. 134 c.p.c.). Le ordinanze, se sono pronunciate in udienza, sono inserite nel processo verbale; se sono pronunciate fuori udienza, sono scritte alla fine del verbale dell’udienza precedente, ovvero in un foglio


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separato firmato dal giudice e unito al verbale. L’ordinanza emessa fuori udienza è poi comunicata o notificata alle parti. Il decreto è il provvedimento più semplice, con funzione ordinatoria ed eccezionalmente decisoria a cognizione incompleta, senza accertamento o con urgenza (si pensi a norme come l’art. 669-sexies, comma 2° e l’art. 739 c.p.c.). L’art. 135 c.p.c. ricorda che il decreto è pronunciato d’ufficio o su istanza anche verbale della parte; se è pronunciato su ricorso, è scritto in calce al medesimo. Il decreto non è motivato, salvo nei casi in cui la motivazione sia prescritta espressamente dalla legge. Si è più volte posto il problema di stabilire quale sia la natura di un provvedimento del giudice e, in specie, se si debba fare riferimento alla sua forma o alla sua sostanza. La questione emerge per quanto riguarda la ricorribilità in cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7°, cost., che la ammette per tutte le sentenze e, più in generale, ai fini dell’impugnabilità o no di un provvedimento con gli ordinari mezzi di impugnazione. La Corte costituzionale e la giurisprudenza costante della Cassazione hanno precisato che, ai fini dell’applicazione della norma costituzionale e dell’impugnabilità dei provvedimenti, è sentenza ogni pronuncia con contenuto decisorio su diritti. Pertanto, in caso di provvedimento con contenuto di sentenza dato in forma di ordinanza, è ammissibile il ricorso per cassazione perché la sostanza prevale sulla forma: l’ipotesi contraria comporterebbe una diminuzione di tutela. II. La sentenza. Occorre sostare sul più importante degli atti del giudice: la sentenza. Si può dire che la sentenza è il punto di arrivo del processo ed è l’atto che riassume sia il lavoro del giudice che quello delle parti. I requisiti formali della sentenza sono elencati nell’art. 132 c.p.c. La sentenza, rileva la norma, è pronunciata in nome del popolo italiano e reca l’intestazione: “Repubblica italiana”. Essa deve contenere: 1) l’indicazione del giudice che l’ha pronunciata; 2) l’indicazione delle parti e dei loro difensori; 3) le conclusioni del pubblico

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ministero e quelle delle parti; 4) la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione; 5) il dispositivo, la data della deliberazione e la sottoscrizione del giudice. Le parti essenziali della sentenza sono quindi quattro: l’intestazione, la motivazione, il dispositivo e la sottoscrizione. Esiste una chiara corrispondenza fra il contenuto tipico degli atti di parte che introducono la domanda e quello dell’atto decisorio del giudice. In particolare, va notato che all’esposizione della causa petendi della domanda corrisponde la motivazione e all’individuazione del petitum corrisponde il dispositivo. La sottoscrizione esprime la provenienza della sentenza dal giudice, ossia da un organo dotato di giurisdizione. Per questo, la mancata sottoscrizione o la sottoscrizione di chi non è giudice costituiscono episodi di inesistenza. La sentenza emessa dal giudice collegiale è sottoscritta soltanto dal presidente e dal giudice estensore. Se il presidente non può sottoscrivere per morte o per altro impedimento, la sentenza viene sottoscritta dal componente più anziano del collegio, purché prima della sottoscrizione sia menzionato l’impedimento; se l’estensore non può sottoscrivere la sentenza per morte o altro impedimento, è sufficiente la sottoscrizione del solo presidente, purché prima della sottoscrizione sia menzionato l’impedimento. III. Motivazione e dispositivo della sentenza. La motivazione risponde ad un’esigenza di civiltà giuridica: non solo il controllo in vista dell’impugnazione, ma (si pensi alle sentenze della Cassazione) anche il controllo sociale del cittadino. La sentenza non motivata o incongruamente motivata è nulla, quindi impugnabile, ma non inesistente. Nella motivazione, il giudice espone il percorso logico-giuridico seguito per giungere alla definizione. La motivazione non può prescindere da un’esposizione del fatto, che dia conto della ricostruzione effettuata dal giudice. L’art. 118 disp. att. c.p.c., nel suo testo attuale, precisa che la motivazione consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della deci-


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sione. Quanto al diritto, la decisione può anche essere motivata con riferimento a precedenti conformi. Lo stile della motivazione risente della cultura giuridica di ogni paese. Accanto a motivazioni estremamente elaborate, che giungono a trasformare la sentenza in una specie di saggio, funzionali a fare risaltare la preparazione e la cultura del magistrato estensore, si riscontrano motivazioni del tutto icastiche, che danno semplicemente conto dei passaggi logico-giuridici del giudice. La tradizione italiana è orientata verso il primo modello, mentre, ad esempio, quella francese ricalca soprattutto il secondo. L’idea di semplificare le motivazioni (l’art. 132 parla di “concisa” esposizione) è coerente con un tentativo di risparmiare energie giudiziarie. Vi è, però, una linea di pericoloso svuotamento della motivazione. La concisione e la sobrietà devono essere caratteristiche non solo del difensore, che le esprime negli atti della parte, ma anche del giudice; ciò impone uno sforzo di sintesi, che, tuttavia, non può significare l’elusione del dovere del giudice di spiegare perché (vale a dire, in base a quali fatti e a quali norme) è giunto ad una data convinzione. Il dispositivo traduce la volontà determinativa dell’organo giudicante: è il cuore della sentenza ed è la base da considerare per stabilire i limiti oggettivi e soggettivi del giudicato. Si può affermare che la sentenza priva di dispositivo non è una sentenza, è inesistente. Al dispositivo occorre guardare in rapporto alla domanda e alle conclusioni proposte delle parti: tutta la materia del contendere deve essere ricompresa nella volontà decisoria del giudice. Certo, la scansione logico-giuridica delle domande può comportare dispositivi molto brevi, che, decidendo su un dato punto, comportano la definizione di altri aspetti consequenziali. Il dispositivo dovrebbe riassumere in modo efficace la volontà del giudice e concentrare in sé ogni aspetto decisorio. Tuttavia, può accadere che fra motivazione e dispositivo il coordinamento non sia perfetto. La giurisprudenza ammette che, entro certi limiti, la motivazione possa essere presa in esame per meglio fissare la portata del dispositivo. Si tratta di un’operazione che va però condotta con estrema cautela, perché non si può correre il rischio di fare dire al

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giudice ciò che non ha veramente voluto tradurre nel dispositivo. I vizi del dispositivo possono dare luogo ad una vera e propria impugnazione (ad esempio, per omissione di pronuncia), ovvero alla meno invasiva forma della correzione. IV. Sentenze definitive e non definitive. Le questioni pregiudiziali. Le sentenze possono essere definitive o non definitive. È definitiva la sentenza che chiude per sempre quella fase del giudizio; sono definitive le sentenze che decidono nel merito su tutta la materia del contendere, come pure quelle che decidono negativamente su presupposti processuali o su condizioni dell’azione. È non definitiva la sentenza che, decidendo solo su uno o più capi della materia del contendere, non esaurisce il giudizio. Capo della sentenza è ogni parte di materia del contendere, suscettibile di dare luogo ad una decisione autonoma. Punto della sentenza è, all’interno di ogni capo, ogni profilo che dia luogo ad un’autonoma motivazione. Ora, il giudice non è libero di separare in modo arbitrario una porzione della materia del contendere per farne oggetto di sentenza non definitiva. Infatti, l’art. 187, commi 2° e 3°, c.p.c., precisa che il giudice può decidere su tutta la causa o decidere separatamente le questioni di merito aventi carattere preliminare o quelle pregiudiziali di rito. Quindi, soltanto questi due gruppi di questioni possono formare oggetto di sentenza non definitiva. In altre parole ancora, è capo di sentenza non ciò che il giudice intende isolare, ma solo ciò che per legge può essere isolato. Per questioni pregiudiziali o preliminari si può intendere (almeno sommariamente) ogni questione che deve logicamente essere decisa prima di un’altra. Volendo guardare al problema più a fondo, occorre dire che vi sono questioni che è semplicemente opportuno trattare prima di altre, ma che, di per sé, anche se non risolte, non impediscono la cognizione del giudice, ma soltanto la rendono eventualmente inutile; e altre questioni, invece, che si pongono effettivamente come un ostacolo insormontabile (vuoi di tipo logico, vuoi di


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tipo giuridico) per la prosecuzione dell’attività di accertamento. Le prime si possono definire preliminari; le seconde, pregiudiziali. Nel merito, ad esempio, la questione della responsabilità è preliminare a quella dell’ammontare del risarcimento. Di per sé, non è affatto impossibile accertare l’entità del danno, senza sapere di chi è la responsabilità: le due indagini sono distinte e suppongono attività probatorie diverse. Tuttavia, se A chiede la condanna di B al risarcimento del danno, è preliminare accertare se B è veramente responsabile: se non lo fosse, l’indagine sull’entità del danno sarebbe inutile. Diverso, sempre ad esempio, è il caso della pregiudiziale di costituzionalità. Se il giudice, accertati i fatti, si trova ad applicare ad essi la norma, e sorge una questione di costituzionalità, il sillogismo non può essere portato a compimento, finché non si verifichi se la norma in oggetto è conforme o no alla Costituzione. Poiché, nel nostro ordinamento, il controllo di costituzionalità non è diffuso, ma è riservato alla Corte costituzionale, il giudice dovrà sospendere il processo e attendere la decisione della Consulta, alla quale trasmette gli atti. Qui la questione è veramente pre-giudiziale, perché blocca il giudizio, che non si può perfezionare. Nonostante la lettera dell’art. 187, non è né utile né decisivo associare l’idea di questione preliminare soltanto al merito e di questione pregiudiziale soltanto al rito. In realtà, le due nozioni attraversano, sia pure in modi diversi, sia il merito che il rito. Piuttosto, occorre notare che si può parlare di pregiudizialità non solo in riferimento a questioni, ma anche in riferimento a cause o rapporti. Il diritto sostanziale può avere l’effetto di impedire una data decisione, se non è affrontato e risolto un rapporto controverso che si pone come antecedente logico-giuridico di quello oggetto di causa; inversamente, la decisione su un dato rapporto può comportare l’estensione dei propri effetti su un rapporto che dipende e che è pregiudicato da quello accertato. Mentre la pregiudizialità fra questioni rileva essenzialmente (seppure non esclusivamente) all’interno del percorso cognitivo del giudice in un dato processo, la pregiudizialità fra cause rileva, per così dire,

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all’esterno e si riflette sul piano della sospensione dei processi e su quello dell’efficacia delle pronunce. Si è visto e si vedrà che la nozione di pregiudizialità si incontra in molti aspetti della nostra materia: gli effetti del giudicato, l’accertamento incidentale e lo spostamento della competenza, la sospensione del processo, le sentenze non definitive, le impugnazioni incidentali condizionate, l’arbitrato. Ora, è evidente che la pregiudizialità vera e propria costituisce uno sbarramento all’attività del giudice: sbarramento legittimo e talora doveroso, che però comprime il lavoro dei giudici e, non di rado, allunga i tempi della decisione. Per questo, vi è una tendenza a rileggere la pregiudizialità alla luce del principio costituzionale di ragionevole durata del processo, cercando, entro i limiti di legge, di ridurne la portata. Il criterio che tempera la pregiudizialità è quello dell’interesse alla decisione. Ai nostri fini, è importante riservare la nozione di pregiudizialità di questioni al suo significato più rigoroso, di effettivo impedimento (logico o giuridico) per il giudice di decidere la questione a valle (la questione pregiudicata) senza che sia stata decisa, o dallo stesso giudice o da un altro, la questione a monte (la questione pregiudiziale). Si comprende (richiamando quello che è stato detto a proposito del succedersi logico dell’esame dei presupposti processuali e delle condizioni dell’azione) che se il giudice, chiamato ad affrontare questioni pregiudiziali o preliminari, le risolve in senso affermativo (vale a dire, in un senso che gli consente di procedere oltre), pronuncia sentenza non definitiva (ad esempio, il giudice pronuncia sentenza non definitiva quando riconosce la propria giurisdizione, disponendo con ordinanza la prosecuzione del processo). Se invece le risolve in senso negativo, vale a dire in un senso che non consente la prosecuzione, pronuncia invece una sentenza definitiva con cui chiude il processo. Va detto che non sempre il giudice è tenuto a pronunciare sentenza non definitiva, quando afferma l’esistenza di un presupposto processuale. Opera qui il principio della c.d. ragione più liquida, che è coerente con il dettato costituzionale della ragionevole durata del processo, secondo il quale si decide prima (temporalmente) una questione (logicamente) più a valle, se tale decisione è più agevole


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e se risolve nello stesso senso la materia del contendere. Ad esempio, A cita B per ottenere il pagamento della somma X. B si difende eccependo l’incompetenza per materia del giudice e rilevando che comunque il credito si è prescritto. La questione di competenza è difficile e di incerta soluzione. Invece, l’eccezione di prescrizione è documentalmente provata e dimostra che, certo, la domanda di A non può essere accolta. Secondo l’ordine logico delle questioni, il giudice dovrebbe dapprima risolvere la questione di competenza (relativa ad un presupposto processuale, certamente pregiudiziale rispetto al merito) e, forse, dichiararsi incompetente, lasciando poi al giudice competente il dovere di accertare l’evidente inesistenza della pretesa di A. In questi casi, si reputa corretto che il giudice, implicitamente ritenendosi competente, decida nel merito.

32. LA NULLITÀ DEGLI ATTI PROCESSUALI. I. Nullità e inesistenza degli atti processuali. Gli atti processuali, come si è visto, sono caratterizzati da requisiti di contenuto-forma, finalizzati allo scopo che ogni atto assume all’interno del processo. Può accadere che un atto si presenti difforme da tali requisiti. La legge processuale interviene a disciplinare queste situazioni per garantire la correttezza del processo (e quindi il diritto di difesa e la parità delle armi), impedendo che atti non regolari alterino l’equilibrio fra le parti. La normativa sulla nullità, in definitiva, non è un curioso ostacolo sulla via della realizzazione dei diritti, ma è posta a doverosa tutela della parte che non ha posto in essere l’atto viziato e che sarebbe pregiudicata se quell’atto dovesse produrre effetti. Un primo livello di vizio dell’atto è dato dalla semplice irregolarità, ossia da una situazione di non conformità alla legge, ma improduttiva di conseguenze. Gli esempi possono essere molti: si pensi ad un atto non in regola con le norme di carattere tributario che regolano il contributo unificato, ovvero all’omessa indicazione nell’atto di citazione del codice fiscale delle parti.

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Si ha nullità quando l’atto presenta caratteri gravemente difformi dai requisiti di contenuto-forma che la legge prescrive o, comunque, caratteri inidonei a consentire all’atto il raggiungimento dello scopo a cui è destinato. La principale caratteristica dell’atto nullo è che non è idoneo a produrre effetti. In base all’art. 156 c.p.c. vigono due principi: quello della tassatività delle nullità e quello della nullità degli atti che non raggiungono lo scopo. Così si esprime la norma: non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge. Può tuttavia essere pronunciata quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo. La nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato. Sotto il primo profilo, va detto che vi sono difformità dal modello legale che non danno luogo a nullità, in quanto la nullità consegue soltanto a quei vizi dell’atto per i quali la legge prevede l’apposita sanzione. Dal secondo profilo, occorre precisare che, normalmente, sono nulli gli atti privi dei requisiti che la legge pone come condizioni di validità; tuttavia, l’atto processuale deve raggiungere il suo scopo (ossia l’obiettivo che l’ordinamento gli assegna nella dinamica del processo). Quindi, se l’atto privo dei requisiti raggiunge il suo scopo, la nullità è sanata. Un esempio può essere dato dall’atto di citazione nullo per mancata indicazione della data di udienza: la nullità (comminata da una norma specifica) è sanata se il convenuto si costituisce, perché si instaura il contraddittorio, che è esattamente lo scopo oggettivo dell’atto di citazione. Si ha, invece, inesistenza quando l’atto è totalmente privo dei requisiti minimi che lo riconducono alla tipologia legale. È inesistente, ad esempio, la sentenza priva del dispositivo o della sottoscrizione (in quanto sentenza non emessa da giudice). Così pure, secondo la giurisprudenza, è inesistente un atto di citazione proposto e notificato contro una persona defunta o contro una persona giuridica estinta. L’inesistenza è sempre insanabile, nonostante il passaggio in giudicato, e quindi può essere dedotta con un’autonoma azione di accer-


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tamento anche dopo che la sentenza sia passata in giudicato. Invece, la nullità non può più essere eccepita dopo il passaggio in giudicato della sentenza: il giudicato, in altre parole, copre tutte le nullità che si sono verificate nel processo, ma che non sono state rilevate. II. Il rilievo della nullità nel processo. Occorre chiedersi chi e quando può eccepire la nullità di un atto e come il giudice reagisce quando constata una nullità. Dal primo profilo, le nullità possono essere relative o assolute. Le nullità relative possono essere eccepite solo dalla parte a cui tutela sono poste le relative regole; le nullità assolute, invece, possono essere anche rilevate d’ufficio dal giudice. L’art. 157 precisa che non può pronunciarsi la nullità senza istanza di parte, se la legge non dispone che sia pronunciata d’ufficio: ne segue che la nullità relativa è la regola. Il collegamento fra protezione della parte incolpevole e nullità è stabilito con chiarezza nel seguito della norma, che sancisce come soltanto la parte nel cui interesse è stabilito un requisito possa eccepire la nullità dell’atto per la mancanza di quel requisito e che la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, né da quella che vi ha rinunciato anche tacitamente. L’art. 158 dispone, invece, che la nullità derivante da vizi relativi alla costituzione del giudice o all’intervento del pubblico ministero è insanabile e deve essere rilevata d’ufficio, a meno che non si tratti di un’ipotesi, ancora più grave, di inesistenza. L’eccezione di nullità in alcuni casi deve essere sollevata nell’udienza successiva o comunque nella prima istanza o difesa successiva all’atto o alla notizia di esso (questo è il regime normale per le nullità relative); in altri casi può essere sollevata in ogni stato e grado del procedimento, anche per la prima volta in appello (questo è il regime normale per le nullità assolute). Come detto, l’atto nullo non produce effetti. L’esistenza di una nullità comporta un vizio destinato a travolgere tutti gli atti successivi (art. 159, commi 1° e 2°, c.p.c.). Il codice esprime questo concetto in termini positivi, affermando che la nullità di un atto non comporta quella degli atti precedenti né di quelli successivi che

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ne sono indipendenti. Questo però significa che tutti gli atti processuali successivi, che suppongono quello precedente nullo, sono travolti. Si pensi, ad esempio, ad un’udienza che si svolga senza una parte, non correttamente informata della data di svolgimento: tutti gli atti compiuti in quella udienza e i provvedimenti presi dal giudice sono nulli, per evidente violazione del contraddittorio. Se si svolgono altre udienze, sempre in assenza di quella parte, la nullità si propaga a tutte le attività successive, fino alla sentenza. III. Rinnovazione e sanatoria degli atti nulli. È quindi palese che il vizio deve essere eliminato. Ora, ciò può avvenire in due modi: o ripetendo l’atto viziato in modo corretto (e ripetendo tutti gli atti successivi a cui il vizio si è esteso), oppure perché è intervenuto un comportamento della parte, a tutela della quale la nullità è posta, che, comportando il raggiungimento dello scopo, cura in radice il vizio dell’atto. La prima ipotesi è quella della rinnovazione; la seconda è quella della sanatoria. Il giudice nulla può fare circa la sanatoria che, come detto, dipende da un eventuale comportamento dell’altra parte. Invece, può e deve procedere, non appena possibile, alla rinnovazione dell’atto viziato (e di quelli a cui la nullità si estende), appunto per riportare il processo sul piano della regolarità (art. 162). Numerosi sono i casi di sanatoria. Si può pensare a tutte le nullità relative, che la controparte non abbia ritenuto opportuno eccepire nella prima difesa successiva. Non si tratta, qui, di trascuratezza della controparte, ma di precisa valutazione degli interessi in gioco: vi sono nullità che non disturbano, di fatto, la strategia della controparte e che questa non ha alcun interesse ad eccepire. Come detto, la nullità degli atti processuali, se non vi è tempestiva rinnovazione o sanatoria, si propaga fino alla sentenza. A questo punto, l’istanza di giudizio termina e sembrerebbe che non vi sia più possibilità di rilevare la nullità. Ebbene, il codice provvede precisando che le nullità delle sentenze si fanno valere con l’impugnazione, nel senso che i vizi della sentenza si convertono in motivi di gravame, purché non si tratti di nullità derivante dalla mancanza di sottoscrizione,


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perché in questo caso la sentenza si considera inesistente ex art. 161 c.p.c. Va precisato che si ha inesistenza qualora la sottoscrizione manchi perché la sentenza non proviene da un giudice; ove la mancanza sia dovuta a dimenticanza, la sentenza invece è nulla. Ove possibile, la nullità della sentenza sarà sanata in appello; altrimenti, si dovrà riprendere il giudizio in primo grado. Dispone al riguardo l’art. 354 c.p.c., che sarà meglio esaminato a suo luogo. Occorre però chiedersi che cosa accade se la sentenza affetta da nullità non viene impugnata. Ora, si è visto che le regole sulla nullità sono una garanzia di corretto svolgimento del processo, a protezione della parte che subisce la violazione. Se questa parte non ha interesse ad impugnare la sentenza e la accetta nel merito, accetta, di conseguenza, anche di non eccepire i vizi che si sono verificati nel procedimento. Pertanto, il passaggio in giudicato della sentenza preclude ogni ulteriore eccezione di nullità: come detto, il giudicato copre definitivamente tutte le nullità che si sono verificate. Si pensi ad un procedimento in cui, in un dato momento, sia stato gravemente violato il contraddittorio, a danno del convenuto. La sentenza, certamente affetta da una nullità di procedimento, respinge la domanda dell’attore. Il convenuto non ha interesse a impugnare e la sentenza passa in giudicato. Diverso, invece, è ciò che accade quando vi sia una situazione di inesistenza. Qui, il giudicato non ha effetto di preclusione e, in qualsiasi momento, un’azione di accertamento ordinaria potrà fare constatare l’inesistenza della sentenza. In caso di nullità della sentenza, gli atti anteriori alla sentenza sono validi, ma rimangono privi di effetti. Ad esempio, la citazione introduttiva è pienamente valida, ma poi, durante il procedimento, si verifica una situazione di nullità assoluta ed insanabile, che, non rilevata tempestivamente, porta ad una sentenza nulla. L’atto valido non diventa perciò invalido, ma risulta incapace di produrre effetti validi. L’art. 159 c.p.c., ai commi 2° e 3°, fonda il principio di conservazione degli atti processuali (“utile per inutile non vitiatur”): la nullità di una parte dell’atto non colpisce le altre parti che ne sono indipendenti e, parimenti, un atto viziato può produrre effetti diversi, indipendenti dalla nullità.

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IV. I vizi dell’atto nel processo telematico. Un nuovo territorio, ampiamente inesplorato, è quello delle conseguenze dell’inosservanza delle formalità telematiche sulla validità degli atti processuali. Le classiche ipotesi di patologia degli atti, che si sono descritte nelle righe che precedono, riguardano la forma-contenuto, mentre qui ci si deve confrontare con gli aspetti tecnici e pratici della comunicazione. In linea di prima approssimazione, si deve ritenere che, salvi i casi di mera irregolarità, si avrà nullità assoluta dell’atto (rilevabile d’ufficio, ma pur sempre oggetto di possibile rinnovazione o sanatoria) quando la comunicazione dell’atto o l’attività prevista, sia pure posta in essere in modo radicalmente difforme dalle norme (ad esempio, regolamentari), risulti comunque tecnicamente possibile. Si avrà invece inesistenza nel caso contrario.

33. LE COMUNICAZIONI E LE NOTIFICAZIONI NEL PROCESSO. I. Comunicazioni e notificazioni: nozione e differenze. Le parti e il giudice, come si è visto, non possono operare nel processo secondo le modalità espressive della vita comune, ma soltanto mediante modalità formali specifiche. Questo profilo investe anche l’aspetto delle comunicazioni (qui, latamente intese). I modi di comunicazione nel processo possono riguardare la comunicazione da parte a parte ovvero la comunicazione da parte a giudice o dal giudice alle parti. La prima si attua o direttamente in udienza o con deposito di atti in cancelleria o mediante la notificazione, che è una forma di trasmissione integrale di un atto al destinatario. La seconda si attua o in udienza o a mezzo di istanze depositate in cancelleria o mediante la comunicazione, qui intesa in senso stretto come forma di trasmissione del contenuto in un atto. La comunicazione (in senso stretto) è regolata dall’art. 136 c.p.c. ed è effettuata dal cancelliere, con biglietto di cancelleria. Secondo


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il codice, viene compiuta sia con diretta consegna al destinatario, che ne rilascia ricevuta (si pensi ai casi in cui essa viene compiuta agli avvocati), di un documento cartaceo, sia a mezzo della posta elettronica certificata (pec). Solo ove l’impiego della modalità elettronica non sia possibile, si ricorre al fax o alla consegna all’ufficiale giudiziario per la notifica. Il biglietto contiene gli estremi dell’atto e una sua riproduzione completa (art. 45 disp. att. c.p.c.) e non più parziale come avveniva un tempo. Il fatto che ora anche la comunicazione, come la notificazione, abbia lo scopo di portare a conoscenza delle parti il testo integrale di atti contribuisce a rendere meno netto il discrimine tra le due forme di trasmissione. Comunicazione e notificazione restano però ben distinguibili dal punto di vista soggettivo: organo infungibilmente deputato alla prima è il cancelliere; organo deputato alla seconda “quando non è disposto altrimenti” è, invece, l’ufficiale giudiziario. L’impiego ordinario e generalizzato della posta elettronica certificata è stato introdotto con le riforme dell’autunno 2011. Mentre in precedenza questo mezzo di comunicazione era possibile in singoli casi, sia pure sempre più numerosi, oggi la sua utilizzazione è divenuta la regola (anche se, come detto, in concorso con la consegna diretta del biglietto). Lo scopo è quello di ottenere un sensibile risparmio di tempi e di energie per gli uffici giudiziari. L’art. 136, comma 2°, precisa che la comunicazione a mezzo pec avviene nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e teletrasmessi: una normativa in costante evoluzione tecnica. Da ordinario, l’impiego della pec tende a proporsi come esclusivo. Con il d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito in l. n. 221 del 17 dicembre 2012, si è stabilito, all’art. 16, che normalmente le comunicazioni che devono essere eseguite dalla cancelleria sono effettuate per via telematica, agli indirizzi di posta elettronica certificata dei destinatari. L’indicazione della pec negli atti giudiziari, quindi, pur non assurgendo a livello di elemento essenziale a pena di nullità, diventa espressione di un onere significativo.

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Resta la possibilità di eseguire le comunicazioni mediante il mero deposito in cancelleria, sia nei confronti dei soggetti che, pur essendovi tenuti, non si siano dotati di pec, sia nei casi di mancata consegna del messaggio di posta elettronica certificata, per causa imputabile al destinatario. Va detto, per chiarezza, che l’applicazione di queste disposizioni è diluita nel tempo, in relazione all’adeguamento tecnologico degli uffici giudiziari (in specie, per quelli del giudice di pace). Nel contempo, restano aperti numerosi problemi, collegati alla validità delle notificazioni, per le ipotesi di errori tecnici o disservizi del sistema. Dobbiamo soffermarci qui sulla notificazione. La disciplina della notificazione deve risolvere due esigenze: la tutela del notificante (evitando che il notificando si sottragga alla conoscenza legale di un atto) e la tutela del notificato (evitando che questi subisca conseguenze processuali e sostanziali, di cui è all’oscuro). Si deve sempre ricordare, a questo proposito, lo schema radicalmente contraddittorio del processo: la notizia che perviene attraverso la notificazione è normalmente una notizia ostile, sgradita, che chi riceve vorrebbe evitare e che, d’altro lato, chi effettua ha l’onere di compiere, se vuole conseguire la reintegrazione dei propri diritti. Va anche tenuto presente che è essenziale per il notificante poter provare di averlo fatto: quindi, non solo si tratta di inviare un messaggio, ma anche di aver sempre la dimostrazione che è stato ricevuto. Il codice cerca di equilibrare queste esigenze: da un lato, cerca di favorire la notificazione diretta; dall’altro, permette al notificante di avvalersi di una serie di presunzioni, nel senso che al compimento di determinate e rigorose attività si presume che il destinatario di buona fede abbia potuto conoscere il contenuto dell’atto. Nel contempo, affida usualmente l’attività notificatoria ad un soggetto abilitato a dare pubblica fede all’avvenuto compimento di tale attività: l’ufficiale giudiziario (art. 137 c.p.c.). In questo senso, la notificazione è atto complesso: della parte e dell’ufficiale giudiziario. È atto della parte, perché è la parte ad attivarsi per portare a conoscenza dell’altra quei determinati contenuti; è atto dell’ufficiale giudiziario, perché solo questi ha il potere pubblico di effettuare una comunicazione con gli effetti legali specifici.


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Le comunicazioni interne al processo seguono quindi prevalentemente schemi del tutto inconsueti per le comunicazioni ordinarie. Questo scarto, però, è in via di progressiva riduzione, grazie alle nuove possibilità offerte dalla tecnologia informatica. La materia delle notificazioni può apparire arida e burocratica. Essa assume, però, una straordinaria importanza pratica. Si pensi che nessun processo può iniziare e nessuna tutela si può ottenere se non si è proposta la domanda giudiziale attraverso la valida notificazione dell’atto introduttivo. II. La disciplina positiva delle notificazioni. Su queste premesse, si può passare ad un sintetico esame delle norme (che, volutamente, non sono studiate qui nei dettagli). L’art. 137, allo scopo di garantire la prova dell’attività svolta, prevede che l’ufficiale giudiziario esegua la notificazione mediante consegna al destinatario di copia conforme all’originale dell’atto da notificarsi. Quindi, le notificazioni si attuano con l’originale dell’atto da notificare, più un numero di copie quanti sono i destinatari. Una volta consegnata una copia a ciascuno dei destinatari, l’ufficiale giudiziario (art. 148 c.p.c.) certifica l’eseguita notificazione mediante apposita breve relazione, da lui datata e sottoscritta, apposta in fondo (la legge, con il consueto arcaismo, dice “in calce”) all’originale e alla copia dell’atto. La relazione indica la persona alla quale è consegnata la copia e le sue qualità (ad esempio, il rapporto che ha con il destinatario), nonché il luogo della consegna, oppure le ricerche, anche anagrafiche, fatte dall’ufficiale giudiziario, i motivi della mancata consegna e le notizie raccolte sulla reperibilità del destinatario. Altra prescrizione di legge, finalizzata al rispetto della riservatezza, impone che le copie degli atti notificati, ove non consegnate materialmente al destinatario, debbano essere inserite in buste chiuse. Disposizioni specifiche sono poi dettate per il caso di notificazione di un documento informatico (art. 137, comma 3°, c.p.c.). Si può ricordare anche che, a norma dell’art. 147 c.p.c., le notificazioni possono essere effettuate solo fra le ore sette e le ventuno.

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Se possibile, come detto, l’atto da notificare va consegnato direttamente al destinatario (c.d. notificazione in mani proprie), che l’ufficiale giudiziario cercherà all’indirizzo indicato dal notificante e quindi in casa o sul luogo di lavoro o (eccezionalmente, nella situazione di vita delle moderne conurbazioni) anche per strada o in qualsiasi altro luogo, purché all’interno della circoscrizione a cui l’ufficiale è addetto (art. 138). Tuttavia, è possibile che l’ufficiale non incontri il destinatario. Il codice, allora, con una prima presunzione, ammette che la notificazione possa essere fatta nel luogo di residenza o di domicilio o di lavoro del destinatario, consegnando la copia a persone che si ritiene la consegneranno all’interessato: secondo l’art. 139, a una persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda, purché non minore di quattordici anni o non palesemente incapace, ovvero al portiere dello stabile dove si trova l’abitazione, l’ufficio o l’azienda, ovvero ancora perfino ad un vicino di casa che accetti di riceverla. Man mano che ci si allontana dal destinatario, le precauzioni aumentano: in caso di consegna al portiere o al vicino, il destinatario ne deve essere avvertito con lettera raccomandata. Si inserisce qui il più classico dei casi di scuola in materia di notificazione: se il figlio, o la collaboratrice familiare, o la segretaria, dimenticano od omettono di informare il destinatario della notificazione ricevuta, oppure se l’atto viene involontariamente smarrito da chi lo aveva materialmente ricevuto, l’effetto giuridico della notificazione si è comunque realizzato. Se il destinatario è una persona giuridica, la notificazione si esegue nei modi appena indicati, presso la sede della persona giuridica, con consegna della copia al legale rappresentante ovvero, come più spesso accade, ad altra persona addetta alla sede (art. 145 c.p.c.). È anche possibile notificare l’atto alla persona fisica che rappresenta l’ente, a condizione che nell’atto da notificare ne siano indicati la qualità e il recapito. Si pensi al caso di una società in difficoltà economica, la cui sede risulti chiusa. Il livello delle presunzioni di notificazione sale quando la reperibilità del destinatario diventa più ardua. In primo luogo, può accadere che sia nota l’effettiva residenza del destinatario, ma questi non si trovi a quell’indirizzo (ad esempio, perché vive solo ed è impegna-


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to in un periodo di lavoro all’estero, oppure semplicemente perché sta trascorrendo una vacanza) ovvero nessuna delle persone indicate all’art. 139 (ad esempio, i vicini di casa) accetti di ricevere l’atto. In questo caso, l’art. 140 c.p.c. permette di ritenere eseguita una notificazione con il mero compimento di una serie di formalità, senza alcuna garanzia che l’atto sia effettivamente arrivato nelle mani del destinatario. Infatti, qui l’ufficiale giudiziario deposita la copia in un apposito ufficio (la norma parla di “casa”) del comune dove la notificazione deve eseguirsi, affigge poi un avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario e, da ultimo, gliene dà notizia per raccomandata con avviso di ricevimento. Va ricordato, peraltro, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 3 del 14 gennaio 2010, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 140, laddove la norma prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anziché con il suo ricevimento o, comunque, decorsi dieci giorni dalla spedizione. Il massimo livello di presunzioni è raggiunto, in secondo luogo, dall’ipotesi in cui del destinatario non si conosca alcun indirizzo. È la c.d. notificazione all’irreperibile, disciplinata dall’art. 143 c.p.c. Qui l’ufficiale giudiziario esegue la notificazione depositando una copia dell’atto nell’apposito ufficio del comune dell’ultima residenza o, se questa è ignota, in quella del luogo di nascita del destinatario. Infine, se non sono noti neppure il luogo dell’ultima residenza o quello di nascita, l’ufficiale giudiziario consegna una copia dell’atto al pubblico ministero. In questo caso, la notificazione si considera eseguita nel ventesimo giorno successivo a quello in cui sono compiute le formalità prescritte. Il rigore di queste norme, oltre ad averne provocato la parziale incostituzionalità, specie in rapporto ad azioni giudiziarie particolarmente invasive, suscita perplessità, in rapporto al principio del contraddittorio e del giusto processo: sembra, ad un primo sguardo, che la posizione del notificando sia gravemente compromessa. In realtà, a ben guardare, le norme vogliono evitare che qualcuno possa sottrarsi alla giustizia nascondendosi; allo stesso tempo, il principio di responsabilità e il dovere di solidarietà impongono ad ogni

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cittadino di organizzarsi in modo da poter essere reperibile. Se ciò non avviene, è logico che chi si è sottratto a questi doveri ne debba sopportare le conseguenze. Una fattispecie, per così dire, opposta alla precedente è quella in cui il destinatario, raggiunto dall’ufficiale giudiziario, rifiuti di ricevere l’atto. A tutela del notificante, la legge prevede che questo rifiuto equivalga alla notificazione in mani proprie (art. 138). Ancora, l’art. 141 precisa che la notificazione degli atti a chi ha eletto domicilio presso una persona o un ufficio può essere fatta mediante consegna di copia alla persona o al capo dell’ufficio in qualità di domiciliatario, nel luogo indicato nell’elezione. Ciò vale per tutti i casi in cui la parte è domiciliata presso il proprio difensore. Disposizioni specifiche regolano poi casi particolari, come quello della notificazione alle amministrazioni dello Stato (art. 144) o a militari in servizio (art. 146). III. La scissione degli effetti della notificazione. I vizi della notificazione. Si deve segnalare l’importante sentenza della Corte costituzionale del 26 novembre 2002, n. 477, che ha di fatto introdotto nel sistema italiano il principio della scissione degli effetti dell’atto. Anche se è sempre vero che la notificazione si perfeziona con la consegna effettiva al destinatario o con il raggiungimento delle modalità di consegna presuntiva previste dalla legge, la Corte ha precisato che, ai fini del rispetto dei termini, la notificazione si perfeziona per il notificante al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario. L’art. 149 c.p.c. codifica questo principio con riguardo alla notificazione a mezzo del servizio postale: l’ultimo comma della norma precisa, infatti, che la notifica si perfeziona, per il soggetto notificante, al momento della consegna del plico all’ufficiale giudiziario e, per il destinatario, dal momento in cui lo stesso ha la legale conoscenza dell’atto. Si tratta di un punto importante e che va bene inteso. Supponiamo che il notificante debba notificare un atto, a pena di decadenza da un certo diritto, entro una certa data. Non è indispensabile che l’atto arrivi al destinatario, ma soltanto che sia consegnato all’uffi-


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ciale giudiziario entro quella data. Ciò però non esime il notificante dall’onere di conseguire una notificazione corretta. La notificazione è nulla, se effettuata in modi che pregiudichino gravemente la possibilità del notificando di essere informato; è inesistente, se effettuata a soggetto diverso dal notificando. L’art. 160 c.p.c. testualmente dispone che la notificazione è nulla se non sono osservate le disposizioni circa la persona alla quale deve essere consegnata la copia, o se vi è incertezza assoluta sulla persona a cui è fatta o sulla data in cui è avvenuta. Come ogni atto nullo, la notificazione può essere rinnovata: molto importante, in questo senso, è la disposizione dettata dall’art. 291 c.p.c. in tema di contumacia: se il convenuto non si costituisce e il giudice istruttore rileva un vizio che importi nullità della notificazione della citazione, fissa all’attore un termine perentorio per rinnovarla e la rinnovazione impedisce ogni decadenza. IV. Forme diverse di notificazione. Le forme di notificazione ad opera dell’ufficiale giudiziario sono diverse: oltre quella a mani, vanno segnalate la notificazione per posta, per pubblici proclami o a mezzo di più moderni sistemi di comunicazione (fax e posta elettronica). L’art. 149 disciplina in generale la notificazione a mezzo del servizio postale, precisando che in questo caso l’ufficiale giudiziario scrive la relazione di notificazione sull’originale e sulla copia dell’atto, facendovi menzione dell’ufficio postale per mezzo del quale spedisce la copia al destinatario in piego raccomandato con avviso di ricevimento. Quest’ultimo è allegato all’originale. La notificazione a mezzo posta, regolata nei dettagli dalla l. 20 novembre 1982, n. 890 e successive modificazioni, è uno strumento di grande importanza pratica, ampiamente utilizzato, specialmente tutte le volte che il destinatario della notificazione risieda in una circoscrizione giudiziaria diversa da quella dell’organo davanti a cui si discute. Infatti, gli ufficiali giudiziari sono abilitati, in forza delle disposizioni sulla loro competenza, a notificare atti solo all’interno del territorio al quale sono applicati; in materia postale, invece, possono effettuare notificazioni in tutto il territo-

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rio nazionale (e, come si vedrà a breve, anche fuori di esso), purché riferite a giudizi radicati dinanzi ad organi inclusi nella loro area geografica di competenza. Qui, tuttavia, il meccanismo notificatorio è ulteriormente complicato, nella pratica, dalla necessaria collaborazione tra l’ufficiale giudiziario e gli agenti postali. Come si è visto, l’incerta individuazione dell’effettivo destinatario causa nullità della notificazione; e in questo caso la relazione di notificazione si completa con l’avviso di ricevimento del plico postale che (e qui sta il punto) non è compilato dall’ufficiale giudiziario, ma dall’agente postale. Il postino è, qui, il terminale dell’iniziativa giudiziaria: un complesso atto, che ha richiesto lungo studio e preparazione, può correttamente raggiungere o non raggiungere il destinatario a seconda della perizia dell’agente postale, che, in dati periodi e zone, può essere una persona ancora di scarsa esperienza, assunta in prova. Un cenno va dato alla notificazione per pubblici proclami. Si tratta di un meccanismo notificatorio presuntivo, regolato dall’art. 150 c.p.c., che può essere autorizzato dal presidente dell’organo giudiziario davanti al quale si procede, quando la notificazione nei modi ordinari è particolarmente difficile per il rilevante numero dei destinatari o per la difficoltà di identificarli tutti. Il giudice indica, dopo avere sentito il pubblico ministero, i modi che si ritengono più opportuni per raggiungere i destinatari. Un esempio può essere quello della pubblicazione di un annuncio su quotidiani di ampia diffusione o molto diffusi nella zona in cui possono trovarsi i destinatari. In ogni caso, una copia dell’atto è depositata presso l’apposito ufficio del Comune del luogo in cui ha sede l’ufficio giudiziario in oggetto, e un estratto di esso è inserito nella Gazzetta ufficiale. La notificazione, dispone la norma, si ritiene correttamente avvenuta quando, eseguite le disposizioni del giudice, l’ufficiale giudiziario deposita una copia dell’atto, con la relazione e i documenti giustificativi dell’attività svolta, nella cancelleria dell’organo giudiziario. Come si vede, il sistema è macchinoso e costoso (tanto che non può essere utilizzato dinanzi al giudice di pace) e non offre alcuna garanzia che il destinatario sia effettivamente informato.


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V. La notificazione telematica. Quello illustrato fino ad ora è il quadro tradizionale dell’istituto. Si vanno però estendendo le forme di notificazione che si avvalgono delle forme telematiche: ovviamente, a condizione che il destinatario sia dotato di strumenti che gli permettono di ricevere le notificazioni in questo modo. Intanto, il cammino verso una maggiore informalità è agevolato dall’art. 151 c.p.c., secondo cui il giudice può prescrivere, anche d’ufficio, con decreto redatto in fondo all’atto da notificare, che la notificazione sia eseguita in modo diverso da quello stabilito dalla legge, quando lo consigliano circostanze particolari o esigenze di maggiore celerità, di riservatezza o di tutela della dignità. Anche se la norma, come esempio di difformità dallo schema, menziona il telegramma collazionato con avviso di ricevimento, non vi è dubbio che di questa facoltà il giudice possa fare applicazione riferendosi al fax o alla posta elettronica certificata. La l. 22 febbraio 2010, n. 24, ha introdotto nel codice l’art. 149bis, che prevede la possibilità di effettuare le notificazioni, salvo espresso divieto di legge, anche a mezzo posta elettronica certificata. La norma traduce le comuni regole sulle notificazioni nel contesto specifico del mezzo informatico. In particolare, si prevede che l’ufficiale giudiziario trasmetta copia informatica dell’atto sottoscritta con firma digitale all’indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario risultante da pubblici elenchi e che la notifica si intende perfezionata quando il gestore rende disponibile il documento informatico nella casella di posta elettronica certificata del destinatario. Anche la relazione di notificazione è redatta su documento informatico, sottoscritto con firma digitale. Come ricordato, l’art. 16 del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito in l. n. 221 del 17 dicembre 2012, stabilisce che normalmente le notificazioni che devono essere eseguite dalla cancelleria sono effettuate per via telematica, agli indirizzi di posta elettronica certificata dei destinatari. La relazione di notificazione coincide con quella generata automaticamente dal sistema informatico. Le più recenti innovazioni legislative hanno poi introdotto forme di notificazione che vanno direttamente da parte a parte, senza

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che debba essere coinvolto l’ufficiale giudiziario. In particolare, è molto importante la nuova facoltà notificatoria concessa agli avvocati. Già con la l. n. 53 del 21 gennaio 1994 era stata introdotta la possibilità per gli avvocati di eseguire direttamente le notificazioni, con l’osservanza però di complesse procedure che non la rendevano agevole. Di recente, la l. n. 228 del 24 dicembre 2012, inserendo nel citato d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, l’art. 16-quater e la l. n. 114 dell’undici agosto 2014 hanno esteso a tutti gli avvocati la facoltà di effettuare in via telematica, con notevole semplicità, le notificazioni ad ogni altro soggetto dotato di indirizzo pec. Ne segue che la parte, a mezzo del proprio difensore, può effettuare le notificazioni ad un vasto novero di potenziali destinatari (a cominciare da tutti gli altri avvocati) senza il necessario ministero dell’ufficiale giudiziario, a condizione, naturalmente, che l’indirizzo pec del destinatario risulti da pubblici elenchi (art. 3-bis n. 1 l. n. 53 del 1994). Queste innovazioni modificano la stessa natura giuridica della notificazione telematica, che perde la caratteristica di atto complesso per assumere quella più semplice di atto di parte. Ad esempio, la conferma dell’avvenuta notificazione non risulta più dalla relazione dell’ufficiale giudiziario, ma da un’apposita ricevuta generata dal sistema informatico. VI. La notificazione all’estero. Un aspetto particolare del problema è dato dalle notificazioni all’estero. Infatti, in questo caso, oltre ai problemi di costruire una comunicazione effettiva, occorre attuare una forma di collaborazione fra ordinamenti diversi, a motivo che un atto giudiziario confezionato in uno Stato deve essere portato a conoscenza, con precisi effetti legali, in un altro Stato. Si viene a toccare il profilo della sovranità: la notificazione, come atto dell’ufficiale giudiziario, suppone pur sempre l’esercizio di un potere giurisdizionale di imperio, che può essere esercitato, in linea di principio, soltanto sul territorio dell’ordinamento da cui quel potere promana. Ovviamente, non si possono sottacere le complicazioni pratiche per conseguire che l’atto da notificare raggiunga il contatto con il destinatario.


