I DIECI PILASTRI DELLA LEADERSHIP

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Bruno Vettore

I 10 PILASTRI DELLA LEADERSHIP Short book sul tema della leadership applicata nel concreto



Bruno Vettore

I 10 PILASTRI DELLA LEADERSHIP Short book sul tema della leadership applicata nel concreto

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Chi pensa di guidare gli altri e non ha nessuno che lo segue sta solo facendo una passeggiata.

(John Maxwell)


Fra le concezioni essenziali del mio patrimonio personale, della mia storia esistenziale, ci sono il concetto di “leader” e quello collegato di “leaderismo”: è una tesi che comparirà spesso in questo breve saggio, perché parte essenziale della mia ideologia naturale. Molti uomini possono essere dei leader, dei riferimenti universali, delle guide morali: non tutti, ma scavando nelle personalità, molti di essi possono tranquillamente concorrere a essere dei regolatori e driver di vita. È questa una convinzione psicologica indispensabile per avere successo, per riuscire a far si che gli sforzi tesi nella realiz‐ zazione dei propri desideri, non solo nel lavoro, ma nella complessa gestione della propria esistenza, nella direzione e coordinamento di comunità, sia che si tratti d’aziende, scuole, famiglie, testate edito‐ riali o addirittura stati nazione e quant’altro necessiti di funzioni di guida e controllo, e quindi tutto, abbiano un esito positivo. Non esiste praticamente nessuna aggregazione di uomini che non abbia bisogno di una figura leaderistica: astruse teorie di gestione collegiale o solidale di una qualsiasi organizzazione, senza una figura di riferimento del gruppo, lasciano il tempo che trovano e sono mere astrazioni. Va subito detto che la funzione di leader è carismatica, ma non in senso liturgico e religioso: la parola, infatti proviene dal greco antico Charisma ‐ derivata dal sostantivo Chàris/Grazia ‐ significa dono, e in origine indica un dono di Dio a una persona. In psicologia, in genere ha lo stesso significato di “dono” e spesso viene assimilata all‘aura, quell’alone leggendario che alcuni personaggi hanno, e alla loro capa‐ cità di aggregare persone e convincerle a eseguire azioni o eventi di massa che normalmente da soli non farebbero: insomma il potere di strutturare una “massa critica” di persone intorno a se e gestirla. 5


Ma il carisma, come lo intendo io, cioè la forza di convincimento che un leader deve avere, non viene necessariamente dalle sue parole: una guida deve convincere, perché, secondo me, ha dato, prima di tutto, dimostrazioni di saper fare, ed è stato un esempio per molti. Il carisma, in questo caso, deriva da un lavoro lungo e produttivo e il leader che lo esercita non lo fa mai per presunzione e non se lo auto‐ attribuisce: in un equipaggio perso fra le onde, al capo non basta avere carisma, il capo è colui che dà maggior sicurezza. Il padre del moderno management, il fondatore degli studi sulla conduzione d’impresa, uno dei primi a istituzionalizzare in modo scientifico il concetto di leader e di leaderismo, Peter Drucker, soleva dire: «Dietro ogni impresa di successo c’è qualcuno che ha preso una decisione coraggiosa». Ecco, il coraggio, la componente primaria e fondante di un leader, senza la quale non è possibile esserlo, ma, come scriveva il Manzoni, “Il coraggio se uno non ce l’ha, non se lo può dare...”. Io credo invece che questo concetto poetico dell’individuo che aveva il “Don Lisander”, come lo chiamavano i milanesi, sia modificabile: il coraggio si può formare, attraverso il lavoro, l’autoconvincimento, la valutazione delle proprie capacità. Una persona che riesca a conoscersi, anzi rico‐ noscersi delle capacità, e che le coltivi con lo studio, l’applicazione quotidiana, comincia ad accrescere la propria autostima da cui deriva il coraggio. E il coraggio non è di chi dimostra di sapersi lanciare nel fuoco, ma di chi si organizza per spegnerlo con decisioni efficaci. Ma chi e Peter Drucker? Di questo signore, ho citato poc'anzi uno dei suoi concetti, uno dei tanti: Drucker (1909/2005) è stato uno dei fondatori del pensiero del moderno management. Noto non solo agli esperti del settore per i suoi scritti sulle teorie manageriali, è stato consulente di imprese, enti governativi e organizzazioni no-profit in ogni angolo del globo. In “The Age of Discontinuity” scrisse: «In un’economia fondata sulla conoscenza, nella quale l’abilità consiste nel sapere le cose e dove la tecnologia e la situazione contingente cambiano estremamente in fretta, l’unica certezza che possiamo avere per mantenere il nostro posto di lavoro è la capacità di imparare in fretta». 6