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Per attuare la necessaria collaborazione, la convenzione dell’Aia del 1965 sulle notificazioni all’estero, ratificata dall’Italia nel 1981, fissa per i paesi che vi aderiscono una serie di regole, imperniate su un sistema di autorità centrali, che curano la trasmissione e la ricezione degli atti. Il notificante italiano consegna l’atto all’ufficiale giudiziario, che lo consegna all’autorità centrale italiana, che a sua volta lo trasmette all’autorità giudiziaria dell’altro paese, che a sua volta lo affida ai competenti organi interni che, infine, tentano di raggiungere il destinatario. Nel quadro dell’Unione europea, il regolamento 1393/07 (sia pure con limitazioni ed incertezze) cerca di attuare un sistema di consegna diretta dell’atto, fra le singole autorità giudiziarie interessate: in pratica, l’ufficiale giudiziario italiano invia l’atto al competente collega dell’altro Stato membro, che cura la notificazione secondo le sue regole interne. I vari passaggi sono documentati da appositi formulari. Inoltre, vengono ammesse altre forme di notificazione diretta e, in specie, quella a mezzo del servizio postale. L’art. 142 c.p.c. è, a questo proposito, una norma di chiusura, che regola le situazioni in cui non si possano applicare le norme internazionali o europee. Infatti, se il destinatario non ha residenza, dimora o domicilio nello Stato e non vi ha eletto domicilio o costituito un procuratore a norma dell’art. 77 c.p.c., l’atto è notificato mediante spedizione al destinatario per mezzo della posta con raccomandata e mediante consegna di altra copia al ministero degli affari esteri per la consegna alla persona alla quale è diretta.

34. IL TEMPO NEL PROCESSO. I TERMINI PROCESSUALI. I. I termini processuali. Il processo, si è detto, è un metodo di risoluzione delle controversie, che si svolge dinanzi ad un giudice indipendente ed imparziale, nel rispetto del contraddittorio e con una ragionevole durata, come ricorda precettivamente l’art. 111 cost. È quindi naturale che le attività che le

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parti e il giudice compiono nel processo non siano istantanee, ma si sviluppino nel tempo. In specie, un’ordinata trattazione della controversia suppone che tali attività si attuino nel rispetto di tempi prefissati, idonei, da un lato, ad assicurare il diritto di difesa e, dall’altro, a garantire (almeno, sulla carta) una sollecita trattazione del caso. I termini sono quelle scansioni temporali entro le quali o non prima delle quali deve essere compiuta una determinata attività. Il codice di procedura civile italiano ne detta la disciplina generale agli artt. 152-155; altre disposizioni di rilievo riguardano i termini per il compimento di attività specifiche (e si possono citare, in via puramente esemplificativa, gli artt. 163-bis, 165, 166, 325, 326, 328, 370, 378, 498, 644); infine, vi sono importanti leggi speciali, come la l. n. 742 del 7 ottobre 1969, relativa alla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale. È utile notare che, quindi, la tutela dei diritti non può essere esercitata in modo indipendente dalle coordinate temporali entro le quali la legge riconosce la facoltà di esercitarla. Anche i diritti assoluti, se violati, possono trovare protezione giudiziaria solo nel rispetto delle modalità di tempo fissate per i singoli atti del procedimento. I termini sono normalmente fissati dalla legge (c.d. termini legali). Tuttavia, in talune circostanze, la relativa fissazione è rimessa al giudice (c.d. termini giudiziali: ad esempio, artt. 102, comma 2°, 164, commi 2° e 5°, 331, comma 1°, 669-octies, comma 1°), che riceve il compito di determinare l’estensione del termine, talvolta liberamente e talaltra all’interno di una forbice prestabilita. II. Termini perentori ed ordinatori. È necessario distinguere fra termini perentori e termini ordinatori. Sono perentori i termini alla cui mancata osservanza la legge associa conseguenze pregiudizievoli (decadenziali o preclusive) per la parte che vi sia incorsa. Sono ordinatori, invece, i termini alla cui mancata osservanza la legge non associa conseguenze pregiudizievoli, né fa discendere la perdita di diritti o di facoltà processuali. Stabilire se un dato termine ha natura perentoria ovvero ordinatoria è questione delicata. Infatti, vengono in gioco due opposte esigen-


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ze: da un lato, quella della correttezza e dell’equilibrio fra le posizioni delle parti, per cui una di esse ha interesse a trarre profitto dall’inesatto compimento di un’attività dell’altra e, per il verso opposto, quella della giustizia sostanziale, a cui in qualche modo ripugna che un diritto non possa trovare tutela soltanto per le modalità di tempo con cui una delle parti ha esercitato la sua difesa. Questo confronto porta a ritenere, sulla scorta dell’art. 152 c.p.c., che siano perentori soltanto i termini a cui l’effetto decadenziale pregiudizievole sia posto dalla legge in maniera esplicita. Ne segue che, nei casi di incertezza, si deve propendere per il carattere ordinatorio del termine. Questa conclusione vale non soltanto per i termini legali, ma anche per i termini giudiziali. Qui, i termini possono ritenersi perentori solo se tale natura è indicata esplicitamente dalla norma: il giudice, in altre parole, può innestare nel processo termini perentori, soltanto se la legge lo permette espressamente: vale a dire, se la legge stabilisce la natura perentoria del termine e affida al giudice il potere di fissarlo. Fra i termini perentori, vanno messi particolarmente in luce quelli che governano i momenti di impulso o l’instaurazione di nuove fasi del processo: così, il termine per la riassunzione della causa dinanzi al giudice di rinvio dopo la cassazione della sentenza (artt. 392-393 c.p.c.), oppure i termini per impugnare (art. 327, comma 1°, c.p.c.). Le regole sul potere di fissare i termini, come dettate dall’art. 152 c.p.c., sono espressione di una concezione tendenzialmente rigida del processo. Una configurazione elastica dell’attività processuale avrebbe invece per caratteristica quella di lasciare al giudice (ovvero, all’iniziativa congiunta del giudice e delle parti) il compito di stabilire i termini per lo sviluppo della trattazione, in modo da adattarla alle specifiche esigenze del caso concreto. La natura del termine ha importanti conseguenze sulla sua eventuale modificabilità. I termini perentori (così dispone l’art. 153 c.p.c.) non possono essere abbreviati o prorogati, nemmeno sull’accordo delle parti. Invece, i termini ordinatori sono modificabili: l’art. 154 c.p.c. dispone al riguardo che il giudice, prima della scadenza, può abbreviare o prorogare, anche d’ufficio, il termine che non sia stabilito a pena di decadenza. La norma aggiunge che la proroga non può avere

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una durata superiore al termine originario e che non può essere consentita una proroga ulteriore, se non per motivi particolarmente gravi e con provvedimento motivato. La proroga è possibile, se il termine è ordinatorio, anche in caso di termini giudiziali. È utile rilevare che la perentorietà dei termini vale soprattutto per il compimento degli atti di parte e non per quello degli atti del giudice. La ragione sta nel fatto che l’estensione dei termini costituisce un importante punto di equilibrio nel contrapposto gioco delle parti e che il principio di autoresponsabilità è alla base di un attivo svolgimento delle difese all’interno degli spazi temporali che la legge o il giudice hanno attribuito a ciascuna di esse. Ne segue che ogni parte ha interesse a disporre di un termine congruo, ma la controparte ha un contrario interesse a verificare che l’attività di cui si tratta sia compiuta esattamente in quell’ambito. È bene precisare, peraltro, che anche il giudice può trovarsi a perdere un potere per effetto dell’inutile decorso di una scansione temporale. Ad esempio, il giudice non può rilevare questioni di competenza o connessione dopo la prima udienza di trattazione. Naturalmente, le norme che fissano termini a carico del giudice non sono prive di rilievo, anche se non si può parlare di perentorietà e di decadenza. Infatti, esse scandiscono i tempi di un normale sviluppo del processo (si pensi, ad esempio, ai termini per il deposito delle sentenze e delle ordinanze riservate: artt. 186, 321, 281-quinquies c.p.c.) e possono incidere sia su eventuali profili disciplinari a carico dei magistrati, sia per la determinazione della durata ragionevole del processo, ai fini dell’equa riparazione. III. Termini acceleratori e dilatori. Il calcolo dei termini. Le regole sui termini costituiscono un momento di grande rilevanza pratica nel processo civile, proprio perché, come detto, una volta che il legislatore abbia compiuto una scelta di equilibrio fra il diritto di difesa e la speditezza della trattazione, dall’osservanza o no di un termine perentorio può dipendere la tutelabilità in concreto di un diritto sostanziale.


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Un’importante distinzione, che attiene al modo di operare dei termini, è quella fra termini acceleratori (o finali) e termini dilatori. Sono termini acceleratori quelli che specificano il momento temporale entro il quale e non oltre il quale va compiuta l’attività in oggetto (ad esempio, il termine per impugnare una sentenza). Sono invece termini dilatori quelli che fissano uno spazio temporale, non prima del quale può essere compiuta una data attività (l’esempio classico è quello del termine per la fissazione dell’udienza di prima comparizione ex art. 163-bis c.p.c.). Soltanto per i termini finali vale la distinzione fra termini ordinatori e termini perentori. Per quanto riguarda il modo di calcolo, i termini si computano in ore (ovviamente, molto di rado), in giorni, mesi o anni. Nel caso di termini espressi in giorni, vale la regola per cui non si conta il giorno in cui prende avvio lo spazio temporale incluso nel termine e si conta invece il giorno in cui questo periodo viene a concludersi: dies a quo non computatur in termino e, invece, dies ad quem computatur in termino. Nessun rilievo ha quindi, per questo tipo di termini, la differente durata dei mesi dell’anno. Analogamente si deve procedere per i termini ad ore (art. 155, comma 1°, c.p.c.). Se, invece, il termine è espresso in mesi (art. 155, comma 2°, c.p.c.), esso scade nel giorno (dies ad quem e quindi utilizzabile per il compimento dell’attività) che porta la stessa data del mese corrispondente. Il mese, poi, si determina contando il numero di mesi indicato nel termine, escludendo il mese di partenza e comprendendo il mese di arrivo. Qualora il mese di partenza abbia un numero di giorni maggiore del mese di scadenza e il giorno da cui ha inizio il conteggio prenda un numero non presente nel mese di scadenza, il termine scade nell’ultimo giorno di calendario del mese di scadenza. Infine, nel caso di termine espresso in anni, esso scade nel giorno e nel mese che portano la stessa data del momento di inizio, utilizzando le stesse modalità di computo previste per i termini di mesi. È superfluo mettere in luce, quindi, che il termine di un mese non è sempre coincidente con un termine di trenta giorni o che il termine di un anno non corrisponde necessariamente a 365 giorni.

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Queste modalità di calcolo valgono anche quando il termine vada, per così dire, a ritroso (ad esempio, venti giorni prima di una data udienza). In taluni casi, si deve escludere dal computo dei termini non solo il dies a quo, ma anche il dies ad quem. È questa l’ipotesi dei termini liberi, a cui si riferiscono alcune disposizioni del c.p.c., come l’art. 163-bis. Si è visto che, comunque sia espresso (giorni, mesi o anni), il termine non può avere scadenza che in un giorno determinato. Si aggiungono quindi profili peculiari per l’ipotesi in cui il termine cada in un giorno festivo. Se il giorno di scadenza del termine è festivo (intendendosi qui i giorni considerati festivi dall’ordinamento dello Stato), la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo (art. 155, comma 4°, c.p.c.). Se, invece, il termine ricomprende giorni festivi, questi si computano normalmente. Così, un termine di sette giorni decorrente dal 18 dicembre scade il 27 dicembre; invece, un termine sempre di sette giorni decorrente dal 22 dicembre scade il 29 dicembre. Il legislatore ha ritenuto opportuno adattare la disciplina sui giorni festivi di scadenza del termine alla mutata sensibilità sociale, che tende a considerare giorno libero da impegni di lavoro anche il sabato. Pertanto, il nuovo comma 5° dell’art. 155 c.p.c. stabilisce che la proroga della scadenza al primo giorno feriale seguente si applica anche ai termini per il compimento di atti processuali svolti fuori dell’udienza che scadono nella giornata di sabato. Tuttavia, questo vale soltanto per la scadenza di atti e non per l’attività processuale tout court: infatti, l’art. 155, ult. comma, precisa che resta fermo il regolare svolgimento delle udienze e di ogni altra attività giudiziaria, anche svolta da cancellieri, ufficiali giudiziari ed altri ausiliari del giudice, nella giornata del sabato che ad ogni effetto è considerata lavorativa. Il sabato, insomma, assume una configurazione semifestiva: l’attività giudiziaria vi si può svolgere regolarmente, ma la scadenza dei termini è prorogata. Un accenno va dato alla scadenza dei termini quando il compimento di determinate attività processuali avviene in via telematica. In questi casi, sempre più estesi, non si deve tenere conto dell’orario di chiusura delle cancellerie giudiziarie: le attività compiute in via


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telematica (ad esempio, il deposito di atti) sono tempestive se la ricevuta elettronica di avvenuta consegna al sistema viene generata entro le ore 24 del giorno di scadenza. Ciò vale anche nell’ipotesi in cui per la dimensione dell’atto o dei documenti siano necessari più invii, tenuto conto che ogni invio non può superare i 30 megabyte. IV. La sospensione feriale dei termini. Di estrema importanza pratica è poi la disciplina della sospensione feriale dei termini. La legge n. 742 del 7 ottobre 1969, all’art. 1, come modificata con la legge n. 162 del 2014, prevede la sospensione di diritto del decorso dei termini processuali relativi alle giurisdizioni ordinarie e amministrative durante un periodo che va dal 1° agosto al 31 agosto (prima della recente riforma, al 15 settembre) di ogni anno. In altre parole, il conteggio del termine si arresta al 31 luglio e riprende a decorrere, tenuto conto ovviamente dello spazio temporale già consumato, dal 1° settembre: quindi, si devono contare trentuno giorni. Questo vale sia per i termini che scadono all’interno del periodo feriale, che per quelli che non scadono nel periodo feriale, ma semplicemente lo attraversano. Così pure, se un termine comincia a decorrere all’interno del periodo feriale, il relativo inizio è differito al 1° settembre. I termini per i quali vale la sospensione feriale sono quelli direttamente correlati all’attività dei giudici e dei difensori delle parti e, quindi, relativi ad attività defensionali interne al processo. Pertanto, la sospensione non si applica alle situazioni collegate all’esercizio, a pena di decadenza, di determinati diritti sostanziali. Per non fare che un esempio, se una prescrizione decennale cade durante il periodo estivo, la parte interessata dovrà agire all’interno del termine di diritto sostanziale; tuttavia, ai fini processuali (ad esempio, la fissazione della prima udienza di comparizione) dovrà tenere conto della sospensione e quindi individuare un’udienza avendo riguardo sia al termine dilatorio ex art. 163-bis, sia alla porzione restante del periodo di sospensione feriale. Va detto, peraltro, che la giurisprudenza ha in qualche modo attenuato queste regole, per facilitare l’esercizio effettivo del diritto di azione, tutte le volte che l’esperibilità della do-

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manda giudiziale risultava eccessivamente limitata per la brevità del termine: ad esempio, si sono ritenuti soggetti alla sospensione feriale i termini previsti per l’impugnazione dei lodi arbitrali o per quella delle delibere condominiali (Corte cost., 2 febbraio 1990, n. 49). Quando si afferma che la sospensione feriale riguarda i termini interni al processo, non ci si limita però alle sole attività racchiuse in una singola istanza, ma anche a tutte quelle volte a dare vita ad un’istanza successiva (come le impugnazioni) o a una nuova fase del medesimo grado (come le riassunzioni). Secondo un orientamento giurisprudenziale assolutamente pacifico, è sospeso nel periodo feriale il termine per l’opposizione a decreto ingiuntivo, mentre non lo sono né quello per la notifica del provvedimento monitorio, né quello dell’efficacia dell’atto di precetto. La sospensione feriale dei termini non vale per le materie caratterizzate da una speciale urgenza nella trattazione, elencate negli artt. 2-5 della legge, che, per la materia civile, ricomprendono i procedimenti di cui all’art. 92 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, nel testo successivamente modificato, vale a dire: cause relative ad alimenti, procedimenti cautelari, procedimenti in materia di amministrazione di sostegno, di interdizione, di inabilitazione, di ordini di protezione contro gli abusi familiari, procedimenti di sfratto, cause di opposizione all’esecuzione e cause di dichiarazione e revoca dei fallimenti. Viene inoltre espressamente inclusa dall’art. 3 della legge la materia delle cause di lavoro e previdenza. Stabilire se una data materia possa beneficiare o no della sospensione feriale dei termini è problema di notevole rilievo pratico. Al riguardo, si tratta di stabilire se le materie sottratte alla sospensione siano di interpretazione tassativa, o se invece costituiscano un numero aperto, anche tenendo conto dell’ultima parte dell’art. 92, che menziona in genere tutte le controversie rispetto alle quali la ritardata trattazione potrebbe produrre grave pregiudizio alle parti. Ora, per evidenti esigenze di certezza, si deve ritenere che le norme che pongono eccezioni alla sospensione dei termini vadano interpretate in senso stretto (quindi, in caso di dubbio, il termine è sospeso), mentre la decisione di svolgere attività giudiziaria durante il periodo feriale (alla quale, appunto, va riferita la dizione della parte


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finale dell’art. 92 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12) può risentire di una valutazione elastica. Mentre la sospensione feriale dei termini ha carattere ordinario e fisiologico, si possono dare situazioni, di tipo eccezionale, in cui i termini processuali risultano sospesi o prorogati. In particolare, si deve avere riguardo ai casi di calamità naturali e di grave disservizio della pubblica amministrazione. In queste fattispecie, la sospensione o la proroga non possono mai presumersi, ma devono risultare da un apposito provvedimento: solitamente, una legge speciale, emanata di volta in volta, per le calamità naturali e un decreto ministeriale per i casi di irregolare funzionamento degli uffici giudiziari, che dichiari l’eccezionalità dell’evento e la relativa durata. V. I termini elastici. Anche se la tradizione giuridica italiana ha costantemente visto nella chiara predeterminazione e conoscibilità dei termini processuali un motivo di garanzia e di prevenzione di possibili abusi, non sono infrequenti le norme che indicano il compimento di atti nel processo attraverso locuzioni elastiche. Si pensi, ad esempio, alla locuzione “senza indugio”, con cui si tenta di scandire con un ritmo elevato l’attività degli organi giudiziari (ad esempio, l’art. 168-bis, comma 1°, c.p.c.). Se è vero che, in tal caso, si tratta di indicazioni puramente ordinatorie, è anche vero che a talune di queste situazioni si riconnettono conseguenze giuridiche non trascurabili. In particolare, è la normazione europea sul processo civile ad importare fattispecie di questo tipo. Si pensi, ad esempio, al riferimento contenuto nell’art. 45 del regolamento n. 1215 del 2012, in base al quale una decisione esecutiva emessa in uno Stato membro dell’UE non è riconoscibile se il convenuto contumace non ha ricevuto l’atto introduttivo del giudizio in modo regolare e in tempo utile per approntare la difesa. La locuzione “in tempo utile” non si identifica in un numero prefissato di giorni, tanto che, in sede di opposizione al riconoscimento, il relativo significato può essere valutato in modo diverso, tenendo conto di fattori come la complessità della causa o le difficoltà di traduzione dei documenti.

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SI DEVONO SAPERE I TERMINI A MEMORIA? È una domanda molto frequente che gli studenti, con un qualche timore, rivolgono al professore, augurandosi, naturalmente, che la risposta sia negativa. Certo, la risposta è negativa, a patto che si sappia perfettamente in quale punto del codice è regolato il termine di cui si parla; che si conosca in modo chiaro la natura del termine – se finale o dilatorio, perentorio oppure ordinatorio –; che si abbia un’idea razionale della dimensione della lunghezza di quel termine, in rapporto alla funzione che svolge nel processo. Il diritto processuale civile non è materia da mettere a memoria, ma è soprattutto materia da capire. A volte, però, accade che capire è più scomodo e, alla domanda di esordio, si finisce con il preferire la risposta positiva.

35. IL TEMPO NEL PROCESSO. LA RIMESSIONE IN TERMINI. I. Profili generali della rimessione in termini. In base all’art. 153 c.p.c., si può verificare il fenomeno della rimessione in termini. La parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termini. La norma si applica sia in costanza di un rapporto processuale valido, sia quando si tratta di riaprire una nuova fase processuale o di riassumere il giudizio. È superfluo dimostrare come la possibilità per la parte di essere riammessa ad esercitare le proprie facoltà processuali, dopo di averle incolpevolmente perdute, costituisca un significativo episodio di civiltà giuridica e una concreta attribuzione di tutele. Nella ricerca di un equilibrio fra il rispetto della regola, essenziale a tutela della controparte e per la certezza dei rapporti nel processo, e il tentativo di raggiungere la giustizia sostanziale, togliendo importanza agli errori di procedura, la rimessione in termini è un profilo efficace.


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Infatti, la possibilità di recuperare un termine, e quindi di poter esercitare nel processo la tutela di un diritto, altrimenti perduta o fortemente compromessa, è collegata alla nozione di causa non imputabile, che comprende sia il caso fortuito e la forza maggiore, sia tutte le ipotesi che non presuppongano la mancanza della diligenza ordinaria richiesta alla parte. Viene premiato il principio di responsabilità: la parte che non ha conseguito il compimento di una data attività entro un dato termine in conseguenza di un fatto che non ha potuto evitare, pur avendo messo in campo i mezzi per riuscirvi, ha la possibilità di esprimere in pieno la propria difesa. Nel contempo, la rimessione in termini copre tutte le situazioni in cui un documento o una prova siano venuti alla luce dopo lo spirare delle preclusioni: ancora una volta, la giustizia sostanziale prevale sulla pur importante esigenza di un preciso ordine nella trattazione del processo. Nel testo originario del codice del 1942 la rimessione in termini era riservata a poche ipotesi tassative. La riforma del 1990-95 introdusse, all’interno del processo di cognizione, l’art. 184-bis, che, secondo la prevalente opinione dei commentatori, immetteva nel nostro ordinamento una facoltà generale di rimessione in termini. Tuttavia, la norma non si applicava alle impugnazioni e alle riassunzioni. Il testo dell’art. 153, come modificato con la riforma del 2009, esclude ogni possibile dubbio: la rimessione in termini è un istituto applicabile a qualsiasi attività processuale, senza eccezioni. La concreta dimensione della portata dell’istituto della rimessione in termini è lasciata all’interpretazione giurisprudenziale. In questo senso, è necessario valorizzare al massimo i profili diversi che si pongono caso per caso e quindi un apprezzamento in chiave di elasticità è comunque preferibile. Ora, la norma può essere letta in modo da considerare, nel compiere la valutazione di “colpevolezza” di una parte, anche l’atteggiamento dell’altra: il che è importante, nell’ottica del contraddittorio e per la finalità di evitare che una regola di civiltà si presti a letture abusive. Il disposto della norma, come si è accennato, ricomprende non soltanto le ipotesi di caso fortuito e di forza maggiore, ma anche

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quelle dello ius superveniens e del fatto nuovo. Orbene, si può ritenere che, qualora si sia verificata una di queste fattispecie, la parte che invoca la rimessione in termini non la possa conseguire se la controparte abbia compiuto, nel frattempo, una qualche attività processuale che, invece, già tenga conto del profilo innovativo. La diligente iniziativa di una parte può valere a sottolineare, quasi per contrasto, la tardività e quindi la colpevolezza nel ritardo in cui è incorsa l’altra. In altre parole. Mentre il caso fortuito e la forza maggiore – ove considerati in modo doverosamente rigoroso – costituiscono una fattispecie che incide in maniera soggettiva su una sola delle parti (perché si tratta di un’impossibilità ad operare che ha colpito una sola di esse), lo ius superveniens e il fatto nuovo costituiscono invece elementi comuni anche all’altra parte. E se quest’ultima si è tempestivamente attivata, compiendo atti processuali che tengano conto di tali fattori sopravvenuti, la decadenza della parte inerte dovrà essere giudicata come imputabile e quindi insuscettibile di ottenere la rimessione in termini. La lettura qui suggerita diventa ancora più necessaria nel contesto della definitiva formulazione delle norme riformate. Infatti, la segnalata moltiplicazione di occasioni di introduzione di elementi difensivi già pone un convenuto, che miri in prevalenza a guadagnare tempo, nelle condizioni di paralizzare a lungo l’iniziativa dell’attore. Di qui l’esigenza che il canale eccezionale, rappresentato dall’art. 153, sia utilizzato in modo da non danneggiare più del lecito gli interessi della controparte diligente ed attiva. In specie, si deve ritenere che la richiesta di rimessione in termini debba essere presentata subito dopo il venire meno della causa ostativa e, quindi, nella prima attività defensionale successiva. II. La rimessione in termini nel quadro europeo. È utile tenere conto che la normazione europea valorizza in modo significativo la rimessione in termini. Non si tratta, dunque, di un fenomeno solo italiano, ma di un movimento di politica del diritto che trova in Europa un coerente parametro. Lo si può com-


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prendere con una breve considerazione delle norme, collegate alla dimensione del diritto di difesa, che governano situazioni in cui chi subisce gli effetti dell’inerzia processuale non abbia in realtà potuto adeguatamente replicare all’iniziativa della controparte, per fattori esterni non imputabili. Un primo riferimento è quello contenuto nell’art. 45 del regolamento n. 1215/12, secondo il quale non sono riconoscibili le decisioni rese in altri Stati se la domanda giudiziale od un atto equivalente non è stato notificato o comunicato al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale da poter presentare le proprie difese, eccetto qualora, pur avendone avuto la possibilità, egli non abbia impugnato la decisione. La norma si colloca nel quadro del sistema di pesi e contrappesi fra esigenze di effettività e garanzie difensive. In ogni caso, è certo che il convenuto contumace, che non abbia impugnato la decisione sfavorevole non avendone avuto la possibilità, può opporsi al riconoscimento e, quindi, essere rimesso in gioco in vista della soluzione finale della controversia; nel contempo, se questa possibilità avesse avuto e colpevolmente non ne avesse fatto uso, nessun rimedio gli può essere attribuito. Il regolamento n. 1393/07, in tema di notifiche, contiene una norma importante ai fini della rimessione in termini: l’art. 19, parr. 4° e 5°. Questa disposizione presuppone che sia stato notificato all’estero un atto introduttivo di un giudizio civile, che il convenuto sia stato dichiarato contumace e che la sentenza finale sia risultata pregiudizievole nei suoi confronti. Essa presuppone, inoltre, che il soccombente voglia impugnare la decisione e che siano frattanto decorsi i termini perentori per proporre l’impugnativa, previsti dall’ordinamento nazionale in oggetto. Sulla scorta di questi presupposti, la norma permette al soccombente di presentare una richiesta di rimuovere la preclusione (che è, certamente, un’istanza di rimessione in termini), entro un ragionevole termine a decorrere dal momento in cui ha avuto conoscenza del provvedimento giudiziario sfavorevole. L’accoglimento di questa istanza è subordinato a tre condizioni. Le prime due ruotano intorno all’idea di protezione del comportamento diligente del convenuto e richiedono che l’istante possa

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dimostrare di non avere comunque avuto conoscenza dell’atto introduttivo del giudizio in tempo utile per difendersi e che ciò si sia verificato senza colpa ad egli imputabile. La terza concerne invece il fumus dell’istanza: i motivi che l’istante intende dedurre a fondamento dell’impugnazione devono apparire non privi di fondamento. L’accoglimento dell’istanza aprirebbe la strada all’impugnazione di una sentenza formalmente passata in giudicato. L’art. 20 del regolamento n. 1896 del 2006, in materia di ingiunzione europea, contiene una norma di tenore analogo. Infatti, anche dopo la scadenza del termine per proporre l’opposizione, il convenuto ha il diritto di chiedere il riesame dell’ingiunzione di pagamento europea dinanzi al giudice competente dello Stato membro in cui l’ingiunzione è stata emanata, in tre casi. Il primo è che l’ingiunzione di pagamento sia stata notificata secondo una delle forme previste dall’art. 14 (cioè senza consegna diretta al destinatario) e che la notifica non sia stata effettuata in tempo utile a consentire all’ingiunto di presentare le proprie difese per ragioni a lui non imputabili. Il secondo è che comunque il convenuto non abbia avuto la possibilità di contestare il credito a causa di situazioni di forza maggiore o di circostanze eccezionali per ragioni a lui non imputabili. Condizione di ammissibilità comune ad entrambi i primi due casi è che il convenuto agisca tempestivamente. Infine, il terzo caso si riferisce all’ipotesi che l’ingiunzione di pagamento risulti manifestamente emessa per errore, tenuto conto dei requisiti previsti dal regolamento, o a causa di circostanze eccezionali. Sulla medesima falsariga è l’art. 19 del regolamento n. 805 del 2004 sul titolo esecutivo europeo per crediti non contestati. Le norme europee sulla rimessione in termini, seppure non di ampia applicazione pratica, specie se si tiene conto della necessità di un’interpretazione rigorosa dei singoli requisiti, risultano però di notevole impatto teorico. Prima di tutto, va notato che il diverso dosaggio con cui le varie norme europee affrontano il problema di contemperare il diritto di difesa del convenuto con l’indispensabile effettività delle procedure a tutela di chi propone la domanda, non incide mai sulla presenza del fenomeno di una facoltà restitutoria. Che questa fa-


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coltà sia più o meno ristretta in spazi obiettivamente angusti, non toglie nulla alla costante presenza normativa di riferimenti alla rimessione in termini. È poi sintomatica l’insistenza con la quale i testi normativi europei si riferiscono alla rimessione in termini, che costituisce un oggetto stabile negli interventi in materia processuale, pure in un quadro di non completezza e di inevitabile disorganicità. Se, insomma, un istituto riceve particolare rilievo pur nella frammentarietà della normazione, non si può negare che ciò abbia un significato preciso di politica del processo. La rimessione in termini deve essere interpretata come uno sforzo per consentire al diritto materiale di farsi largo nell’amministrazione della giustizia, forzando decadenze di pretta natura processuale, del resto indispensabili per un’organica e sicura definizione delle questioni. La qualità e la quantità delle forme di rimessione in termini in un dato sistema processuale esprimono un ventaglio di possibili scelte, che vanno dall’estremo di escludere ogni fattispecie restitutoria, portando al massimo livello l’effetto delle decadenze processuali, fino all’altro estremo di ammettere sempre e con larghezza la facoltà per la parte di riproporre le questioni al di là delle barriere del rito. Le scelte europee sono più vicine al secondo che non al primo dei due poli. Ciò costituisce una conferma della tendenza a privilegiare l’applicazione del diritto materiale, piegando le regole processuali alle attese della giustizia sostanziale.

36. IL TEMPO NEL PROCESSO. LE PRECLUSIONI. LA RAGIONEVOLE DURATA. I. La nozione di preclusione. Con la nozione di preclusione, si intende la perdita di un potere nel processo a carico di una parte, nel quadro di una successione logica di attività, in relazione all’esercizio o al mancato esercizio, proprio o altrui, di una certa attività processuale. In caso di previsione

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di un termine, invece, la perdita di potere deriva dall’inosservanza del termine e si parla tecnicamente di decadenza (dal potere di compiere quell’attività). Le preclusioni rappresentano uno strumento di organizzazione del processo, su cui ha fatto particolarmente leva la riforma del 1990-95 e che è presente anche nelle riforme successive, e rivestono notevole importanza nella dinamica dei rapporti parte-giudice. Come ogni attività umana, il processo di cognizione si svolge nel tempo, richiede tempo e si esaurisce in un dato tempo. Esso consiste in una successione tendenzialmente ordinata di atti delle parti e del giudice e scorre fino alla massima preclusione: vale a dire il giudicato. Chi vuole fare valere in giudizio un diritto, dando contenuto ad una facoltà costituzionalmente garantita dall’art. 24, ha l’onere di proporre le domande e di dare impulso al processo entro certi limiti di tempo. Le facoltà processuali – vale a dire, gli strumenti che la parte impiega per ottenere la pronuncia di accertamento del proprio diritto – non possono restare intatte indefinitamente: esse si esercitano e quindi si consumano in un lasso di tempo, che può essere più o meno lungo, ma che comunque si esaurisce. L’ordine logico interno al processo comporta poi che la consumazione di queste facoltà avvenga progressivamente. Così, nel quadro del processo civile italiano, prima si allegano i fatti proponendo la domanda e correlativamente la prima difesa (artt. 163, 164 e 167), poi si rettificano o si modificano le conclusioni e infine, se non lo si è già fatto, si deducono i mezzi di prova (artt. 183 e 184). Su questi aspetti si ritornerà più avanti, con maggiori dettagli. La norma processuale non può impedire che le facoltà difensive delle parti si consumino, perché ciò corrisponde al naturale dipanarsi del processo e soprattutto all’interesse delle parti, che vogliono il risultato finale della sentenza e per le quali l’instaurazione del processo è un evento strumentale rispetto alla decisione. La norma processuale, però, può disciplinare in quale ordine e in quale momento avvenga la consumazione delle facoltà difensive, stabilendo in questo senso dei momenti-limite. Rispetto a tali momenti, si attua una consumazione di un potere: e la consumazione (che vuol dire perdita, impoverimento, depauperamento) può essere fisio-


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logica (perché qual dato potere è stato esercitato) o, per così dire, sanzionatoria (perché quel potere non è stato esercitato, ma non vi è più tempo per farlo). Se, tuttavia, si può convenire che le preclusioni si collegano alla consumazione di una facoltà e di una data articolazione del diritto di difesa, si deve anche ammettere che ogni singolo meccanismo preclusivo è uno strumento che indebolisce e svuota il potenziale difensivo delle parti. Ogni scoccare di preclusione toglie una freccia dalla faretra della parte: forse una freccia già scoccata, ma forse invece una freccia che rimane inutilizzata. La finalità del principio di preclusione si identifica con un’aspirazione alla certezza più forte dell’aspirazione alla giustizia (e, si potrebbe aggiungere, dell’aspirazione alla verità). Questo rilievo induce a rimarcare ancora il profilo temporale del problema: ogni fase processuale contiene un’indefinita potenzialità difensiva, che le parti in ogni caso consumano, con maggiore o minore efficacia, senza poterla poi recuperare. Un esempio che può aiutare a meglio comprendere la distinzione fra preclusioni e termini è quello della deduzione delle prove. Si supponga che le prove debbano essere dedotte entro una certa data. La parte A omette di indicare prove: decorre il termine ed essa decade dalla relativa facoltà. La parte B, invece, utilizza la facoltà difensiva e indica il testimone C a conferma dei fatti che sostiene. Essa ha rispettato il termine e non è decaduta; tuttavia, si è preclusa la possibilità di indicare altri testimoni. Se, più tardi, scopre che C ignora quei fatti e vuole indicare a testimone D, che invece li conosce benissimo, non lo può fare, per effetto della preclusione. La scelta del legislatore di introdurre meccanismi preclusivi più rigidi non è casuale. Vi si riscontra una tesi di fondo: per accelerare il processo, occorre comprimere i tempi per la presentazione delle difese e le deduzioni delle prove, attraverso una scansione di tempi in gran parte predeterminata per legge e in misura minore affidata all’iniziativa del giudice, con esclusione quasi totale di ogni autonoma iniziativa delle parti. Le preclusioni più rigide sono viste in stretta correlazione con le esigenze di economia processuale e di officiosità e sono ritenute in qualche modo espressive di un caratte-

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re più fortemente pubblicistico, se non del processo civile, quanto meno della gestione delle risorse destinate all’amministrazione della giustizia. Lo strumento-processo, nell’ottica del legislatore, non può essere piegato alle esigenze di tempo delle parti, né alle modulazioni di diversa velocità che le parti, sulla scorta della valutazione dei loro interessi concreti, possono auspicare. Libere le parti, insomma, di mettere in moto o no la macchina del processo, ma non libere di servirsi a loro piacimento della struttura pubblica, allungando o accorciando i tempi della lite. Al contrario, l’avvio del processo comporta l’ingresso in un meccanismo in gran parte predeterminato per l’esposizione delle difese e delle deduzioni. II. La ragionevole durata del processo. Giustizia ritardata è giustizia negata: questo aforisma accompagna ogni discussione sulla struttura del processo civile. In effetti, le esigenze di rapidità nell’emanazione e nella successiva esecuzione dei provvedimenti giudiziari assorbono gran parte dell’interesse dei cittadini, anche se il trend culturale odierno sembra assegnare alla velocità un valore talora perfino eccessivo, se messo a confronto con quello dell’esattezza e, in definitiva, della giustizia sostanziale delle misure. Il processo civile non può avere, per motivi ineliminabili, una dimensione istantanea e deve necessariamente confrontarsi con il fattore tempo, sotto il profilo della durata. Si ritiene, però, che questa durata non possa superare normalmente un certo periodo; che non debba essere eccessiva; in una parola, che debba essere ragionevole. L’art. 1 l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, ha novellato l’art. 111 cost., inserendo un comma 2°, in base al quale “ogni processo si svolge nel contraddittorio fra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”. Pertanto, la ragionevole durata del processo è ora divenuta un principio di rango costituzionale. Ciò è conforme al disposto dell’art. 6 Cedu ed è ribadito, nel quadro dell’ordinamento dell’Unione europea, dall’art. 47 della Carta dei diritti. Si è già dato conto che il principale impatto del principio di ragionevole durata è sulla rilettura, costituzionalmente orientata, di


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tutte le norme sul processo civile. Alcuni esempi si sono considerati e altri si vedranno. Tuttavia, non va dimenticato che, in ossequio alle norme europee, la ragionevole durata è anche il parametro per un profilo indennitario a favore del cittadino che troppo a lungo abbia dovuto attendere una decisione. A questo aspetto è necessario dedicare alcune considerazioni. III. La violazione della ragionevole durata. La tutela europea. Ragionevole durata del processo è, ad ogni evidenza, una nozione elastica, di per sé non suscettibile di una precisa quantificazione. Occorre tenere presente, tuttavia, che la Corte europea per i diritti dell’uomo ha indicato in tre anni lo standard medio, oltre il quale si può presumere (pur senza automatismi) che il processo abbia una durata eccessiva. È opportuno sottolineare che la durata eccessiva riguarda l’intero procedimento e non le singole istanze o fasi attraverso cui esso si sviluppa. Alla non ragionevole (perché eccessiva) durata del processo si riconnette un pregiudizio per tutte le parti coinvolte: non solo per chi ha ottenuto tardivamente giustizia, ma anche per chi, poi soccombente, ha dovuto subire un periodo troppo lungo di incertezza. Perciò, questo pregiudizio non può essere posto a carico della controparte, giacché tutti i contendenti sono vittime della lentezza della macchina giudiziaria, ma va addebitato allo Stato. Ne sorge un diritto all’equa riparazione, che trova un duplice livello di protezione: europeo e nazionale. Sul piano europeo dispone l’art. 34 Cedu (nel testo in vigore dal 1° giugno 2010 con gli emendamenti apportati dal protocollo n. 14), in base al quale la Corte di Strasburgo “può essere investita di un ricorso da parte di una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati” che lamentino la violazione, da parte di uno Stato contraente la convenzione, dei diritti in essa riconosciuti: nella specie, per quanto qui interessa, quello ad un processo equo, in un termine ragionevole. La Corte, qualora accerti la violazione della convenzione, al termine dell’apposito procedimen-

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to, può accordare un’equa soddisfazione alla parte lesa (sempre che il diritto interno dello Stato in cui si è verificata la violazione non ne permetta una riparazione completa). In questa ipotesi, la Corte Cedu condanna lo Stato a versare alla parte che ha subito il torto una somma di denaro. Si aggiunga che, in base all’art. 35 Cedu, la tutela alla Corte europea non può essere chiesta se prima non si sono esaurite le vie di ricorso interne (in tanto in quanto effettivamente esistenti nel singolo ordinamento nazionale) ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva. IV. La violazione della ragionevole durata. La tutela interna. A sua volta, il legislatore italiano ha regolato la materia con la legge 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. legge Pinto), che è stata un tentativo di risposta alle numerose condanne che il nostro paese subiva a Strasburgo, spesso a causa dell’inaccettabile lunghezza dei processi. Si intendeva evitare la pioggia di ricorsi italiani alla Corte Cedu e mostrare la volontà del nostro paese di garantire tutela ai cittadini, mentre ci si sforzava di rendere più efficiente e rapida la giustizia civile. In pratica, però, l’esito della legge Pinto non si è rivelato positivo. Non soltanto lo Stato ha dovuto erogare somme rilevanti, ma si è dato luogo ad un forte incremento di contenzioso: a tanti processi già incredibilmente lenti, se ne aggiungevano altri, non molto più veloci, tesi a ottenere l’equa riparazione per i ritardi dei primi. Le corti d’appello, competenti per materia, si sono viste sommergere da una valanga di cause. Non poche voci si erano levate per chiedere, non la modifica, ma la radicale abrogazione della legge Pinto, o, per lo meno, la trasformazione del meccanismo di concessione dell’indennità da giurisdizionale ad amministrativo (sia pure con controllo giurisdizionale). Il legislatore non si è spinto a tanto, ma con ripetuti interventi (il più recente dei quali è l’art. 1, comma 777°, della l. n. 28 dicembre 2015, n. 208), ha innovato in modo profondo il testo originario della legge, in senso restrittivo, sia per quanto riguarda le condizioni di ammissione al beneficio dell’indennità che per quanto riguarda il procedimento.


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Vediamo, quindi, come si atteggia oggi la legge, dopo queste modifiche. La legge prevede (artt. 1 e 2) che chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di una violazione dell’art. 6 Cedu, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di durata, ha diritto ad un’equa riparazione. Aggiunge che, nell’accertare la violazione, il giudice considera l’oggetto del procedimento, la complessità del caso, il comportamento delle parti e del giudice, nonché il contegno di ogni altro soggetto chiamato – così la norma – a concorrervi o a contribuire alla sua definizione. Anche alla luce della giurisprudenza che si è venuta formando nei primi, intensi anni di applicazione della normativa, si possono fissare i seguenti principi. Non è indispensabile che il richiedente abbia ottenuto giustizia, seppure in ritardo e chieda quindi l’indennizzo per l’attesa: si può trattare anche di un procedimento che abbia dato esito negativo per la parte. Presupposto per la sussistenza del diritto all’indennizzo, quindi, è il semplice fatto dell’eccessiva durata del giudizio. Non si ha equa riparazione in situazioni che, per la loro complessità giuridica o fattuale, ovvero per le condizioni di lavoro in cui hanno operato il giudice ed i suoi ausiliari, rendano plausibile il ritardo nella trattazione della causa. Occorre, inoltre, che sussista un nesso di causalità fra la violazione lamentata e il pregiudizio subito. Si tratta, in sostanza, di un “danno conseguenza” e non di un “danno evento”: pertanto, il ritardo nella decisione del caso potrebbe non avere comportato alcun pregiudizio. Il relativo accertamento va compiuto nel caso concreto. Una serie di limitazioni al conseguimento della riparazione risultano oggi, però, più nette. Intanto, vengono fissati per legge tempi di definizione standard dei giudizi, il cui rispetto obbliga a qualificarne ragionevole la durata, con conseguente esclusione dell’indennizzo. Questi tempi sono di tre anni per il giudizio di primo grado, di due anni per il giudizio di appello e di un anno per il giudizio di legittimità. In ogni caso, si considera rispettato il termine ragionevole se il processo, nelle sue diverse fasi, viene comunque definito in modo irrevocabile entro sei anni dall’inizio.

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Non si computa il tempo in cui il processo è rimasto sospeso o interrotto, né il tempo intercorso fra la pubblicazione di una sentenza e la relativa impugnazione. La legge del 2015, poi, ha introdotto un limite di ammissibilità della domanda di indennizzo, individuato nel comportamento processuale delle parti, con previsioni diverse a seconda che si tratti di processo civile o di altri processi (art. 1-ter). Alle parti viene addossato un onere di iniziativa, che si declina nel necessario compimento di scelte procedurali ovvero di attività di impulso, in sé non indispensabili per l’accoglimento della domanda giudiziale, ma la cui mancata attuazione preclude poi la richiesta di indennizzo. Si descriveranno queste attività al momento di parlare delle difese finali nel processo di cognizione. Basti qui ricordare che la legge fissa specifici termini, entro i quali le istanze vanno proposte: in linea di massima, l’impulso acceleratorio va esercitato almeno sei mesi prima che maturi, per quel singolo giudizio, la situazione di durata non ragionevole (e quindi, ad esempio, tre anni per il processo civile di primo grado). In nessun caso, poi, è riconosciuta l’indennità in una serie di situazioni, tutte connotate da forme di esercizio abusivo della facoltà di difesa (art. 2, comma 2°-quinquies). È utile notare come l’abuso del processo sia espressamente considerato l’altra faccia della medaglia del principio di ragionevole durata. Infine, l’indennizzo non può essere attribuito se lo sviluppo della causa denota una mancanza di interesse della parte al contenuto della pronuncia di merito e quindi la non sussistenza di un reale pregiudizio. L’inesistenza del pregiudizio, per il processo civile, si presume (salvo prova contraria) in una serie di casi, fra i quali è bene segnalare la contumacia della parte, l’estinzione del processo o, comunque, il carattere irrisorio della pretesa o del valore della causa, da valutarsi anche in relazione alle condizioni personali della parte (art. 2, comma 2°-sexies). Qualora il giudice ravvisi la sussistenza del danno e la sua derivazione dal mancato rispetto del termine ragionevole, dispone a favore del richiedente un’equa riparazione. Non si tratta, in effetti, di un risarcimento del danno, perché il ritardo nell’esercizio della funzio-


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ne giudiziaria non costituisce di per sé un illecito, ma di un’attribuzione indennitaria, conseguenza di un oggettivo cattivo funzionamento dell’amministrazione della giustizia. Il danno va limitato al solo periodo eccedente il termine ragionevole; vi è la possibilità di riparare il danno non patrimoniale, non solo con denaro, ma anche attraverso adeguate forme di pubblicità della dichiarazione dell’avvenuta violazione. Il nuovo art. 2-bis della l. n. 89 definisce la misura dell’indennizzo, che oscilla ora fra i 400 e gli 800 euro per ogni anno (o frazione di anno superiore a sei mesi) di durata del processo eccedente quella ragionevole, così come sopra individuata. La concreta entità dell’indennizzo è stabilita tenendo conto di una serie di elementi, quali il comportamento del giudice e delle parti, la natura degli interessi coinvolti e il valore e la rilevanza della causa, da valutarsi anche in relazione alle condizioni personali delle parti. V. Il procedimento interno. Il procedimento per equa riparazione è governato dagli artt. 3 e 4 della l. n. 89 del 2001. La domanda di equa riparazione – è bene avvertirlo – non suppone che si accerti, preliminarmente, la responsabilità del giudice o di altre autorità coinvolte nel procedimento (ad esempio, l’ufficiale giudiziario). Il processo può certamente avere ecceduto la ragionevole durata per circostanze del tutto indipendenti dalla diretta responsabilità di questa o quella persona fisica (si pensi al fenomeno, tutt’altro che infrequente, di una causa civile affidata nel tempo a diversi magistrati, con ampie pause per la riassegnazione del ruolo dall’uno all’altro). Tuttavia, profili di responsabilità o comunque elementi pregiudizievoli potrebbero emergere: l’art. 5 della legge prevede che il decreto che accoglie la domanda di riparazione è comunicato al procuratore generale della Corte dei conti e ai titolari dell’azione disciplinare dei dipendenti pubblici coinvolti, per l’eventuale esercizio di tali azioni. Secondo l’art. 3, comma 1°, come novellato nel 2015, la domanda si propone dinanzi alla corte d’appello (organo scelto per la sua au-

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torevolezza) del distretto in cui ha sede il giudice che ha conosciuto in primo grado del processo per cui si domanda l’indennizzo, e non più come fino ad ora, a quella del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell’art. 11 c.p.p. a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto si è concluso o estinto, relativamente ai gradi di merito, il procedimento nel cui ambito si è verificata la violazione della durata ragionevole. La domanda va rivolta sempre nei confronti dello Stato, ma con legittimazioni passive diverse, a seconda dell’autorità giudiziaria, ordinaria o speciale, coinvolta nel ritardo. Così, il ricorso è proposto nei confronti del ministro della giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario; del ministro della difesa per i procedimenti del giudice militare; del ministro dell’economia e delle finanze per i procedimenti dinanzi ai giudici tributari, amministrativi e contabili. L’art. 4 della l. n. 89 stabilisce ora che la domanda può (e deve, se la si vuole introdurre) essere proposta a pena di decadenza entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva. Non è quindi più possibile avanzare, come per il passato, la domanda di equa riparazione in pendenza del procedimento. La domanda si propone con ricorso, con i requisiti generali degli atti di parte previsti dall’art. 125 c.p.c., aggravati dall’esigenza di depositare copia autentica (e non semplice) di tutti gli atti, i verbali e i provvedimenti del giudizio: un giudizio che, per definizione, deve essere durato più di sei anni. Ne nasce un rito ibrido, simile al procedimento monitorio. La corte d’appello in composizione monocratica emette un decreto motivato, che può accogliere, in tutto o in parte, ovvero respingere, la domanda di equa riparazione. Nel primo caso, il provvedimento è immediatamente esecutivo (sebbene il comma 7° ricordi che l’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili). Tuttavia, ricorso e decreto devono essere notificati al ministero legittimato passivo (e per esso, all’avvocatura dello Stato), in copia autentica, entro trenta giorni dal deposito in cancelleria del provvedimento e, se la notificazione non è eseguita, il decreto diventa inefficace e, con disposizione particolarmente punitiva, la domanda (che era appena


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stata accolta) non può più essere riproposta. Come si vede, se è certamente vero che della legge Pinto i pratici hanno abusato, è anche vero che qui la tutela diventa un’autentica corsa ad ostacoli. Nel secondo caso, la domanda respinta – a differenza di ciò che accade nel procedimento monitorio – non può più essere riproposta. Tuttavia, vi è lo spazio per un’opposizione, da proporsi, entro trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento ovvero dalla sua notificazione, alla medesima corte d’appello che ha emesso il decreto. L’opposizione è regolata dall’art. 5-ter. La corte provvede, nella consueta composizione collegiale, nelle forme del procedimento in camera di consiglio. La norma precisa che del collegio non può fare parte il giudice che ha emanato il provvedimento impugnato. Se ricorrono gravi motivi, la corte può sospendere l’efficacia esecutiva del provvedimento: si noti che anche questa è una disposizione a favore dello Stato, perché sono esecutivi solo i decreti che accolgono la domanda di equa riparazione e condannano lo Stato al pagamento. La corte decide con decreto, immediatamente esecutivo, ricorribile per cassazione. Infine, va segnalata un’ultima previsione, tendente a disincentivare i ricorsi: in caso di domanda inammissibile o manifestamente infondata, il giudice (sia in sede monitoria che in sede di opposizione) può condannare il ricorrente incauto a versare una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, e quindi dell’erario. Insomma: lo Stato pagherà certo molto meno e forse incasserà qualcosa.

37. I COSTI DEL PROCESSO. I. I costi del processo e la loro anticipazione. Il processo suppone che vengano messi in gioco mezzi materiali e organizzativi. Quindi, il processo costa. Il punto richiede una breve sosta. Il cittadino che si vede negare un diritto, o che ragionevolmente ritiene che un suo diritto sia stato leso, se vuole ottenere giustizia, deve organizzare una complessa attività che, oltre ad essere spesso lunga e non agevole, è anche co-

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stosa. Non solo il diritto è stato leso; non solo occorre attivarsi per ottenerne la reintegrazione; ma occorre anche spendere denaro. Perciò, anche se molto pratico e forse di scarso appeal concettuale, il tema dei costi è assolutamente centrale. Da un lato, occorre vedere chi anticipa questi costi. La regola è che i costi vengono anticipati dalla parte, che vuole dare impulso al processo (c.d. regola dell’onere delle spese: si veda il d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, istitutivo del c.d. contributo unificato e in specie l’art. 8, mentre si deve ricordare che è stato abrogato l’art. 90 c.p.c.). Si tratta di spese fiscali e, soprattutto, di assistenza legale e tecnica. La Costituzione (art. 24, comma 3°) si preoccupa di evitare che i costi possano rappresentare uno sbarramento per i cittadini non abbienti, che possono così vedersi di fatto preclusa la tutela giurisdizionale. È questo il grande tema dell’accesso alla giustizia, che non è ancora pienamente risolto, né attraverso le abrogate disposizioni del r.d. 30 dicembre 1923 sul gratuito patrocinio (che prevedevano la difesa gratuita, come impegno onorifico dell’avvocato, in caso di stato di povertà e probabilità di successo della parte istante) né attraverso le più recenti e moderne forme di patrocinio (anche civile) a spese dello Stato (l. 30 luglio 1990, n. 217, l. 29 marzo 2001, n. 134 e soprattutto il già menzionato d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115). In effetti, molte delle scelte in materia di mezzi alternativi di risoluzione delle controversie puntano anche ad evitare la rinuncia all’azione giudiziaria per ragioni economiche. La debolezza delle disposizioni sul patrocinio a spese dello Stato deriva da almeno due fattori. Il primo è il livello di reddito, obiettivamente molto basso, che permette l’ammissione al beneficio: il rischio concreto è che vengano penalizzate fasce sociali operaie o impiegatizie a reddito medio-basso, che non sono totalmente prive di risorse ma che, per pagarsi una causa, dovrebbero rinunciare a spese, forse non di mera sussistenza, ma oggi ampiamente diffuse e considerate normali. Il secondo è che, seppure non più coinvolto in via onorifica ma pagato dallo Stato, l’avvocato non è il difensore di piena fiducia. Allo stesso tempo, una realistica considerazione del tema induce a ritenere che un eccessivo allargamento di una forma di giustizia


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gratuita potrebbe condurre ad una crescita considerevole del contenzioso inutile. Per quanto amaro, è profondamente vero che in molti casi soltanto la parcella dell’avvocato si erge ad ostacolo contro volontà inutilmente litigiose e persecutorie. Non è quindi agevole trovare equilibri: certo, però, non si può abdicare all’obiettivo di fare sì che nessun cittadino rinunci a chiedere giustizia, quando ha subito una lesione effettiva, solo perché non se lo può permettere economicamente. Il diritto europeo contribuisce con una significativa presenza anche su questo versante, che indubbiamente risponde ad una delle politiche per il processo civile e che ben si coordina con l’obiettivo dell’effettività della tutela. Va ricordata, a questo proposito, la direttiva 2002/8 del 27 gennaio 2003, sul patrocinio a spese dello Stato nelle controversie transfrontaliere. Si noti che l’art. 2, comma 1°, lett. a) della direttiva considera “adeguato” il patrocinio offerto dagli Stati, se include anche la consulenza legale nella fase precontenziosa al fine di giungere ad una soluzione prima di intentare un’azione legale. II. L’attribuzione dei costi del processo. L’anticipazione dei costi è, però, solo un episodio provvisorio. Al termine del processo, le spese devono essere addebitate (a titolo sanzionatorio) a chi ha dato ingiustamente causa al processo, vale a dire alla parte soccombente (l’attore che ha visto respinta la sua domanda o il convenuto condannato). Si parla, in questo senso, di obbligo delle spese (art. 91 c.p.c.) e si precisa che le spese seguono la soccombenza. L’esigenza di una giustizia effettiva, fondata su principi di civiltà giuridica tradotti nelle norme costituzionali ed europee, comporta che chi ottiene il riconoscimento di un diritto in sede giurisdizionale non debba subire, di regola, il carico delle spese e dei costi necessari alla tutela. L’obbligo delle spese a carico della parte soccombente non è una vessazione, ma una regola di giustizia. Se è vero che agire e contraddire in giudizio è un diritto, è anche vero che è responsabilità di ogni cittadino domandare tutela soltanto quando sia in

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gioco una lesione realmente subita (e che sarà accertata come tale). Diversamente, si cadrebbe in un abuso dello strumento processuale. Il favore del legislatore per gli strumenti conciliativi (interni o esterni al processo) ha condotto nel 2009 alla modificazione della norma. Infatti, la condanna alle spese a favore della parte vittoriosa è possibile solo se, in caso di proposta conciliativa rifiutata, la domanda dell’attore sia stata accolta in misura superiore al livello della proposta. L’immotivata prosecuzione del processo, infatti, comporta una forma di inutile esercizio della giurisdizione. Per fissare l’entità delle spese, il giudice fa riferimento ad appositi parametri, fissati con il d.m. n. 140 del 20 luglio 2012. Va aggiunto che la l. n. 10 del 2012 ha previsto che, nelle cause di valore fino a euro 1.100, in cui la parte può difendersi personalmente, le spese liquidate dal giudice non possano superare il valore della domanda (art. 91, ult. comma, c.p.c.). La disposizione mira a ridurre il costo della giustizia minore e facilitare quindi l’accesso alla protezione giurisdizionale. L’art. 97 c.p.c. precisa poi che, se vi sono più soccombenti (come ben può avvenire in un processo con pluralità di parti), il giudice condanna ciascuno di essi in proporzione del rispettivo interesse nella causa, ovvero solidalmente se hanno un interesse comune. III. La compensazione delle spese. La regola della soccombenza, così come formulata dall’art. 91, peraltro, non è assoluta. Infatti, secondo l’art. 92, comma 2°, c.p.c., il giudice ha un potere discrezionale di compensare le spese. Questo significa che ogni parte tiene a carico le spese che ha anticipato (quindi, ciascuna paga il suo avvocato e via dicendo). Il legislatore, con successivi interventi, si è proposto di restringere questa discrezionalità. Dopo la modifica attuata con la l. n. 162 del 2014, la compensazione, parziale o integrale, si attua in casi limitati: quando si verifica la soccombenza reciproca o se vi è assoluta novità della questione trattata o nell’ipotesi di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni decisive nella lite. Nonostante il silenzio della norma, si deve ritenere che la sussistenza delle ragioni giustificative


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della compensazione vada motivata. Sembra, quindi, che la compensazione sia ora normalmente impossibile, salvo le ipotesi della soccombenza parziale e della conciliazione giudiziale, e che possa venire disposta solo in via di rara eccezione. In realtà, vi è una precisa esigenza di limitare i casi di compensazione delle spese, perché la prassi giudiziaria del nostro paese tende a favorire soluzioni di compromesso. Vi sono interi comparti di contenzioso in cui la condanna alle spese è un’autentica rara avis: per non citare che un caso, l’amministrazione finanziaria esce normalmente indenne da tutte le decisioni delle commissioni tributarie, quando viene accolto il ricorso del contribuente. Ad esempio, non è raro (almeno, fino alla riforma del 2009) l’impiego in giurisprudenza della nozione di contrasto giurisprudenziale come giusto motivo per compensare le spese di lite. Ciò cela un potenziale equivoco: posto che è molto frequente che in una data situazione vi siano orientamenti difformi, si corre il rischio di dare al giudice la facoltà di disporre la compensazione con altrettanta frequenza. Ora, una situazione purtroppo statisticamente comune, come quella della sussistenza (almeno per un dato arco di tempo) di conflitti giurisprudenziali, non può essere acriticamente assunta come ragione sufficiente per generalizzare o almeno per ampliare molto l’area di compensazione delle spese di lite. Il diritto costituzionale ad una tutela piena ed effettiva non può essere eroso da un’eccessiva considerazione del contrasto fra sentenze. Non basta, quindi, invocare l’esistenza di un contrasto per compensare le spese: si deve trattare, invece, di un contrasto qualificato. Non è contrasto qualificato quello che vede qualche pronuncia isolata contrapporsi ad un orientamento prevalente. Non è neppure contrasto quello che vede contrapporsi un orientamento anche autorevole, ma ormai abbandonato, ad un orientamento successivo, ormai consolidato. In questo senso, occorre spingere i consulenti delle parti ad offrire ai loro assistiti una visione realistica del diritto vivente, al fine di suggerire le scelte processuali opportune: qualche precedente raro o antico non basta per giustificare, seppure ai soli fini delle spese, un’iniziativa o una resistenza giudiziaria. Dietro all’atteggiamento di eccessivo favore per la compensazio-

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ne, vi è una filosofia di fondo: in qualche modo, si pensa che la parte sia stata indotta alla lite da un cattivo consiglio del proprio avvocato e che la soccombenza in causa, aggiunta alla prospettiva di pagare una parcella non lieve, rappresenti già una sanzione adeguata. Si rischia, però, di non tenere in adeguata considerazione la posizione della parte vittoriosa, che rimane esposta a sopportare il costo del successo. In realtà, una seria applicazione delle regole sulla condanna alle spese ha un sicuro effetto deflattivo e quindi una positiva funzione nel complesso del sistema giustizia. IV. Condanna alle spese e abuso del processo. Talora, può essere condannata alle spese la parte vittoriosa, che abbia però violato il dovere di lealtà e probità processuale, previsto dall’art. 88. Non è agevole definire i contorni di questo dovere, di carattere etico, e che va calato nel quadro della struttura contenziosa del processo civile. In linea di massima, sono sanzionabili quei comportamenti che risultino eccessivi e non ragionevoli rispetto al legittimo obiettivo della tutela giudiziaria. L’ordinamento prevede, poi, una sanzione ancora più forte per la parte che abbia agito o resistito nel processo in mala fede. Questa ipotesi suppone molto di più della semplice soccombenza: la parte non solo ha torto, ma ha agito o resistito sapendolo. Su domanda dell’altra parte, questa parte può essere condannata al risarcimento dei danni (art. 96, comma 1°, c.p.c.). Un’applicazione peculiare di questa regola alla materia esecutiva e cautelare è prevista all’art. 96, comma 2°. La riforma del 2009 ha aggiunto poi un comma 3° all’art. 96, secondo il quale il giudice (si noti: non solo su istanza di parte, ma anche d’ufficio) può condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata. Si tratta di una singolare sanzione civile, anche qui collegata ad un’ipotesi di abuso del processo. Guardando alle prime indicazioni giurisprudenziali, si può fare l’esempio di un soggetto che costruisca la sua difesa negando una determinata circostanza di fatto, che invece gli era nota documentalmente.


Capitolo II

La disciplina delle spese, qui delineata, si completa con alcune altre norme, a cui si accennerà brevemente. L’art. 93 c.p.c. permette al giudice di disporre che il soccombente rifonda le spese non alla controparte, come normalmente accade, ma al suo difensore che abbia anticipato le spese vive e non sia stato pagato dal cliente. Si parla, a questo proposito, di distrazione delle spese e si qualifica l’avvocato come procuratore distrattario. L’art. 94 contempla la possibilità di condanna alle spese, in casi eccezionali, anche del rappresentante e del curatore, in solido con la parte. IL DISEGNO DI LEGGE DELEGA - LE CONDIZIONI DI SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Oltre ai fondamentali interventi sul processo telematico, il d.d.l. si occupa di atti processuali e di spese del processo. Dal primo punto di vista, viene introdotto a tutto campo il principio di sinteticità degli atti di parte e del giudice, che sarà attuato anche con disposizioni sulla tecnica di redazione e la misura quantitativa (vale a dire, la lunghezza) degli atti. In tema di spese processuali, si prevede un forte incremento delle somme poste a carico della parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, con modifiche agli artt. 91 e 96 c.p.c.

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Capitolo III IL PROCESSO DI COGNIZIONE SECONDO IL RITO ORDINARIO

38. IL RITO ORDINARIO DI COGNIZIONE. I MODELLI PROCESSUALI. IL PROBLEMA DELLE RISORSE. L’ATTO DI CITAZIONE. I. I modelli processuali. Lo studio della concreta normazione oggi vigente sul processo di cognizione suppone di chiedersi, prima di tutto, se esiste un rito ordinario (vale a dire, applicabile sempre o quando non ci sono diverse specificazioni). La presenza di un rito ordinario era centrale nel sistema della codificazione. Si riteneva che vi fosse uno schema di processo preferibile, perché meglio organizzato in relazione alle esigenze dell’amministrazione della giustizia, non senza un confronto ideologico fra i vari modelli. Più di recente, la tecnica è consistita nel predisporre riti diversi in relazione alle varie tipologie di controversie sostanziali, secondo la nozione, elaborata in dottrina, di tutela giurisdizionale differenziata. Esemplare, da questo profilo, è stata la scelta del legislatore del 1973 di introdurre un rito apposito per la materia del lavoro, ma non dissimile è stata quella, attuata nel 2003, di costruire un processo specifico per le controversie societarie.


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Questo modo di affrontare il problema dei modelli processuali non ha però offerto risultati appaganti: anzi, ha spesso generato obiettive incertezze applicative. Infatti, dato un qualunque dubbio, è aperta la questione se si debba ricorrere alle regole generali del processo comune o a quelle speciali del rito previsto per quella categoria di liti. In linea di massima, è invece preferibile costruire un processo unitario sotto il profilo delle tipologie, ma con valvole di elasticità che consentano di adeguare il rito alle diverse situazioni. Non soltanto la certezza del diritto e la funzionalità del giudiziario, ma la stessa idea di giustizia suppongono la tendenza verso un rito unitario, pur se adeguatamente flessibile per rispondere alle esigenze del caso concreto. Invece, la frammentazione dei riti e la costruzione di soluzioni processuali ad hoc per singoli comparti di materia rappresentano un obiettivo regresso culturale. In effetti, con la riforma del 2009, il legislatore sembra avere mutato indirizzo. Con l’art. 54 della l. n. 69 del 2009, è stato abolito, dopo una non felice esperienza, il processo societario e, nel contempo, si è ipotizzata una riunione dei riti in alcune materie speciali intorno a tre modelli principali: il rito ordinario, il rito del lavoro e il rito sommario. Nella delega al governo, è stata prevista la riduzione e la semplificazione dei procedimenti civili di cognizione di natura contenziosa che rientrano nell’ambito della giurisdizione ordinaria e che sono regolati dalla legislazione speciale (ed estranei, quindi, al codice di procedura civile). In particolare, i procedimenti in cui sono prevalenti caratteri di concentrazione processuale, ovvero di officiosità dell’istruzione, devono essere governati dal rito del lavoro; quelli in cui sono prevalenti caratteri di semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa, dal rito c.d. sommario; tutti gli altri, dal rito ordinario. Tuttavia, in base all’art. 54, restano fermi i criteri di attribuzione di competenza per materia, valore e territorio, nonché i criteri di composizione dell’organo giudicante previsti dalla legislazione vigente. Se, quindi, per un dato procedimento speciale era competente il giudice di pace, questo elemento rimane e non può essere modificato dal legislatore delegato. Inoltre, restano fuori dalla previsione della legge di delega molte materie


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importanti, che rimangono disciplinate dai riti speciali in vigore: il fallimento, la famiglia e i minori, la proprietà industriale, il codice del consumo. La delega è stata attuata con il d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150. Qui interessa notare che molti dei riti, in qualche misura riunificati intorno ai tre modelli descritti, mantengono notevoli peculiarità, con la conseguenza di diminuire l’effetto di semplificazione e che sia il rito del lavoro che il rito c.d. sommario presentano significative variazioni, che li distinguono dalla forma ordinaria. Qualche approfondimento verrà dato su questo punto quando si descriveranno i singoli procedimenti. Non è facile, del resto, percorrere a ritroso un cammino a lungo seguito nella direzione opposta. Così, regolando il procedimento per l’impugnazione dei licenziamenti, su cui si dirà, la l. n. 92 del 2012 smentisce l’idea del rito comune del lavoro come forma di maggiore efficienza, dal momento che, proprio nelle controversie più delicate, lo sostituisce con una formula diversa. In questo modo, il legislatore arretra vistosamente sul terreno di una tendenziale unità dei riti. Oggi, anche per quanto riguarda il processo ordinario, esistono in concreto varie tipologie di riti: nello studio, seguiremo come base il processo dinanzi al tribunale in composizione monocratica. Infatti, come si è visto, è questa la normale composizione decisoria del tribunale (art. 50-ter c.p.c.): quella collegiale rimane confinata ai casi dell’art. 50-bis, ovvero qualora disposizioni speciali di legge lo prevedano. Certo, il codice, costruito pensando ad un giudice collegiale, deve inserire norme di coordinamento come l’art. 281-bis, secondo il quale nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni del secondo libro, ove non derogate dalle disposizioni del capo III-bis, e come l’art. 281-quater, che precisa che le cause nelle quali il tribunale giudica in composizione monocratica sono decise, con tutti i poteri del collegio, dal giudice designato come istruttore (ma che è propriamente istruttore solo se lavora all’interno di un collegio). Le differenze fra rito del tribunale monocratico e rito del tribunale collegiale sono poche: si riducono ad aspetti relativi alla fase

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decisoria e al più ampio potere del giudice monocratico di ammettere testimoni d’ufficio. La vera differenza sta nel fatto che, nella composizione collegiale, il giudice istruttore segue la fase della trattazione, mentre le decisioni sono assunte dal collegio. Questo porta ad esistenza una serie di passaggi (ad esempio, si pensi alle sentenze non definitive) in cui può sussistere una differenza di vedute fra l’istruttore e la maggioranza del collegio o nei quali, comunque, l’istruttore non vuole decidere da solo. II. La struttura schematica del processo di cognizione. Prima di procedere oltre, è utile dare una mappa, generale seppure approssimativa, della struttura del giudizio dichiarativo. Il processo ordinario di cognizione, nello schema corrente, è articolato in tre fasi essenziali. In primo luogo, una fase di introduzione, che inizia con la proposizione della domanda e con le difese di tutte le parti, giungendo fino al momento in cui si determina in modo definitivo la materia del contendere. Poi, si ha la fase di trattazione: data la materia del contendere, in essa ha luogo la trattazione sostanziale degli argomenti oggetto di contesa. Essa comprende in particolare la fase istruttoria, vale a dire quella specificamente volta alla raccolta del materiale probatorio necessario all’accertamento dei fatti. Infine, vi è la fase decisoria: le parti completano le loro difese e il giudice, preso atto del contenuto definitivo delle domande, decide. Si tratta, ovviamente, di uno schema del tutto impreciso, ma che conviene tenere sotto gli occhi, per collocare esattamente i singoli episodi ed istituti nella posizione che occupano all’interno del processo. Oltre a ciò, si deve dire che la distinzione tra le diverse fasi non è netta e vi sono vari momenti di sovrapposizione. Ad esempio, gli scritti difensivi, seppure di natura diversa, si distribuiscono in tutte le fasi. I due principali modelli alternativi sono quelli del processo del lavoro e del processo sommario. Nel processo del lavoro, vi sono tendenzialmente due soli atti introduttivi (il ricorso e la memoria difensiva), che contengono tut-


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te le allegazioni in fatto e tutte le richieste istruttorie. La trattazione dovrebbe svolgersi in una sola udienza, al termine della quale, dopo la discussione orale, il giudice pronuncia il dispositivo della sentenza. Nel processo sommario (che, come meglio si vedrà, deve piuttosto definirsi a cognizione semplificata), il rito del lavoro viene in qualche misura adattato a controversie relative a fattispecie semplici. Entrambi saranno studiati a proposito delle forme di giudizio dichiarativo diverse dal processo ordinario di cognizione. III. Modelli processuali, pragmatismo e incertezze culturali. In realtà, conviene avere presente che l’attuale stagione culturale non premia la ricerca di un modello migliore di altri ma, piuttosto, il tentativo di trovare soluzioni efficienti, in chiave del tutto pragmatica. Che il legislatore non si proponga di scegliere un modello di processo può essere confermato da un recente episodio normativo: l’art. 70-ter disp. att. c.p.c., che permetteva di scegliere, con il consenso delle parti, il rito societario al posto del rito ordinario, per tutte le materie di diritto comune. Qualche commentatore parlò di processo à la carte: ma, al di là del totale insuccesso pratico di questa disposizione, risulta evidente che non vi era e non vi è una progettualità profonda. È bene ribadire che il legislatore (non solo in Italia, ma anche in Europa) si indirizza alla scelta di questo o di quel modello processuale non tanto in relazione alla sua preferibilità intrinseca, ma soprattutto in rapporto alla sua idoneità ad alleviare il carico giudiziario, in una situazione resa difficile dalla carenza di risorse e dalla tendenza della società civile a preferire l’allocazione del denaro pubblico in comparti diversi dalla giustizia. Dovendo risolvere molte cause con la disponibilità di pochi giudici, si cercano soluzioni che abbiano il comune denominatore di risparmiare il tempo che i magistrati devono dedicare alle cause. Al riguardo, si possono menzionare: le tecniche di limitazione dei mezzi di impugnazione; il tentativo di risolvere la controversia prima dell’inizio; quello di deciderla in limine mediante riti abbreviati; quello di affidare alle parti

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o comunque a soggetti privati la gestione di segmenti più o meno complessi del processo; quello di disciplinare moduli condivisi per la trattazione del caso; e infine, quello di adottare procedimenti semplificati. Occorre poi spendere qualche parola sugli interventi che il legislatore italiano periodicamente organizza, nel tentativo di diminuire il carico giudiziario e ridurre la durata dei processi. Vanno qui annoverati molti episodi. In primo luogo, alcune modifiche strutturali apportate al codice non consistono in scelte razionali, ma piuttosto in soluzioni dal chiaro intento deflattivo (al di là dell’esito concreto): così, ad esempio, le ordinanze post-istruttorie e, per certi versi, la stessa provvisoria esecutorietà della sentenza, attribuita prima dell’esaurimento delle fasi di merito. La recente riforma dell’appello si colloca a buon titolo su questa linea. Soprattutto, poi, si può pensare all’istituzione delle sezioni stralcio dei tribunali, all’impiego dei giudici onorari, all’obbligatorietà della mediazione (di recente riproposta). In questo testo, si propone l’analisi del processo civile nelle sue dimensioni ordinarie, pur avvertendo che le soluzioni di emergenza hanno un notevole impatto (seppure non sempre positivo) sulla concreta amministrazione del contenzioso. IV. L’atto di citazione. Iniziamo a percorrere, a questo punto, lo sviluppo del processo civile in primo grado secondo il rito ordinario dinanzi al tribunale in composizione monocratica. Appositi riferimenti saranno dati alle peculiarità del rito quando il tribunale decide in composizione collegiale e al giudizio dinanzi al giudice di pace. Il processo dinanzi al tribunale inizia con l’atto di citazione, mediante il quale viene proposta la domanda giudiziale (art. 163 c.p.c.). I modi per l’inizio di un processo sono essenzialmente due: la citazione e il ricorso. Con la citazione, l’attore espone la domanda e invita il convenuto a presentarsi davanti al giudice ad udienza fissa. Con il ricorso, l’attore propone la domanda e chiede al giudice di fissare un’udienza, alla quale sarà chiamato a partecipare il convenuto.


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Nel primo caso, il contatto si ha fra le parti, e solo dopo viene coinvolto l’organo giudiziario; nel secondo caso, viene dapprima chiesto l’intervento del giudice e poi si porta l’iniziativa a conoscenza della controparte. Il ricorso è più rispettoso delle modalità organizzative dell’ufficio giudiziario ed è, non a caso, il modello europeo prevalente. La citazione, però, rimane la forma storicamente prescelta dal diritto processuale italiano. La citazione presenta, in sintesi, il seguente contenuto: a) una parte di intestazione (giudice, parti, domicilio, avvocati); b) una parte che contiene la domanda giudiziale vera e propria (oggetto, fatto e diritto, conclusioni): è quella che si chiama editio actionis; c) una parte che comporta il collegamento fra parti e giudice: l’invito a comparire ad udienza fissa (ciò che prende il nome di vocatio in ius). A ciò, si deve aggiungere l’indicazione dei mezzi di prova che l’attore già ritiene di voler proporre. Va precisato, tuttavia, che, in base al testo dell’art. 183, comma 6°, l’attore che non indichi alcun mezzo di prova non incorre in decadenze o preclusioni di sorta. L’atto di citazione deve poi essere sottoscritto dal difensore munito di procura: inizia il processo e la parte si muove sulla scena con il necessario tramite del proprio difensore. Conviene comunque rileggere integralmente l’art. 163 c.p.c., ai commi 3° e 4°. L’atto di citazione deve contenere: 1) l’indicazione del tribunale davanti al quale la domanda è proposta; 2) il nome, il cognome, il codice fiscale e la residenza dell’attore, il nome, il cognome, il codice fiscale, la residenza o il domicilio o la dimora del convenuto e delle persone che rispettivamente li rappresentano o li assistono. Se attore o convenuto è una persona giuridica, un’associazione non riconosciuta o un comitato, la citazione deve contenere la denominazione o la ditta, con l’indicazione dell’organo o ufficio che ne ha la rappresentanza in giudizio; 3) la determinazione della cosa oggetto della domanda; 4) l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni; 5) l’indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l’attore intende valersi e in particolare dei documenti che offre in comunicazione; 6) il nome e il cognome del procuratore e l’indicazione della procu-

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ra, qualora questa sia stata già rilasciata; 7) l’indicazione del giorno dell’udienza di comparizione; l’invito al convenuto a costituirsi nel termine di venti giorni prima dell’udienza indicata ai sensi e nelle forme stabilite dall’art. 166, ovvero di dieci giorni prima in caso di abbreviazione dei termini, e a comparire, nell’udienza indicata, dinanzi al giudice designato ai sensi dell’art. 168-bis, con l’avvertimento che la costituzione oltre i suddetti termini implica le decadenze di cui agli artt. 38 e 167. Come si vede, i requisiti di contenuto-forma della citazione sono logicamente conseguenti allo scopo oggettivo dell’atto e corrispondono anche al contenuto della sentenza, come conseguenza del rapporto domanda-pronuncia. In particolare, le conclusioni richiamano il dispositivo della sentenza, che le accoglierà, in tutto o in parte, o le respingerà, mentre l’esposizione di fatto e diritto richiama la motivazione. La parte essenziale dell’atto di citazione è quella che contiene la proposizione della domanda e quindi, andando alla radice, il fatto lesivo (visto che il giudice è comunque in grado di qualificare da solo la fattispecie). È fondamentale l’indicazione dei fatti costitutivi primari: di quei fatti, cioè, che sono necessari e sufficienti a fondare il diritto. Senza la specificazione della ragione e dell’oggetto della domanda, il convenuto non potrebbe adeguatamente difendersi e lo scopo dell’atto di citazione (cioè, dare luogo al contraddittorio) non verrebbe raggiunto. Non è un caso che la carenza di questo requisito basilare della citazione ne provochi la nullità. È invece possibile indicare successivamente i fatti secondari, che sono tutte quelle circostanze della fattispecie concreta che, di per sé, non incidono sulla dimensione giuridica del diritto invocato, ma che rafforzano la credibilità della domanda, come, ad esempio, il luogo, l’orario o il tempo atmosferico in cui si è verificato il fatto principale. La tecnica di redazione dell’atto di citazione va concordata con quanto si è visto a proposito della tipologia delle azioni di cognizione e con le osservazioni che seguono. La redazione delle conclusioni pone qualche problema di metodo. Le conclusioni, infatti, si collocano al punto di intersezione fra il diritto processuale e quello sostanziale e spesso rappresentano uno degli aspetti di maggiore difficoltà dell’attività forense civile,


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se non altro perché richiedono una notevole chiarezza di idee. Un lungo scritto difensivo può, in apparenza, occultare la confusione, ma le conclusioni impongono di sapere esattamente che cosa si vuole ottenere. Ora, prima di tutto, le conclusioni devono essere fatte in modo tale che il giudice, se accoglie la tesi proposta, possa trascriverle nel dispositivo. Questo non riguarda solo l’aspetto lessicale, ma anche una serie di elementi inutili. Ad esempio, le richieste istruttorie non fanno parte delle conclusioni. Si deve, poi, rimarcare costantemente l’esigenza di una precisa corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato. Le conclusioni non devono dimenticare nulla, perché ciò che si dimentica si intende rinunciato e non riproposto, ma non possono pretendere dal giudicante un intervento decisorio su questioni estranee all’oggetto della lite. Inoltre, bisogna verificare che il giudice possa effettivamente concedere, in base ai poteri che la legge gli conferisce, quel tipo di provvedimento che si domanda. Dall’esistenza e dalla possibilità di provare un dato fatto lesivo non discende in modo automatico il rimedio, che va individuato con esattezza. V. La pluralità di domande. La parte attrice può svolgere nello stesso processo (osservati, quanto alla competenza, gli artt. 10 e 33 del codice di rito) una o più domande; può, cioè, proporre una o più azioni, contro uno o più convenuti. Se vengono proposte più domande, occorre che venga chiaramente definito il relativo rapporto. Al riguardo, si parla di domanda principale e domande subordinate, quando l’attore, sulla base degli stessi fatti, chiede, in via di gradazione progressiva, diversi beni della vita o misure diverse dello stesso bene della vita. Ad esempio, posta una violazione delle distanze legali nella costruzione di un nuovo fabbricato, l’attore può domandare la demolizione e la rimessione in pristino (e ciò come domanda principale); in via di subordine (se, cioè, il giudice non ritenga di accogliere la domanda principale), il risarcimento dei danni nella misura di X; in via di ulteriore subordine (se, cioè, il giudice non ritenga di dover accordare X) il risarcimento dei danni in una misura rimessa

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alla valutazione equitativa del giudice. È chiaro che se non sussiste la violazione lamentata, nessuna delle domande può essere accolta; ma se la violazione sussiste, altre valutazioni, di fatto e di diritto, possono condurre all’accoglimento dell’una o dell’altra domanda. Le domande possono essere anche alternative, nel senso che, sempre partendo dai medesimi fatti, l’attore può domandare provvedimenti diversi. Ad esempio, l’attore intende rimuovere gli effetti di un contratto: ne domanda quindi, alternativamente, la nullità, l’annullamento o la risoluzione per inadempimento. È ovvio che, al massimo, una sola di queste alternative può trovare accoglimento. Il senso della proposizione di domande subordinate o alternative sta nell’incertezza, da parte dell’attore, di ciò che effettivamente sarà provato e dell’orientamento in diritto del giudice. Sta anche nel divieto per il giudice di pronunciare al di fuori delle domande delle parti. Se quindi l’attore chiedesse soltanto la demolizione del fabbricato vicino, il giudice, ove non accogliesse la domanda, non potrebbe di sua iniziativa disporre a suo favore di un risarcimento, se questo non fosse stato esplicitamente chiesto. La pluralità di domande può verificarsi anche dal punto di vista soggettivo, in caso di più convenuti, nei confronti dei quali possono essere proposte azioni diverse. È chiaro, però, che non ogni pluralità di domande è possibile, dato che si parte comunque da un fatto lesivo che deve essere bene individuato. Le domande non possono essere fra loro contraddittorie, vuoi per ragioni intrinseche, vuoi perché la legge sostanziale non lo consente: ad esempio, non si può domandare insieme l’adempimento e la risoluzione di un contratto, mentre all’una e all’altra domanda può essere cumulata quella di risarcimento del danno. VI. La fissazione della prima udienza e il termine di comparizione. Come primo atto del processo, la citazione vede scendere in campo il procuratore. È questi, infatti, che firma la citazione. Come è noto, in base all’art. 84 c.p.c., l’avvocato può compiere e ricevere tutti gli atti riferiti alla parte, salvo le eccezioni di legge.


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L’attore determina l’udienza e la indica nell’atto, scegliendo fra le date previste dal calendario giudiziario per la prima udienza. Infatti, in base all’art. 163, comma 2°, c.p.c., il presidente del tribunale stabilisce al principio dell’anno giudiziario, con decreto approvato dal primo presidente della corte di appello, i giorni della settimana e le ore delle udienze destinate esclusivamente alla prima comparizione delle parti. Non basta, però, scegliere una fra le possibili date di udienza: occorre anche osservare il rispetto dei termini dilatori (novanta giorni per il convenuto residente in Italia, centocinquanta per quello residente all’estero, ex art. 163-bis, comma 1°, c.p.c.), che hanno lo scopo di permettere al convenuto un’adeguata difesa. Si è già spiegato che cosa significhi termine dilatorio: fra il momento in cui si attua l’arrivo dell’atto nella sfera del destinatario e il giorno dell’udienza deve trascorrere un periodo di tempo non inferiore a quello di legge. L’art. 163-bis c.p.c., ai commi 2° e 3°, disciplina l’ipotesi della richiesta di abbreviazione dei termini. La ratio della norma è la seguente. L’attore che ha urgenza di ottenere la sentenza ritiene che attendere oltre tre mesi per giungere all’udienza sia troppo: perciò, chiede al presidente del tribunale di abbreviare il termine di comparizione. Il presidente può accogliere l’istanza e disporre, con decreto scritto sull’atto di citazione (sia nell’originale che nelle copie da notificare) che il termine sia ridotto fino alla metà. Inversamente, può accadere che l’attore inizi una causa con il fine di guadagnare tempo rispetto ad una data controversia e indichi un’udienza di prima comparizione molto lontana (per fare un esempio di scuola, un anno dopo). Il convenuto, che invece mira ad una soluzione rapida, può chiedere, costituendosi prima del decorso del termine minimo, che l’udienza venga anticipata, sia pure, in questo caso, nel rispetto del termine del comma 1° della norma. In caso di accoglimento dell’istanza, il presidente provvede con decreto che viene comunicato all’attore. È bene conoscere queste regole, ma anche sapere che i lunghi tempi del processo civile italiano le rendono attualmente di scarsa applicazione: non ha senso attivarsi per guadagnare qualche settimana, se la causa deve poi durare molti anni.

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L’atto di citazione produce effetti dal momento in cui viene notificato al convenuto, nei luoghi e con le modalità di cui si è parlato. Infatti, è necessario che la domanda sia portata a conoscenza di colui contro il quale viene proposta; di colui, cioè, contro il quale viene chiesto qualcosa. La notificazione è attuata solitamente dall’ufficiale giudiziario, su istanza della parte o (più di frequente) del suo procuratore. In concreto, la parte consegna all’ufficiale giudiziario l’originale della citazione e tante copie quanti sono i destinatari. L’ufficiale giudiziario compie la notificazione e riconsegna poi all’attore l’originale, con l’attestazione delle avvenute notifiche. È bene chiarire che, in base alla nota regola della scissione degli effetti, rispetto all’attore, sarà sufficiente avere consegnato la citazione per la notificazione all’ufficiale giudiziario per evitare decadenze (si pensi ad un termine di prescrizione che sta per decorrere irrimediabilmente). Per i molteplici effetti collegati al convenuto (il rispetto del termine di comparizione è uno di questi) occorre invece che la notifica si perfezioni con l’effettivo ricevimento dell’atto da parte del convenuto. Perciò, l’attore, per stabilire validamente la data della prima udienza, dovrà assicurare al convenuto il termine dilatorio di legge, ma anche calcolare i prevedibili tempi che intercorrono fra la consegna dell’atto di citazione all’ufficiale giudiziario notificante e l’effettiva ricezione (seppure anche in una delle forme presuntive, che si sono esaminate a suo luogo) da parte del destinatario. Va ricordato che la novella del 2014 ha reso più agevoli le facoltà di notificazione in capo al difensore, che quindi assume più spesso la veste di soggetto notificante al posto dell’ufficiale giudiziario.