Così come, in una celebre intervista all’”Espresso”, a novantadue anni, ribadì l’importanza della pratica negli studi sul management, come avviene per altre discipline, come il diritto e la medicina. L’importanza dell’ottica di squadra, soprattutto da parte del leader; la corretta gestione del tempo; l’efficienza come Verbo; l’avere come obiettivo finale la soddisfazione del cliente; l’aggiornamento costante e l’attenzione alla comunicazione, ai mercati, alle tecnologie che ope‐ rano nel proprio settore di attività; il perseguire in maniera quasi maniacale il proprio scopo: questi sono i punti cardine dei ragiona‐ menti di questo grande economista e innovatore. Un suo celebre aforisma recita: «È compito del management per‐ mettere alle persone di aumentare le proprie performance, rendendo efficaci i propri punti di forza e rendendo minimi i punti deboli». Sulla base di queste considerazioni e volendo ampliare il ragiona‐ mento in questo breve saggio sulla leadership, dobbiamo prendere in considerazione ulteriori elementi strutturali che io considero basilari e che nel corso delle mie esperienze lavorative ho tradotto nelle esposizioni in varie conferenze. Innanzitutto cominciamo a riflettere su cosa s’intende per leader, capo o guida. In una compagine sociale, sia esso un luogo di lavoro o una comunità diversamente organizzata, il capo, il leader è la persona a cui, per votazione o affidamento fiduciario, sono riconosciute (in primis) e/o attribuite tutte le capacità adatte al conseguimento dell’obiettivo comune al gruppo. Il leader non si rivolge a dei “subordinati”, come un “capo”, ma fonda la propria forza persuasiva sull’autorevolezza e sulla propria capacità, effettiva, di raggiungere lo scopo affidatogli: va detto che io, comunque, non chiamo e non considero subordinati coloro che mi ascoltano, ma interlocutori a cui sottopongo la mia visione generale. La leadership invece è a mio avviso il rapporto che si viene a creare da chi è considerato o eletto “capo” e gli altri interlocutori del gruppo o compagine sociale; interlocutori che il leader guida e influenza, modificando le loro scelte e comportamenti, con un’incidenza supe‐ riore di quanto non avvenga viceversa da parte del “resto del gruppo” 7


nei suoi confronti. La leadership è un rapporto vero e proprio e riveste il carattere della reciprocità, nel senso che, se è vero che senza inter‐ locutori da influenzare non esisterebbero leader, è pur vero che leader si diventa, guadagnandosi il titolo sul campo, con l’esempio e l’atten‐ zione verso gli altri. Per gli amanti delle “categorie” si suole semplificare questo rapporto affermando che, data la definizione di leadership come rapporto sociale, per individuarne in modo corretto e completo il concetto, si deve fare riferimento a tre insiemi di definizioni, a seconda degli elementi considerati: ‐ un primo gruppo di definizioni si concentra sulla funzione di tra‐ scinatore del leader, trascurando, quindi, il contesto nel quale lo stesso si trova a operare; ‐ un altro gruppo pone l’accento sul controllo che il leader riesce ad avere sulle azioni o atteggiamenti degli altri componenti del gruppo (i cosiddetti “seguaci”), senza che questi abbiano in alcun modo la percezione di essere “istigati” o “obbligati” ad adottare determinati comportamenti o prendere talune decisioni in luogo di altre; ‐ un terzo e ultimo gruppo si concentra sull’azione di influenza, capace di determinare delle variazioni che facilitano il raggiungi‐ mento del risultato perseguito dal gruppo. Faccio notare come, il secondo insieme di definizioni focalizzi l’attenzione sul controllo, sulla spinta, sulla direzione delle azioni o degli atteggiamenti che un soggetto riesce a imprimere ad altri o a gruppi e masse di individui, ottenendo più o meno un placet da parte loro, senza l’uso della coercizione. Si parla dunque di “atteggiamento” quando si vuole indicare la disposizione degli individui di produrre risposte determinate da stimoli provenienti da diversi ambienti. In sintesi, l’atteggiamento comunica ciò che ogni individuo, sollecitato a riguardo, è disposto a fare, con parole e fatti, per un periodo breve o anche in forma perma‐ nente. Fatte queste considerazioni di carattere scientifico, universalmente riconosciute, che spaziano dai primi concetti filosofici di Max Weber, che fu l’iniziatore della Psicologia Sociale, fino al sopracitato Drucker, 8