39. GLI EFFETTI DELL’ATTO DI CITAZIONE. LA NULLITÀ DELL’ATTO DI CITAZIONE. I. Gli effetti processuali dell’atto di citazione. L’atto di citazione ha effetti processuali ed effetti sostanziali. Sul piano processuale, la notificazione dell’atto di citazione al convenuto dà inizio al processo: è da questo esatto momento che si può


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parlare di un giudizio pendente. Si dice, quindi, che la notificazione della citazione crea litispendenza, impiegando questa espressione non nel senso di identità di azioni (come già lo abbiamo incontrato), ma nel senso di pendenza e quindi di esistenza della lite. È dalla notifica della citazione che, tecnicamente, si può parlare di attore, di convenuto e di parti. È utile sottolineare che se l’atto di citazione è notificato a più convenuti, che lo ricevono in momenti successivi, si ha litispendenza al momento del perfezionamento della prima notificazione in ordine di tempo. Con la notifica della citazione (ovviamente valida, quindi tale da avere raggiunto la sfera giuridica del destinatario) si instaura il contraddittorio: il convenuto sa che cosa gli viene domandato e decide se e come difendersi. Ancora, la notifica della citazione può dare luogo a prevenzione: può cioè servire a stabilire, in caso di due giudizi identici o connessi, quale di essi sia stato radicato per primo. Certo, la causa dovrà poi essere iscritta a ruolo, ma l’anzianità (per così dire) del processo si stabilisce in rapporto alla notificazione. L’effetto di prevenzione si ha anche nel caso di contenzioso europeo. Infatti, l’art. 32 del regolamento n. 1215/12 (e in modo analogo le norme degli altri regolamenti sulla competenza giurisdizionale) stabilisce che, nel caso vi siano più competenze alternative e legittimamente vengano iniziati due processi di contenuto identico o connesso dinanzi a giudici di due paesi diversi, per determinare quale processo sia iniziato per primo si ha riguardo, nel caso di giudizi che comincino con citazione, alla consegna dell’atto per la notificazione (a patto che poi vengano compiute le formalità successive) e, nel caso di giudizi che comincino con ricorso, al momento in cui il ricorso viene depositato (e anche qui a patto che poi vengano eseguite le formalità successive, e in specie la notificazione alla controparte). II. Gli effetti sostanziali dell’atto di citazione. Vi sono, poi, importanti effetti sostanziali dell’atto di citazione validamente notificato. È bene avere presente la regola generale, per cui gli effetti della futura sentenza si producono sulla situazione (giuridica,

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non fattuale) esistente al momento della proposizione della domanda. Il fatto che la decisione sia emessa a molti anni di distanza dall’inizio della causa non può vanificare la tutela della parte vittoriosa. Perciò, la legge prevede che l’atto di citazione validamente notificato interrompe la prescrizione e che, in forza dell’art. 2945, comma 2°, c.c., la prescrizione interrotta tramite un atto giudiziario non corre (cioè, rimane sospesa) fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio. La giurisprudenza usa, al riguardo, espressioni come “effetto interruttivo protratto” o “effetto interruttivo permanente”. L’atto di citazione, che contiene la domanda giudiziale, esprime una richiesta rivolta al giudice, ma anche alla controparte. Pertanto, la citazione notificata equivale a costituzione in mora del convenuto. Nei casi previsti dal codice civile, la domanda giudiziale può essere trascritta: anzi, l’attore ha l’onere di farla trascrivere, se vuole assicurarsi gli effetti della pubblicità immobiliare. Come è noto, infatti, una serie di atti in materia immobiliare, elencati dall’art. 2643 c.c., sono privi di effetto nei confronti dei terzi che a qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione di tali atti; e, avvenuta la trascrizione, non ha effetto contro colui che ha trascritto qualunque successiva trascrizione o iscrizione di diritti acquistati verso il suo autore, quantunque l’acquisto risalga a data anteriore. Ora, non solo fra gli atti soggetti a trascrizione figurano le sentenze che operano la costituzione, il trasferimento o la modificazione di uno dei diritti immobiliari menzionati nell’art. 2643, ma è anche necessario (come onere per l’attore) trascrivere le domande giudiziali che hanno riguardo a beni immobili e sono elencate negli artt. 2652 e 2653 c.c. Il codice sostanziale ha anche cura di precisare, caso per caso, quali effetti discendono dalla trascrizione e quindi, in controluce, a quali rischi si espone chi non trascrive. Ad esempio, sono da trascrivere le domande dirette a ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre (si pensi ad un contratto preliminare di una vendita immobiliare). La trascrizione della sentenza che accoglie la domanda prevale sulle trascrizioni e iscrizioni eseguite contro il convenuto dopo la trascrizione della domanda.


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III. La nullità dell’atto di citazione. Il codice dedica una specifica norma alla nullità dell’atto di citazione (art. 164 c.p.c.), che deriva dalla mancanza di taluno dei requisiti di contenuto-forma previsti dall’art. 163. Questa peculiare attenzione si spiega perché eventuali vizi nell’atto che contiene la domanda giudiziale si ripercuotono inevitabilmente sull’intero giudizio, per effetto delle regole sull’estensione delle nullità, alle quali ci si è riferiti a suo luogo. Va anche detto che la costituzione del convenuto sana i vizi dell’atto di citazione perché esso ha raggiunto il suo scopo (in conformità con il principio generale in materia di nullità degli atti, ex art. 156, comma 3°). In ogni caso, il giudice, quando ravvisa una nullità non sanata, dispone la rinnovazione della citazione. I vizi dell’atto di citazione si distinguono in vizi meno gravi (ad essi si riferiscono i primi tre commi dell’art. 164), collegati a difetti della vocatio in ius, e vizi più gravi (sono contemplati dai commi 4°, 5° e 6° dell’art. 164), relativi alla editio actionis. I vizi del primo gruppo si verificano quando è omessa o risulta assolutamente incerta l’indicazione del tribunale competente o delle parti, se manca completamente l’indicazione della data dell’udienza di comparizione, se è stato assegnato un termine a comparire inferiore a quello stabilito dalla legge ovvero se manca l’avvertimento relativo alle decadenze in cui può incorrere il convenuto, previsto dal numero 7 dell’art. 163. In questi casi, la nullità può essere sanata mediante la costituzione del convenuto o, se il convenuto non si costituisce, mediante la rinnovazione della citazione, ordinata dal giudice, entro un termine perentorio: in entrambi i casi, con effetti che retroagiscono al momento della notificazione della citazione nulla e, quindi, con la previsione che gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono sin dal momento della prima notificazione. Va solo precisato che se il convenuto, pur costituendosi, deduce l’inosservanza dei termini a comparire o la mancanza dell’avvertimento previsto dal numero 7 dell’art. 163, il giudice fissa una nuova udienza nel rispetto dei termini. È forse superfluo aggiungere che, se la rinnovazione ordinata dal giudice non viene eseguita, il giudice ordina la cancel-

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lazione della causa dal ruolo e il processo si estingue per inattività (ex art. 307, comma 3°, c.p.c.). Il secondo gruppo di vizi comprende le ipotesi in cui è omessa o risulta assolutamente incerta la determinazione della cosa oggetto della domanda ovvero se manca l’esposizione dei fatti. In questo caso, il giudice, rilevata la nullità, fissa all’attore un termine perentorio per rinnovare la citazione, se il convenuto non si è costituito, e per integrare la domanda, se il convenuto si è costituito. Ma (ed è questo l’aspetto essenziale) restano ferme le decadenze maturate e salvi i diritti quesiti anteriormente alla rinnovazione o alla integrazione. Per completezza, va aggiunto che nel caso di integrazione della domanda, il giudice fissa una nuova udienza di trattazione, ai sensi del comma 2° dell’art. 183, e si applica l’art. 167, per quanto concerne le difese del convenuto. Infatti, occorre ricostituire la pienezza del contraddittorio, ferita dal vizio dell’atto introduttivo. Occorre comprendere quale sia la conseguenza per l’attore del diverso regime delle decadenze. Fra la notifica della citazione nulla e quella della citazione valida, decorre tempo: spesso, si può trattare di mesi. Ora, può accadere che qualche profilo sostanziale muti nel frattempo: si pensi, ad esempio, alla decorrenza della prescrizione. Se la citazione nulla può essere sanata o rinnovata con effetti retroattivi, l’eventuale decorso del termine è irrilevante per l’attore; ma se gli effetti sostanziali della citazione si producono solo al momento della citazione rinnovata, il convenuto potrà difendersi eccependo il decorso della prescrizione. Come si vede, la tutela dei diritti non può essere esercitata in modo disancorato dalle regole processuali e un vizio di stretta procedura (vale a dire, la redazione sbagliata dell’atto) può causare la perdita del diritto sostanziale. Un secondo punto sul quale interrogarsi è allora il seguente: per quale motivo il legislatore distingua in modo così rilevante le conseguenze dei due gruppi di vizi. Il processo di cognizione è costruito su una serie di preclusioni, per quanto attiene alla progressiva formazione della materia del contendere. L’atto introduttivo, con cui si propone la domanda giudiziale, non è soggetto ad alcuna preclusione, proprio perché è il primo atto del processo: tuttavia – e qui sta il punto – deve consentire alle altre parti di difendersi correttamente,


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perché anche per loro si possano poi formare le preclusioni. La domanda non è bene proposta se ne mancano gli elementi essenziali: il petitum (e quindi il requisito di cui al numero 3 dell’art. 163, vale a dire la determinazione di ciò che si chiede al giudice) e la causa petendi (e perciò non tanto la norma, che il giudice conosce, ma il fatto lesivo). Il rimedio per ristabilire l’equilibrio fra le difese non può essere allora quello di comminare decadenze all’attore, ma di sanzionare con la nullità (e quindi, la non produttività di effetti), l’atto di citazione. Infine, si deve segnalare che l’art. 164 non si applica alla citazione inesistente, che non comporta la chiamata del convenuto davanti al giudice e non è quindi idonea a dar luogo ad un processo. L’art. 164 non si applica neppure alla citazione nulla per totale mancanza di volontarietà: in questo caso, si avrà una pronuncia sul processo che dichiara la domanda improcedibile per mancanza di un presupposto processuale.

40. LA COSTITUZIONE DELLE PARTI. LA COMPARSA DI RISPOSTA. I. La costituzione delle parti. Dopo avere notificato l’atto di citazione, l’attore procede a costituirsi. La parola costituzione, che ha varie diverse valenze nel linguaggio giuridico, significa qui presentazione della parte davanti all’organo giudiziario con l’assistenza del difensore. L’attore è già parte: lo è da quando ha notificato la citazione. Tuttavia, occorre ora la presa di contatto con il giudice, che può avvenire solo con specifiche formalità, fra le quali è essenziale quella relativa alla presenza del difensore. Già qui, e da ora in avanti, quando si farà riferimento all’attività di questa o di quella parte, si farà normalmente riferimento all’attività svolta dal suo rappresentante tecnico, l’avvocato. L’attore (art. 165 c.p.c.) deposita nella cancelleria del giudice l’originale della citazione con la relazione di notificazione, la pro-

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cura conferita al difensore (il che potrebbe essere avvenuto anche dopo la notifica della citazione) e i documenti prodotti, inseriti in un fascicolo. La costituzione deve avvenire entro dieci giorni dalla notificazione della citazione (ovvero, entro cinque giorni per il caso di abbreviazione dei termini). La norma precisa che se la citazione è notificata a più persone, l’originale della citazione deve essere inserito nel fascicolo entro dieci giorni dall’ultima notificazione. Secondo la giurisprudenza prevalente, però, il termine per la costituzione, in questo caso, decorre dalla prima notificazione. La costituzione dell’attore avviene tramite l’iscrizione della causa a ruolo: vale a dire, l’inserimento della causa in un elenco numerico, detto ruolo generale, dei processi a carico dell’organo giudiziario. Ancora una volta, ci si deve confrontare con un termine che ha vari significati nel linguaggio comune e che qui significa semplicemente elenco. L’iscrizione avviene su presentazione della nota di iscrizione a ruolo, cioè di un atto che contiene la richiesta di iscrivere la causa a ruolo. L’iscrizione può essere richiesta anche dal convenuto che, a sua volta, è già divenuto parte ricevendo l’atto di citazione. Ciò che conta è che almeno una delle parti provveda: se manca l’iscrizione della causa a ruolo, il processo si estingue, ove non sia riassunto entro tre mesi dalla scadenza del termine per la costituzione del convenuto. La cancelleria, a questo punto, forma il fascicolo d’ufficio, che raccoglierà gli atti di parte, i verbali di udienza e i successivi futuri provvedimenti del giudice (art. 168 c.p.c.). Queste formalità si aprono sempre di più alle nuove modalità digitali: in prospettiva, il fascicolo della causa perderà ogni dimensione cartacea e sarà unicamente telematico. Dopo l’iscrizione della causa a ruolo, il presidente del tribunale attribuisce la causa ad una delle sezioni; normalmente le sezioni hanno una certa specializzazione per materia (si parla di criteri tabellari) e quindi la causa è assegnata in base a criteri tendenzialmente oggettivi. Il punto fondamentale da comprendere è che l’attore non può scegliere il magistrato (persona fisica) a cui sarà affidata la causa, all’interno dell’organo giudiziario competente. Il giudice designato, se nel giorno scelto dall’attore per l’udienza


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di prima comparizione nel rispetto del termine dilatorio non può tenere l’udienza, può spostarla a non più di quarantacinque giorni; dello spostamento il giudice fa dare comunicazione all’attore (art. 168-bis, comma 5°, c.p.c.). Si è osservato infatti che, mentre nel caso di processo avviato con ricorso è il giudice a stabilire l’udienza, anche tenendo conto del suo carico di lavoro, nel caso della citazione la scelta è compiuta dall’attore. Può accadere, quindi, che vi siano giornate con un numero eccessivo di prime udienze, per un accumulo di richieste provenienti da soggetti diversi. È necessario, perciò, uno strumento che permetta al giudice una migliore distribuzione del lavoro. Questa ipotesi, che dipende da esigenze organizzative, va tenuta distinta da quella regolata dall’art. 168-bis, comma 4°, secondo cui, se nel giorno fissato per la comparizione il giudice non tiene udienza, la comparizione delle parti è rimandata d’ufficio alla prima udienza successiva tenuta da quel giudice. Si pensi al caso in cui il calendario preveda che le prime udienze si svolgano di giovedì e l’attore indichi una data che cade di sabato. Quel giorno, evidentemente, non si tiene l’udienza, che viene posticipata al giovedì immediatamente successivo. Il convenuto a cui è stato notificato l’atto di citazione deve costituirsi (art. 166 c.p.c.) almeno venti giorni prima dell’udienza fissata nell’atto di citazione o posticipata dal giudice (o almeno dieci giorni prima nel caso di abbreviazione dei termini) depositando la comparsa di risposta, la procura e i documenti, raccolti nel fascicolo di parte (che viene poi inserito nel fascicolo d’ufficio, già predisposto dal cancelliere). Si può quindi riepilogare. L’espletamento della costituzione consente di dar luogo al contatto fra il processo e il giudice. Il processo è già sorto con la valida notificazione dell’atto di citazione, ma se non vi fosse la costituzione, tramite l’iscrizione a ruolo, il giudice non ne verrebbe mai a conoscenza e non sorgerebbe il relativo dovere decisorio. La costituzione è il primo e basilare atto di impulso del processo già nato: per questo, è evidente che il processo, privo di corretta costituzione, non può avere successivo corso e si estingue.

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II. La comparsa di risposta. La disciplina della comparsa di costituzione e risposta (che va integrata con quella dettata dall’art. 125 c.p.c. per tutti gli atti di parte) si trova nell’art. 167 c.p.c. Prima di tutto, la comparsa è l’atto con cui il convenuto si presenta in giudizio munito di difensore e quindi si costituisce. La costituzione deve avvenire entro i venti giorni anteriori alla prima udienza. Per quanto riguarda poi il contenuto, la comparsa è atto speculare alla citazione, almeno per ciò che concerne l’editio actionis. Si può ricordare qui quanto si è visto a proposito della difesa del convenuto: questi può negare i fatti, esporre una versione almeno parzialmente diversa, difendersi soltanto in diritto (ammettendo, quindi, che la vicenda si sia svolta come racconta l’attore, ma traendone conseguenze giuridiche diverse), sollevare preliminarmente eccezioni processuali, o anche muovere, per così dire, al contrattacco, proponendo nei confronti dell’attore le proprie domande riconvenzionali. Secondo l’art. 167, nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende valersi e i documenti che offre in comunicazione, formulare le conclusioni. A pena di decadenza deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio. Se è omesso o risulta assolutamente incerto l’oggetto o il titolo della domanda riconvenzionale, il giudice, rilevata la nullità, fissa al convenuto un termine perentorio per integrarla. Restano ferme le decadenze maturate e salvi i diritti acquisiti anteriormente alla integrazione. Se intende chiamare un terzo in causa, deve farne dichiarazione nella stessa comparsa e provvedere secondo le modalità dettate dal codice (che si vedranno a suo luogo). In particolare, quindi, il convenuto deve proporre, a pena di decadenza: a) le eccezioni di rito e di merito non rilevabili d’ufficio, che includono, fra le altre, l’eccezione di incompetenza per territorio derogabile, l’eccezione di patto di arbitrato e l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice italiano ex art. 4 l. n. 218/1995; b) le


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domande riconvenzionali; c) la richiesta di chiamare in causa terzi. Queste, e non altre, sono le difese che il convenuto non potrà più svolgere se non si costituisce ovvero se si costituisce, depositando la comparsa in un momento successivo a quello dei venti giorni anteriori all’udienza. Se, pertanto, la difesa del convenuto si articola su punti che non coinvolgono nessuno di questi aspetti (ad esempio, perché si difende soltanto su punti di diritto), la costituzione potrà avvenire anche nel giorno della prima udienza, senza che ciò comporti apprezzabili conseguenze negative. È importante rilevare che il convenuto deve “prendere posizione sui fatti”. L’art. 167 va letto, qui, in rapporto al nuovo art. 115, comma 1°, c.p.c., sul principio di non contestazione: sui fatti non contestati specificamente il giudice non deve indagare e quindi, in pratica, quei fatti si considerano ammessi. Ora, per evitare letture delle norme tali da risultare lesive del diritto di difesa, bisogna intendersi bene sull’estensione dell’onere di contestazione. Da un lato, è vero che la contestazione deve essere specifica e non generica: non basta dire che quel fatto non è vero, ma questa contestazione deve essere inserita in un quadro di narrazione della vicenda che escluda in modo espresso che quel fatto sia vero. Se l’attore A afferma che il convenuto B ha contratto con lui una data obbligazione in un certo giorno e in un certo luogo, per il convenuto può essere sufficiente affermare di essersi trovato in quella data in un luogo diverso per contestare tutto ciò che l’attore sostiene e senza che sia necessario negare una per una tutte le circostanze dedotte. Dall’altro lato, non è detto che la facoltà di contestazione si esaurisca nella comparsa di risposta (quindi, nel primo atto difensivo): essa può ragionevolmente essere esercitata per tutto il tempo in cui si viene a formare la materia del contendere (come meglio si dirà in seguito). In ogni caso, oggetto dell’onere di contestazione sono i fatti costitutivi primari, vale a dire quelli su cui, se veri, si fonda in modo essenziale il diritto vantato dall’attore. In corrispondenza al contenuto della citazione, nella comparsa di risposta vi può essere una prima indicazione dei mezzi di prova proposti dal convenuto.

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Per quanto riguarda la domanda riconvenzionale, si possono presentare profili di nullità, analoghi a quelli concernenti la editio actionis della citazione: infatti, può essere omesso o risultare assolutamente incerto l’oggetto o il titolo della domanda. Non possono sussistere – è appena il caso di notarlo – i vizi relativi alla vocatio in ius contenuta nella citazione, perché qui il contraddittorio si è già regolarmente costituito. Ora, questi vizi (che potranno essere oggetto di eccezione da parte dell’attore in prima udienza) sono della stessa natura di quelli più gravi, regolati dall’art. 164, e ricevono lo stesso trattamento: il giudice, in prima udienza, dopo di averne rilevato l’esistenza, fissa al convenuto un termine per integrare l’atto, ma restano ferme (a favore dell’attore) le decadenze maturate e salvi i diritti acquisiti prima dell’integrazione (art. 167, comma 2°, c.p.c.). III. Eccezioni proponibili su istanza di parte e rilevabili d’ufficio. Occorre, a questo punto, riprendere il profilo (lasciato sospeso) della differenza fra eccezioni proponibili solo su istanza di parte (e per le quali dunque cala la barriera preclusiva, se non sollevate nella comparsa di risposta tempestivamente depositata) e le eccezioni rilevabili d’ufficio. Premesso che non è agevole indicare un criterio sempre valido e che, caso per caso, bisogna guardare alle norme positive e agli orientamenti giurisprudenziali, occorre dire che si tratta di fare riferimento al diritto sostanziale. Vi sono fatti giuridici che operano automaticamente nell’ordinamento; vi sono altri fatti giuridici che operano soltanto se vi sia un’espressa applicazione della volontà di un soggetto. Per esempio, il pagamento di un debito pecuniario estingue in ogni caso l’obbligazione. Certo, spetta alla parte il compito di affermare la circostanza e darne prova. Ma se il pagamento, pur nel silenzio della parte interessata, è comunque desumibile dagli atti di causa, il giudice lo può rilevare di sua iniziativa (e cioè d’ufficio). Infatti, il giudice non può apportare materiale nuovo in causa, dato che il monopolio della tutela giurisdizionale spetta alle parti; egli però conosce il diritto e lo applica. Se, pertanto, accerta


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l’esistenza del fatto del pagamento, egli deve trarre le conseguenze che la legge ascrive a tale fatto. Sempre ad esempio, la prescrizione dei diritti opera soltanto su iniziativa della parte, a favore della quale è prevista: è questo il caso del debitore dopo il decorso del termine prescrizionale previsto dalla legge per l’esercizio del corrispondente diritto da parte del creditore. Se però il debitore non dichiara di volersene avvalere (non solleva, cioè, l’eccezione di prescrizione), il giudice, anche qualora potesse desumere la prescrizione dagli atti di causa, non potrebbe sollevare l’eccezione d’ufficio, perché, se lo facesse, verrebbe ad invadere un potere dispositivo che appartiene solo alla parte. Anche le eccezioni (qui, latamente intese) processuali possono essere rilevabili d’ufficio o no. Sono le singole norme a informarci: se un determinato presupposto processuale è stabilito dalla legge come elemento essenziale, verrà anche conferito al giudice il potere di rilevarne la mancanza di sua iniziativa; in caso contrario, dipenderà dalla parte e dalla sua libera valutazione strategica decidere il da farsi. Ad esempio, alcune nullità sono assolute, e quindi anche il giudice le può rilevare; altre sono relative, ed è solo la parte che è stata pregiudicata dall’atto nullo a decidere se sia il caso di sollevare l’eccezione o no. Più in generale, si deve prendere in considerazione il dovere decisorio del giudice che, investito della materia del contendere, applica il diritto ai fatti che gli sono sottoposti. Ora, il giudice può rilevare d’ufficio tutte le ragioni che portano all’eventuale reiezione della domanda. Egli si deve arrestare solo quando l’ordinamento, sia per effetto di disposizioni sostanziali, che per effetto di regole processuali, limita questo potere. È questo il senso della disposizione della seconda parte dell’art. 112 c.p.c., dove la legge vieta al giudice di pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere sollevate solo dalle parti. Non di rado oggi il diritto materiale impiega la sanzione della nullità per rafforzare l’osservanza di determinate disposizioni, sottraendo il relativo controllo alle parti e ponendolo nelle mani del giudice. La decadenza comminata dall’art. 167 riguarda, dunque, solo le eccezioni (di merito e di rito) per le quali la legge prevede il mono-

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polio delle parti. Tutte le altre eccezioni possono essere sollevate in un momento successivo. Alla luce di quanto si è visto, però, il raggio delle eccezioni rilevabili d’ufficio è notevolmente ampio, il che ridimensiona la portata della barriera preclusiva qui esaminata. IV. La pluralità di convenuti. La difesa del convenuto può assumere profili peculiari nel caso di processo a pluralità di parti e, in specie, nei casi di litisconsorzio facoltativo. Infatti l’attore, quando propone domande nei confronti di più convenuti, può scegliere prospettazioni diverse. Ad esempio, può domandarne la condanna in solido oppure in via alternativa. Nel primo caso, egli suppone una fattispecie obbligatoria unitaria, che comporta la condanna di tutti i convenuti e la conseguenza che l’intera prestazione potrà essere non solo accertata, ma poi anche eseguita contro uno solo di essi, a cui resterà soltanto la facoltà di regresso nei confronti degli altri. Qui le difese dei convenuti saranno normalmente convergenti nel negare il fatto costitutivo, ovvero le conseguenze giuridicamente pregiudizievoli che da quel fatto discendono, anche se non si può escludere la possibilità di domande di regresso. L’attore, però, può proporre una domanda di condanna alternativa, nel senso che chiede al giudice anche di individuare chi fra i diversi convenuti vada condannato, ovvero di stabilire in quali diverse proporzioni ciascuno di essi deve essere condannato. La difesa di ciascuno dei convenuti diventa allora più complessa: si passa dalla contestazione del fatto e della pretesa alla richiesta che altri convenuti vengano condannati ad adempiere nei confronti dell’attore, ovvero che altri convenuti siano tenuti a prestare garanzia in caso di condanna di colui che si sta difendendo. Accanto alla possibilità che terzi soggetti siano chiamati in giudizio, a mente dell’art. 106 c.p.c., si aggiunge l’eventualità che un convenuto non si limiti a difendersi o a proporre domande riconvenzionali nei confronti dell’attore, ma proponga a sua volta domande nei confronti di altri convenuti. In quest’ultima ipotesi, non si aggiunge una nuova parte al processo, ma si complica il quadro della materia del contendere, che viene ad includere anche domande proposte da un convenuto contro un altro.


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Come si ripete, non è necessario che l’altro convenuto sia chiamato in causa perché, dopo la notificazione dell’atto di citazione dell’attore, questi è già parte. È bene avvertire, tuttavia, che secondo taluni discutibili orientamenti giurisprudenziali il convenuto, che voglia proporre una domanda contro un altro convenuto (si parla di domande trasversali), dovrebbe farlo con le forme della chiamata in causa del terzo. Il problema che ci si deve porre è duplice: fino a quando queste domande possono essere proposte e qual è il tempo di difesa per la parte, contro cui vengono proposte. Dal primo punto di vista, è evidente che il termine coincide con la tempestiva costituzione in giudizio e il deposito della comparsa di risposta, quindi venti giorni prima dell’udienza. Sotto il secondo profilo, vale per il convenuto, aggredito anche da un altro convenuto, ciò che vale per l’attore di fronte alla domanda riconvenzionale del convenuto: la facoltà di proporre in prima udienza, ai sensi dell’art. 183, comma 5°, le domande e le eccezioni che si rendono necessarie a seguito delle difese della controparte. V. Effetti della tardiva o mancata costituzione delle parti. È bene domandarsi, a questo punto, che cosa accade se una o più parti non si costituiscono tempestivamente. Può accadere che nessuna delle parti si costituisca nei termini stabiliti (dieci giorni dopo l’ultima notifica per l’attore, venti giorni prima dell’udienza per il convenuto). In tal caso, il processo si estingue per evidente inattività, a meno che non venga riassunto da chi vi ha interesse nel termine di tre mesi (artt. 171 e 307 c.p.c.). Se almeno una delle parti si è costituita, l’altra parte può costituirsi più tardi, fino alla prima udienza. Mentre però l’attore non subisce conseguenze, il convenuto sopporta le decadenze previste nell’art. 167: non potrà più, quindi, sollevare eccezioni di incompetenza, né proporre domande riconvenzionali, né chiamare in causa terzi, né sollevare eccezioni di rito o di merito che non siano rilevabili d’ufficio. Le sanzioni, dunque, sono gravi per il convenuto: tuttavia, in una causa di puro diritto, ovvero in cui egli possa difendersi

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proponendo eccezioni rilevabili d’ufficio, il ritardo nella costituzione, come detto, non comporta problemi. Infine, la parte che non si costituisce neppure in prima udienza è dichiarata contumace: il punto sarà approfondito in relazione a quell’istituto. VI. Le comunicazioni dopo la costituzione in giudizio. La costituzione in giudizio, necessariamente a mezzo di difensore (salvo le marginali eccezioni che si sono individuate), comporta un nuovo modo di comunicare per le parti e il giudice. Secondo l’art. 170 c.p.c., norma di grande importanza pratica, dopo la costituzione in giudizio tutte le notificazioni e le comunicazioni si fanno di regola al procuratore costituito, con la precisazione che è sufficiente la consegna di una sola copia dell’atto, anche se il procuratore è costituito per più parti. In base alle recenti disposizioni, la comunicazione può sempre avvenire tramite posta elettronica certificata. Leggendo il codice, si apprende che le comparse e le memorie consentite dal giudice si comunicano mediante deposito in cancelleria oppure mediante notificazione o mediante scambio documentato con l’apposizione sull’originale, in calce o in margine, del visto della parte o del procuratore. In realtà, le norme vanno rilette alla luce delle disposizioni sul processo telematico: come si è avvertito, per questi atti processuali è normalmente previsto il deposito telematico, che porta l’atto automaticamente a conoscenza non solo della cancelleria, ma anche della controparte.

41. LA TRATTAZIONE DELLA CAUSA. LA PRIMA UDIENZA. I. L’udienza e il governo del giudice sul processo. Prima di descrivere le fasi della trattazione della causa, è utile una breve sosta sui poteri del giudice e le modalità di svolgimento delle udienze.


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Come già si è visto, spetta al giudice la direzione del processo. Le parti fissano la materia del contendere e delimitano il compito decisorio del giudice: ma è il giudice che, sia pure in dialogo con le parti, ha il compito (come ricorda l’art. 175 c.p.c.) di esercitare tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del processo. È il giudice a stabilire le date delle udienze e la loro concreta scansione temporale e a fissare, in molti casi, i termini entro cui le parti devono compiere gli atti. Ovviamente, il giudice può farlo nei limiti del suo carico di lavoro. Ecco perché la distanza temporale fra le varie attività, che si andranno a descrivere, dipende non dalle regole dei codici, ma dall’organizzazione degli uffici giudiziari. Il momento di incontro fra le parti e il giudice è l’udienza. Ora, a differenza dalle udienze di discussione, quelle di trattazione davanti al giudice (istruttore, se vi è collegio, o monocratico) non sono pubbliche. Vi possono partecipare i difensori delle parti e le parti personalmente. Mentre, però, il difensore rappresenta la parte e interloquisce con il giudice e gli altri difensori, le parti (così l’art. 84 disp. att. c.p.c.) devono assistere all’udienza in silenzio, salvo che non ottengano dal giudice, a mezzo del proprio difensore, l’autorizzazione ad interloquire. Dell’udienza viene redatto (normalmente, sul personal computer del giudice, in modo da essere inserito nel fascicolo telematico della causa) un processo verbale, che costituirà poi l’unico riferimento documentale per stabilire che cosa è avvenuto: con l’autorizzazione del giudice, le parti possono dettare nel processo verbale le loro deduzioni. A questo proposito, è chiaro che l’autorizzazione non può in alcun modo comprimere il diritto (spesso l’onere) delle parti di svolgere le proprie difese in udienza e tradurle a verbale. II. L’impiego delle ordinanze. Il tipico provvedimento con cui il giudice governa lo svolgimento del processo, prima di giungere alla decisione, è l’ordinanza. Le ordinanze possono essere pronunciate in udienza, e quindi alla presenza delle parti: in tal caso, non occorre comunicarle e si ritengono conosciute non solo dalle parti effettivamente presenti, ma anche

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da quelle che avrebbero dovuto esserlo e, per qualsiasi ragione, non sono comparse. Il giudice, però, può anche preferire di disporre di un tempo di riflessione dopo l’udienza: in tal caso, egli si riserva di pronunciare l’ordinanza fuori udienza (art. 176 c.p.c.). In questo caso, l’ordinanza dovrà essere comunicata alle parti a cura della cancelleria, normalmente mediante pec. La riserva dell’ordinanza è fenomeno frequente, proprio perché le modalità concrete di svolgimento delle udienze di rado lasciano al giudice la possibilità di prendere, a ragion veduta, decisioni immediate; risulta quindi preferibile che il giudice possa più tardi rivedere il fascicolo con calma. Proprio perché strumento di gestione del processo, l’ordinanza non può mai pregiudicare la decisione della causa (art. 177 c.p.c.). Ciò è certamente vero, anche se la linea di pensiero di un’ordinanza può a volte essere fortemente indicativa dell’orientamento del giudice in vista della decisione di merito. Come meglio si vedrà, il giudice, con ordinanza, ammette i mezzi di prova ritenuti rilevanti e ammissibili. Si supponga che A chieda l’ammissione della prova X, l’unica con la quale egli è in grado di dare dimostrazione del fatto costitutivo del suo diritto. Se il giudice esclude l’ammissione di quella prova, è pur vero che la relativa ordinanza non pregiudica il merito, ma è anche realistico pensare che la domanda di A sarà respinta perché non provata. Comunque, tutte le questioni risolte dal giudice con ordinanza possono essere riproposte in sede di decisione (art. 189 c.p.c.). Quindi, seguendo l’esempio, al momento della fase decisoria, la parte interessata potrà sempre insistere perché il giudice cambi orientamento e ammetta la prova. L’ordinanza, normalmente, può essere modificata o revocata dal giudice che l’ha pronunciata (ancora art. 177 c.p.c.). È bene mettere in luce che la modificabilità e la revocabilità dei provvedimenti è alternativa alla loro impugnabilità. Tutte le volte che esiste un provvedimento non definitivo, se ne può ammettere o l’impugnazione, di solito davanti a un giudice superiore, o la richiesta di revoca o modifica, davanti al giudice che lo ha emesso. Ora, non sono modificabili né revocabili dal giudice che le ha pronunciate: a) le ordinanze pronunciate sull’accordo delle parti, in


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materia della quale queste possono disporre (perché qui l’ordinanza non ha vera funzione di decisione interna al processo, ma solo di ratifica di un accordo, tanto che è revocabile dal giudice, quando vi sia il consenso di tutte le parti); b) le ordinanze dichiarate espressamente non impugnabili dalla legge (perché qui si è voluto evitare un controllo successivo, e quindi l’ordinanza è definitiva); c) le ordinanze per le quali la legge predisponga uno speciale mezzo di reclamo (che ha natura impugnatoria e quindi conferma l’alternativa fra impugnazione e revoca). Va infine ricordato che nell’ambito del potere di direzione il giudice può talora sanzionare determinati comportamenti delle parti con pene pecuniarie. Anche in questo caso, il provvedimento ha la forma dell’ordinanza (art. 179 c.p.c.). III. L’udienza di trattazione. La prima udienza del processo (quella indicata dall’attore in atto di citazione, salva l’applicazione dell’art. 168-bis c.p.c.) è l’udienza di trattazione. “Trattazione” significa esame della materia del contendere e, quindi, svolgimento di tutte le attività che preparano l’ultima e decisiva fase del processo, vale a dire la decisione. La riforma del 2005 ha innovato radicalmente il meccanismo introduttivo del processo. In base all’art. 183 c.p.c., nel testo oggi vigente, il giudice deve compiere, prima di tutto, una serie di verifiche che hanno lo scopo di permettere la regolare costituzione del contraddittorio. Se l’esito della verifica è negativo (se, cioè, manca qualche elemento per la corretta prosecuzione del processo), il giudice dà i provvedimenti opportuni e fissa l’udienza di trattazione ad una nuova data. In caso invece di verifica positiva, il giudice passa subito alla trattazione della causa. In primo luogo, pertanto, il giudice verifica d’ufficio la regolarità della costituzione delle parti e, quando occorre, le invita a completare o a mettere in regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi. In specie, quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un termine perentorio

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per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio o la rinnovazione della procura alle liti. L’osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione (art. 182 c.p.c.). Il giudice, se ravvisa la sussistenza di un litisconsorzio necessario, ordina l’integrazione del contraddittorio; così pure, provvede a disporre la rinnovazione dell’atto di citazione nullo, ovvero pronuncia i provvedimenti necessari per l’integrazione delle domande riconvenzionali (art. 167, comma 2°), per la fissazione dell’udienza per la chiamata dei terzi (art. 167, comma 3°) e per la rinnovazione della notificazione nulla (art. 291, comma 1°). Di alcune di queste attività si è già detto; delle altre, si parlerà a suo luogo. Il codice, insomma, cerca di risolvere nelle prime battute del processo una serie di possibili problemi che riguardano la sussistenza di presupposti processuali e che, emergendo più tardi, potrebbero travolgere (per effetto delle norme sull’estensione delle nullità) tutto quanto nel frattempo compiuto. Al riguardo, occorre dire che la maggior parte dei processi si avvia in modo pienamente corretto. Naturalmente, se qualche vizio sussiste, il giudice non può procedere prima che la questione sia risolta e il vizio sanato: perciò, quando emana uno o più di uno dei provvedimenti che si sono presi in esame, fissa una nuova udienza di trattazione. In altre e semplici parole, il processo ha avuto una falsa partenza: occorre aspettare per poter cominciare in modo efficace. IV. Parti e giudice all’udienza di trattazione. La disciplina dell’udienza di trattazione è ispirata, ma con ampie modifiche, a quella dell’udienza nel processo del lavoro. L’idea di fondo è di svolgere il confronto fra parti e giudice (a prescindere, naturalmente, dall’assunzione delle prove) in una sola occasione. Il modello è quello di un’udienza centrale (nel sistema tedesco si parla di Haupttermin), ma la realizzazione pratica in Italia è solo un pallido richiamo di ciò che si attua altrove.


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Il legislatore si sforza di facilitare una soluzione concordata della lite, fino dalla fase iniziale della trattazione. In primo luogo, se esse lo richiedono congiuntamente, può essere disposta la comparizione personale delle parti (eventualmente rappresentate da un procuratore speciale di diritto sostanziale) ai fini dell’interrogatorio libero e del tentativo di conciliazione (art. 185 c.p.c.): in tal caso, viene fissata una nuova udienza (art. 183, comma 3°), in cui si tenta la conciliazione. Inoltre, dopo la riforma del 2013, in prima udienza (ovvero fino a quando non è chiusa l’istruzione) il giudice, ove possibile (tenuto conto della natura della causa, del valore della controversia, dell’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto), formula alle parti una proposta transattiva o conciliativa (art. 185-bis c.p.c.). Se le parti si conciliano, si forma processo verbale della convenzione conclusa, che costituisce (ove contenga profili condannatori) titolo esecutivo. Se invece la conciliazione non riesce, si prosegue subito con la trattazione. Va detto che il giudice può sempre fissare d’ufficio l’udienza di comparizione personale ai sensi dell’art. 117, vale a dire solo per interrogare liberamente le parti. Si aggiunga che talora, come meglio si vedrà, è previsto l’esperimento della mediazione o della negoziazione assistita come condizione di procedibilità della domanda. In queste ipotesi, la prima udienza è il momento in cui il giudice compie la relativa verifica. Se alla mediazione o alla negoziazione assistita non si è dato corso, il giudice, su eccezione di parte o d’ufficio, rinvia la trattazione ad una successiva udienza, in modo che le parti provvedano. Un passaggio molto importante è quello del comma 4°: il giudice prepara la trattazione, chiedendo alle parti i chiarimenti necessari e indicando le questioni rilevabili d’ufficio che reputa utile esaminare. La norma, purtroppo, finora, non ha ricevuto un’efficace applicazione: di fatto, a motivo del pesante carico di lavoro, raramente il giudice è posto in condizioni di conoscere a fondo la causa già in sede di prima udienza. Se la disposizione trovasse spazio, si avrebbe un miglioramento qualitativo del processo, perché si eviterebbe che le eccezioni vengano sollevate successivamente e si otterrebbe un razionale programma dei lavori.

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La prima udienza è anche il momento in cui si devono eventualmente compiere talune attività prettamente processuali, che non possono poi essere più svolte. Ciò vale per l’eccezione di competenza per materia, valore o territorio inderogabile, che può essere rilevata d’ufficio non oltre la prima udienza (art. 38 c.p.c.); analogamente, la connessione non può essere eccepita dalle parti né rilevata d’ufficio dopo la prima udienza, e la rimessione all’altro organo giudiziario davanti a cui pende la causa connessa non può essere ordinata quando lo stato della causa principale o preventivamente proposta non consente l’esauriente trattazione e decisione delle cause connesse (art. 40 c.p.c.). Nel caso del tribunale a composizione monocratica, può accadere che il giudice, valutata la semplicità della controversia, disponga che la trattazione prosegua con le forme del c.d. rito sommario (art. 183-bis c.p.c.), dando i provvedimenti opportuni. Il punto sarà ripreso al momento di studiare le caratteristiche di tale rito. V. Il progressivo completamento della materia del contendere. L’udienza di trattazione supporrebbe che la materia del contendere fosse interamente sul tavolo del giudice. In realtà, il completamento della materia del contendere avviene ancora durante e dopo l’udienza. Infatti, in base al comma 5° dell’art. 183, l’attore può proporre, in udienza, domande ed eccezioni nuove che siano conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni del convenuto. Ancora, l’attore può chiedere di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo, se l’esigenza è sorta dalle difese del convenuto. Entrambe le parti possono precisare e modificare domande, eccezioni e conclusioni, anche a prescindere dal tenore delle difese delle altre parti. Si collocano qui i fenomeni della domanda riconvenzionale dell’attore che contrasta la riconvenzionale del convenuto (la c.d. reconventio reconventionis) o delle domande e delle eccezioni dei convenuti, nei confronti di eventuali domande proposte da altri convenuti. Non possono essere proposte, né qui né tanto meno successivamente, domande nuove, al di fuori delle situazioni di raccordo con


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la materia già introdotta in giudizio. Le ragioni di questo divieto non sono logiche, ma organizzative. Di per sé, non è assurdo pensare ad un processo che permetta sempre di introdurre domande nuove, purché fra le stesse parti: tanto più che la proibizione oggi esistente ha la conseguenza di indurre la parte ad instaurare un nuovo processo, intorno a quella domanda (che nel primo processo sarebbe nuova) e poi, se vi è connessione, a chiedere la riunione dei giudizi. Il divieto dipende dal fatto che in un sistema a preclusioni l’allegazione dei fatti costitutivi in atto di citazione è, in pratica, la prima barriera preclusiva per l’attore e che si vuole indurre chi chiede tutela a concentrare tutte le domande (per quanto alternative o cumulate esse siano) fino dall’atto di esordio. VI. La modificazione delle domande e delle eccezioni. Il problema della modificazione o della precisazione della domanda, delle eccezioni e delle conclusioni e, soprattutto, della distinzione fra questa ipotesi e quella della domanda nuova, è molto delicato. In linea teorica, due sono le soluzioni estreme possibili. La prima consiste nel fissare una volta per tutte la domanda così come formulata nell’atto introduttivo. Ciò semplifica la difesa del convenuto e la decisione del giudice, ma evita di tenere in conto non solo dei possibili errori commessi nell’impostazione della causa, ma anche dei fatti nuovi e delle inevitabili evoluzioni della realtà, che non si ferma per attendere l’esito dei processi. La conseguenza diventerebbe quella di moltiplicare le cause, perché tutto ciò che rimane fuori dalla cognizione del giudice verrebbe portato davanti ad altri giudici, con sensibili complicazioni, ad esempio, in tema di connessione e di pregiudizialità, oltre che con un’evidente diseconomia processuale. La seconda soluzione estrema è invece quella che permette alle parti di modificare costantemente l’oggetto del processo. Qui il rischio sta nell’impossibilità di arrivare a fissare la materia del contendere e quindi di determinare su che cosa il giudice deve decidere: con costanti immissioni di nuove questioni, il processo non finirebbe mai.

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I vari ordinamenti positivi affrontano il problema con soluzioni mediane. Come detto, il codice italiano vieta la proposizione di domande nuove e consente invece, fino ad una certa fase del processo, la modificazione di quelle proposte. Al riguardo, occorre partire dalla definizione che abbiamo dato di oggetto (petitum) e di titolo (causa petendi) della domanda. La domanda (e, correlativamente, l’eccezione in senso proprio) suppongono che la parte porti al giudice un fatto (o una pluralità di fatti) che concretano una sua pretesa in diritto. Le domande e le eccezioni formano la materia del contendere. Di per sé, ogni nuovo apporto di fatti in giudizio comporta un ampliamento della materia del contendere. Se il fatto nuovo è la base per una pretesa giuridica radicalmente diversa da quella proposta inizialmente in causa, che comporta una richiesta diversa nei confronti della controparte, si ha domanda nuova. Se il fatto non è nuovo, ma ne è meglio definita la dimensione, si ha una precisazione. Le numerose e variegate ipotesi intermedie danno luogo alla modificazione della domanda. Può accadere che, fermo il fatto, la parte ne faccia discendere conseguenze giuridiche ulteriori, ovvero che, sulla base di un fatto nuovo, venga confermata la medesima domanda già proposta. È chiaro, da questo, che la linea di demarcazione in concreto fra la modifica o precisazione della domanda, da un lato (la c.d. “emendatio libelli”) e la domanda nuova (la c.d. “mutatio libelli”) non è agevole da tratteggiare. Ad esempio: A cita B per ottenere 100 sulla base del fatto X. Poi, in corso di causa: a) chiede altri 50 sulla base del fatto Y: è domanda nuova; b) chiede 150, ma sempre sulla base del fatto X: è ancora domanda nuova; c) chiede 100, sempre sulla base del fatto X, ma con ragione giuridica diversa: è modificazione della domanda. Se poi A cita B per ottenere la somma dovuta (e indicata genericamente) sulla base del fatto X, e specifica poi che la somma pretesa è 100, si ha solo una precisazione della domanda. Quando, però, dalle ipotesi astratte si passa all’enorme varietà dei casi concreti, la qualificazione dell’atteggiamento delle parti è molto ardua. Ora, pur tenendo conto dei limiti posti dalla legge, la giurisprudenza si trova di fronte ad un bivio. Se qualifica troppo facilmente la domanda come nuova e perciò inammissibile in quel


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processo, sospinge la parte (che, ovviamente, non è soccombente nel merito), ad iniziare un nuovo e separato processo, moltiplicando così il contenzioso. Se invece è troppo lassista nell’ammettere domande aggiuntive, rischia di compromettere il diritto di difesa della controparte che, dopo avere impostato la difesa di fronte alla situazione di fatto e di diritto A, si vede invece costretta a difendersi di fronte alla situazione B. Ora, in via di grande approssimazione, si può dire che le domande sono ammesse tanto più facilmente, quanto meno comportano un allargamento di indagini di fatto. Non di rado vengono ammesse richieste che vanno oltre la mera “emendatio libelli” rigorosamente intesa. Non è irrilevante, al riguardo, la distinzione fra domande autodeterminate o eterodeterminate. Nel primo caso, viene in gioco il rapporto nella sua interezza e quindi l’introduzione in giudizio di elementi non presentati originariamente, ma pur sempre interni al rapporto, è di frequente una modifica legittima. Nel secondo caso, vengono in gioco i fatti specifici costitutivi del diritto così individuato e fatto valere e, più spesso, le variazioni ricadono nella sfera della novità della domanda. VII. Le memorie successive all’udienza di trattazione. Infine, ai sensi dell’art. 183, comma 6°, su richiesta anche di una sola parte, il giudice assegna un triplice termine perentorio, di trenta, ancora trenta e venti giorni, nei quali le parti, depositando apposite memorie: a) compiono, con la prima memoria, la definitiva determinazione della materia del contendere e terminano le allegazioni di fatti (il codice parla di deposito di memorie limitate alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte); b) replicano, con la seconda memoria, alle domande ed eccezioni nuove, o modificate dall’altra parte nel termine precedente, anche proponendo le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni eventualmente apportate dalla controparte e, nel

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contempo, indicano (forse, per la prima volta) i mezzi di prova e producono i documenti opportuni; c) indicano le prove contrarie a quelle indicate dalla controparte nel termine precedente. L’espressione “prova contraria” significa indicazione di un mezzo di prova diverso da quello indicato e richiesto dall’altra parte, relativo ai medesimi fatti, tendente ad accreditarne una versione opposta. Ad esempio, una parte chiede che sia sentito un testimone per asseverare la verità di un certo fatto; l’altra parte indica, a prova contraria, un altro testimone, che essa reputa smentirà il primo. Questi adempimenti sono di importanza spesso decisiva per l’esito della controversia, specie se si tratta di questioni di fatto. È facile notare che il lavoro di ricerca delle prove (ad esempio, per replicare a quelle della controparte) deve svilupparsi in un termine molto ristretto, se paragonato a quelli complessivi di gestione del processo. È anche opportuno rilevare che ogni parte ha il pieno diritto di richiedere l’assegnazione dei termini, che è quindi sottratta al potere del giudice di dirigere il processo. La richiesta delle memorie è facoltativa, e parimenti facoltativa è la produzione di uno o più degli scritti difensivi. Ognuna delle memorie ha una sua precisa finalità e le parti sono libere di presentarle o no, a seconda della loro strategia. Una parte può non dovere modificare o precisare le conclusioni, e quindi non utilizzerà la prima memoria, ma solo le altre due; oppure, trattandosi di una causa in diritto, impiegherà invece solo la prima e non la seconda o la terza. Insomma, le tre memorie non rappresentano un blocco inscindibile, ma sono autonome l’una dall’altra. Piuttosto, va detto che nella prassi le memorie istruttorie ex art. 183, comma 6°, c.p.c., contengono non di rado affermazioni o deduzioni in diritto del tutto inopportune (salvo che non siano direttamente destinate a favorire o a contrastare lo svolgimento di un dato tipo di istruttoria): inopportune non solo perché appesantiscono inutilmente il lavoro del giudice e costringono l’avversario a replicare, aumentando lo spessore del fascicolo, ma perché o ripetono tesi già espresse o anticipano difese che sarebbe più conveniente riservare agli scritti conclusivi.


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Il difensore, in questa successione di atti, si deve porre la questione strategica del momento in cui svolgere le difese, quando le regole del rito permettono di dilazionarle in tempi successivi. In linea di massima, è utile che ci si abitui ad anticipare le difese, più che tenere le presunte armi nel cassetto. Il decorso dei termini per le deduzioni istruttorie comporta che cada la preclusione per ogni deduzione diversa e non effettuata. In relazione a questo profilo, e nel quadro del rispetto del contraddittorio, è necessario che le prove vengano non soltanto richieste, ma anche richieste con le modalità previste per ciascuna di esse. È certo che ciascuna delle parti può eccepire che la controparte sia incorsa in preclusioni, per cui non possa più legittimamente svolgere una data attività. Ci si deve domandare, invece, se vi sia un generale potere d’ufficio del giudice di rilevare le preclusioni. Se si ritiene che prevalga un profilo conflittuale nel processo, e quindi che le preclusioni siano poste nell’interesse della controparte, si dovrebbe rispondere di no; se si ritiene invece che le preclusioni assicurino di per sé un ordinato svolgimento del processo, e quindi che siano poste nel superiore interesse del buon funzionamento della giustizia, si dovrebbe rispondere di sì. Questa seconda lettura è preferibile, sia in chiave di ragionevole durata del processo che nell’ottica della responsabilità delle parti, ciascuna delle quali si deve confrontare con le norme e non con l’eventuale inerzia dell’avversario.

42. LO SVOLGIMENTO DELL’ISTRUTTORIA. I MEZZI DI PROVA. I. Le decisioni del giudice sullo svolgimento dell’istruttoria. Alla fine dell’udienza di trattazione e decorsi i successivi termini di trenta, ancora trenta e venti giorni, il giudice ha completamente chiari sia l’estensione della materia del contendere sia le richieste di indagini istruttorie formulate dalle parti. Resta possibile, ovviamente, l’applicazione dell’art. 153 sulla rimessione in termini ma,

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nella fisiologia delle controversie, tutte le istanze delle parti sono sul tavolo. Davanti al giudice si apre ora un bivio. Egli può ritenere che la causa sia già matura per la decisione (su tutta la materia del contendere o su parte di essa) e, in tal caso, applica l’art. 187 c.p.c.: come meglio si vedrà, egli invita le parti a precisare le conclusioni e si prepara a decidere la causa. Così avviene, se la questione è di puro diritto o non c’è bisogno di prove costituende (per le quali è necessario un procedimento di assunzione): il giudice evita la fase della trattazione probatoria. Ciò può accadere anche quando egli ritiene di dover decidere su questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito. Elemento comune a tutte queste ipotesi è la mancanza di necessità di dare luogo ad istruttoria. Se, invece, la causa suppone un accertamento di fatti, che non possa esaurirsi attraverso il semplice esame delle prove documentali, il giudice apre la fase istruttoria (che costituisce il cuore della trattazione), in base agli artt. 183, commi 7°-10°, e 184. Al riguardo, il giudice, dopo il decorso degli eventuali termini di cui all’art. 183, comma 6°, fissa un’udienza apposita nella quale, nel contraddittorio delle parti, provvede sulle richieste istruttorie, disponendo l’assunzione di quelle ritenute ammissibili e rilevanti (art. 183, comma 7°). Si tratta dell’udienza regolata dall’art. 184 c.p.c.: secondo la norma, il giudice procede all’assunzione delle prove, salvo fissare un calendario più articolato, se tale attività non può esaurirsi in una sola udienza. Infatti, in base all’art. 81-bis disp. att. c.p.c., il giudice, sentite le parti, e tenuto conto della natura, dell’urgenza e della complessità della causa, fissa il calendario del processo con l’indicazione delle udienze successive e degli incombenti che verranno espletati. I termini fissati nel calendario possono essere prorogati, anche d’ufficio, quando sussistono gravi motivi sopravvenuti. La proroga deve essere richiesta dalle parti prima della scadenza dei termini. L’inosservanza delle scansioni temporali non ha conseguenze dirette sul processo, ma (in forza della modifica introdotta dalla l. n. 148 del 2011) può costituire violazione disciplinare per il difensore e per il giudice e, quanto al magistrato, può essere valutata negativamente nella progressione in carriera.


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Anche (e forse soprattutto) in questo caso, non di rado accade che il giudice non ammetta le prove direttamente nell’udienza regolata dall’art. 184, ma si riservi di decidere fuori udienza. Ne segue che, di fatto, all’udienza in questione normalmente non si comincia l’assunzione delle prove. Piuttosto, all’udienza o con l’ordinanza riservata fuori udienza, il giudice, al contempo, indica le prove che intende assumere, fissa un’ulteriore udienza per questo scopo ovvero, in casi di maggiore complessità, stabilisce il calendario del processo. È opportuno notare che le parti, nel formulare le rispettive richieste istruttorie, seguono precisi percorsi argomentativi: l’indagine coerente con le tesi dell’attore viene normalmente contrastata dal convenuto, che ne propone una diversa. Il contraddittorio fra le parti si realizza nello scambio delle memorie, di cui all’art. 183, comma 6°, ma anche nella discussione orale dinanzi al giudice nell’udienza ex art. 184. I mezzi di prova sono disposti non solo su richiesta di parte ma, nell’ottica del principio dispositivo attenuato, anche d’ufficio dal giudice. Secondo l’art. 183, comma 8°, nel caso di ammissione di mezzi di prova d’ufficio, ciascuna parte può dedurre entro un termine perentorio (fissato sempre nell’ordinanza di cui sopra) i mezzi di prova necessari in relazione a quelli assunti dal giudice, nonché depositare memoria di replica (rispetto alle richieste della controparte) nell’ulteriore termine fissato nella citata ordinanza. Si tratta di una chiara, ulteriore applicazione del principio del contraddittorio alla fase di ammissione delle prove. Con l’ordinanza che ammette le prove il giudice può in ogni caso disporre, qualora lo ritenga utile, il libero interrogatorio delle parti. A differenza dell’interrogatorio formale (strumento che tende a provocare la confessione della controparte), l’interrogatorio libero non è un vero mezzo di prova, ma piuttosto una modalità che dovrebbe agevolare il giudice nella migliore conoscenza della causa. Esso consiste in un colloquio informale fra il giudice e le parti personalmente presenti (seppure assistite dai rispettivi difensori). Regolato dall’art. 117 c.p.c., esso può apportare soltanto argomenti di prova. In pratica, l’uso di questa

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modalità sottintende l’idea che il giudice possa meglio capire la lite dialogando con le parti, senza lo schermo delle difese tecniche approntate (si suppone abilmente) dai difensori. Non a caso, esso viaggia di solito (così accade, ad esempio, nel rito del lavoro) insieme al tentativo di conciliazione giudiziale, giacché il primo suppone il secondo. Ora, nel processo ordinario, il giudice può disporre d’ufficio solo l’interrogatorio libero e non anche il tentativo di conciliazione; è evidente, però, che espletando l’uno si possono porre le premesse per l’altro. L’ordinanza che dispone sulle prove, se emessa fuori udienza, è comunicata alle parti con le consuete modalità. Durante la trattazione (ma soprattutto in relazione alla fase istruttoria) può trovare applicazione l’art. 153 sulla rimessione in termini. Non di rado, infatti, una parte potrà trovarsi nella necessità di portare sul tavolo del giudice elementi probatori di cui è venuta in possesso, ovvero che si sono formati, dopo la scadenza dei termini di preclusione. Per quanto riguarda lo svolgimento dell’istruttoria, ogni mezzo di prova è assunto secondo le regole specifiche di ciascuno, che si esamineranno nelle pagine successive. Prima di proseguire, però, occorre dare conto del fatto che la trattazione della causa si può svolgere in un numero indefinito di udienze. Se, da un lato, le esigenze di concentrazione e quelle di ragionevole durata del processo inducono ad ottenere che il giudizio si svolga in poche udienze (tutte e soltanto quelle necessarie per gli adempimenti richiesti da ogni singola causa), la prassi tende a utilizzare disposizioni contenute nel codice (in specie, gli artt. 81 e 82 disp. att. c.p.c.) per rallentare la trattazione, se talune esigenze extra processuali (ad esempio, lo svolgimento di trattative fra le parti, che potrebbero condurre ad un accordo) lo consigliano. In effetti il giudice può, anche su istanza di parte, differire la trattazione ad un’udienza successiva, senza che sia stata espletata alcuna attività processualmente utile: si parla, in tal caso, di udienze di mero rinvio. È superfluo precisare che una virtuosa prassi giudiziaria dovrebbe ridurre queste situazioni al minimo.


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II. La nozione di prova. A questo punto, è necessario sostare sul concetto di prova e di mezzo di prova. Il sillogismo giudiziale suppone che si accerti il fatto. Bisogna distinguere fra introduzione o allegazione dei fatti (attuata dalla parte, che ne ha il monopolio, in applicazione del principio di disponibilità della tutela giurisdizionale) e dimostrazione dei fatti. Le prove servono a dimostrare i fatti. La nozione di prova può essere riferita sia allo strumento con cui si apporta la dimostrazione dei fatti, sia all’esito di tale mezzo sul convincimento del giudice. Nel primo significato si parla di mezzo di prova; nel secondo, di risultato della prova. In modo più chiaro dell’italiano, la lingua inglese esprime il primo concetto con la parola evidence e il secondo con l’espressione proof. Nel processo, la verità non viene indagata in modo assoluto, ma in modo limitato. Al processo interessa essenzialmente accertare il diritto e definire il rapporto giuridico controverso: e questo spiega molti elementi della materia processuale, diversamente non intellegibili (come l’idea del giudicato che copre il deducibile). Questo accertamento, però, si fonda, anche e soprattutto per iniziativa delle parti, su fatti reali ed è opportuno avere presente che esiste una verità storica e che questa verità, in modo più o meno completo, può essere conosciuta ed acquisita al processo. Il giudice non è limitato ad un’indagine di verosimiglianza o di probabilità. È bene tenere presente che la verità storica (e tale, seppure di una storia solitamente minore, è la verità processuale) non si attinge sulla base di pure deduzioni razionali, ma attraverso una molteplicità di elementi indiziari, come testimonianze, documenti, riscontri. Ciò non toglie che di verità si tratti e che possa essere conosciuta. Per usare le parole di John Henry Newman nella sua teoria dell’assemblage of probabilities, una serie di verità probabili e distinte, ciascuna delle quali, se presa in modo isolato, non andrebbe oltre il livello della mera opinione, se prese tutte insieme per ciò che esse indicano possono fare giungere alla certezza. La credibilità del processo non si basa sul mero rispetto di un codice di percorso, tale per cui la decisione è valida perché ottenuta a seguito di certi

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procedimenti: vi è invece un obiettivo di verità, che il processo può conseguire, seppure incontrando limiti. Prima di tutto, vi sono limiti di iniziativa. Le parti sono libere nella loro iniziativa istruttoria, il giudice no: egli può introdurre prove d’ufficio solo in casi tassativi. Come si è visto, la distribuzione dei poteri di iniziativa istruttoria fra le parti e il giudice connota il modo di essere del processo: ispirato al principio dispositivo, se l’iniziativa è lasciata prevalentemente alle parti, ovvero a quello inquisitorio, se l’iniziativa è affidata sia alle parti che al giudice. È appena il caso di sottolineare che non sarebbe logicamente immaginabile (dato il monopolio della tutela giurisdizionale in capo alle parti) che soltanto il giudice potesse attivarsi a cercare le prove. L’esperienza della maggior parte degli ordinamenti moderni affida un ruolo attivo al giudice. Questa osservazione va però posta in collegamento con il profilo della gestione delle risorse: non è affatto detto che un giudice con molti poteri istruttori li eserciti intensamente; di solito, preferirà concentrare la sua attività su alcuni aspetti indispensabili ai fini della decisione. L’ordinamento italiano affida al giudice nel rito ordinario poteri istruttori d’ufficio in casi tassativi. Il giudice può disporre di sua iniziativa: a) la consulenza tecnica; b) l’interrogatorio libero delle parti; c) l’ispezione; d) l’esibizione dei libri contabili; e) la richiesta di informazioni alla p.a.; f ) il giuramento suppletorio ed estimatorio; g) l’audizione del testimone di riferimento o, se giudice monocratico, la prova testimoniale: su questi aspetti si ritornerà in relazione ai singoli mezzi di prova. Diverso è invece l’atteggiamento nel rito del lavoro, dove al giudice è affidata una generale capacità di iniziativa istruttoria, salvo talune eccezioni. È bene rilevare subito, però, che il giudice attivo non può uscire dai limiti della materia del contendere tracciati dalle parti. Infatti, il più volte ricordato principio della disponibilità della lite in capo alle parti lascia a queste ultime il compito di fissare la materia del contendere, e il giudice è vincolato ai fatti dedotti in causa. Vi sono poi limiti di modalità. Secondo il criterio formale che regola il processo, la prova può essere data solo secondo certi metodi e certe forme: vi è, insomma, una tipicità dei mezzi


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di prova. In altre parole, l’accertamento non può avvenire con modalità libere, ma seguendo certi percorsi preconfezionati. L’ordinamento italiano conosce, pertanto, un numerus clausus di modalità probatorie. Questa tipicità non solo esclude mezzi di prova non legalmente previsti, ma anche l’introduzione di mezzi di prova tipici ma assunti con modalità diverse da quelle della legge. Ad esempio, una prova testimoniale (dichiarazione di scienza di un terzo) è di solito assunta oralmente e in contraddittorio. Se si raccoglie la deposizione scritta di un terzo (salvi i casi di testimonianza scritta ammessi dal codice, di cui si dirà più avanti), si apporta materiale istruttorio con modalità non consentite. Così pure, se si raccolgono prove in un dato processo, non è automatico trasferirle in giudizio diverso, anche fra le stesse parti, perché nel secondo processo non verrebbe attuata la prova secondo le modalità di legge, ma solo inserito il documento che è stato redatto nel primo (si pensi al verbale che contiene la deposizione di un testimone: portare in giudizio il verbale non è la stessa cosa di portare il testimone davanti al giudice). Sul valore di questo materiale, si apre il problema delle c.d. prove atipiche. La prova atipica è generalmente un documento, che raccoglie un dato istruttorio, che invece dovrebbe essere introdotto con modalità costituende. Sull’efficacia delle prove atipiche la dottrina discute, giungendo fino ad ammettere, secondo la tesi preferibile, che esse abbiano efficacia di elemento in una catena presuntiva. In effetti, in un quadro dominato dal libero convincimento del giudice e della ricerca, per quanto possibile, della verità sostanziale, si devono vedere con favore tutte le forme di impiego costruttivo dei risultati dell’istruttoria. Infine, vi sono limiti di tempo, come si è visto: esiste un termine finale che preclude ogni attività istruttoria successiva. La prova possibile è quella che viene dedotta e raccolta entro questo spazio temporale. Se vi fosse una prova, sia pure decisiva, che la parte ha omesso di dedurre e se si forma il giudicato, la certezza (falsa) che il processo ha conseguito impedisce il raggiungimento della verità.

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III. Mezzi di prova precostituiti e costituendi. I mezzi di prova si possono distinguere in precostituiti e costituendi. Sono precostituiti i mezzi di prova che nascono fuori dal processo e con una funzione autonoma e del tutto indipendente dalla lite. Normalmente, si tratta di elementi documentali. Se A e B stipulano un contratto scritto, quel contratto ha una specifica finalità economica e commerciale: il contratto non viene concluso pensando alla controversia, ma in vista della sua applicazione fisiologica. Se, però, poi sorge una lite, il documento contrattuale sarà utilizzabile per provare le obbligazioni che ciascuna delle parti si era assunta. Entrando nel processo, quel documento è una prova precostituita. Invece, sono costituendi i mezzi di prova (per tutti, si pensi alla testimonianza) che hanno vita nel processo e con una finalità direttamente collegata al processo. Solo eccezionalmente si ammette che talune prove siano raccolte fuori e prima del processo e, se ciò accade, le modalità devono comunque essere coerenti con quelle che tale indagine avrebbe all’interno del processo. È utile notare che diverse sono le modalità di introduzione nel processo dei diversi mezzi di prova. La prova precostituita o documentale non ha bisogno se non di un inserimento fisico nel fascicolo della parte; al contrario, il mezzo di prova costituendo deve essere espletato nel processo e richiede modalità organizzative apposite: normalmente un’udienza, con la partecipazione del giudice, dei difensori e dei soggetti in grado di apportare le informazioni. I mezzi di prova costituendi sono la confessione, il giuramento, la prova testimoniale, l’ispezione, l’esibizione, la richiesta di informazioni alla p.a., la consulenza tecnica (quest’ultima, con le precisazioni che si daranno). In questo senso, l’istruttoria può essere definita come il complesso delle attività volte alla raccolta del materiale probatorio. IV. Il diritto alla prova. Ci si può chiedere se nell’ordinamento italiano sussista un diritto alla prova.


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Il successo di chi promuove l’azione consiste nell’accoglimento della domanda, in quanto fondata in diritto e – qui sta il punto – costruita su fatti non solo veri, ma dimostrabili. Come si è accennato parlando di onere della prova, non basta che i fatti fondino il diritto che si vuole fare valere, ma occorre che questi fatti siano provati. Ecco allora che vi sarebbe un grave limite alla tutela giudiziaria dei diritti se non vi fosse la facoltà di provare i fatti e già si è osservato che il diritto alla prova è uno dei profili irrinunciabili del diritto di difesa e del giusto processo. In questo senso, la parte che ha l’onere di provare determinati fatti ne ha anche il diritto. Inoltre, sui medesimi fatti, si può ragionevolmente verificare la situazione in cui vi sono due versioni confliggenti: così, se l’attore può cercare di provare che un certo fatto si è svolto secondo date modalità, il convenuto ha a sua volta il diritto di provare che non può essersi svolto, perché incompatibile con altri fatti che si offre di provare, ovvero che si è svolto con modalità diverse. Si innesta qui il fenomeno della prova contraria, o controprova, di cui si è già detto: ogni parte può contrastare le tesi in fatto dell’altra, apportando al giudice materiale di convincimento in senso opposto. È a questo elemento che si riferisce l’art. 183, comma 6°, c.p.c., quando riserva alla terza memoria prevista dalla norma le sole indicazioni di prova contraria. Tuttavia, il sistema istruttorio italiano non permette alla parte, come si è visto, di dimostrare i fatti in qualsiasi modo, ma la obbliga a utilizzare certi strumenti, secondo certe modalità ed entro certi tempi. Ora, la necessaria imperfezione di queste modalità opera in modo diverso a seconda che la parte detenga o no la fonte della prova. Si pensi alla prova documentale. Altro è che la parte possieda o possa diligentemente procurarsi i documenti a sostegno delle proprie tesi, e allora il farlo o il non farlo (e quindi, vincere o perdere la causa) rientra nel principio di responsabilità. Altra cosa, invece, è che la parte non possa, materialmente o giuridicamente, disporre di quei documenti, che si trovano in mano di terzi, oppure della controparte, che ovviamente non ha alcun interesse a produrli. Uno scenario ancora diverso si ha quando la parte suppone,

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oppure anche sa positivamente, che un documento esiste, ma non ne conosce l’ubicazione materiale. Da questo profilo, se il processo fosse pienamente ispirato al principio della verità materiale, si dovrebbe parlare di un pieno diritto alla prova, inteso anche come facoltà, assistita dal potere giudiziario, di cercare e attingere alle fonti di prova. In realtà il nostro ordinamento, ancorato all’idea di certezza, sostiene questa ricerca solo debolmente. L’esibizione, la richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione, l’ispezione, sotto certi aspetti anche la consulenza tecnica, sono mezzi in qualche misura destinati a questo scopo, ma largamente imperfetti. Del resto, non si deve mai dimenticare la natura contraddittoria del processo civile: la domanda dell’attore è proposta contro il convenuto che, legittimamente, non è tenuto a fornire alla sua controparte documenti rilevanti che questa non possiede o non conosce. Si deve tenere in conto, poi, la posizione dei terzi che, seppure estranei alla controversia, possono avere legittimi diritti a non divulgare determinate informazioni. È agevole pensare alla tutela della privacy, alla protezione della riservatezza, al segreto professionale o commerciale. Per questo, è difficile proporre metodi che riescano a tenere nel giusto equilibrio tutte le diverse esigenze. I sistemi anglosassoni, particolarmente sensibili al tema del fatto e della prova nel processo, conoscono istituti di particolare efficacia, come la c.d. discovery, che – in estrema sintesi – consiste nella facoltà per una parte, talora anche prima del processo, di attuare forme molto invasive di ricerca delle fonti di prova. Si tratta di metodi che rimangono però estranei alla tradizione, non solo italiana, ma europea continentale.

43. AMMISSIBILITÀ, RILEVANZA E VALUTAZIONE DELLE PROVE. I. Ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova. Come si è visto, il punto nodale dell’intervento del giudice in materia di prove è dato dalla determinazione dei mezzi istruttori ammissibili e rilevanti. Su questo aspetto è necessario sostare brevemente.


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Non ogni indagine è possibile nel processo. Due sono i principali limiti: un limite di metodo (vale a dire, se un dato mezzo di prova può essere legittimamente introdotto in giudizio) e un limite di utilità (vale a dire, se quel certo mezzo di prova, astrattamente ammissibile, sia in concreto utile, rispetto alle date circostanze di quel processo). Rispetto al primo limite, si ha un giudizio di ammissibilità del mezzo di prova. Al riguardo, si applicano le regole che il codice civile e, in misura minore e residuale, il codice di procedura civile dettano in relazione ai singoli mezzi di prova tipici. Il giudice, a cui le parti richiedono di compiere una data indagine istruttoria, deve prima verificare che il mezzo di prova richiesto sia ammissibile. Ad esempio, il codice civile limita l’esperibilità della prova testimoniale in rapporto ai documenti scritti e la esclude quando la prova scritta sia richiesta ad probationem ovvero ad substantiam. Ne segue che la richiesta di una parte di sentire un testimone su una circostanza oggetto di una pattuizione contrattuale scritta sarà ritenuta dal giudice ammissibile o no, in applicazione delle specifiche regole. Rispetto al secondo limite, si ha invece un giudizio di rilevanza, che risponde alla domanda sull’utilità del mezzo di prova proposto rispetto all’accertamento delle circostanze concrete del processo e all’oggetto della materia del contendere. Il principio di ragionevole durata del processo e quello di economia processuale trovano qui un ulteriore terreno di coltura. Sul piano della rilevanza, il confronto è fra la linea logico-giuridica di ognuna delle parti e quella che il giudice comincia a formarsi: non vi è ancora la decisione, ma certo il giudice comincia a prendere taluni orientamenti. Così, certo non sono rilevanti le richieste di prove che, in sé, non sono coerenti con la tesi della parte che le richiede; ma non lo sono neppure quelle che appaiono estranee nella prospettiva del giudice, in via di formazione. Sotto un diverso punto di vista, la rilevanza va considerata rispetto al complesso dei mezzi di prova indicati. Se, ad esempio, di un dato fatto esiste una chiara prova documentale, la prova testimoniale, tendente a dar dimostrazione di quel medesimo fatto, non è rilevante.

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La valutazione di ammissibilità e rilevanza si attua per tutti i mezzi di prova: sia per quelli che suppongono un’attività processuale apposita per la loro formazione, cioè i mezzi di prova costituendi, sia per quelli che invece devono essere soltanto materialmente acquisiti al fascicolo (i mezzi di prova precostituiti: come detto, essenzialmente, i documenti). Tuttavia, mentre per i mezzi precostituiti la valutazione avviene ex post (vale a dire, essi vengono acquisiti agli atti e poi il giudice deciderà se utilizzarli o no ai fini della decisione), per i mezzi costituendi (che suppongono un’attività processuale intensa) il giudizio avviene ex ante. La valutazione di ammissibilità e di rilevanza deve essere compiuta sia per le richieste istruttorie presentate dalle parti, sia per i mezzi di prova che il giudice pensa di assumere d’ufficio: il potere di iniziativa, che gli viene affidato dalla legge, non dispensa certo il giudice dal verificare se quelle prove sono ammissibili, e potranno quindi essere utilizzate legittimamente, e se sono rilevanti, e quindi utili al processo. È qui che si colloca la pronuncia ordinatoria del giudice che, espletate le attività previste dall’art. 183 c.p.c., decide quali mezzi di prova costituendi ammettere. È utile ripetere che ciascuna delle parti richiede l’ammissione di questo o quel mezzo di prova, in relazione al percorso logico-giuridico che si propone di compiere; ognuna di esse, inoltre, cerca di ostacolare il compimento dell’opposto percorso della controparte. Di qui, la necessità per il giudice di esaminare in contraddittorio le contrapposte tesi istruttorie. Va anche tenuto presente che il giudice, per definizione, decide sull’ammissione delle prove senza sapere se l’espletamento concreto di quel mezzo contribuirà o no, ed eventualmente in che senso, alla decisione della controversia. Per questo, dovrà governare le proprie scelte con molta cautela, ammettendo di solito anche le prove contrarie, proprio perché l’accertamento dei fatti passa, anche in sede istruttoria, attraverso la dialettica fra le parti. L’ordinanza che decide sulle prove contiene una sintetica motivazione. Da un lato, il giudice deve in qualche modo dare conto delle sue scelte, anche in rapporto ad una complessiva visualizzazione della causa: ad esempio, un certo mezzo di prova può essere rilevante


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all’interno di un certo percorso e non rilevante se invece il giudice intende imboccare una strada diversa. Nel contempo, si ha cura che questa motivazione non riveli più di tanto la soluzione che il giudice (sia pure prima di avere raccolto le prove) comincia ad intravedere. II. L’assunzione dei mezzi di prova. Si tratta, a questo punto, di assumere i mezzi istruttori (ascoltare i testimoni, espletare un sopralluogo e via dicendo). Il codice detta una serie di regole specifiche per l’assunzione della prova. L’idea di fondo è quella della c.d. contestualità nell’espletamento delle prove: ciò significa che i mezzi di prova dovrebbero essere attuati, per quanto possibile, dinanzi al medesimo giudice, inteso come persona fisica, e in un lasso temporale ristretto. L’art. 202 c.p.c. auspica che i mezzi di prova siano assunti nella stessa udienza in cui vengono ammessi; se ciò non è possibile, il giudice istruttore stabilisce il tempo, il luogo e il modo dell’assunzione. Se la raccolta delle prove non si esaurisce nell’udienza fissata, il giudice ne differisce la prosecuzione ad un giorno prossimo. È appena il caso di avvertire che la prassi attuale dei tribunali italiani rende questo obiettivo molto difficoltoso: non di rado, le prove di una causa vengono raccolte nel tempo, con comprensibili inconvenienti. Il codice affronta, poi, il problema di come raccogliere le prove quando le si debba assumere al di fuori della circoscrizione del tribunale. Si pensi ad un testimone che abita molto lontano, oppure ad un’ispezione di luoghi che debba effettuarsi in altra sede. Il giudice potrebbe trasferirsi personalmente, ma a ciò ostano aspetti organizzativi (se è in trasferta, non può svolgere il lavoro in sede): quindi, l’assunzione diretta è ammessa solo se le parti lo richiedono concordemente e il presidente del tribunale lo consente. Di solito in questi casi l’assunzione della prova viene affidata (tecnicamente, si dice delegata) ad un altro magistrato della circoscrizione in oggetto. In base all’art. 203 c.p.c., la delega avviene con un’ordinanza in cui il giudice delegante indica la prova da espletare, fissa il termine entro il quale la prova deve essere assunta e la successiva udienza, dinanzi a sé, in cui le parti dovranno comparire per la prosecuzione del giudizio.

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Il giudice delegato, su istanza della parte interessata, procede all’assunzione del mezzo di prova e d’ufficio ne rimette il processo verbale al giudice delegante prima dell’udienza fissata per la prosecuzione del giudizio, anche se l’assunzione non è esaurita. Le parti possono rivolgere al giudice delegante, direttamente o a mezzo del giudice delegato, istanza per la proroga del termine. III. L’assunzione delle prove all’estero. La questione si complica ulteriormente quando la prova debba essere assunta al di fuori del territorio italiano. Infatti, si tratta di svolgere attività giurisdizionale, come è certo quella di espletare prove, nella sfera di sovranità di un altro ordinamento. La materia è regolata da convenzioni internazionali multilaterali (importante quella dell’Aia del 1970), da convezioni bilaterali concluse da Stato a Stato e, nell’ambito dell’Unione europea, dal regolamento n. 1206 del 2001 dedicato all’assunzione delle prove all’estero. L’attività con cui il giudice italiano richiede la collaborazione di un giudice straniero prende il nome di rogatoria (art. 204 c.p.c.). Il regolamento n. 1206 del 2001 merita un cenno per il carattere fortemente innovativo di talune disposizioni. In specie, va notato che ognuna delle parti è autorizzata ad essere presente, anche dinanzi all’autorità giudiziaria di un paese diverso da quello in cui si svolge il processo e che il giudice di ogni Stato (sia pure a talune condizioni e, in specie, a patto di non dover esercitare poteri autoritativi) può recarsi nel territorio di un diverso Stato dell’Unione per raccogliere personalmente la prova. L’audacia di questo testo è purtroppo limitata, nella pratica, da problemi di tempi e di costi, che rendono spesso preferibile affidare la raccolta della prova al giudice straniero, recependone l’esito nel paese di provenienza. IV. Profili procedurali dell’assunzione dei mezzi di prova. L’assunzione avviene secondo modalità diverse per ogni mezzo di prova, ma sotto il controllo del giudice. Il giudice (anche quello


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delegato) ha il potere di risolvere con ordinanza tutte le questioni che possono insorgere nel corso dell’assunzione (art. 205 c.p.c.). La prova (ed è un’altra regola generale) è normalmente assunta nel contraddittorio delle parti: non solo gli avvocati, ma anche le parti personalmente possono assistere (art. 206 c.p.c.). Può accadere che un certo mezzo di prova sia ammesso, ma poi non sia assunto (ad esempio, un testimone può risultare irreperibile). Inoltre, anche il principio dell’impulso di parte gioca il suo ruolo. Infatti, secondo l’art. 208 c.p.c., se la parte che ha domandato l’assunzione o la prosecuzione di una prova non compare all’udienza, il giudice istruttore la dichiara decaduta dal diritto di farla assumere, salvo che l’altra parte presente non ne chieda l’assunzione. La parte interessata può chiedere nell’udienza successiva al giudice la revoca dell’ordinanza che ha pronunciato la sua decadenza dal diritto di assumere la prova. Il giudice dispone la revoca con ordinanza quando riconosce che la mancata comparizione è stata provocata da una causa non imputabile alla stessa parte. I risultati dell’assunzione dei mezzi di prova costituendi (che può richiedere varie udienze) sono raccolti in un processo verbale, sotto la direzione del giudice. L’art. 207 c.p.c. aggiunge che le dichiarazioni delle parti e dei testimoni sono riportate in prima persona e sono lette al dichiarante e che il giudice, quando lo ritiene opportuno, nel riportare le dichiarazioni descrive il contegno della parte e del testimone. Per facilitare la diretta redazione telematica del verbale, è stata abrogata la previgente disposizione che prevedeva obbligatoriamente la sottoscrizione dei dichiaranti. Quando tutti i mezzi di prova ammessi sono stati espletati, o comunque non è possibile espletarne alcuni, ovvero la parte che ne aveva interesse è decaduta, oppure infine quando i risultati già raggiunti rendono superflua ogni ulteriore attività, il giudice con ordinanza dichiara chiusa l’istruttoria (art. 209 c.p.c.). V. La valutazione degli esiti dell’istruttoria. Al momento della decisione, il giudice accerterà i fatti per come risultano provati, secondo il principio del libero convincimento (tranne i casi delle prove c.d. legali).

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Si distingue fra prove dirette e prove indirette, a seconda del rapporto che si instaura fra la percezione del giudice e il fatto da provare. È prova diretta quella che instaura un rapporto immediato fra il giudice e il fatto, perché ha ad oggetto in via immediata il fatto da provare: ad esempio, è questo il caso dell’ispezione di un luogo oppure di un documento che incorpora il dato giuridico rilevante. È prova indiretta quella che mette il giudice a contatto con un elemento, che a sua volta richiama il fatto, che quindi non viene percepito direttamente: ad esempio, il racconto di un testimone. Ora, un fatto può essere ritenuto provato non solo quando se ne abbia una prova diretta, ma anche quando la sua verità sia desumibile attraverso un ragionamento logico che, partendo da fatti acquisiti, consenta di inferire anche il fatto da provare. Si parla in questo caso, come già anticipato, di presunzioni (artt. 2727-2729 c.c.). Vale la pena ripetere che, sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti (art. 2729 c.c.) il giudice può decidere la causa; identica efficacia, invece, non è attribuita ai meri argomenti di prova. È utile aggiungere che talune norme attribuiscono al giudice il potere di desumere argomenti di prova dal comportamento delle parti (ad esempio, non essersi presentata a rendere l’interrogatorio libero). È un tentativo di sanzionare comportamenti che, nei fatti, ostacolano la ricerca della verità processuale. Il carattere razionale della ricostruzione dei fatti e della valutazione delle prove, affidata al giudice, comporta ovviamente la possibilità di errori: la parte insoddisfatta può farne oggetto di motivo d’appello. Occorre, a questo punto, guardare più da vicino i singoli mezzi di prova previsti dall’ordinamento, a cominciare dalla prova testimoniale.

44. LA PROVA TESTIMONIALE. I. Nozione e limiti di ammissibilità. La prova testimoniale consiste nella dichiarazione di scienza e verità, resa da un soggetto terzo, relativa a fatti oggetto della controversia. È una prova tanto consueta quanto incerta. È comune


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esperienza che, ponendo un fatto sotto gli occhi di più persone, e chiamandole poi a riferire quanto hanno visto, si avranno, in assoluta buona fede, altrettanti racconti con qualche particolare diverso. Inoltre, il testimone deve riferire fatti, non giudizi. Eppure, della prova testimoniale spesso non si può fare a meno. Per questo, il legislatore la circonda di molte cautele. Da un lato, il codice civile si incarica di limitarne l’operatività; dall’altro, il codice di procedura civile ne detta le modalità di espletamento. Dal primo profilo, va detto che il diritto sostanziale esprime la ragionevole diffidenza del legislatore nei confronti del testimone: e ciò non solo perché il testimone potrebbe mentire (benché la veridicità della deposizione giudiziaria sia da sempre il paradigma etico della veracità, a partire dal precetto biblico di Esodo, 20, 16, “non dire falsa testimonianza contro il tuo prossimo”), ma anche e soprattutto perché il teste, sia pure in piena buona fede, potrebbe confondersi, dimenticare, sbagliare. Pertanto, oltre ad un limite di valore fissato all’art. 2721 c.c. (di scarso rilievo, perché sempre superabile dal giudice, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza, come previsto dal comma 2° della norma), vi è un severo controllo tutte le volte che il teste dovrebbe smentire qualcosa, che invece viene affermato da un documento. Se si chiede al testimone di affermare l’esistenza di patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento: a) la prova è inammissibile se, in tesi, si affermi che i patti sono stati stipulati prima o contemporaneamente al documento scritto, perché ragionevolmente tali patti avrebbero potuto essere inseriti nel documento (art. 2722 c.c.); b) è invece ammissibile se, in tesi, si affermi che il patto è stato stipulato successivamente al documento, qualora, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali (art. 2723 c.c.). Così pure, la prova testimoniale non è ammissibile (art. 2725 c.c.) se il contratto richiede la forma scritta a pena di nullità (ad substantiam) o come unico modo per dare prova del relativo contenuto (ad probationem). Nel contempo, occorre governare i casi, in cui la conferma di un testimone è l’unico modo per la parte in buona fede di tutelare i

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suoi diritti. Così, l’art. 2724 c.c. sancisce che la prova per testimoni è ammessa in ogni caso: 1) quando vi è un principio di prova per iscritto (costituito da qualsiasi scritto, proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda o dal suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato); 2) quando il contraente è stato nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta; 3) quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova. Tuttavia, se occorre la prova scritta ad probationem o ad substantiam, l’unica eccezione consentita è quella della perdita incolpevole del documento. Nel sistema italiano, a differenza di quanto accade nel contesto anglosassone, il testimone è rigorosamente terzo: la parte non può testimoniare, anche se il giudice può sentirla a mezzo dell’interrogatorio libero. L’art. 246 c.p.c. precisa che non possono essere assunti come testimoni le persone che hanno un interesse in causa, tale da legittimarne la partecipazione al processo: non può testimoniare, quindi, chi potrebbe essere parte, anche se di fatto non lo è. L’individuazione dell’interesse che esclude la capacità a testimoniare ha dato vita ad una vasta casistica. Ad esempio, non può testimoniare il coniuge in regime di comunione dei beni, perché l’acquisto o il detrimento patrimoniale dell’altro coniuge, conseguenti al processo, avrebbero effetto anche su di lui. Così pure, non può testimoniare il socio di società di persone nella causa che vede coinvolta la società. Invece, può testimoniare chi ha un interesse, non solo morale, ma anche patrimoniale rispetto all’esito della causa: il socio in affari può testimoniare in una causa dell’altro socio, non relativa alla società; può testimoniare un fratello, un figlio, il coniuge non in regime di comunione (dopo la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 247, che vietava la testimonianza dei parenti). Qui, sarà poi il giudice a valutare la credibilità del teste, secondo il suo prudente apprezzamento. II. L’ammissione della prova testimoniale. Vediamo ora le regole procedurali sull’ammissione della prova testimoniale. L’art. 244 c.p.c. stabilisce che la prova per testimoni deve essere dedotta mediante indicazione specifica delle persone da


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interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata. Questo significa che non si possono indicare genericamente persone a conoscenza dei fatti di causa, ma occorre indicare su quali fatti si chiede che venga ascoltato il testimone, e stabilire una precisa correlazione fra fatti e testimoni. Ad esempio, la parte chiederà al giudice che il teste A venga sentito a conferma del fatto X e che i testimoni B e C vengano sentiti a conferma del fatto Y. Questa correlazione è posta a garanzia del diritto di difesa dell’altra parte. Una deduzione non corretta di una prova testimoniale comporta, per effetto del regime delle preclusioni, la decadenza dalla possibilità di ottenerne l’assunzione; se poi la prova venisse assunta in violazione delle regole, ne deriverebbe la nullità del mezzo istruttorio. Il testimone, anche se indicato da una sola delle parti, diventa comune anche alle altre. In realtà, la parte ignora che cosa il testimone effettivamente dirà, o se si ricorderà esattamente dei fatti. L’art. 245 c.p.c. chiarisce che la rinuncia fatta da una parte all’audizione dei testimoni da essa indicati non ha effetto se le altre non vi aderiscono e se il giudice non vi consente. In materia di prova testimoniale vi sono significativi poteri d’ufficio del giudice. In base all’art. 281-ter, il giudice monocratico può disporre d’ufficio la prova testimoniale, formulandone egli stesso i capitoli, quando le parti nell’esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità. In ogni caso (e quindi anche nei casi di composizione collegiale), se qualcuno dei testimoni si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice istruttore può disporre d’ufficio che esse siano chiamate a deporre. Così stabilisce l’art. 257, a proposito del c.d. testimone di riferimento. Così pure, all’inverso, il giudice, oltre ad escludere i testimoni che non possono essere sentiti per legge (ad esempio, perché incapaci a deporre avendo interesse nella causa), può ridurre le liste dei testimoni sovrabbondanti (art. 245 c.p.c.). Nel contempo, può anche ordinare successivamente che siano sentiti i testimoni dei quali, in un primo tempo, ha ritenuto superflua l’audizione o dei quali ha consentito la rinuncia; e del pari può disporre che siano

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nuovamente esaminati i testimoni già interrogati, al fine di chiarire la loro deposizione o di correggere irregolarità che siano avvenute nel precedente esame. III. La testimonianza scritta. Non sempre le informazioni rese dai testimoni sono così importanti da giustificare l’impiego delle preziose energie del giudice. Ancora una volta, il processo civile si misura con il problema delle risorse e tenta di percorrere strade di semplificazione: e, ancora una volta, si rischia di mettere a repentaglio qualche aspetto cardine del processo. La riforma del 2009 ha introdotto la possibilità che la testimonianza non sia raccolta oralmente, con le modalità che si sono appena descritte, ma per iscritto. Tuttavia, il rischio di ledere il contraddittorio nell’assunzione della prova (visto che il testimone confeziona la sua risposta nella quiete domestica) ha indotto a limitare questa facoltà con una serie tale di contrappesi da rendere praticamente inefficace l’innovazione. Fortemente depotenziato in Italia, il metodo della testimonianza scritta è invece più incisivamente praticato in altri paesi a noi vicini, come Francia e Germania. Secondo l’art. 257-bis c.p.c., il giudice, su accordo delle parti, tenuto conto della natura della causa e di ogni altra circostanza, può disporre di assumere la deposizione chiedendo al testimone di fornire, per iscritto e in un termine fissato, le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato. Il giudice, con il provvedimento di ammissione, dispone che la parte che ha richiesto l’assunzione predisponga l’apposito modello di testimonianza (regolato dal d.m. 17 febbraio 2010) e lo faccia notificare al testimone. Il testimone, prosegue la norma, rende la deposizione compilando il modello di testimonianza in ogni sua parte, con risposta separata a ciascuno dei quesiti, e precisa quali sono quelli cui non è in grado di rispondere, indicandone la ragione. Sottoscrive poi la deposizione apponendo la propria firma autenticata su ciascuna delle facciate del foglio di testimonianza, che spedisce in busta chiusa con plico raccomandato o consegna alla cancelleria del giudice. Un’ulteriore semplificazione è prevista quando la testi-


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monianza abbia ad oggetto la mera conferma di documenti di spesa già depositati dalle parti (ad esempio, il teste conferma la veridicità di una fattura che egli ha emesso). In tal caso, la testimonianza può essere resa mediante dichiarazione sottoscritta dal testimone e trasmessa al difensore della parte nel cui interesse la prova è stata ammessa, senza il ricorso al modello di cui si è detto. In ogni caso, il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui. IV. L’assunzione e la valutazione della prova testimoniale. Il testimone è un terzo, che va chiamato a deporre; è un terzo che con la sua dichiarazione di scienza e verità, su fatti di cui è al corrente, per averli appresi direttamente, adempie ad un dovere civico di solidarietà. Perciò, egli deve essere intimato, su istanza di parte, a comparire davanti al giudice e la sua mancata presenza deve essere sanzionata. L’intimazione avviene secondo modalità regolate dall’art. 250 c.p.c. Di regola, è l’ufficiale giudiziario che, su richiesta della parte interessata, intima ai testimoni ammessi dal giudice istruttore di comparire nel luogo, nel giorno e nell’ora fissati, indicando il giudice che assume la prova e la causa nella quale debbono essere sentiti. Tuttavia, per ragioni di semplificazione, è stato previsto che l’intimazione al testimone a comparire in udienza possa essere anche effettuata dal difensore, con lettera raccomandata con avviso di ricevimento o a mezzo di telefax o posta elettronica certificata. Dovrà poi essere data al giudice prova dell’effettivo invio e della ricezione dell’intimazione. Chiamare il testimone, ammesso dal giudice, a deporre in causa è onere delle parti. L’applicazione delle regole sull’impulso di parte comporta che (secondo l’art. 104 disp. att. c.p.c.) se la parte, senza giusto motivo, non fa chiamare i testimoni davanti al giudice, questi la dichiara decaduta dalla prova anche d’ufficio, salvo che l’altra parte dichiari di avere interesse all’audizione: in quest’ultima ipotesi, l’onere di intimare il testimone si sposta sulla controparte. Se il

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giudice riconosce giustificata l’omissione, fissa una nuova udienza per l’assunzione della prova. È anche opportuno aggiungere che l’intimazione va inviata al testimone almeno sette giorni prima dell’udienza; la presenza fisica del teste all’udienza, però, sana ogni irregolarità al riguardo. In base all’art. 251 c.p.c., come riletto da alcune sentenze additive della Corte costituzionale, che hanno eliminato il precedente riferimento al valore religioso del giuramento, il giudice ammonisce il testimone sull’obbligo di dire la verità e sulle conseguenze penali delle dichiarazioni false o reticenti. Il testimone assume il correlativo impegno. Quindi oggi il testimone non giura. Si tenga presente che, nelle società antiche, il giuramento aveva il significato di chiamare Dio a garanzia di ciò che si affermava e che lo spergiuro aveva conseguenze molto gravi sul piano civile. Testimoniare è un dovere civico. Se il testimone non compare senza giustificato motivo, il giudice può disporne l’accompagnamento coattivo e infliggergli una sanzione pecuniaria (art. 255). Può accadere, poi, che il testimone si presenti, ma si rifiuti di giurare o di deporre, senza una ragionevole motivazione. Ancora, e forse più di frequente, il giudice può sospettare che il testimone non abbia detto la verità o sia stato reticente. In tutte queste situazioni, il teste può essere denunciato penalmente. Nella tradizione italiana, i testimoni non sono interrogati dagli avvocati delle parti ma dal giudice, e non in modo generico ma sui capitoli separati e specifici che le parti hanno dedotto e il giudice ha ammesso. Gli avvocati possono chiedere che il giudice rivolga al teste domande e richieste di chiarimenti e, naturalmente, il giudice può farlo anche di propria iniziativa (art. 253 c.p.c.). Di solito, l’ascolto dei testimoni avviene separatamente, e solo in via eccezionale può essere disposto il confronto di più testi (quando, ad esempio, le versioni date sul medesimo fatto siano clamorosamente difformi). Il punto operativo di maggiore difficoltà sta nella traduzione di ciò che il testimone riferisce oralmente in un testo scritto che figura nel verbale di udienza e che costituirà, nel tempo, l’unica traccia storica della deposizione. Il testimone, specie se autentico, non è di solito un giurista e racconta le circostanze in modo non sempre ordinato


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(almeno, in rapporto alle esigenze del processo). Che venga riportato a verbale un testo il più possibile aderente a ciò che il testimone ha affermato, è un’esigenza essenziale. Pur se prova di impiego comune, la testimonianza non è sempre efficace o decisiva. Il giudice – e questo punto è molto importante – ne valuta liberamente l’esito. Si pensi al seguente caso. La parte A induce tre testimoni che affermano il fatto X. La parte B induce un testimone solo, che nega il fatto X. Il giudice può venire convinto (per la qualità del teste o della sua deposizione) della non esistenza del fatto: basta che motivi congruamente nel provvedimento decisorio la sua determinazione. Oppure, potrà accadere che, di fronte a testimonianze discordanti, il giudice ritenga di non avere raggiunto alcuna prova: con la conseguenza che la parte, su cui ricadeva l’onere di provare un dato fatto, sopporterà le relative conseguenze.

45. LA CONSULENZA TECNICA. GLI ALTRI MEZZI DI PROVA COSTITUENDI. I. La consulenza tecnica. È sempre più frequente che nel processo sia necessario accertare fatti di notevole complessità tecnico-scientifica. Questa complessità sfugge al giudice, che conosce il diritto ma non è certamente in grado di avere conoscenze approfondite in altri settori del sapere, come la medicina, l’ingegneria, la contabilità e via dicendo. Il codice di procedura civile prevede che il giudice possa farsi assistere da un consulente tecnico. Il consulente tecnico (che, in quanto nominato dal giudice, viene denominato consulente tecnico d’ufficio, solitamente abbreviato in c.t.u.) è un tecnico esperto in una data materia, scelto in appositi albi (art. 61 c.p.c.). È un ausiliario del giudice, nel senso che opera sotto il controllo del giudice e deve rendere conto a questi della sua attività. Per questa sua posizione, il c.t.u. deve essere imparziale. L’art. 62 c.p.c. precisa che il consulente compie le indagini che gli sono affidate dal giudice e fornisce in udienza gli opportuni chiari-

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menti. In particolare, il giudice pone al c.t.u. i quesiti, vale a dire le specifiche domande tecniche per le quali vuole una risposta. Si discute se la consulenza tecnica sia un vero e proprio mezzo di prova. In realtà, certamente lo è; anzi, in molti casi diventa la prova decisiva. In teoria, il giudice non è vincolato da quello che il c.t.u. riferisce; in pratica, però, egli non ha mai la competenza tecnica necessaria per smentire o discostarsi dall’apporto del c.t.u. In questo senso, si parla di “prova scientifica” per intendere tutti quei casi in cui l’accertamento del fatto è possibile attraverso un particolare tipo di indagine o di analisi che richiede una competenza tecnicoscientifica specifica. La giurisprudenza suole distinguere fra consulenza tecnica percipiente o deducente. Nella prima, il c.t.u. avrebbe il compito di percepire, cioè di far emergere fatti, e sarebbe quindi mezzo di prova; nella seconda, invece, il c.t.u. dovrebbe soltanto rendere esplicite le conseguenze tecniche di fatti già accertati e pertanto non sarebbe mezzo di prova. La distinzione è fragile e criticabile: se soltanto gli occhiali dell’esperto permettono al giudice di leggere pienamente il significato del fatto, che, in sé, resterebbe non utilizzabile per la decisione, è chiaro che il c.t.u. trasforma un dato bruto in materia di convincimento per il giudice, vale a dire in prova. È interessante notare, a questo riguardo, che l’art. 191 c.p.c. prevede che il consulente tecnico sia nominato con l’ordinanza che ammette i mezzi di prova (art. 183, comma 7°), il che fa pensare ad una sostanziale inclusione della consulenza in questo novero. Del resto, in chiave europea, la perizia è comunemente inclusa negli elenchi dei mezzi di prova (così in Francia, Germania, Spagna e dinanzi ai giudici dell’Unione europea di Lussemburgo). La centralità del ruolo del c.t.u. fa sì che il contraddittorio fra le parti, che caratterizza il processo, si sposti dal terreno strettamente giuridico a quello tecnico. Le parti possono pertanto farsi assistere da periti di parte, che affiancano il c.t.u., così come gli avvocati esercitano la difesa dinanzi al giudice (art. 194, comma 2°, e 201 c.p.c.). Il perito di parte è persona che ha una preparazione tecnico-scientifica analoga a quella del c.t.u.: la differenza è soltanto di ruolo, nel senso che il c.t.u. è terzo e imparziale, mentre i periti di parte sono


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schierati a favore delle posizioni di coloro che li hanno nominati. Durante l’espletamento della consulenza, le parti possono rivolgere istanze e osservazioni al consulente, sia (più comunemente) a mezzo dei propri periti, sia a mezzo dei difensori. Non solo: la posizione del consulente deve essere di rigorosa terzietà e imparzialità, con la conseguenza (oltre a richiamare per il consulente ciò che si è detto a suo luogo per il giudice) che all’esperto si applicano gli istituti dell’astensione e della ricusazione (art. 192 c.p.c.). I periti di parte possono presentare relazioni autonome, specie se sono in dissenso con il c.t.u. Dal punto di vista delle parti, è indispensabile una stretta collaborazione fra il difensore e il perito di parte. Questa collaborazione si manifesta soprattutto nei seguenti aspetti: a) suggerimenti per la corretta formulazione tecnica del quesito (nel senso che il quesito è dato dal giudice, ma le parti possono concorrere con le loro proposte): se il quesito è posto male, ne risulta condizionata l’indagine; b) chiarezza di idee sugli obiettivi difensivi della parte e quindi sui punti che è opportuno emergano negli accertamenti e nella relazione del c.t.u. È importante che le indagini di tipo tecnico-scientifico, affidate al consulente, siano opportunamente coordinate con i profili di diritto nell’esame della controversia, che sono e restano di spettanza del giudice. Quindi il giudice, con l’ordinanza di nomina, deve anche specificare l’ambito di queste indagini. La legge usa l’espressione di “quesiti” per indicare i punti ai quali il consulente è chiamato a rispondere. II. Lo svolgimento della consulenza tecnica. L’incarico viene poi conferito al consulente in un’apposita udienza, di cui sono preventivamente informate sia le parti (nei modi già esaminati) che il consulente (in modo che questi possa effettivamente presentarsi). Nei tre giorni anteriori a questa udienza scade il termine per l’astensione o la ricusazione del consulente, anche se non si deve escludere una ricusazione successiva, qualora solo più tardi emergessero ragioni tali da mettere in dubbio l’imparzialità dell’esperto.

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All’udienza il consulente presta giuramento di adempiere bene e fedelmente le funzioni affidategli al solo scopo di fare conoscere ai giudici la verità (art. 193). Il giudice, poi, detta tutte le disposizioni necessarie al buon risultato dell’incarico, fissando fra l’altro il termine, seppure non perentorio e prorogabile, entro il quale esso dovrà essere espletato. Il giudice può autorizzare il consulente a compiere attività possibili solo per mandato dell’autorità giudiziaria, dato il carattere di invasività che le contraddistingue, quali chiedere informazioni a terzi o alle parti, ovvero accedere a pubblici uffici. Può accadere che durante lo svolgimento della consulenza il c.t.u. si imbatta in elementi probatori (per esempio, documenti) che nessuna delle parti aveva prodotto entro le scadenze preclusive. In giurisprudenza, si ritiene che l’acquisizione agli atti di questi materiali sia ammissibile solo se la relativa ricerca era stata prevista o autorizzata dal giudice, ovvero su concorde volontà di tutte le parti. Il risultato dell’attività del consulente consiste normalmente in una relazione scritta, che risponda alle domande (come detto, ai quesiti) che sono state poste dal giudice (art. 195 c.p.c.). La relazione deve essere trasmessa dal consulente alle parti costituite nel termine stabilito dal giudice con l’ordinanza ammissiva. Sempre con la medesima ordinanza, il giudice fissa il termine entro il quale le parti (di solito, a mezzo dei rispettivi periti) devono trasmettere al consulente le proprie eventuali osservazioni sulla relazione e il termine, anteriore alla successiva udienza, entro il quale il consulente deve depositare in cancelleria la relazione, le osservazioni delle parti e una sintetica valutazione su ciò che le parti hanno fatto notare. Si cerca, in questo modo, di costruire una specie di subprocedimento tecnico in contraddittorio, al termine del quale il consulente consegna al giudice una relazione che già tiene conto dei consensi e dei dissensi espressi dalle parti. All’interno di questo subprocedimento, si può notare che il giudice ha sempre la facoltà di disporre la rinnovazione delle indagini e, per gravi motivi, la sostituzione del consulente tecnico (art. 196 c.p.c.). Il codice prevede anche (ma l’applicazione di questa norma è rara) che il presidente del collegio, quando lo ritiene opportuno, inviti il consulente tecnico ad assistere alla discussione davanti al


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collegio e ad esprimere il suo parere in camera di consiglio in presenza delle parti, le quali possono chiarire e svolgere le loro ragioni per mezzo dei difensori (art. 197). Dinanzi al giudice monocratico, dove non vi è camera di consiglio, si può ritenere che il c.t.u. sia invitato a partecipare all’udienza orale di discussione, qualora venga adottato questo meccanismo di decisione della causa. Disposizioni apposite, su cui non ci si soffermerà, regolano il caso in cui la consulenza riguardi documenti contabili e registri (artt. 198-200 c.p.c.). III. La valutazione dei risultati della consulenza tecnica. Come si è accennato, l’esito delle valutazioni del consulente tecnico non sono vincolanti per il giudice, che se ne può discostare motivatamente. Tuttavia, la realtà è molto diversa. Prima di tutto, occorre avere chiaro come il sapere sia oggi estremamente parcellizzato. Il giudice ha soltanto una buona preparazione giuridica e, eventualmente, può essere approfondito (ma difficilmente a livello professionale) in qualcuno fra i mille rivoli del sapere tecnologico. Per il resto, il giudice serenamente ignora. Non sa leggere in modo scientifico un bilancio, non può fare analisi chimiche, non è in grado di definire una patologia, né di stimare seriamente un oggetto di valore, o stabilire se un trovato è imitazione servile di un altro. In tutti questi e in molti altri casi, il giudice è un volonteroso dilettante rispetto alla conoscenza dell’esperto. Ne segue che si può certo dire, in teoria, che il giudice è peritus peritorum ma, in pratica, egli si atterrà normalmente a ciò che il consulente d’ufficio gli riferisce. Non si tratta di un atteggiamento di comodo, ma della doverosa consapevolezza del giudice di non sapere, se non il diritto. Questo trasferisce, per molti aspetti di fatto, la battaglia giudiziaria fra gli avvocati nella battaglia giudiziaria fra i consulenti di parte: e riconferma le esigenze di imparzialità del consulente d’ufficio, sopra ricordate. Del resto, è giurisprudenza costante che non è sindacabile sul piano della legittimità una sentenza in cui il giudice abbia motivato

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la sua decisione, richiamando le conclusioni della relazione del consulente tecnico. Insomma, il giudice trova più sicurezza appoggiandosi sulle tesi tecniche dell’esperto, piuttosto che avventurandosi in una rischiosa confutazione. Il che, peraltro, rafforza l’idea che la consulenza sia un vero mezzo di prova. Vi è, però, un altro aspetto non secondario. Il consulente, a sua volta, è un tecnico esperto del suo settore, ma ignora il diritto. Sennonché, fatto e diritto sono mescolati: non esistono fattispecie giuridiche se non costruite su fatti concreti e ogni fatto è valutabile con criteri giuridici. Ora, il giudice, seppure tributario delle informazioni tecniche che riceve dal c.t.u., deve esercitare un rigoroso controllo sulle valutazioni giuridiche che, impropriamente, l’esperto (ma non giurista) è talvolta trascinato a compiere. Ad esempio, un c.t.u. chiamato a verificare le distanze fra due edifici dovrà dare al giudice misure in metri e centimetri, ma non dovrà mai scrivere (e se lo scriverà, il giudice dovrà non tenerne conto) che, quindi, un certo fabbricato è costruito in violazione delle norme del codice civile. Naturalmente, molto dipende da come sono stati formulati i quesiti e se, cioè, le domande tecniche rivolte dal giudice al c.t.u. sono puntuali e delimitate. In definitiva, occorre comprendere come il peso della relazione del c.t.u. sia molto spesso decisivo per l’esito del giudizio e come sia difficile sovvertirne il risultato in sede di impugnazione, non solo per i limiti intrinseci dei diversi mezzi di controllo, ma anche perché il giudice superiore è altrettanto in difficoltà nel discostarsi dalla valutazione dell’esperto, quanto quello di primo grado. In pratica, solo errori molto evidenti o gravi contraddizioni intrinseche possono aprire la strada ad una revisione della relazione, con affidamento ad un nuovo c.t.u. del relativo compito. IV. L’ispezione. Una delle prove dirette più efficaci (anche se non sempre materialmente realizzabile) è quella del contatto visivo fra il giudice e i luoghi, le cose o le persone a cui si riferisce la controversia. Questo contatto prende il nome tecnico di ispezione: reale, se riferita a luo-


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ghi e cose, o personale, se riferita a persone (circondata, quest’ultima, da ragionevoli cautele, volte a garantire il rispetto e la dignità del soggetto coinvolto). In base all’art. 118 c.p.c., il giudice può ordinare alle parti e ai terzi di consentire sulla loro persona o sulle cose in loro possesso le ispezioni che appaiano indispensabili per conoscere i fatti della causa, purché ciò possa compiersi senza grave danno per la parte o per il terzo, e senza costringerli a violare uno dei segreti tutelati nel codice di procedura penale (e di cui si dirà a breve). Se la parte rifiuta di eseguire l’ordine senza giusto motivo, il giudice può da questo rifiuto desumere argomenti di prova; se, invece, il rifiuto viene dal terzo, questi può solo essere condannato ad una pena pecuniaria. Il codice regola le modalità di espletamento dell’ispezione agli artt. 258-262 c.p.c. Il giudice può disporre d’ufficio la prova, regolandone tempo, luogo e modo. Logica vorrebbe che il giudice si recasse fisicamente a svolgerla: di fatto, la molteplicità del carico giudiziario induce ad affidarla ad un consulente tecnico. Inoltre, il giudice può disporre che siano eseguiti rilievi, calchi e riproduzioni anche fotografiche di oggetti, documenti e luoghi e, quando occorre, rilevazioni cinematografiche o altre che richiedono l’impiego di mezzi, strumenti o procedimenti meccanici. Ugualmente, per accertare se un fatto sia o possa essersi verificato in un dato modo, il giudice può ordinare di procederne alla riproduzione, facendone eventualmente eseguire la rilevazione fotografica o cinematografica, presenziando direttamente o demandando il relativo compito ad un esperto. Naturalmente, si possono impiegare tutte le tecnologie più moderne, anche se non menzionate in modo espresso dalle norme vigenti. Durante l’ispezione o l’esperimento, il giudice può sentire testimoni per informazioni e dare i provvedimenti necessari per l’esibizione della cosa o per accedere alla località. Può anche disporre l’accesso in luoghi appartenenti a terzi, dopo averli possibilmente sentiti e – ricorda il codice – prendendo in ogni caso le cautele necessarie alla tutela dei loro interessi.

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V. L’esibizione. La tutela della riservatezza. Molto più comune e praticamente realizzabile è l’esibizione: mezzo istruttorio che serve ad acquisire al processo materiale documentale. Negli stessi limiti entro i quali può essere ordinata, a norma dell’art. 118 c.p.c., l’ispezione di cose in possesso di una parte o di un terzo, il giudice, su istanza di parte, può ordinare all’altra parte o a un terzo di esibire in giudizio un documento o altra cosa di cui ritenga necessaria l’acquisizione al processo. Nell’ordinare l’esibizione, il giudice dà i provvedimenti opportuni circa il tempo, il luogo e il modo dell’esibizione (art. 210 c.p.c.). Due sono i punti delicati di questo mezzo di prova (punti comuni anche all’ispezione, ma che conviene esaminare qui, data la maggiore rilevanza pratica dell’esibizione). Il primo, visto dal lato della parte che chiede l’esibizione, riguarda l’effettività della prova, posto che la controparte o i terzi (ad esempio, collegati alla controparte da relazioni commerciali, associative e via dicendo) potrebbero ostacolare, senza gravi inconvenienti, l’acquisizione al processo del materiale richiesto. Il secondo, che si colloca invece dal lato del soggetto a cui viene richiesto di produrre i documenti, è quello del rispetto dei diritti del terzo, con particolare riguardo alla riservatezza (ad esempio, professionale o commerciale). Ora, da un lato, vengono protette le situazioni di segreto tutelate dagli artt. 200, 201 e 202 c.p.p., relativi, rispettivamente, al segreto professionale, al segreto d’ufficio e al segreto di Stato. Queste norme coprono molte situazioni ed esonerano dal deporre, in veste di testimoni, coloro che abbiano conosciuto i fatti per ragioni del loro ufficio: così, i ministri del culto, gli avvocati, i notai, i medici. Si pensi alla circostanza appresa da un sacerdote cattolico vincolato dal segreto confessionale o alla situazione di malattia nota solo al medico curante. È appena il caso di rilevare che queste disposizioni vanno oltre la generica protezione dei dati sensibili offerta dalla normativa sulla privacy. Dall’altro lato, l’art. 211 c.p.c. prevede che, quando l’esibizione è ordinata ad un terzo, il giudice deve cercare di conciliare nel miglior modo possibile l’interesse della giustizia col riguardo dovuto ai


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diritti del terzo, al punto che prima di ordinare l’esibizione può disporre che il terzo sia citato in giudizio, assegnando alla parte istante un termine per provvedervi. Il terzo può sempre fare opposizione contro l’ordinanza di esibizione, intervenendo nel giudizio prima della scadenza del termine assegnatogli. Un’altra limitazione è data dal codice civile. Infatti, secondo l’art. 2711 c.c., il giudice può ordinare la comunicazione integrale dei libri, delle scritture contabili e della corrispondenza dell’imprenditore solo nelle controversie relative allo scioglimento della società, alla comunione dei beni e alla successione per causa di morte. Negli altri casi il giudice può ordinare, anche d’ufficio, che si esibiscano i libri per estrarne le registrazioni concernenti la controversia in corso e può ordinare anche l’esibizione di singole scritture contabili, lettere, telegrammi o fatture concernenti la controversia. In sostituzione dell’originale, possono essere esibite copie o estratti (art. 212 c.p.c.). Oggi, si deve tenere conto della possibilità di disporre della documentazione riprodotta su supporto informatico. L’atteggiamento delle norme italiane si colloca, in qualche misura, più sul versante delle protezione della riservatezza che non su quello della ricerca della verità probatoria a tutto campo. La questione si pone anche in rapporto alle forme statunitensi (e, in misura più ridotta, inglesi) di pre-trial discovery di documenti. Negli ordinamenti anglosassoni sussiste la possibilità di un’indagine severa, a richiesta di una parte, circa la documentazione in possesso dell’altra, prima del processo vero e proprio, in modo da consentire poi alle corti di giudicare sulla base dei dati completi. Va detto che l’art. 23 della convenzione dell’Aia del 1970 sull’assunzione delle prove all’estero ha permesso alla maggior parte dei paesi europei di dichiarare che non eseguiranno le rogatorie (per lo più, di provenienza dagli Stati Uniti), relative alla pre-trial discovery di documenti. Ne è derivato un duro confronto fra diversi atteggiamenti giurisprudenziali: alla chiusura delle corti europee (in Germania si è parlato di Justiz-konflikt o Justiz-krieg), ha fatto seguito la risposta delle corti americane di non considerare la convenzione come mezzo esclusivo per la regolamentazione della materia.

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VI. La richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione. Un diverso mezzo istruttorio è la richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione, regolata in poche parole dall’art. 213 c.p.c. Secondo questa norma, il giudice può sempre richiedere, anche d’ufficio, che la pubblica amministrazione (da intendersi in senso ampio, comprensivo degli organi dello Stato, degli enti locali e degli enti pubblici economici) fornisca le informazioni scritte relative ad atti e documenti appartenenti all’amministrazione interessata, che è necessario acquisire al processo.

46. LA CONFESSIONE E IL GIURAMENTO. I. La confessione e i suoi effetti. La confessione, secondo quanto recita l’art. 2730 c.c., è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte. La confessione è giudiziale o stragiudiziale: giudiziale quando è resa dinanzi al giudice, stragiudiziale quando effettuata al di fuori del processo. In materia di diritti disponibili, l’affermazione di verità diventa affermazione di volontà. L’ordinamento non si occupa, in realtà, di stabilire se ciò che la parte ha dichiarato, in senso a sé sfavorevole, sia oggettivamente vero, ma ne fa la base per un accertamento di rapporti, che la parte dichiarante non può contestare, in quanto provenienti da essa stessa, e la controparte neppure, perché non ne avrebbe interesse. Di qui, l’efficacia particolarmente forte delle dichiarazioni confessorie: esse costituiscono prova legale, nel senso che il giudice è vincolato a ritenerle vere (ma, come si ripete, più sotto il profilo dispositivo che sotto quello gnoseologico), senza poterle vagliare con il suo prudente appezzamento (art. 2733 c.c.). Proprio perché essenzialmente atto dispositivo, la confessione per essere efficace deve provenire da chi è capace di disporre del diritto (art. 2731 c.c., con il corollario relativo alla confessione del rappresentante), deve riguardare diritti disponibili e deve essere


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effettuata con volontà libera: se inficiata da errore di fatto o violenza, può essere revocata (art. 2732 c.c.). Si noti che qui ritornano in gioco gli elementi volitivi del negozio, usciti di scena quando si parla di atti processuali. In effetti, pur se compiuta nel processo, la confessione ha un valore negoziale e, non inesattamente, la si definisce negozio processuale. Ovviamente, cosa diversa è che la confessione sia effettuata dinanzi al giudice, con le opportune garanzie, o sia invece compiuta fuori dal processo. In questo secondo caso, essa deve essere trascinata all’interno del giudizio a mezzo di un altro mezzo di prova: un documento o una testimonianza. In questo caso, però, l’art. 2735 c.c. la circonda di cautele. Intanto, mentre la confessione stragiudiziale fatta alla parte o a chi la rappresenta ha la stessa efficacia probatoria di quella giudiziale (anche se, come detto, occorre darne prova), la confessione fatta ad un terzo o contenuta in un testamento è liberamente apprezzata dal giudice. Inoltre, la confessione stragiudiziale non può provarsi per testimoni, se verte su un oggetto per il quale la prova testimoniale non è ammessa dalla legge. II. La confessione giudiziale e l’interrogatorio formale. Venendo alla confessione giudiziale, può accadere che una delle parti renda liberamente una dichiarazione confessoria. Ciò può avvenire in qualunque atto processuale, purché firmato dalla parte personalmente, ovvero in udienza (art. 229 c.p.c.). Di solito, però (e qui entra in gioco l’istruttoria costituenda), è una delle parti che cerca di stimolare la confessione della controparte. Ora, lo strumento (soggetto al controllo di ammissibilità e rilevanza da parte del giudice) per attuare questo scopo è l’interrogatorio formale. A differenza dell’interrogatorio libero, con cui il giudice ottiene un diretto colloquio con le parti e che, oltre che a favorire la conciliazione, serve ad una migliore comprensione della controversia, l’interrogatorio formale è il mezzo con cui una delle parti sottopone all’altra veri e propri quesiti, stimolandone la conferma o la negazione.

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L’art. 228 precisa che la confessione giudiziale, se non spontanea, è provocata mediante interrogatorio formale. L’interrogatorio deve essere dedotto per articoli separati e specifici (art. 230 c.p.c.). Il giudice istruttore procede all’assunzione dell’interrogatorio nei modi e termini stabiliti nell’ordinanza che lo ammette. Non possono farsi domande su fatti diversi da quelli formulati nei capitoli, a eccezione delle domande su cui le parti concordano e che il giudice ritiene utili; ma il giudice può sempre chiedere i chiarimenti opportuni sulle risposte date. Il rigido formalismo di questo interrogatorio è diretta conseguenza della sua negozialità. Le affermazioni o le negazioni devono essere circostanziate e precise: quasi, per intendersi, come in un atto pubblico notarile. Quanto al modo di rendere l’interrogatorio, non vi è nulla di particolarmente inquisitorio. Il giudice non deve estorcere nulla all’interrogando, ma solo raccoglierne l’esatta volontà. Certo, la parte interrogata deve rispondere personalmente (nel senso che deve essere presente all’udienza e non può qui essere sostituita dall’avvocato) e non può servirsi di scritti preparati (art. 231 c.p.c.): tuttavia, il giudice può consentirle di valersi di note o appunti, quando deve fare riferimento a nomi o a cifre, o quando particolari circostanze lo consigliano. L’ammissione dell’interrogatorio formale ha, di solito, scarsa efficacia probatoria. Tuttavia, spesso rappresenta un’azione di disturbo nei confronti della controparte, costretta a presentarsi di persona dinanzi al giudice e dovendo rispondere senza avvalersi dello schermo protettivo del difensore. Diverso è l’effetto se la controparte è contumace. Infatti, a mente dell’art. 232 c.p.c., se la parte non si presenta o rifiuta di rispondere senza giustificato motivo, il giudice, valutato ogni altro elemento di prova, può ritenere come ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio. Peraltro, il giudice, che riconosce giustificata la mancata presentazione della parte per rispondere all’interrogatorio, ne dispone l’assunzione anche fuori della sede giudiziaria. Ora, la mancata presenza a rendere l’interrogatorio non equivale, di per sé, a confessione; il giudice deve valutare questo atteggiamento della parte assente insieme agli altri elementi probatori raccolti. Tuttavia, in


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questi casi dedurre l’interrogatorio formale può costituire un efficace elemento ai fini del raggiungimento della prova. III. Casi specifici di dichiarazioni confessorie. Le ammissioni. Sempre sotto il profilo probatorio, vanno esaminati due possibili sbocchi, disciplinati dal codice civile. Il primo riguarda il caso in cui la parte interrogata abbia reso una dichiarazione che, insieme a fatti a sé sfavorevoli, ne contiene anche altri favorevoli. Ad esempio, viene chiesto ad A se è vero o no che non ha pagato una fornitura. A risponde che non ha pagato, ma aggiunge di averlo fatto perché la merce presentava gravi difetti. Ora, il codice sancisce qui il principio dell’unitarietà delle dichiarazioni, che non possono essere scisse in due parti, con effetti diversi. Pertanto, secondo l’art. 2734 c.c., quando alla dichiarazione propriamente confessoria si accompagna quella di altri fatti o circostanze che la contrastano (tendenti, dice la norma, a infirmare l’efficacia del fatto confessato ovvero a modificarne o a estinguerne gli effetti), i casi sono due. O la controparte non contesta la verità dei fatti e delle circostanze aggiunte, e allora tutte le dichiarazioni fanno piena prova nella loro integrità; oppure la controparte le contesta, e allora l’intera dichiarazione sarà valutata liberamente dal giudice: cade, cioè, l’effetto di prova legale e si ritorna alla regola comune del prudente apprezzamento. Il secondo caso è quello in cui, in un litisconsorzio necessario (che, si ricordi, suppone una causa unica), vi sia una dichiarazione confessoria proveniente solo da alcuni dei litisconsorti e non dagli altri. Ora, se a queste dichiarazioni si attribuisse forza di prova legale, si avrebbe l’effetto di permettere ad alcuni litisconsorti di disporre del diritto degli altri, il che è evidentemente non ammissibile. Perciò, non resta che ritornare, anche qui, alla disciplina comune della valutazione delle prove: queste dichiarazioni saranno apprezzate liberamente dal giudice (art. 2733 c.c.). Un ultimo aspetto riguarda le dichiarazioni di fatti sfavorevoli alla parte, contenuti in un atto difensivo, firmato dal solo difensore

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(non dotato di una procura speciale, che, in ipotesi, lo abiliti a compiere atti efficaci sul piano sostanziale e negoziale). Qui siamo fuori sia dalla confessione, che è atto di parte e non di avvocato, e anche dalla non contestazione, che è la semplice omissione di un’attività volta a negare l’esistenza di fatti dedotti dall’altra parte. Si parla, a questo proposito, di mera ammissione: un comportamento, cioè, che non dà luogo a prova legale, ma che certo può costituire un elemento presuntivo, volto ad incidere sul convincimento del giudice. È inutile dire che un’ammissione contenuta in un atto difensivo gioca pesantemente a favore della parte avversa. IV. Il giuramento e i suoi effetti. Mediante il giuramento, una parte chiama l’altra a compiere determinate affermazioni, sotto il vincolo della particolare solennità della dichiarazione. Come la confessione, il giuramento è un atto negoziale e dispositivo, come risulta con chiarezza dagli artt. 2737 e 2739 c.c.; la disposizione, però, qui avviene non da parte di chi giura (nessun diritto si costituisce di propria iniziativa), ma da parte di chi affida la decisione sul proprio diritto al giuramento altrui. In particolare, l’art. 2739 precisa che il giuramento non può essere deferito o riferito per la decisione di cause relative a diritti di cui le parti non possono disporre né sopra un fatto illecito o sopra un contratto per la validità del quale sia richiesta la forma scritta, né per negare un fatto che da un atto pubblico risulti avvenuto alla presenza del pubblico ufficiale che ha formato l’atto stesso. Il giuramento, poi, non può essere deferito che sopra un fatto proprio della parte a cui si deferisce o sulla conoscenza che essa ha di un fatto altrui e non può essere riferito qualora il fatto che ne è l’oggetto non sia comune a entrambe le parti. Il codice civile italiano conosce tre tipi di giuramento. È giuramento decisorio, a norma dell’art. 2736 c.c., quello che una parte deferisce all’altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa; è, invece, giuramento suppletorio quello che il giudice, d’ufficio, può deferire ad una parte per decidere la causa, quando


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la domanda o le eccezioni non sono pienamente provate, ma non sono del tutto sfornite di prova. Infine, una sottospecie del giuramento suppletorio è il giuramento estimatorio, che è deferito dal giudice al fine di stabilire il valore della cosa domandata, se non si può accertarlo altrimenti. Il giuramento ha efficacia di prova legale e priva il giudice della facoltà di esaminare i fatti, oggetto del giuramento, secondo la sua valutazione razionale (tranne l’ipotesi, analoga a quella della confessione, in cui il giuramento sia stato prestato solo da alcuni dei litisconsorti e non dagli altri, in caso di litisconsorzio necessario). In proposito, quando si è esaminato il problema del rapporto tra verità e certezza nel processo, si è considerata una norma, l’art. 2738 c.c., che qui va ripresa. Infatti, l’efficacia del giuramento è tale che, una volta prestato, l’altra parte non può provare il contrario e – si noti – non può neppure chiedere la revocazione della sentenza (per definizione, manifestamente ingiusta) se il giuramento è dichiarato falso. Al massimo, può chiedere il risarcimento del danno se vi è stata condanna penale per falso giuramento, o se la condanna non può essere pronunciata perché il reato si è estinto, o se (a seguito di intervento della Corte costituzionale) la sentenza di assoluzione pronunziata nel giudizio penale non abbia efficacia di giudicato nei confronti del danneggiato. Si deve aggiungere che la parte, a cui è stato deferito il giuramento decisorio, se non si presenta senza giustificato motivo all’udienza fissata, o, comparendo, rifiuta di prestarlo o non lo riferisce all’avversario, soccombe rispetto alla domanda o al punto di fatto relativamente al quale il giuramento è stato ammesso; e ugualmente soccombe la parte avversaria, se rifiuta di prestare il giuramento che le è riferito (art. 239 c.p.c.). V. L’assunzione del giuramento. Si tratta ora di esaminare come il codice di procedura civile disciplina il giuramento, nelle due distinte ipotesi (decisorio e suppletorio) sopra individuate. Il giuramento decisorio, data la sua natura prettamente dispositiva del diritto, pur avendo una forte efficacia probatoria, è sottratto alla

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disciplina delle preclusioni e può essere deferito in qualunque stato della causa davanti al giudice, con dichiarazione fatta all’udienza dalla parte o dal procuratore munito di mandato speciale o con atto sottoscritto dalla parte (art. 233 c.p.c.). La presenza diretta della parte che deferisce il giuramento è anch’essa conseguenza del carattere di atto dispositivo. Allo stesso tempo, spetta al giudice dirimere le contestazioni sull’ammissibilità del giuramento (ad esempio, perché deferito su fatti estranei all’ambito dell’art. 2736 c.c.) e l’ordinanza ammissiva è notificata alla parte personalmente (art. 237). Deferire il giuramento significa invitare la controparte a giurare sulla verità di un dato fatto, la cui dimensione è formulata in articoli separati, in modo chiaro e specifico. La parte che deferisce il giuramento afferma un fatto, e sfida l’altra parte a negarlo, con la formula “giuro, e giurando nego che…”. La parte a cui il giuramento è deferito può a sua volta deferirlo alla controparte (art. 234: si parla in questo caso di giuramento riferito) e nessuna delle due può revocare il giuramento, se l’altra si è dichiarata pronta a prestarlo (art. 235), a meno che il giudice modifichi la formula di giuramento che è stata proposta (art. 236). Queste disposizioni, che riecheggiano i modi di un antico duello, sono certamente lontane dalla moderna sensibilità della giustizia civile. Oggi, poi, il giuramento ha perso ogni collegamento con il fattore religioso, dopo l’intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 334/96, e quindi esso si riduce ad una solenne dichiarazione personale, effettuata dalla parte dinanzi al giudice (art. 238) la cui falsità può avere conseguenze penali. Ciò non è poco, ma difficilmente giustifica la sopravvivenza di questo istituto, che tende a scomparire dalle aule di giustizia. Si sono già esaminate le gravi conseguenze che ricadono sulla parte che non si presenti a rendere il giuramento: per questo, il giudice, se ritiene giustificata la mancata comparizione della parte che deve prestare il giuramento, può disporne l’assunzione anche al di fuori della sede giudiziaria. Più semplice è la disciplina del giuramento suppletorio o estimatorio. Per il primo, il codice si limita a riservarne il deferimento al collegio, quando la causa debba essere trattata in composizione


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collegiale (art. 240). Ciò si spiega perché, essendo questo tipo di giuramento un ausilio per la definizione del caso, spetta alla composizione decisoria disporlo. Proprio perché deferito d’ufficio e utile a confermare il convincimento già in parte acquisito, il giuramento suppletorio non può essere riferito all’altra parte (art. 242). Per il secondo, il codice precisa (art. 241) che può essere deferito dal collegio a una delle parti, soltanto se non è possibile accertare altrimenti il valore della cosa. In questo caso, il collegio deve anche determinare la somma fino a concorrenza della quale il giuramento avrà efficacia.

47. LE PROVE DOCUMENTALI. I. Aspetti generali della prova documentale. La prova documentale è sempre più importante nel processo civile. Come si è visto, nello svolgimento del processo gli elementi scritti, sia per quanto riguarda gli atti di parte, sia per quanto concerne le prove, assumono carattere prevalente, anche se l’avvento delle tecnologie informatiche sembra destinato, in prospettiva, a modificare radicalmente lo scenario. La nozione di documento comprende ogni forma di rappresentazione materiale della realtà. Al classico caso del documento scritto (nelle sue diverse possibili versioni: contratto, lettera, atto amministrativo e via dicendo) si aggiungono il documento fotografico, quello informatico e ogni altra possibilità che la tecnica moderna ottenga di realizzare. È opportuno tenere conto che il diritto sostanziale assegna al documento un valore di credibilità maggiore rispetto alla semplice oralità. Vi sono casi in cui determinati rapporti sono validi solo se attuati con modalità documentali (ad esempio, i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili, secondo l’art. 1350 c.c.) e casi in cui possono essere provati solo per iscritto (ad esempio, ciò vale per la transazione, secondo l’art. 1967 c.c.). Nel primo caso, la forma scritta è requisito di validità sostanziale dell’atto; nel secon-

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do caso, è condizione per poterne dimostrare l’esistenza. In queste ipotesi, la prova del rapporto può essere data solo attraverso un documento (salvo l’eccezione per il caso di perdita incolpevole: art. 2724 c.c.), perché, senza lo scritto, o l’atto è invalido (forma scritta richiesta ad substantiam) o comunque non è dimostrabile (forma scritta richiesta ad probationem). II. L’atto pubblico. In alcuni casi, l’ordinamento assegna a certe prove documentali la particolare efficacia di prova legale. Ciò avviene perché le modalità di formazione di quel documento inducono ad attribuirgli una forte credibilità. Il fenomeno si verifica per l’atto pubblico e la scrittura privata. L’art. 2699 c.c. definisce atto pubblico il documento redatto, con le formalità richieste, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato. L’atto pubblico, secondo l’art. 2700 c.c., fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. Segue da queste disposizioni che l’atto pubblico è una prova legale: il giudice ne è vincolato e non può discostarsi, in base al suo libero convincimento, dalle sue risultanze. Il punto di fondo è quello di stabilire di che cosa l’atto pubblico faccia piena prova. A ben guardare, questa efficacia è relativamente modesta: essa riguarda, per così dire, l’estrinseco dell’atto, ma non la veridicità delle affermazioni delle parti. Valga un esempio. A dichiara di acquistare l’immobile X da B, al prezzo di Y. Queste dichiarazioni vengono raccolte nel rogito (atto pubblico) redatto dal notaio C. Ora, l’atto pubblico fa piena prova del fatto che: a) l’atto proviene dal notaio C; b) A e B si sono presentati davanti a C, in un certo giorno e a una certa ora. Esso, invece, non costituisce prova piena: a) del fatto che si trattasse di una compravendita e non, invece, di una donazione; oppure, b) che il prezzo effettivamente corrisposto fosse quello dichiarato e non


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un prezzo diverso e maggiore. Perciò, contro le risultanze di un atto pubblico è possibile esperire un’azione di simulazione (assoluta o relativa), senza che il giudice sia obbligato a ritenere vero ciò che le parti hanno dichiarato nell’atto. Beninteso, può accadere che una parte ravvisi nell’atto circostanze non rispondenti al vero: ad esempio, perché la data indicata è diversa. Se la contestazione riguarda aspetti che fanno piena prova, si rende necessario richiedere l’intervento dell’autorità giudiziaria, che deve accertare la falsità della circostanza. L’ordinamento manifesta piena fiducia nella veridicità dei riferimenti compiuti dai pubblici ufficiali; se questa veridicità è messa in discussione, occorre la discesa in campo di un’autorità superiore, che non può essere se non quella giurisdizionale. Pertanto, occorre instaurare un apposito procedimento, che prende il nome di querela di falso. III. La scrittura privata. La scrittura privata è ogni atto formato e proveniente da un soggetto privato. Si tratta di una categoria molto ampia: comprende, ad esempio, i contratti che non vengono stipulati dinanzi ad un pubblico ufficiale. La scrittura privata (come dispone l’art. 2702 c.c.) fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, in due casi: se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione, ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta. È bene rimarcare che l’efficacia probatoria riguarda la provenienza della scrittura dall’autore e non il suo contenuto. È un passaggio successivo quello che trae le conseguenze dalla riferibilità ad un soggetto di un dato documento e qui tornano in gioco i criteri valutativi comuni. Si considera riconosciuta (art. 2703 c.c.) la sottoscrizione autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato. L’autenticazione consiste nell’attestazione da parte del pubblico ufficiale che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza. Il pubblico ufficiale deve previamente accertare l’identità della persona che sottoscrive. Si può aggiungere che il documento formato da un

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pubblico ufficiale incompetente o incapace ovvero senza l’osservanza delle formalità prescritte, se è stato sottoscritto dalle parti, ha la stessa efficacia probatoria della scrittura privata (art. 2701 c.c.). Il riconoscimento della sottoscrizione nel processo può avvenire in vari modi. Può essere esplicito, quando la parte produce la scrittura, affermandola come propria. Può anche essere implicito, in una chiave tipicamente contraddittoria: ciò accade quando l’altra parte produce in giudizio la scrittura e la parte, a cui la provenienza della scrittura è attribuita, non la disconosce. A questo proposito, regole precise sono dettate dall’art. 214 c.p.c.: colui contro il quale è prodotta una scrittura privata, se intende disconoscerla, è tenuto a negare formalmente la propria scrittura o la propria sottoscrizione (mentre gli eredi o aventi causa possono limitarsi a dichiarare di non conoscere la scrittura o la sottoscrizione del loro dante causa). Non basta: il disconoscimento deve avvenire non appena la parte ha potuto esaminare la scrittura e, quindi (dato che normalmente la parte è rappresentata in udienza dal suo difensore) la parte comparsa deve effettuare il disconoscimento nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione (art. 215 c.p.c.). Regole diverse sono dettate per il caso della contumacia e saranno riprese a suo luogo. Quindi, è bene avere presente che un’eventuale inerzia o distrazione della parte può avere gravi ripercussioni processuali, perché comporta l’ammissione della provenienza della scrittura, con tutte le ulteriori conseguenze. Oltre che quando è riconosciuta o autenticata, la scrittura privata fa piena prova della provenienza dal suo autore anche quando è verificata giudizialmente. Questa fattispecie suppone, come nel caso della querela di falso, l’intervento dell’autorità giudiziaria, alla quale si chiede un giudizio autoritativo, previo uno specifico procedimento. Può accadere, infatti, che una determinata scrittura sia prodotta in giudizio da una parte, che ne afferma la provenienza dall’altra. Si pensi ad una dichiarazione di contenuto confessorio, ovvero ad un testamento (che, in questo caso, vincola gli eredi). L’altra parte può ammettere che la scrittura provenga da sé ovvero dal de cuius: in tal caso, si avrà una scrittura riconosciuta. Oppure può negarlo: allora, se l’altra parte intende continuare ad avvalersi di quel documento


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con gli effetti di piena prova della scrittura privata, deve chiederne al giudice la verificazione. In buona misura, l’efficacia della scrittura privata è collegata a quella della confessione o comunque di un’ammissione, che esonera la controparte dall’onere della prova di determinati fatti. Se in una lettera privata una parte racconta alcune circostanze, la dimostrazione del legame fra quella lettera e la parte a cui è attribuita ha un importante effetto sull’accertamento dei fatti. Di qui, l’interesse a ottenere la conferma di quel legame (se negato), a mezzo della verificazione. Una norma importante è l’art. 2704 c.c., che disciplina l’efficacia della data delle scritture private non autenticate nei confronti dei terzi. In molte situazioni, l’efficacia o l’esistenza di un diritto dipende dalla collocazione temporale di una data scrittura. Ora, se la sottoscrizione è autenticata, si suppone che data dell’autenticazione e data del documento coincidano. In caso contrario, non si può ammettere che una qualunque datazione sia ritenuta efficace. Pertanto, la data della scrittura non autentica è certa solo in presenza di determinati fattori esterni: a) dal giorno in cui la scrittura è stata registrata; b) o dal giorno della morte o della sopravvenuta impossibilità fisica di colui o di uno di coloro che l’hanno sottoscritta; c) o dal giorno in cui il contenuto della scrittura è riprodotto in atti pubblici; d) o, infine, dal giorno in cui si verifica un altro fatto che stabilisca in modo egualmente certo l’anteriorità della formazione del documento. Ad esempio, l’apposizione di un timbro postale sul corpo della scrittura costituisce una di queste ipotesi. Si noti che la data certa non è la data vera. Essa significa semplicemente che la scrittura è stata certamente redatta non dopo quella data. Peraltro, la data di scrittura privata che contiene dichiarazioni unilaterali non destinate a persona determinata può essere accertata con qualsiasi mezzo di prova; analogamente, per l’accertamento della data nelle quietanze il giudice, tenuto conto delle circostanze, può ammettere qualsiasi mezzo di prova. In questi casi, dunque, la scrittura non fa prova della data, ma la data è essa stessa potenziale oggetto di indagine probatoria.

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IV. La querela di falso. La particolare efficacia probatoria (seppure nei limiti a cui si è accennato) dell’atto pubblico e della scrittura privata può comportare che sia il giudice a dover compiere un controllo sulla veridicità del primo e sulla provenienza della seconda. Si tratta, quindi, di dare qualche cenno ai due subprocedimenti della querela di falso e della verificazione di scrittura privata. Il giudizio di querela di falso è diretto ad accertare la falsità e quindi ad eliminare l’efficacia probatoria, in primo luogo, di un atto pubblico, ma anche di una scrittura privata che sia stata riconosciuta dalla parte contro la quale è prodotta, o comunque autenticata, o ancora che sia già stata oggetto di un procedimento di verificazione. Infatti, l’art. 2702 c.c. dispone che la scrittura privata, una volta riconosciutane la sottoscrizione, si comporta come atto pubblico per quel che riguarda l’attendibilità del documento e la sua efficacia probatoria, nonché per quanto riguarda il collegamento tra dichiarazione e sottoscrizione: ne segue che questa efficacia può essere rimossa soltanto attraverso la querela di falso. La querela di falso, si riferisce, dunque, ad atti o scritture a cui venga riconosciuto il valore di prova legale. La querela di falso può essere proposta come azione autonoma, avviata con un comune atto di citazione (art. 221 c.p.c.). Interessa, però, soprattutto quando è proposta all’interno di un processo civile, di cui costituisce una parentesi (tecnicamente, un incidente). È bene premettere che l’atto pubblico può essere inficiato da falsità materiale (vale a dire, è falso il documento), oppure ideologica (vale a dire, il documento è autentico, ma contiene elementi estrinseci falsi: ad esempio, il notaio dichiara la presenza dinanzi a sé di una persona che invece non c’era). La querela di falso è un atto autonomo, che può essere presentato in qualunque stato e grado del giudizio, finché la verità del documento non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato. Deve essere proposta dalla parte sostanziale (e quindi non è un atto del difensore), personalmente o a mezzo di procuratore speciale, con una dichiarazione da rendere in udienza e che viene unita al relativo verbale. A pena di nullità, deve contenere l’indicazione degli elementi e delle prove della falsità.


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L’ipotesi del falso rappresenta un grave attentato alla fede pubblica e, quindi, l’ordinamento circonda la querela di molte precauzioni. La competenza per materia appartiene al tribunale: con la conseguenza che, se la querela è proposta dinanzi al giudice di pace o alla corte d’appello, il processo dovrà essere sospeso, in attesa della decisione del tribunale. Se invece la querela è proposta in primo grado in un giudizio dinanzi al tribunale, il processo prosegue, ma si apre una sottofase destinata a decidere sulla querela: questa sottofase è governata e decisa dal tribunale in composizione collegiale (anche quando il merito appartenga alla composizione monocratica). In ogni caso, è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero. Il documento, poi, viene acquisito agli atti con una serie di formalità, volte a darne un’esatta immagine al giudice (art. 223 c.p.c.) e a garantirne la conservazione (non esclusa l’ipotesi di sequestro: art. 224 c.p.c.). Inoltre, lo sforzo organizzativo per la verifica della presunta falsità del documento è giustificato solo se quel documento sia in effetti rilevante nel processo. Pertanto, il giudice, prima di avviare le attività accertative, prima di tutto interpella la parte che ha prodotto il documento, per sapere se insiste a volersene avvalere (art. 222 c.p.c.). Se la risposta è negativa, il documento non è utilizzabile in causa. Se invece la risposta è affermativa, il giudice deve valutare immediatamente se il documento è rilevante. Se la rilevanza sussiste, il giudice autorizza la presentazione della querela in udienza e ammette i mezzi istruttori idonei, dando le disposizioni per la loro assunzione. Vale la pena sottolineare che la proposizione e la presentazione della querela di falso sono due momenti distinti. Come si vede, si apre un’indagine di oggetto diverso da quello del processo. L’atto pubblico è stato prodotto come elemento di un’attività di accertamento di determinati fatti (ad esempio, l’esistenza di una donazione di un bene). La querela di falso comporta che si accerti invece se il documento è falso o no. Il tribunale (come detto, in composizione collegiale) decide con sentenza sulla querela (art. 226 c.p.c.). Se la querela è respinta e il documento è ritenuto autentico e vero, il tribunale dispone che della pronuncia sia fatta menzione sul documento: una sorta di ul-

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teriore sigillo di autenticità, questa volta giudiziale, che conferma quella originaria data dal pubblico ufficiale. Viene anche prevista una modesta pena pecuniaria a carico del querelante. Se invece la sentenza accerta la falsità del documento, si avranno, da un lato, le conseguenze previste dal codice penale; per quanto qui interessa, poi, il documento risulterà privato della sua efficacia di prova legale, sotto il profilo oggetto della querela. Tuttavia, la delicatezza del profilo della falsità dell’atto pubblico suggerisce al legislatore di attendere il passaggio in giudicato della sentenza per fare scattare le relative conseguenze esecutive (art. 227 c.p.c.). Ciò non costituisce un’eccezione alla regola dell’immediata esecutorietà delle sentenze, di cui all’art. 282 c.p.c. e che si esaminerà più avanti: infatti, questa pronuncia ha efficacia di mero accertamento ed è insuscettibile di esecuzione forzata in base al solo esito del primo grado. È facile capire che la querela di falso, seppure talora strumento di difesa indispensabile per le parti, non agevola la ragionevole durata del processo. La parte che produce un atto pubblico può trovarsi di fronte una querela e vedersi posta di fronte all’alternativa, o di dover rinunciare ad avvalersi del documento, oppure di dover attendere fino a tre istanze di giudizio prima di poter proseguire. Anche per questo, si comprende il disposto dell’art. 225, comma 2°, c.p.c., in base al quale il giudice istruttore, se rimette le parti al collegio per la decisione sulla querela indipendentemente dal merito, può disporre, su istanza di parte, che la trattazione della causa continui davanti a sé relativamente a quelle domande che possono essere decise indipendentemente dal documento impugnato. V. La verificazione della scrittura privata. Se la querela di falso non è un abituale protagonista delle scene giudiziarie, più frequente è il caso della verificazione della scrittura privata, proprio per la maggiore ampiezza pratica delle ipotesi in cui scritture private possono essere prodotte in causa. La premessa è che una parte abbia prodotto una scrittura privata e che l’altra parte abbia effettuato tempestivamente il discono-


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scimento. A questo punto, la parte che ha prodotto il documento, se continua a volersene avvalere, ha l’onere di proporre istanza di verificazione. L’istanza di verificazione presenta alcune analogie con la querela di falso. Entrambe sono decise dal tribunale in composizione collegiale (art. 220 c.p.c.); analoghe sono le cautele per la conservazione del documento contestato (artt. 217-218 c.p.c.); entrambe possono essere proposte anche in via autonoma (art. 216 c.p.c.) e non solo incidentalmente; in entrambi i casi, quando sono proposte in via incidentale, la rimessione della causa al collegio, in deroga alla regola comune sancita dall’art. 189, comma 2°, può essere solo parziale, cioè relativa solo alla questione oggetto di incidente. La fattispecie che merita maggiore interesse è la verificazione richiesta in corso di causa, in rapporto ad un documento prodotto in giudizio. Oggetto della verificazione è la questione, se una data sottoscrizione provenga dal soggetto (vivente o defunto) a cui è attribuita. La prova normalmente dipende da una consulenza tecnica grafologica (art. 217 c.p.c.): la scrittura contestata è messa a confronto con altre scritture (le c.d. scritture di comparazione) che la parte istante ha l’onere di produrre. Talvolta, l’interessato può essere chiamato a prestarsi ad una prova calligrafica. Infatti, in base all’art. 219 c.p.c., il giudice può ordinare alla parte di scrivere sotto dettatura, anche alla presenza del consulente tecnico. Con l’importante sanzione che, se la parte invitata a comparire personalmente non si presenta o rifiuta di scrivere senza giustificato motivo, la scrittura si può ritenere riconosciuta. Come si vede, ancora una volta, all’oggetto principale della causa se ne affianca uno collaterale, relativo all’autenticità o no di una sottoscrizione. Si può discutere di quale sia l’oggetto essenziale della verificazione: se, cioè, si tratti soprattutto di un accertamento sull’effettiva provenienza del documento oppure si tratti di un episodio interno all’istruttoria. Questa seconda lettura è preferibile, almeno per la verificazione chiesta incidentalmente nel processo, il cui fine è quello di rendere utilizzabile proficuamente un documento che, per

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effetto del disconoscimento della controparte, non risulterebbe efficace. Il punto non è secondario. Se la verificazione è un giudizio autonomo, chi la propone ha diritto di ottenerla; se è un profilo dell’istruttoria, il giudice ha margini di valutazione (ad esempio, sul piano della rilevanza) per ammetterla o no. VI. Altre disposizioni in tema di prova scritta. Il documento informatico. Le disposizioni del codice civile delimitano il concetto di prova scritta. Oltre alla scrittura privata e all’atto pubblico, sono prese in esame varie forme di documento, la cui efficacia nel processo è subordinata a ciò che il codice precisa. L’evoluzione tecnologica comporta indubbiamente una minore attenzione per forme di documenti un tempo più usuali e oggi, invece, meno comuni; al contempo, si apre la necessità di disciplinare nuove forme di documenti. Così, il codice civile del 1942 detta norme specifiche sui telegrammi (artt. 2705-2706 c.c.), sulle carte e registri domestici (art. 2707 c.c.), sulle taglie o tacche di contrassegno (art. 2713 c.c.): tutta materia, oggi, di rara applicazione. Resta rilevante l’art. 2712, rubricato “riproduzioni meccaniche”, e che si riferisce a “ogni rappresentazione meccanica di fatti e di cose”: quindi, fotocopie, fotografie, riproduzioni informatiche o cinematografiche, registrazioni fonografiche e via dicendo. Tutto questo, secondo la norma, fa piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime. Così pure, le copie fotografiche di scritture hanno la stessa efficacia di quelle autentiche, se la loro conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta (art. 2719 c.c.). Alle copie e al loro valore probatorio è dedicato anche il gruppo di norme degli artt. 2714-2718 c.c. Sono di interesse anche le disposizioni che si riferiscono alle scritture contabili obbligatorie degli imprenditori, materia peraltro molto cambiata in forza delle regole del diritto commerciale e


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del diritto tributario. In sintesi, il codice civile stabilisce, agli artt. 2709 e 2710, che: a) le scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro l’imprenditore, ma chi se ne avvale non può scindere il contenuto; b) le scritture regolarmente tenute possono fare prova tra imprenditori per i rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa (visto che vi dovrebbe essere corrispondenza fra le reciproche scritture). Infine, l’annotazione fatta dal creditore in calce, in margine o a tergo di un documento rimasto in suo possesso fa prova, benché non sottoscritta da lui, se tende ad accertare la liberazione del debitore. Lo stesso valore ha l’annotazione fatta dal creditore in calce, in margine o a tergo di una quietanza o di un esemplare del documento del debito posseduto dal debitore (art. 2708). Per quanto riguarda, invece, l’adeguamento alle nuove tecnologie, di importanza sempre crescente è oggi il documento informatico, di cui si è già incontrato qualche esempio applicativo. Lo si può definire come ogni atto e documento formato con strumenti informatici o telematici ovvero come ogni contratto stipulato nelle medesime forme. Il documento informatico sottoscritto con firma digitale, redatto in conformità alle apposite regole tecniche, soddisfa, a seconda delle modalità di certificazione, il requisito legale della forma scritta e ha efficacia probatoria ai sensi dell’art. 2712 c.c., ovvero di scrittura privata ai sensi dell’art. 2702 c.c.

48. LE MODALITÀ DELL’INTERVENTO DEI TERZI. LA RIUNIONE DI CAUSE. I. Le forme dell’intervento volontario. Si sono già studiati i diversi tipi di intervento di terzi nel processo. Si tratta, ora, di vedere con quali modalità l’intervento si attua. L’interveniente volontario si presenta in un processo già radicato. Perciò, si comporta come il convenuto, nel senso che si costituisce presentando in udienza o depositando in cancelleria una com-

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parsa, formata a norma dell’art. 167, con le copie per le altre parti, i documenti e la procura. Il cancelliere dà notizia dell’intervento alle altre parti, se la costituzione del terzo non è avvenuta in udienza (art. 267). Si deve osservare, però, che quella presentata dall’interveniente volontario (principale, adesivo autonomo o adesivo dipendente) è una comparsa, ma non una comparsa di risposta. Il suo contenuto dipende dalla posizione che il terzo assume. Se, ad esempio, il terzo propone una domanda autonoma, a fianco di quella svolta dall’attore, il suo atto dovrà comunque contenere l’esposizione dei fatti e la struttura complessiva della causa petendi. Vale, da questo punto di vista, ciò che si è detto sulla editio actionis dell’atto di citazione. È interessante notare che non vi è alcun controllo preventivo sulla legittimazione dell’interveniente a prendere parte al processo. La questione emergerà più avanti. Delicato è l’aspetto dei termini per l’intervento. L’art. 268 esordisce dicendo che l’intervento può avere luogo fino a che non vengano precisate le conclusioni. Questa liberale apertura viene però subito ridimensionata dalla successiva precisazione, secondo cui il terzo non può compiere atti che al momento dell’intervento non sono più consentiti ad alcuna altra parte, salvo che l’intervento abbia la finalità di dare corso volontariamente all’integrazione necessaria del contraddittorio (il che, però, configura una fattispecie totalmente diversa). Si tratta della classica regola, secondo cui l’interveniente accetta il processo in statu ac terminis, vale a dire nella situazione in cui si trova: e lo si comprende, visto che l’interveniente non è mai obbligato a partecipare ad un giudizio, ben potendo (se titolare di un diritto) instaurarne uno autonomo, e pertanto non può godere di maggiori diritti rispetto alle parti originarie. Tuttavia, questo sintetico testo va letto alla luce delle regole sulle preclusioni. È evidente, ad esempio, che già alla prima udienza non si possono dedurre nuovi fatti costitutivi principali. Ne segue che un interveniente, la cui domanda supponga la deduzione di fatti autonomi (e ciò avverrà per l’interveniente principale e per quello adesivo autonomo), deve costituirsi, in pratica, nello stesso termine del convenuto (venti giorni prima dell’udienza), se non vuole subire


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effetti preclusivi che renderebbero perdente la sua strategia. Diversa è la posizione dell’interveniente adesivo dipendente, la cui posizione subordinata rispetto alle domande di una delle parti permette di svolgere utili difese anche in una fase successiva. II. Le regole processuali per la chiamata in causa di terzi. Diverso discorso va fatto per l’intervento coatto. In primo luogo, si deve vedere la disciplina dell’intervento su istanza di parte, che è la fattispecie di gran lunga più comune. L’art. 269 c.p.c. precisa che il convenuto che intenda chiamare un terzo in causa deve, a pena di decadenza, farne dichiarazione nella comparsa di risposta e contestualmente chiedere al giudice lo spostamento della prima udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini di cui all’art. 163-bis. Infatti, mancherebbe il tempo per provvedere al coinvolgimento del terzo se si volesse mantenere ferma l’udienza alla data già fissata, dato che al terzo va lasciato un termine a difesa uguale a quello del convenuto. Il giudice istruttore, prosegue la norma, entro cinque giorni dalla richiesta, provvede con decreto a fissare la data della nuova udienza. Il decreto è comunicato dal cancelliere alle parti costituite. La citazione è notificata al terzo a cura del convenuto. Si può discutere se il giudice abbia o no il potere di escludere la chiamata del terzo: si pensi al caso in cui il convenuto chieda di chiamare un terzo, totalmente estraneo alla controversia. In realtà, a questo stadio del processo, il giudice non ha alcun potere di verifica preventiva: può e deve soltanto fissare la nuova udienza. Non è quindi condivisibile l’orientamento giurisprudenziale in base al quale al giudice, in nome del principio di ragionevole durata, sarebbe consentito negare la chiamata in causa di un terzo, richiesta da una delle parti: infatti, si verrebbe qui a ledere il diritto di difesa e il giusto processo. L’atto di citazione per chiamata del terzo deve essere configurato in modo da informare il terzo di tutto ciò che è accaduto fino a quel momento: vale a dire, della domanda dell’attore, della difesa

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del convenuto e del provvedimento del giudice. La editio actionis, insomma, deve fare comprendere con chiarezza al terzo perché viene coinvolto nella controversia. Nella prassi, si usa riportare integralmente il testo dell’atto di citazione e quello della comparsa di costituzione e risposta; le conclusioni daranno corpo alle domande (ad esempio, di garanzia) che il convenuto intende a sua volta proporre contro il terzo. Per quanto riguarda la vocatio in ius, come per l’atto di citazione, il terzo è chiamato a difendersi ad un’udienza, che però non è stabilita in modo autonomo dall’attore, ma è quella che il giudice ha fissato nel suo decreto. Fra la notificazione dell’atto di chiamata e l’udienza deve trascorrere un termine uguale a quello dell’art. 163-bis e quindi, usualmente e per l’Italia, non meno di novanta giorni. Il terzo chiamato, se intende costituirsi, lo fa con le medesime modalità del convenuto rispetto alla citazione ricevuta dall’attore: presenta quindi una comparsa di costituzione entro i venti giorni anteriori all’udienza, con gli stessi oneri e poteri del convenuto per quanto concerne le eccezioni da sollevare a pena di decadenza (art. 271 c.p.c.). Così, il terzo può presentare a sua volta una domanda riconvenzionale contro il convenuto e anche (non è raro) proporre a sua volta la chiamata a rilievo di un altro soggetto. Nella terminologia processuale, questo nuovo soggetto continua a chiamarsi terzo, in quanto di per sé estraneo al giudizio, benché sia di fatto la quarta (o la quinta, la sesta e via dicendo) parte del processo. Se la chiamata del terzo viene, normalmente, ad iniziativa del convenuto, non può affatto escludersi che talvolta sia l’attore a richiederla. Ciò può accadere nell’ipotesi di causa comune, quando siano le difese del convenuto a indurre l’attore ad ampliare soggettivamente la propria domanda nei confronti di un terzo. L’art. 269 prende quindi in considerazione anche questa possibilità e colloca il momento per la richiesta di chiamata del terzo da parte dell’attore nella prima occasione possibile: vale a dire, la prima udienza di trattazione. La facoltà di chiamare il terzo deve essere esercitata entro quel momento, a pena di decadenza. Infatti, è evidente che la


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trattazione può svilupparsi in modo organico solo quando tutti i soggetti interessati sono presenti in giudizio e occorre, pertanto, che il completamento del contraddittorio avvenga il più presto possibile. Qui, però, il ruolo del giudice appare diverso. Infatti, l’attore non chiama direttamente il terzo ma, secondo il disposto dell’art. 269, chiede in prima udienza al giudice l’autorizzazione a chiamarlo. Il giudice potrebbe non concedere questa autorizzazione perché, nel caso di specie, potrebbero risultare insussistenti i presupposti sostanziali della partecipazione del terzo. Qui certamente il principio della ragionevole durata può trovare una fruttuosa applicazione. Se l’autorizzazione è negata, l’attore potrà comunque citare il terzo (come convenuto) in un giudizio autonomo e puntare poi alla riunione dei processi. Se, invece, l’autorizzazione è concessa, il giudice fissa una nuova udienza per consentire la citazione del terzo, al solito nel rispetto dei termini dell’art. 163-bis. La citazione è notificata al terzo a cura dell’attore entro il termine perentorio stabilito dal giudice. Le due non identiche modalità di chiamata del terzo si ripercuotono sulle attività da svolgere in prima udienza. Nel caso di chiamata del terzo da parte del convenuto, nulla cambia, se non la data in cui si svolge l’udienza. Invece, nel caso di chiamata da parte dell’attore, nella prima udienza si concentrano sia le attività normalmente previste dall’art. 183, sia l’allargamento della materia del contendere con la richiesta di chiamata del terzo. L’art. 269, ult. comma, prevede allora che, per le parti originarie, restano ferme le preclusioni ricollegate alla prima udienza di trattazione, ma che i termini per le memorie di cui al comma 6° dell’art. 183 vengano fissati dal giudice solo alla successiva udienza di comparizione del terzo. Per completezza, è bene aggiungere che la parte che chiama in causa il terzo (convenuto, attore o terzo che sia) ha l’onere di depositare in cancelleria la citazione notificata entro il termine previsto per la costituzione dell’attore dall’art. 165, e il terzo chiamato deve a sua volta costituirsi secondo quanto previsto per il convenuto dall’art. 166 c.p.c.

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III. Il terzo come parte del processo. Come si è detto, non vi è alcun controllo preventivo circa l’ammissibilità dell’intervento e la correttezza della chiamata. Può accadere, infatti, che venga chiamato un soggetto che non ha alcuna relazione con il processo. Ora, le questioni relative all’intervento devono essere decise insieme con il merito, a meno che il giudice non ritenga opportuno decidere con un provvedimento preliminare, secondo l’art. 187, comma 2°, c.p.c. Una volta effettuata la chiamata del terzo, è utile prendere in esame le conseguenze che ne derivano, sia per il terzo, che per le altre parti del processo (l’attore o gli altri convenuti). A norma dell’art. 271, al terzo chiamato si applicano, come si è visto e come è utile ribadire, tutte le disposizioni relative al convenuto: quindi, l’onere di costituirsi nei venti giorni anteriori all’udienza, sollevando, a pena di decadenza, le eccezioni di rito e di merito non rilevabili d’ufficio, proponendo l’eventuale domanda riconvenzionale e via dicendo. In specie, egli può a sua volta avere interesse a chiamare un altro terzo: in tal caso, come il convenuto, deve farne dichiarazione a pena di decadenza nella comparsa di risposta e, come l’attore, deve essere poi autorizzato dal giudice alla chiamata. Le altre parti del processo vedono allargarsi la composizione soggettiva della causa e, talora, lo stesso oggetto della controversia. Ciò può comportare la modifica delle domande proposte o delle conclusioni originariamente prese. Queste attività devono essere compiute nella prima udienza di trattazione, ai sensi dell’art. 183, comma 5°. Ad esempio, non è la stessa cosa che il terzo sia stato chiamato in causa dal convenuto, indicandolo come unico obbligato alla prestazione domandata dall’attore (è l’ipotesi della causa comune), o che sia stato chiamato in garanzia propria, e perciò in forza di un titolo identico o connesso a quello posto dall’attore a base della domanda principale, oppure ancora che sia stato chiamato in garanzia impropria, e quindi sulla base di un rapporto del tutto autonomo fra convenuto e terzo. Nei primi due casi, la giurisprudenza ritiene che la domanda dell’attore si estenda automaticamente al terzo chiamato, data l’unicità oggettiva o la connessione dei due rapporti; nell’altro caso, invece, se l’attore vuole estendere la propria doman-


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da nei confronti del terzo (sussistendone i presupposti), deve farlo esplicitamente. In ogni caso, il terzo è chiamato a fare parte del processo e può prendere le difese opportune non solo nei confronti di chi lo ha evocato in giudizio, ma anche delle altre parti, sia sul piano del diritto che su quello del fatto, ad esempio deducendo mezzi di prova. Il terzo può introdurre nuove questioni: si pensi al caso in cui egli sollevi l’eccezione di difetto di giurisdizione, non discussa fino a quel momento fra attore e convenuto. IV. Problemi applicativi in relazione al foro per le società con sede all’estero. L’introduzione di un foro speciale, basato al contempo su elementi oggettivi e soggettivi, per le società con sede all’estero, comporta una serie di problemi applicativi nei giudizi a pluralità di parti, a cui è opportuno dare cenno. Non sussistono difficoltà per i casi di litisconsorzio originario (necessario, ma anche facoltativo, attivo o passivo), sia per ragioni logiche, sia per l’espresso riferimento della nuova normazione al caso di più convenuti ex art. 33 c.p.c. (vale a dire, connessione oggettiva e cumulo soggettivo): la presenza fra le parti di una società estera porta la controversia nel foro speciale. Invece, nei casi di litisconzorzio successivo, si deve escludere che il foro speciale attiri di per sé la controversia connessa, già instaurata da altre parti. Pertanto, in caso di intervento volontario proposto da una società estera dinanzi ad un foro diverso da quello speciale, le domande dell’interveniente dovranno essere rigettate a motivo dell’incompetenza del foro; in caso di chiamata dinanzi ad un foro comune di società estera terza (di cui il giudice abbia dovuto prendere atto, perché se ha il potere di escludere la chiamata dovrà farlo), le domande proposte contro il terzo dovranno subire la medesima sorte. Tutto questo anche d’ufficio, a prescindere dalla mancata eccezione di incompetenza. La posizione della società estera terza dovrà essere trattata in separato giudizio, salva una successiva riunione dinanzi al foro speciale, ovvero la sospensione della causa in attesa

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della definizione dell’altra (in entrambi i casi, previa valutazione di opportunità del giudice del foro ordinario). La ragione di questa disciplina sta nel carattere di (presunta) specializzazione dei tribunali dei fori deputati alle controversie con società estere. Perciò, nel caso di chiamata in causa di una società estera dinanzi ad un foro territorialmente competente, ma pur sempre incluso nel novero dei fori speciali (ad esempio, Roma anziché Milano), si ritornano ad applicare le regole ordinarie sulla competenza territoriale. V. La riunione di cause. Si deve dare conto qui di un fenomeno molto frequente: quello della riunione di cause. La riunione è il meccanismo con cui due o più cause, pendenti dinanzi al medesimo organo giudiziario, vengono trattate insieme. Ciò accade quando vi sia litispendenza (e allora si parla di una sola causa, con due o più parti, che ha dato vita a due procedimenti diversi) e connessione (e qui, invece, il legame fra cause diverse può comportare l’allargamento soggettivo del contraddittorio). Va precisato che quando si ha un fenomeno di litispendenza, continenza o connessione di cause proposte dinanzi ad organi giudiziari diversi, si applicano le norme di cui agli artt. 39 e 40 c.p.c.; invece, quando già le diverse cause sono radicate dinanzi allo stesso organo, si procede più semplicemente con la riunione. Sotto il profilo della litispendenza, dispone l’art. 273 c.p.c., secondo cui, se più procedimenti relativi alla stessa causa pendono davanti allo stesso giudice, questi, anche d’ufficio, ne ordina la riunione. Se, invece, il giudice istruttore o il presidente della sezione ha notizia che per la stessa causa pende procedimento davanti ad altro giudice o ad altra sezione dello stesso tribunale, ne riferisce al presidente, il quale, sentite le parti, ordina con decreto la riunione, determinando la sezione o designando il giudice davanti al quale il procedimento deve proseguire. Se invece si tratta di cause connesse, l’art. 274 c.p.c. delinea un meccanismo del tutto analogo, caratterizzato però da un profilo


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di discrezionalità. Infatti, secondo la norma, se più procedimenti relativi a cause connesse pendono davanti allo stesso giudice, questi, anche d’ufficio, può (ma non deve) disporne la riunione. Perciò, quando consta che più cause connesse pendono dinanzi allo stesso organo giudiziario, il presidente convoca le parti dinanzi a sé e le sente in contraddittorio; poi, ordina con decreto che le cause siano chiamate alla medesima udienza davanti allo stesso giudice o alla stessa sezione perché le riunisca. In ogni caso, le due o più cause riunite non si fondono: anche la sentenza finale, pur essendo formalmente una, decide in realtà tante cause quante sono quelle riunite. È bene notare che non sempre le parti delle diverse cause saranno d’accordo per la riunione, ritenendo, ad esempio, che non sussista la litispendenza o che non sia opportuna la trattazione congiunta delle cause connesse. Per questo, è sempre necessario che i passaggi, sopra descritti, si svolgano in contraddittorio fra le parti. VI. L’estromissione. Resta da chiedersi se vi è modo, per una parte convenuta o chiamata in giudizio, di uscire dalla causa. Il codice contempla alcuni casi in cui un certo soggetto, originariamente parte in causa, ne viene fatto uscire. Si parla (come si è visto) di estromissione. L’estromissione, però, non è un fenomeno di portata generale, ma è possibile solo nei casi in cui la legge espressamente lo prevede (artt. 108, 109, 111, comma 3°). In taluni casi, si tratta di situazioni in cui una parte, per così dire, si duplica. Se il garante accetta di stare in giudizio al posto del garantito, questi può essere estromesso (art. 108); ma, in sostanza, la domanda dell’attore trova nel garante la vera controparte. Un altro caso di estromissione disciplinato appositamente dal codice è quello dell’art. 109: se si contende a quale di più parti spetta una prestazione e l’obbligato si dichiara pronto a eseguirla a favore di chi ne ha diritto, il giudice può ordinare il deposito della cosa o della somma dovuta e, dopo il deposito, può estromettere l’obbligato dal processo. In realtà, l’obbligato non è coinvolto dalla controversia, che invece vede opposti i due presunti creditori della prestazione. Va notato che il provvedi-

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mento di estromissione non ha un contenuto di accertamento, ma semplicemente esclude dal processo una parte, che ne è sostanzialmente estranea: per questo, assume la forma di ordinanza. Può accadere, invece, che l’attore convenga in giudizio più convenuti, in fattispecie di litisconsorzio facoltativo, uno o alcuni dei quali sono totalmente carenti di legittimazione passiva, ovvero nei cui confronti la domanda di merito è totalmente inammissibile. Analogo fenomeno può accadere con le chiamate di terzo su istanza di parte. Ora, in queste ipotesi, si possono avere due sbocchi. O l’attore e il chiamante, con il consenso del convenuto o del chiamato e delle altre parti interessate, rinunciano agli atti del giudizio: in questo caso, il giudice potrà disporre la separazione delle cause (art. 103 c.p.c.), e quella contro il soggetto estraneo risulterà estinta, mentre le altre proseguiranno. Oppure, si giunge fino alla sentenza finale, che vedrà la domanda contro il soggetto estraneo respinta, a seconda dei casi, in rito o in merito, anche per difetto di legittimazione passiva.

49. L’AZIONE COLLETTIVA RISARCITORIA. I. La proposizione della domanda nell’azione collettiva risarcitoria. Conviene qui brevemente esaminare anche le modalità dell’azione di classe, prevista dall’art. 140-bis del codice del consumo, i cui presupposti sostanziali si sono già illustrati. Nell’azione collettiva risarcitoria, la domanda è proposta (dal componente della classe che si attiva, ovvero dall’associazione o dal comitato attori) davanti al tribunale ordinario con sede nel capoluogo della regione in cui ha sede l’impresa. Tuttavia, per la Valle d’Aosta è competente il Tribunale di Torino, per il Trentino-Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia è competente il Tribunale di Venezia, per le Marche, l’Umbria, l’Abruzzo e il Molise è competente il Tribunale di Roma e per la Basilicata e la Calabria è competente il Tribunale di Napoli. Come si vede, questa materia non è stata inclu-


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sa nella competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa. Il tribunale tratta la causa in composizione collegiale. La domanda (art. 140-bis, comma 5°) si propone con atto di citazione notificato anche all’ufficio del pubblico ministero presso il tribunale adito, il quale può intervenire limitatamente al giudizio di ammissibilità. I componenti della classe che vogliono aderire possono farlo senza la necessità di servirsi di un difensore (che, invece, è necessario, secondo le regole consuete, per l’attore). L’atto di adesione, contenente, oltre all’elezione di domicilio, l’indicazione degli elementi costitutivi del diritto fatto valere con la relativa documentazione probatoria, è depositato in cancelleria, anche tramite l’attore, nel termine di cui al comma 9°, lettera b). Gli effetti sulla prescrizione decorrono dalla notificazione della domanda e, per coloro che hanno aderito successivamente, dal deposito dell’atto di adesione. II. Le due fasi del giudizio. Il giudizio si articola in due fasi: una sull’ammissibilità della domanda e l’altra (se la domanda è ammissibile) sul merito. All’esito della prima udienza, il tribunale decide con ordinanza sull’ammissibilità della domanda, ma può sospendere il giudizio quando sui fatti rilevanti ai fini del decidere è in corso un’istruttoria davanti a un’autorità indipendente ovvero un giudizio davanti al giudice amministrativo. La domanda è dichiarata inammissibile quando è manifestamente infondata, quando sussiste un conflitto di interessi ovvero quando il giudice non ravvisa l’omogeneità dei diritti individuali tutelabili, nonché quando il proponente non appare in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe. Come si vede, prima di dare il via ad una complessa controversia giudiziale, il legislatore introduce uno sbarramento di notevole impatto. L’ordinanza che decide sull’ammissibilità è reclamabile davanti alla corte d’appello nel termine perentorio di trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione, se anteriore. Sul reclamo la corte d’appello decide con ordinanza in camera di consiglio, non oltre

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quaranta giorni dal deposito del ricorso. Il reclamo dell’ordinanza ammissiva non sospende il procedimento davanti al tribunale. Con l’ordinanza di inammissibilità il giudice regola le spese, anche applicando le norme sulla responsabilità aggravata, inclusa quella relativa alla condanna d’ufficio, e ordina la più opportuna pubblicità a cura e spese del soccombente. Si introducono qui forme di sanzione indiretta, che mirano ad evitare che lo strumento dell’azione collettiva risarcitoria sia impiegato in modo abusivo. Se l’azione è dichiarata ammissibile, il tribunale fissa con ordinanza un termine per la tempestiva adesione degli appartenenti alla classe, stabilendo adeguate forme di pubblicità. Infatti, il successo pratico dell’azione collettiva risarcitoria sta nel riunire, intorno all’iniziativa giudiziaria, il maggior numero di componenti la classe. Se un prodotto difettoso è stato distribuito su tutto il territorio nazionale, è necessario attuare efficaci politiche informative per conseguire lo scopo. Il codice del consumo precisa che l’esecuzione della pubblicità è condizione di procedibilità della domanda. Con la stessa ordinanza il tribunale: a) definisce i caratteri dei diritti individuali oggetto del giudizio, specificando i criteri in base ai quali i soggetti che chiedono di aderire sono inclusi nella classe o devono invece ritenersi esclusi dall’azione; b) fissa un termine perentorio, non superiore a centoventi giorni dalla scadenza di quello per l’esecuzione della pubblicità, entro il quale gli atti di adesione, anche a mezzo dell’attore, sono depositati in cancelleria. Copia dell’ordinanza è trasmessa, a cura della cancelleria, al ministero dello sviluppo economico, che ne cura ulteriori forme di pubblicità, anche mediante la pubblicazione sul relativo sito internet. Sul piano procedurale, l’art. 140-bis, comma 11°, presenta una singolare dizione, improntata ad una forte flessibilità. Infatti, si prevede che, con l’ordinanza con cui ammette l’azione, il tribunale determina il corso della procedura assicurando, nel rispetto del contraddittorio, l’equa, efficace e sollecita gestione del processo. Con la stessa o con successiva ordinanza, modificabile o revocabile in ogni tempo, il tribunale prescrive le misure atte a evitare indebite ripetizioni o complicazioni nella presentazione di prove o argomenti; onera le parti della pubblicità ritenuta necessaria a tutela degli ade-


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renti; regola nel modo che ritiene più opportuno l’istruzione probatoria e disciplina ogni altra questione di rito, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio. Come si vede, poco resta dell’iter ordinario del processo: il tribunale ha ampi poteri di gestione e può trattare la causa nel modo più adatto al singolo caso. III. La decisione e i suoi effetti. Si giunge, infine, alla decisione. Non sorgono problemi se la domanda viene respinta. Se invece viene accolta, si tratta di coniugare l’individualità dei diritti posti in gioco con il carattere collettivo dell’accertamento. Il comma 12° dell’art. 140-bis stabilisce che il tribunale, se accoglie la domanda, pronuncia sentenza di condanna con cui liquida, ai sensi dell’art. 1226 c.c., le somme definitive dovute a coloro che hanno aderito all’azione ovvero stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di tali somme. Quando il giudice, accogliendo la domanda, non liquida le somme definitive dovute ai danneggiati, ma stabilisce solo il criterio per calcolarne la liquidazione, è ora tenuto ad assegnare alle parti un termine, non superiore a novanta giorni, per addivenire ad un accordo sulla liquidazione del danno. Il processo verbale dell’accordo, sottoscritto dalle parti e dal giudice, costituisce titolo esecutivo. Scaduto il termine senza che l’accordo sia stato raggiunto, il giudice, su istanza di almeno una delle parti, liquida le somme dovute ai singoli aderenti. In caso di accoglimento di un’azione di classe proposta nei confronti di gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità, il tribunale tiene conto di quanto riconosciuto in favore degli utenti e dei consumatori danneggiati nelle relative carte dei servizi eventualmente emanate. La sentenza diviene esecutiva decorsi centottanta giorni dalla pubblicazione. I pagamenti delle somme dovute effettuati durante tale periodo sono esenti da ogni diritto e incremento, anche per gli accessori di legge maturati dopo la pubblicazione della sentenza. L’attuazione della sentenza è complessa. Seguendo il solito esempio, l’impresa danneggiante potrebbe vedersi costretta a corrispondere somme, di vario importo, a migliaia di consumatori. Se

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l’impresa chiede in appello la sospensione dell’esecutorietà (il punto sarà approfondito a suo luogo), la corte d’appello dovrà tenere conto di quanto sarebbe poi difficile, per l’impresa, recuperare migliaia di piccole somme. La norma prevede che, nel valutare se sospendere o no l’esecutorietà, la corte d’appello tenga conto dell’entità complessiva della somma gravante sul debitore, del numero dei creditori, nonché delle connesse difficoltà di ripetizione in caso di accoglimento del gravame. La corte può comunque disporre che, fino al passaggio in giudicato della sentenza, la somma complessivamente dovuta dal debitore sia depositata e resti vincolata nelle forme ritenute più opportune. Si è già osservato che non sono proponibili ulteriori azioni di classe per i medesimi fatti e nei confronti della stessa impresa, dopo la scadenza del termine per l’adesione assegnato dal giudice. Eventuali altre azioni collettive risarcitorie proposte entro detto termine sono riunite d’ufficio se pendenti davanti allo stesso tribunale; altrimenti il giudice successivamente adito ordina la cancellazione della causa dal ruolo, assegnando un termine perentorio non superiore a sessanta giorni per la riassunzione davanti al primo giudice. IV. L’azione collettiva risarcitoria nel quadro europeo. Il diritto europeo non impone oggi a nessuno Stato membro di introdurre nel proprio ordinamento un’azione collettiva risarcitoria né tanto meno specifica quali modalità una tale azione debba assumere. Nel contempo, l’azione collettiva risarcitoria costituisce una soluzione razionale e coerente con la politica dell’Unione in materia di diritto della concorrenza e con l’attuazione da parte dei privati dell’iniziativa europea antitrust. Le azioni collettive risarcitorie non appartengono storicamente al patrimonio giuridico europeo. Il dibattito su questo tema è recente ed è fortemente tributario del confronto con i modelli americani, sia statunitensi, sia di importanti realtà dell’America Latina. Il discorso diviene ancora più problematico se dalla mera ipotesi di un’introduzione delle azioni collettive risarcitorie si passa alle concrete mo-


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dalità di attuazione. Ne segue che la spinta verso l’introduzione di soluzioni processuali con queste caratteristiche trova non soltanto la difficoltà di armonizzare scelte diverse (come accade per altri settori del diritto europeo), ma anche quella di portare su questo terreno Stati che finora non hanno preso in considerazione il problema. È opportuno sottolineare che, ad oggi, non vi sono fonti di diritto dell’Unione che compiono scelte dirette, nel senso di imporre l’adozione di forme di tutela collettiva risarcitoria agli Stati membri. L’attuazione delle regole poste dagli artt. 101 e 102 Tfue in materia di tutela della concorrenza viene sviluppata, in primo luogo, attraverso l’attività di controllo della Commissione, coadiuvata dalle autorità nazionali. Il regolamento n. 1 del 2003 fissa le linee operative di questa azione amministrativa, che può essere sinteticamente chiamata public enforcement. In questo ambito, vanno collocate le sanzioni comminate alle imprese che commettano atti in violazione delle disposizioni in materia antitrust. Si ritiene, però, che il public enforcement non basti e che in un mercato aperto una concorrenza forte rappresenti la migliore garanzia per l’aumento della produttività e della capacità d’innovazione delle imprese europee. Occorre quindi, in questa prospettiva, facilitare l’applicazione degli artt. 101 e 102 Tfue, agevolando l’introduzione di domande risarcitorie presentate dai consumatori e dalle imprese danneggiate dalla violazione di norme antitrust. Si tratta di quello che viene definito private enforcement e che consiste nel complesso delle iniziative giudiziarie, promosse da singoli soggetti contro le imprese che abbiano infranto la disciplina europea della concorrenza. La Commissione europea ha sviluppato da anni una significativa riflessione sullo sviluppo del private enforcement, che è sfociata nella direttiva n. 104 del 26 novembre 2014. Le finalità di fondo sono due, apparentemente sullo stesso piano: da un lato, quella di risarcire i soggetti danneggiati e, dall’altro, quella di fungere da deterrente nei confronti delle imprese, che comprendono come la violazione delle regole di concorrenza le espone non soltanto alla sanzione pubblica, ma anche ad un’ampia serie di azioni private, destinate a procurare la perdita dei vantaggi illecitamente acquisiti attraverso

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le pratiche anticoncorrenziali. Al riguardo, è interessante segnalare come l’adesione delle imprese ai programmi di clemenza (vale a dire, all’attenuazione o all’eliminazione delle sanzioni pubblicistiche attraverso comportamenti di collaborazione con le autorità antitrust) non implichi l’esclusione della legittimazione passiva al private enforcement. La direttiva (che è in via di attuazione in Italia) si muove su molteplici piani, ivi compresi alcuni di spiccato rilievo processuale: dalla maggiore facilità nella divulgazione delle prove (artt. 5-8) al vincolo per i giudici nazionali circa l’accertamento di una violazione della concorrenza da parte di un’autorità garante (art. 9). In realtà, un’attenta lettura dei testi porta ad una conclusione almeno parzialmente diversa. Il vero obiettivo del private enforcement è quello di costituire un completamento dell’azione sanzionatoria amministrativa. La funzione pubblicistica delle azioni risarcitorie prevale, in definitiva, su quella privata. Nell’ottica della Commissione, il private enforcement è essenzialmente l’altro braccio della tenaglia, destinata a stringere le imprese che abbiano violato le regole della concorrenza. La reintegrazione dei diritti lesi ovvero l’accesso alla giustizia sono scopi strumentali rispetto alla tutela del mercato. In questo senso, l’azione collettiva risarcitoria italiana, pur costituendo certamente uno strumento in linea con le prospettive europee, è correttamente dimensionata in modo più equilibrato, nel senso che ha effettivamente di mira una migliore tutela dei diritti individuali.

50. LA FASE DECISORIA DEL PROCESSO. LE DIFESE FINALI. I. L’udienza di precisazione delle conclusioni. A questo punto, è necessario riprendere il filo dello sviluppo del processo. Quando la fase di trattazione, il cui aspetto più rilevante è dato dall’istruttoria, si esaurisce, il giudice fissa l’udienza di precisazione delle conclusioni. Le norme che governano questi aspetti sono gli artt. 188 e 189 c.p.c.


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Secondo l’art. 188, il giudice provvede all’assunzione dei mezzi di prova; quindi, esaurita l’istruzione (cioè, quando tutte le attività destinate ad accertare i fatti si sono compiute) invita le parti a precisare le conclusioni (art. 189), ossia ad indicare definitivamente le domande con le quali si presentano alla decisione. Con la precisazione delle conclusioni termina la trattazione. È opportuno sottolineare che, di per sé, la precisazione delle conclusioni non deve necessariamente essere effettuata in una specifica udienza, ma può avvenire dinanzi al giudice anche in un’udienza fissata per altri incombenti, come risulta dall’art. 80-bis disp. att. c.p.c. In prospettiva, si potrebbe pensare di effettuarla in via telematica, entro un dato termine, senza la comparizione dei difensori. Tuttavia, ad oggi, la prassi del tutto prevalente è nel senso che le conclusioni vengano precisate in un’udienza ad hoc. In questa udienza le parti devono, in un certo modo, raccogliere le idee e confermare o modificare (nei modi e limiti che si spiegheranno) le conclusioni assunte all’inizio del processo, cioè negli atti introduttivi o nei momenti a seguire, fino alle attività di cui all’art. 183 c.p.c. Quando la causa viene avviata in decisione, tutta la materia del contendere è affidata al compito decisorio del giudice: e ciò anche qualora la fase decisoria sia stata avviata sul presupposto che sarà essenzialmente esaminata una questione preliminare o pregiudiziale (come viene esplicitamente affermato dall’art. 189, comma 2°, c.p.c.). Può accadere che il giudice, dopo la lettura delle difese, ritenga preferibile non dare corso all’istruttoria, prefigurandosi una soluzione di puro diritto, ovvero invece immaginando di risolvere la causa su una questione preliminare (ad esempio, la sussistenza o no della giurisdizione). Tuttavia, quale che sia la ragione che induce il giudice a disporre la precisazione delle conclusioni, e sia che si prospetti o no un ritorno della causa in istruttoria (ad esempio, dopo una sentenza non definitiva affermativa di un dato presupposto processuale), è pur sempre vero che l’intero oggetto del processo entra nella sfera decisoria. Si noti che le ordinanze con cui il giudice governa il processo, ivi compresa quella che dispone l’udienza di precisazione delle conclu-

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sioni, non possono mai pregiudicare il merito: anche per questo, non di rado le motivazioni del giudice restano spesso non pienamente esplicitate. Il giudice che non ammette determinate prove in quanto irrilevanti e avvia la causa in decisione, solitamente non indica con chiarezza il punto preliminare su cui intende fondarsi: il ragionamento implicito può spesso essere intuito, ma la causa – e qui sta il punto – resta aperta a molteplici esiti (senza parlare del caso in cui la persona fisica del magistrato venga avvicendata nel periodo intercorrente fra l’ordinanza che fissa l’udienza di precisazione delle conclusioni e la data di effettivo svolgimento dell’udienza). Ne segue che le parti devono in ogni caso precisare le conclusioni, tenendo sotto gli occhi la materia del contendere nella sua globalità. Quando ci si riferisce alle conclusioni, si deve sempre pensare a ciò che la parte chiede al giudice, sotto il profilo decisorio dell’accoglimento della domanda o delle eccezioni, e non anche a ciò che concerne richieste ordinatorie come, ad esempio, quelle riferite all’ammissione di mezzi istruttori che il giudice, nel frattempo, ha escluso. Queste richieste vanno certamente riproposte negli scritti conclusivi o nella discussione orale, ma non rientrano di per sé nelle conclusioni. Effetto della disciplina delle preclusioni è un diminuito interesse di questa udienza: le conclusioni possono, al massimo, essere circoscritte rispetto a quelle originarie, ma non certo ampliate. Infatti, in sede di precisazione delle conclusioni non si possono mai allargare le richieste, perché ciò comporterebbe nuova domanda, ma solo restringerle (ad esempio, l’attore che aveva chiesto 100 può chiedere 80); non è possibile nemmeno la precisazione o la modifica delle domande, perché ciò può avvenire solo entro i termini di cui all’art. 183. Tuttavia, l’udienza presenta alcuni aspetti di interesse che è utile indicare brevemente. Prima di tutto, la definitiva delimitazione della domanda cristallizza, una volta per tutte, ciò che le parti domandano al giudice in quel processo. Il dispositivo della sentenza indicherà in quale misura ciascuna di esse ha ottenuto l’esito sperato, accogliendo o no, in tutto o in parte, le conclusioni precisate. Salvo limitate eccezioni, il giudizio di impugnazione non potrà allargare la materia del conten-


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dere ma ritornerà sulle domande come formulate in sede di precisazione delle conclusioni. Di notevole rilievo è l’aspetto organizzativo. L’udienza di precisazione delle conclusioni, come si vedrà fra poche righe, apre la strada agli ultimi scritti difensivi delle parti (entro termini prefissati) e poi consegna il fascicolo al giudice per la redazione della sentenza (anche qui, entro un termine, seppure soltanto ordinatorio). Ne segue che il giudice, quando fissa l’udienza di precisazione delle conclusioni, perde ogni potere di controllo sui tempi del processo, ma comincia a fare il conto alla rovescia per la sua maggiore fatica. È qui che si forma, secondo una terminologia pratica, il c.d. collo di bottiglia del processo civile: il giudice, di fatto, non riesce a scrivere più di un certo numero di sentenze e, di conseguenza, deve portare i processi alla precisazione delle conclusioni con lentezza proporzionata. Questo spiega perché, nella prassi dei tribunali italiani, passino molti mesi (talvolta anni) tra l’ultimazione delle attività precedenti (trattazione e istruttoria) e la fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni; spiega anche perché le accelerazioni di andatura nella fase iniziale del giudizio, tutte a carico delle parti, a poco vantaggio portino, quando il carico giudiziario impone poi un sensibile rallentamento dell’iter nella sua fase finale. II. Le attività acceleratorie delle parti. Si è visto che la l. n. 208 del 2015 ha condizionato l’ammissibilità della domanda di indennizzo nel quadro della c.d. legge Pinto solo alle parti che hanno operato per rendere più veloce la trattazione della causa. Essa ha introdotto, quindi, alcune specifiche iniziative che, pur rilevando ai soli fini della concessione dell’equo indennizzo, risultano però comunque consentite alle parti e tali da influire in qualche misura sulla conduzione del processo. Si tratta di: 1) introduzione della causa con il rito a cognizione semplificata ex art. 702-bis ss. c.p.c.; 2) richiesta di passaggio dal rito ordinario a quello sommario ex art. 183-bis c.p.c.; 3) (nelle cause in cui non si applica il rito a cognizione semplificata) richiesta di decisione della causa secondo le modalità orali di cui all’art.

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281-sexies c.p.c.; 4) istanza di accelerazione dinanzi alla Corte di cassazione. Queste attività costituiscono un onere per le parti ai soli fini dell’eventuale futura richiesta di un indennizzo per la violazione delle norme sulla ragionevole durata dei processi. Non sono obbligatorie e non vi è alcuna aspettativa che le relative istanze vengano accolte. Infatti, a livello di tecnica processuale, le istanze acceleratorie sono strumenti che tendono a fare imboccare a una data causa una corsia preferenziale rispetto alle altre: sono, dunque, strumenti competitivi all’interno dei compiti organizzatori del giudice. La l. n. 208 le utilizza come metodo per rendere più difficoltose le domande di indennizzo e, sul piano del processo, le rende inefficaci (visto che se tutti presentassero queste istanza, sarebbe esattamente come se non le presentasse nessuno). Con ciò, la legge introduce forme di impulso processuale, che finora non erano formalmente previste, seppure non vietate. III. Le difese finali nel processo. Precisate le conclusioni, la causa si avvia alla decisione, con l’ultima possibilità per le parti di sottolineare al giudice il loro punto di vista. Questa fase finale si presenta all’insegna di una notevole flessibilità. Infatti, il giudice monocratico, in base all’art. 281-quinquies, può procedere attraverso la c.d. trattazione scritta o mista, oppure, secondo l’art. 281-sexies, può anche disporre per la discussione orale immediata. La scelta dell’uno o dell’altro meccanismo spetta al giudice, anche se alle parti non è vietato fare presente quale potrebbe essere la soluzione più opportuna. La trattazione scritta comporta la seguente successione di fasi: a) precisazione delle conclusioni; b) redazione e deposito di comparse conclusionali entro i sessanta giorni successivi; c) eventuale redazione e deposito di memorie di replica entro i venti giorni successivi. La trattazione mista (che suppone una richiesta delle parti) comporta invece la seguente successione di fasi: a) precisazione delle conclusioni; b) redazione e deposito di comparse conclusionali


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entro i sessanta giorni successivi; c) anziché il deposito delle repliche, lo svolgimento di un’udienza di discussione orale entro i trenta giorni successivi. La comparsa conclusionale è l’atto con cui la parte riassume tutti gli elementi del giudizio in fatto e in diritto. Nella prassi forense, è normalmente un atto impegnativo e complesso, di grande rilievo soprattutto nelle cause in cui vengono in gioco elementi di fatto o problematiche questioni di diritto. A prescindere dai contenuti della singola causa, l’obiettivo deve essere quello di trasmettere le nozioni giuridiche con esattezza e completezza, ma senza ripetizioni e semplificando al massimo il lavoro del giudice. Quindi, ordine e chiarezza in primo luogo: il magistrato non deve essere costretto a tradurre o decodificare un atto, per scoprire il senso delle difese. Se la vicenda è complessa, è spesso molto utile suddividere l’argomentazione per punti e farla precedere da un sommario. È bene giustificare in modo limpido tutte le conclusioni di cui si chiede l’accoglimento, commentando i risultati dell’istruttoria e citando in modo appropriato i precedenti giurisprudenziali utili nel caso. In forza dell’art. 281-sexies, invece, il giudice, fatte precisare le conclusioni, può disporre la discussione orale immediata nella stessa udienza (ovvero, su istanza di parte, rinviare per la discussione ad un’udienza successiva). Al termine della discussione, pronuncia la sentenza, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. L’esigenza di rispettare la ragionevole durata del processo rende progressivamente più frequente l’impiego della trattazione orale, particolarmente opportuna quando la fattispecie è già abbastanza delineata. In caso di composizione collegiale del tribunale, valgono gli artt. 190 (che segue lo schema della trattazione scritta, sopra indicato) e 275, comma 2°, c.p.c., secondo cui ciascuna delle parti, nel precisare le conclusioni, può chiedere che la causa sia discussa oralmente dinanzi al collegio. In tal caso, fermo restando il rispetto dei termini indicati nell’art. 190 per il deposito delle difese scritte, la richiesta deve essere riproposta al presidente del tribunale alla scadenza del

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termine per il deposito delle memorie di replica. La l. n. 208 del 28 dicembre 2015, poi, ha esteso anche al tribunale collegiale la possibilità di procedere secondo le modalità dell’art. 281-sexies: il giudice istruttore, se ritiene di seguire il percorso della trattazione orale, può rimettere la causa al collegio in un’udienza (collegiale) per la precisazione delle conclusioni e la discussione. La discussione orale comporta aspetti diversi dalla redazione delle difese scritte. Gli avvocati non hanno lunghi tempi a disposizione e devono concentrare la loro attenzione sui punti veramente essenziali della controversia. D’altra parte, sia nel caso dell’art. 281-sexies che in quello dell’art. 275 c.p.c., il dibattito orale si svolge dinanzi ad un giudice che conosce la causa e al quale, dunque, non va ripetuto ciò che risulta chiaramente dagli atti scritti. È al momento della decisione che emergono eventuali errori nell’assegnazione di una data causa al giudice monocratico anziché al collegio (o viceversa). Secondo l’art. 281-septies, il collegio, quando rileva che una causa, rimessa davanti a lui per la decisione, deve essere decisa dal tribunale in composizione monocratica, rimette la causa davanti al giudice istruttore con ordinanza non impugnabile perché provveda, quale giudice monocratico. Inversamente, l’art. 281-octies dispone che il giudice, quando rileva che una causa, riservata per la decisione davanti a sé in funzione di giudice monocratico, deve essere decisa dal tribunale in composizione collegiale, provvede a rimettere il giudizio dinanzi al collegio. Infine, l’art. 281-novies regola il caso di connessione fra cause che devono essere decise dal tribunale in composizione collegiale e cause che devono essere decise dal tribunale in composizione monocratica: in questa ipotesi, il giudice istruttore ne ordina la riunione e, all’esito dell’istruttoria, le rimette al collegio, il quale pronuncia su tutte le domande, a meno che disponga la separazione. Chiude il cerchio l’art. 50-quater, che precisa come l’inosservanza delle disposizioni sulla ripartizione di attribuzioni fra tribunale collegiale e monocratico dà luogo a nullità: quindi, non ad incompetenza (che concerne i rapporti fra diversi organi giudiziari, mentre qui l’organo è per definizione il medesimo) e neppure a vizio della costituzione del giudice, che porterebbe all’inesistenza del


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provvedimento decisorio. Si tratta, invece, di una nullità che può costituire motivo di impugnazione della sentenza, ma che è coperta dal giudicato. Un altro aspetto da ricordare è che se, al momento della decisione, il giudice ritiene di prescegliere una soluzione di terza via, basata su una questione che egli stesso intende introdurre d’ufficio, deve riservare la decisione (cioè, attendere di decidere) e assegnare alle parti un termine (tra i venti e i quaranta giorni) per il deposito di memorie sulla questione (art. 101, comma 2°, c.p.c.).

51. LA FASE DECISORIA DEL PROCESSO. LA DELIBERAZIONE. I. Il sillogismo giudiziale. La decisione secondo diritto. Occorre chiedersi in base a quali regole il giudice decida la controversia. Al riguardo, si può affermare che egli normalmente decide secondo diritto, applicando la legge italiana (art. 113 c.p.c.). Lo schema consueto della decisione è il sillogismo. Il giudice esamina i fatti e, dopo averli accertati, li inquadra nell’ambito di una fattispecie legale. La norma costituisce la premessa maggiore; il fatto accertato la premessa minore; il giudizio risulta dalla conclusione del sillogismo. Ad esempio: il termine per denunciare i vizi della cosa è di otto giorni dalla scoperta; l’attore ha denunciato i vizi dopo quindici giorni; la domanda dell’attore deve essere respinta. Nell’individuazione della norma e dei fatti, il giudice si deve servire, quanto alle prime, della propria conoscenza del diritto e, quanto ai secondi, di ciò che è stato allegato e provato nel processo. La conoscenza del diritto, acquisita con lunghi anni di studio, vagliata in occasione dell’accesso alla magistratura o comunque alle funzioni giudicanti, costantemente integrata dalla necessaria formazione continua, è il motivo sociale per cui si dà credito al giudice, come corretto risolutore delle controversie. Non si creda, del resto, che il giudice sia sempre e comunque un giurista, in ogni latitudine sto-

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rica o geografica. Questo è ciò che si esprime con il principio iura novit curia. Che il giudice sappia il diritto è un elemento che porta a conseguenze rilevanti. In primo luogo, esonera le parti dall’esatta individuazione della norma da applicare. Inoltre, non solo permette, ma impone al giudice di dare ai fatti la qualificazione giuridica opportuna: il giudice è vincolato alla domanda, ma non alle regole sulle quali le parti mostrano di volersi basare. Per ciò che concerne i fatti, il principio del monopolio della tutela giurisdizionale in capo alle parti non solo vieta al giudice di procedere d’ufficio, ma anche di basarsi su fatti che le parti hanno liberamente evitato di allegare. Quanto ai fatti allegati, essi dovranno essere provati: e qui, il principio inquisitorio permette al giudice di svolgere, entro certi limiti, indagini istruttorie alla ricerca della verità. In ogni caso, il giudice non può utilizzare ciò che conosce al di fuori del processo (è il divieto di utilizzare la c.d. scienza privata), a meno che non si tratti di fatti notori o massime di esperienza. Qui il legislatore fa riferimento a ciò che il giudice conosce non come giurista, ma come cittadino qualsiasi, di media cultura. Mentre il notorio si riferisce a episodi storici, le massime di esperienza attengono a situazioni di carattere fisico o scientifico. È notorio che Roma è capitale d’Italia o che l’attentato alle Torri gemelle di New York ebbe luogo l’11 settembre 2001. È massima di esperienza che l’acqua bolle a cento gradi. Le fonti alle quali il giudice deve attingere sono, in primo luogo, la Costituzione e quelle di cui all’art. 1 delle disposizioni sulla legge in generale: e perciò le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge, i regolamenti e la consuetudine. II. La decisione secondo equità. In via residuale, fa capo nel nostro ordinamento la possibilità per il giudice di decidere secondo equità. L’equità è un concetto di non facile definizione. Esso rimanda, in sé, ad un sistema di valori che non è identico a quello del diritto positivo e che ad esso in parte si affianca, in parte si colloca in alternativa. In realtà, posto che le la-


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cune del sistema sono sempre colmabili in via interpretativa, l’equità non è uno sbocco necessario. Eppure, l’ordinamento prevede che il giudice, raccogliendo una percezione di giustizia sostanziale, possa discostarsi dal diritto. Quando è alternativa alla norma di diritto, l’equità è sostitutiva: essa si colloca al posto della norma. Invece, e nella maggior parte dei casi, l’ordinamento prevede l’equità come semplice integrazione della norma. Un esempio del primo caso può essere il seguente. A denuncia i vizi della cosa acquistata da B nove giorni dopo la scoperta. Per il giudice di diritto, a mente dell’art. 1495 c.c., egli non può fare valere il vizio. Per il giudice di equità, considerata la situazione del caso concreto (ad esempio, A è anziano o è inesperto o è straniero), la soluzione potrebbe essere opposta. Un esempio facile di equità integrativa è quello offerto dall’art. 1226 c.c.: il giudice sancisce, applicando la legge, l’esistenza di un danno ma, per determinarlo, si affida ad una valutazione equitativa. È bene avere chiaro che l’equità non è un sistema compiuto: è solo il temperamento, caso per caso, del sistema, alla luce di parametri di giustizia, di cui la norma generale ed astratta può non avere tenuto conto. Le norme che vengono in gioco sono due. L’art. 113 c.p.c. permette la decisione secondo equità nei casi in cui singole norme, solitamente di diritto sostanziale, attribuiscono al giudice il relativo potere. In base all’art. 114 c.p.c., le parti, in materia di diritti disponibili, di comune accordo, possono chiedere al giudice di decidere secondo equità (il che non accade quasi mai). Infine, disposizioni specifiche valgono per il giudice di pace. III. L’applicazione del diritto europeo e del diritto straniero. Il giudice italiano deve certamente conoscere ad applicare il diritto dell’Unione europea. È noto che i due principi di supremazia e di applicazione diretta del diritto europeo rendono il giudice nazionale il primo e il più comune applicatore del diritto dell’Unione. Infatti, le norme di fonte europea – e il riferimento va es-

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senzialmente alle disposizioni di carattere sostanziale – sono in molti casi direttamente applicabili negli ordinamenti giuridici degli Stati membri e godono di una posizione di prevalenza rispetto ad eventuali norme nazionali difformi, con la conseguenza che il giudice nazionale deve decidere le controversie che gli vengono sottoposte, facendo applicazione del diritto dell’Unione e disapplicando le norme nazionali in contrasto, senza un previo rinvio agli eventuali organi di controllo di costituzionalità. La diretta applicabilità va riconosciuta a quelle norme dei trattati che riconoscono in modo immediato posizioni soggettive di vantaggio ai soggetti dell’ordinamento (così le regole sulla libera circolazione delle merci, sulla parità di trattamento in materia di prestazione di servizi e via dicendo); alle norme contenute in regolamenti (che hanno portata generale e sono direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri); alle decisioni; nonché, almeno in una certa misura, alle direttive. Negli anni più recenti, la giurisprudenza della Corte di giustizia ha messo in luce un profilo ulteriore: quello del diritto alla piena tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive che si fondano sul diritto dell’Unione. Ne deriva che anche le regole processuali non possono essere strutturate in modo da rendere più difficile l’applicazione del diritto europeo. Nel quadro di un’attività giurisdizionale ampiamente delocalizzata, acquista rilievo il ruolo del diritto straniero. La conoscenza del diritto straniero è un compito rientrante nel dovere decisorio del giudice (iura novit curia) e non è un fatto che le parti devono provare, fino al punto della ricorribilità in cassazione per violazione o errata applicazione della norma straniera. Questi profili sono sanciti dalle norme della l. n. 218 del 1995 e in specie dagli artt. 14 e 15. Secondo l’art. 14, il giudice compie d’ufficio l’accertamento della legge straniera, potendosi avvalere, se del caso, di esperti o istituzioni specializzate; nel contempo, la legge straniera è applicata secondo i propri criteri di interpretazione e di applicazione nel tempo (art. 15). Va detto che non sono convincenti le proposte interpretative secondo cui il giudice, applicando la legge estera, attua comunque l’ordinamento italiano, che quella legge aveva recepito o richiamato


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o almeno previsto come applicabile per un dato rapporto giuridico caratterizzato da elementi di estraneità. Infatti, queste interpretazioni tentano di negare ciò che non può essere negato: vale a dire, la provenienza di quelle norme da una comunità politica e culturale diversa (anche se non radicalmente contrastante, sulla scorta del limite dell’ordine pubblico) da quella nazionale. Nel quadro normativo vigente, l’applicazione del diritto straniero può derivare, infatti, da una controversia estera, priva di collegamenti con l’ordinamento italiano, al di fuori della volontà delle parti (sia pure a condizione che la sentenza emananda possa essere efficace in almeno un ordinamento straniero). La funzione giurisdizionale si svolge, in questa ipotesi, senza alcun nesso con l’ordinamento interno. Ora, a differenza del passato, le ipotesi in cui una controversia deve essere decisa secondo una legge straniera non sono in alcun modo riconducibili, a priori, a canali ben determinati, che conducano talune controversie (e non altre) al giudice italiano. Quindi, l’applicazione del diritto straniero diviene una prospettiva fisiologica e normale, seppure statisticamente non comune. IV. Il riferimento alla giurisprudenza (rinvio). Alle fonti di origine legislativa, si affianca in modo sempre più rilevante la giurisprudenza, che più di un autore considera una fonte di fatto. Il punto è oggetto di interventi normativi del legislatore italiano, che conviene esaminare a proposito del ricorso in cassazione. V. Il provvedimento che definisce il giudizio. Il giudice, infine, definisce il giudizio. Le possibili soluzioni sono tre: ordinanza; sentenza non definitiva; sentenza definitiva. Dopo avere gestito la trattazione della causa e la fase istruttoria, il giudice si trova di fronte un panorama chiaro della controversia. In linea generale, il giudice, secondo l’art. 277 c.p.c., nel deliberare sul merito deve decidere tutte le domande proposte e le relative eccezioni, definendo il giudizio.

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Può accadere, però, che ravvisi una qualche incompletezza nella trattazione. Si pensi al caso in cui, dopo avere escluso un mezzo di prova perché ritenuto non rilevante, alla luce di una verifica più approfondita, ritenga invece di doverlo assumere. Nella prassi, non di rado il magistrato che decide la causa è persona fisica diversa da colui che l’ha istruita: quindi, i ripensamenti non sono affatto da escludere. Ora, in tutti i casi in cui il giudice voglia disporre la prosecuzione del giudizio, non emette una sentenza, che è provvedimento decisorio finale, ma un’ordinanza. L’art. 279, comma 1°, infatti, precisa che il giudice pronuncia ordinanza quando provvede soltanto su questioni relative all’istruzione della causa, senza definire il giudizio. In tal caso, impartisce con la stessa ordinanza i provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa. La seconda ipotesi è quella di una sentenza non definitiva. Ciò avviene quando il giudice risolve una questione preliminare o pregiudiziale, di rito o di merito, che non comporta però l’esaurimento della causa. In concreto, ciò accade quando viene portato in decisione un capo di materia del contendere (relativo a un presupposto processuale, a una condizione dell’azione o anche al merito) che, se risolto negativamente, chiuderebbe il giudizio, ma che, risolto positivamente, ne impone la prosecuzione. L’art. 187, commi 2° e 3°, precisa che la materia del contendere può essere segmentata solo quando la decisione separata di una questione di merito avente carattere preliminare o di questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali, può definire il giudizio: e può definirlo se la non sussistenza di un presupposto, di una condizione dell’azione e via dicendo, comporta l’impossibilità di procedere avanti con l’esame del merito. L’art. 279, in coerenza, prevede che il giudice possa decidere questioni di giurisdizione, questioni pregiudiziali attinenti al processo o questioni preliminari di merito, senza decidere totalmente il merito: e ciò accade, ad esempio, quando la giurisdizione è affermata. In questi casi, egli pronuncia sentenza, a cui associa un’ordinanza, con cui impartisce distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa.


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Le recenti riforme hanno alleggerito la complessità delle pronunce sulla competenza, stabilendo che siano pronunciate con ordinanza. Se la competenza è negata, l’ordinanza equivale ad una sentenza definitiva (cambia, cioè, solo la forma del provvedimento). Se la competenza è affermata, a maggior ragione vi sarà un’ordinanza, non definitiva. Inoltre il giudice (art. 277, comma 2°), può limitare la decisione ad alcune domande, se riconosce che per esse soltanto non sia necessaria un’ulteriore istruzione e se la loro sollecita definizione è di interesse apprezzabile per la parte che ne ha fatto istanza. In questo caso, meglio che di sentenza non definitiva, si deve parlare di sentenza parziale di merito: il giudizio non viene deciso interamente (e vi sarà quindi un’ordinanza che ne assicurerà la prosecuzione), ma su alcune delle domande si giunge ad una decisione piena. Altra ipotesi è quella dettata dall’art. 279, comma 2°, n. 5. Nei casi di litisconsorzio facoltativo e di riunione di cause, il giudice può ritenere di decidere solo alcune cause, in via definitiva, disponendo la separazione delle altre, per le quali può essere necessaria ulteriore istruttoria. Anche qui, lo schema è quello di una sentenza (sulle cause decise) associata a un’ordinanza (per la gestione istruttoria su quelle separate), a meno che la causa separata non debba essere rimessa al giudice inferiore competente. In questo caso l’ordinanza dispone solo sulla rimessione. Infine, si ha una sentenza definitiva tutte le volte in cui viene deciso l’intero giudizio: o perché viene negato un presupposto processuale o una condizione dell’azione, o perché viene deciso il merito (in linea o no con le domande dell’attore). L’art. 279 elenca, come oggetto di sentenze definitive, la decisione di questioni di giurisdizione, la decisione di questioni pregiudiziali attinenti al processo o questioni preliminari di merito, la decisione totale del merito. La legge si occupa poi della sorte delle ordinanze emesse insieme alla sentenza non definitiva, con il compito di gestire la prosecuzione del processo. Il codice conferma che questi provvedimenti, depositati in cancelleria insieme alla sentenza, non possono mai pregiudicare la decisione della causa; che, se la legge non dispone altrimenti, sono modificabili e revocabili dallo stesso giudice che li

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ha emessi; che non sono soggetti ai mezzi di impugnazione previsti per le sentenze; che sono sempre immediatamente operativi. Resta la possibilità che, in caso di impugnazione immediata contro una sentenza non definitiva, il giudice, su istanza concorde delle parti, qualora ritenga che i provvedimenti dell’ordinanza collegiale siano dipendenti da quelli contenuti nella sentenza impugnata, disponga con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione o la prosecuzione dell’ulteriore istruttoria sia sospesa sino alla definizione del giudizio di appello. VI. La decisione collegiale. Si tratta di vedere come il giudice raggiunge la sua decisione. Il problema non si pone, evidentemente, per il giudice monocratico. Per il collegio, vale l’art. 276 c.p.c. Secondo questa norma, la decisione è deliberata in segreto nella camera di consiglio e vi possono partecipare soltanto i giudici che hanno assistito alla discussione. Il collegio, sotto la direzione del presidente, decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d’ufficio e quindi il merito della causa. La decisione è presa a maggioranza di voti. Il primo a votare è il relatore, quindi l’altro giudice e infine il presidente. Se intorno a una questione si prospettano più soluzioni e non si forma la maggioranza alla prima votazione, il presidente mette ai voti due delle soluzioni per escluderne una, quindi mette ai voti la non esclusa e quella eventualmente restante, e così successivamente finché le soluzioni siano ridotte a due, sulle quali avviene la votazione definitiva. Nel sistema italiano, non ha spazio la dissenting opinion del giudice. Ve ne è una debole traccia agli artt. 118, comma 4°, disp. att. c.p.c. e 131, comma 3°, disp. att. c.p.c., laddove si legge che la scelta dell’estensore della sentenza è fatta dal presidente fra i componenti del collegio che hanno espresso voto favorevole alla decisione. L’art. 131, comma 3°, c.p.c. prevede che l’eventuale dissenso di un giudice sia indicato in un apposito verbale che, però, resta come atto interno dell’organo giudiziario, senza possibilità di utilizzazione per la parte soccombente in vista di una futura impugnazione.


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Se questo è il percorso formale, va detto che le camere di consiglio dei collegi devono essere immaginate in maniera diversa. Le statistiche dimostrano che nella maggior parte dei casi prevale l’opinione del giudice istruttore che ha seguito la causa e comunque la conosce meglio degli altri due giudici: si tratta, del resto, di una delle motivazioni fondamentali a sostegno dell’estensione dei casi in cui decide il giudice monocratico. Ciò non toglie che vi sia non di rado un utile scambio di idee e che la camera di consiglio sia un’ottima scuola, specialmente per i magistrati più giovani. Chiusa la votazione, il presidente scrive e sottoscrive il dispositivo. La motivazione è quindi stesa dal relatore, a meno che il presidente non creda di stenderla egli stesso o affidarla all’altro giudice. Ciò vale, in particolare, quando il collegio decida di rovesciare l’impostazione proposta dal relatore. VII. Redazione, pubblicazione e comunicazione della sentenza. Il dispositivo della sentenza realizza la tutela richiesta dalle parti, nelle sue diverse articolazioni di accertamento, di condanna e costitutive. La redazione del dispositivo, seppure spesso si concentri in poche righe, è un momento di notevole delicatezza per il giudice e presenta un chiaro collegamento, in base al principio della domanda, con le conclusioni delle parti. È sul dispositivo che si giocano gli effetti del giudicato e, in ogni caso, l’efficacia pratica della decisione. Al giudice spetta anche di cogliere le necessarie conseguenze giuridiche delle domande, accolte o respinte. Ad esempio, il giudice, se respinge una domanda che era stata trascritta, deve ordinare la cancellazione della trascrizione, che ha effetto quando la sentenza passa in giudicato (art. 2668 c.c.). La sentenza viene redatta e poi scritta: nel senso che il giudice (monocratico o relatore nel collegio) può affidare una minuta alla cancelleria che la trascrive o, più comunemente, compilare da solo un file, che viene poi semplicemente stampato. La sentenza, quindi, viene firmata dal giudice e depositata in cancelleria: da questo

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momento, è ufficiale e pubblica. Il deposito in cancelleria equivale dunque alla pubblicazione della sentenza. La sentenza, qualora sia stata pronunciata dal giudice monocratico in udienza, si intende pubblicata con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la contiene ed è immediatamente depositata in cancelleria. Va detto che il giudice può redigere la sentenza direttamente in formato elettronico, firmarla digitalmente e trasmetterla telematicamente alla cancelleria. Questa modalità è destinata a diventare sempre più frequente e a sostituire quelle tradizionali. È però importante notare che le fasi successive (redazione, sottoscrizione, pubblicazione) restano giuridicamente distinte. La cancelleria provvede poi a comunicare in via telematica l’intero provvedimento (e non più, come per il passato, il solo dispositivo) alle parti costituite, ai sensi dell’art. 133 c.p.c. Infine, va assolta l’imposta di registro.

52. L’ESECUTORIETÀ DELLA SENTENZA. I. Gli effetti della sentenza. La sentenza, a questo punto, può dare vita ad una successiva esecuzione forzata, se ricorrono le condizioni che si vedranno a breve; resta invece soggetta ai mezzi di impugnazione ordinari, la cui proponibilità ne condiziona il passaggio in giudicato formale. Tuttavia, oltre agli aspetti del giudicato (e quindi, dell’irretrattabilità e della stabilità dell’accertamento) e dell’esecutorietà, vi è un terzo profilo che va brevemente posto in luce: quello dell’imperatività della sentenza. Con questo concetto, si vuole sottolineare che, a prescindere da ogni altro elemento, la sentenza pubblicata è un atto di autorità dello Stato, mediante il potere giurisdizionale e ha una forza di comando intrinseca. Le conseguenze sono rilevanti. Il cittadino che agisce sulla base di quanto disposto nella sentenza, agisce comunque in conformità alla legge e in buona fede. È vero che taluni effetti della sentenza sono condizionati, dal diritto so-


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stanziale, al passaggio in giudicato e che altri si possono conseguire solo attivando il procedimento di esecuzione; ciò però non significa che la sentenza, seppure non ancora stabile, non abbia un preciso valore di comando. II. L’esecutorietà immediata della sentenza. Secondo l’art. 282 c.p.c., la sentenza di condanna di primo grado è provvisoriamente esecutiva. Nel sistema anteriore le sentenze erano esecutive (salvo eccezioni) solo dopo il secondo grado di giudizio. La legge n. 353 del 1990 ha esteso l’efficacia esecutiva alle sentenze di primo grado per evitare i lunghi tempi necessari per la conclusione della fase di gravame: la norma ha certo diminuito la frequenza degli appelli puramente dilatori, proposti al solo fine di rimandare il pagamento. È evidente, però, che si introduce, in questo modo, una disarmonia nell’ordinamento, perché l’efficacia esecutiva viene accordata ad una pronuncia che non solo non ha ancora raggiunto la stabilità dell’accertamento, ma non ha neppure concluso l’iter del merito. La scelta del legislatore suppone ovviamente un contrappeso: la parte soccombente può chiedere al giudice dell’impugnazione che l’esecutorietà venga sospesa fino alla conclusione del giudizio di appello. È questa l’ipotesi dell’inibitoria, di cui si tratterà parlando delle impugnazioni. Si è detto che l’efficacia esecutiva è attribuita solo alle sentenze di condanna. Dietro a questo assunto, vi è una semplice riflessione. Nel caso delle sentenze di mero accertamento (incluse quelle che respingono, nel merito, una domanda di condanna) e delle sentenze costitutive in senso proprio, l’effetto utile per la parte si consegue automaticamente con la decisione: non si può parlare di esecutorietà per queste sentenze, perché non vi è alcuna realtà materiale da forzare per attribuire a chi ne ha diritto l’utilità, oggetto dell’accertamento. Invece, le sentenze di condanna suppongono che si debba poi conseguire, a carico del soccombente, un’attività ulteriore che, se non prestata spontaneamente, deve essere ottenuta in modo coercitivo.

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È però ampio il fronte dottrinale che ritiene si debba estendere la provvisoria esecutorietà (intesa essenzialmente come provvisoria anticipazione degli effetti) anche alle sentenze non di condanna. Indubbio merito di questa dottrina è quello di cogliere l’esigenza di non ritardare tutti gli effetti della sentenza al momento, spesso troppo lontano, del passaggio in giudicato, ma di sviluppare tutte le possibili potenzialità di efficacia del dictum giurisdizionale: il che oggi pare ampliarsi nella logica di istituti come il provvedimento anticipatorio senza la necessaria instaurazione del giudizio di merito. Se si distingue correttamente fra idoneità a dare vita ad un processo esecutivo in senso stretto (predicabile solo per le sentenze di condanna) e idoneità a produrre effetti attuativi anche prima del formarsi del giudicato, ci si rende conto che le due posizioni sono meno lontane di quanto non appaia. Diverso è il problema dell’esecutorietà di disposizioni di condanna accessorie ad una sentenza costitutiva o di mero accertamento: si pensi al caso frequente in cui una sentenza di primo grado rigetta la domanda dell’attore (ed è quindi una pronuncia di accertamento negativo), condannandolo a rifondere le spese a favore del convenuto. Qui, dopo qualche incertezza, la giurisprudenza si è orientata nel senso di ritenere la clausola delle spese comunque provvisoriamente esecutiva. Si tratta di una scelta corretta. Infatti, la lettura della norma dell’art. 282 c.p.c., dopo la riforma del 1990, non può essere disgiunta dalle finalità, evidenti e dichiarate, del disegno complessivo. Il legislatore ha inteso privilegiare l’effettività delle pronunce, attuando un riequilibrio di posizioni, a tutto favore di chi ha vinto in primo grado e a scapito di chi affida invece all’appello le proprie chances di giungere ad un giudicato di segno diverso. La revisione delle regole sulla provvisoria esecutorietà e, correlativamente, sull’inibitoria è certo improntata a questo coerente obiettivo. Del resto, è difficile trovare argomenti letterali che facciano pensare ad una soluzione diversa. È anche opportuno segnalare un’apertura giurisprudenziale nel senso della c.d. condanna implicita: la situazione, cioè, in cui una sentenza costitutiva contiene, come suo naturale prolungamento, una condanna. L’ipotesi che viene in gioco è quella della costituzio-


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ne di servitù, in cui si può ritenere che la mera costituzione resterebbe inefficace se non accompagnata (anche per implicito) da una condanna al facere indispensabile per realizzare l’obiettivo. La prospettiva della condanna implicita lascia perplessi, sotto il profilo della domanda di parte e della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato. È vero che la pronuncia costitutiva, in questo caso, non potrebbe da sola (senza, cioè, la materiale attuazione del comando) portare alcuna utilità al titolare della servitù; è anche vero, però, che l’attore può non limitarsi a chiedere la costituzione della servitù, ma domandare anche l’ordine nei confronti della controparte di rimuovere gli ostacoli all’esercizio del costituendo diritto. La prima domanda non comprende, con necessità logica, anche la seconda; l’attore potrebbe agire per la condanna in un separato giudizio, promosso una volta conseguita la pronuncia costitutiva. III. L’esecuzione indiretta. Una delle maggiori difficoltà nell’attuazione della decisione del giudice sta nell’incoercibilità di taluni obblighi: in specie, quelli di fare infungibile o di non fare. Il codice regola un’apposita forma di esecuzione forzata (la c.d. esecuzione in forma specifica, di cui ci occuperemo), ma vi sono situazioni che neppure la forza dell’ordinamento può superare. Si pensi al caso in cui il pittore A, dopo averne assunto l’obbligo, si rifiuti di eseguire il ritratto del committente B. Quest’ultimo potrà ottenere altri ritratti, ma non quello eseguito da A. Così pure, il problema si ripropone per le condanne inibitorie, il cui oggetto è il divieto di determinati comportamenti, rispetto ai quali è facile disporre un ordine sulla carta, ma di cui è difficile garantire la non ripetizione. L’esempio può essere quello del divieto di riproporre una certa pubblicità ingannevole. Da tempo, e con particolare sviluppo nel sistema francese (dove questi provvedimenti assumono il nome di astreintes), si è introdotta la soluzione di misure a carattere economico e sanzionatorio che, se non raggiungono direttamente lo scopo, possono però indurre l’obbligato ad adeguarsi. Nell’esempio appena formulato, il pittore A potrebbe essere condannato a pagare una certa somma per ogni

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giorno di persistenza nel rifiuto di eseguire il ritratto, fino al punto che questa pressione gli diventi economicamente insostenibile e lo induca ad adempiere. Nell’ordinamento erano già presenti alcune misure settoriali, che collegano una sanzione pecuniaria al rifiuto di adempiere. Nel 2009 è stata poi introdotta una norma generale, l’art. 614-bis c.p.c., che nel suo testo originario era strettamente limitata al caso degli obblighi di fare infungibile e di non fare. Dopo la novella del 2015, questa disposizione trova applicazione per tutte le ipotesi di pronunce di condanna, ad eccezione soltanto di quelle concernenti il pagamento di somme di denaro. Pertanto, l’esecuzione indiretta acquista un carattere più generale e viene a comprendere, ad esempio, la consegna di cose mobili, anche fungibili (come una determinata quantità di beni o di macchinari) o il rilascio di immobili o aziende. Essa, quindi, non riguarda unicamente i casi di esecuzione impossibile, ma diventa uno strumento che rafforza comandi la cui esecuzione è attuabile, anche se difficile. Seppure collocato in un titolo autonomo all’interno del terzo libro del codice sul processo esecutivo, sotto la rubrica “delle misure di coercizione indiretta”, l’art. 614-bis è in realtà norma da esaminare insieme alla decisione del giudice di cognizione. Infatti, con il provvedimento di condanna (ma, singolarmente, proprio con esclusione dei rapporti di lavoro subordinato e parasubordinato, privato e pubblico) il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il giudice – così ancora la norma – determina l’ammontare della somma di cui al comma 1° tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile. La struttura della norma prevede una domanda di parte (che, ovviamente, potrà essere accolta o no, specie tenuto conto delle nuove più vaste possibilità applicative dell’istituto) e una decisione in qualche modo discrezionale del giudice, che può fissare la somma secondo la sua prudente valutazione ed evitando situa-


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