a me piace lavorare su un numero di concetti che considero basilari e che partono da idee che possono sembrare semplici, ma oltre a non esserlo, sono frutto di considerazioni sul mio lavoro trentennale. Molto importante è l’attenzione costante per le persone, la consa‐ pevolezza che quando si è davanti ad un gruppo, piccolo o grande che sia, non si è davanti a una massa semplicemente eterogenea, ma a un numero di persone che vanno rispettate singolarmente, scavando nelle loro specifiche peculiarità. Fra le varie qualità necessarie per esercitare la propria leadership, la più preziosa è quella relativa alla capacità di riconoscere e capire il più velocemente e il più efficacemente possibile chi si ha di fronte, siano essi collaboratori o clienti: credo che non solo gli occhi siano lo specchio dell’anima, come spesso si afferma, ma che ogni tratto, ogni espressione, ogni ruga del volto è un indizio che svela i pensieri nascosti, le vere emozioni, persino la storia delle persone. Insomma la vera personalità di un individuo. Saper leggere questi indizi, è una qualità prevalentemente istintiva e non razionale, e permette di trovare le risposte a tutte le domande inerenti la valutazione dei nostri interlocutori. Riuscire a stimolare questo processo di “curiosità” riguardo agli interlocutori, nei soggetti che vado a formare per me è essenziale. Ma, mentre io ho “attenzione” per le persone a cui mi rivolgo, pretenderei, allo stesso tempo, che i soggetti in fase di formazione, imparino a loro volta a studiare e avere “attenzione” per le persone a cui si rivolgono. Ognuno di noi si è ritrovato a pensare o dire: “Quella faccia non mi piace” oppure “Quel sorriso non mi convince”, insomma a comporre un primario quadro fisiognomico del soggetto con cui si sta per inte‐ ragire. Molto spesso il nostro istinto può avere ragione, ma un’atten‐ zione “indagatrice” aiuta l’istinto a lavorare meglio e utilmente. La curiosità va stimolata. Ma la “curiosità” è anche fondamentale nel processo di crescita culturale di un individuo. La curiosità serve a soddisfare un desiderio inquisitivo circa la natura di un oggetto o di un fenomeno. È un aspetto emozionale fondamentale che, riguardando l’esplorazione continua, fa accrescere la nostra capacità deduttiva, riuscendo, attra‐ verso l’investigazione e l’apprendimento, a farci identificare anche 9


i meccanismi e comportamenti psicologici, e a farci interagire con l’ambiente, nel nostro caso a riconoscere le persone, che sono la materia prima del nostro lavoro. Quante volte viaggiamo costretti a frequentare persone sconosciute? Dal semplice ascensore che ci trasporta al piano desiderato, all’aereo che ci tiene in un rapporto promiscuo e obbigato per ore con degli sconosciuti, oppure in treno, dove le ore da passare sono ancora più lunghe. Ecco, saper riconoscere le persone al primo impatto, attraverso la “fisicità” di chi abbiamo davanti, ci aiuterà nel rapporto forzato che dovremo avere con queste e, sostanzialmente, nel caso pratico, se dobbiamo riservargli fiducia e dialogare o viceversa tenerci debita‐ mente a distanza per evitare discussioni noiose e tedianti. Tutta quest’attenzione ci serve anche a giudicare e stimare, nel lavoro, un interlocutore, per comprenderlo e metterlo a proprio agio. In queste considerazioni “fisiche” molti crederanno di leggervi un mio appiattimento sulla pratica antica della fisiognomica. Questa ricerca, che spazia dai primi studi di Aristotele, fino ad arrivare allo studio scientifico di Lombroso, è considerata pseudoscientifica in quanto pretende di rilevare attraverso l’indagine morfologica del‐ l’individuo i suoi processi caratteriali. Non è certo una pratica infalli‐ bile ed è stata sconfessata sovente dagli studi moderni; ciononostante alcune delle sue intuizioni possono essere utili, e possono servirci nel riconoscere, attraverso i comportamenti delle persone, la loro postura, gli atteggiamenti che utilizzano nel rapportarsi, i loro tic, il livello di fiducia che più o meno possiamo concedergli. Un antico proverbio napoletano recita: ’A faccia cundanna. Cioè, il volto, dalla sua caratteristica, afferma il ruolo del soggetto, lo condanna a quello che immediatamente ci si immagina di esso. Spesso la vita vissuta di una persona si riflette come uno specchio nel suo volto e nei suoi atteggiamenti fisici: ecco, credo che su questo sia possibile lavorare imparare a riconoscere il proprio interlocutore. La leadership che intendo io è ovunque. Credo che chiunque abbia una responsabilità di gestione di un gruppo, e per gruppo intendo un’azienda, un partito, una squadra di 10


calcio, una classe, una famiglia, debba avere una grande e profonda attenzione per le persone in termini distinti, per ognuna di loro, come già specificato sopra. Si parla sovente di leadership nell’ambito del lavoro, della politica o dello sport, ma la leadership è ovunque, cominciando da quella che esercita un padre nei confronti dei propri figli. Deve necessariamente essere un leader un maestro o una maestra nei confronti della propria classe; esercita una leadership anche un amico all’interno di una compagnia di amici, per tenerla unita. Tutte queste sono forme di leadership diverse, ma hanno lo stesso obiettivo, condurre autorevolmente un gruppo di persone verso un risultato. Ma esistono anche i falsi leader. Molte persone riescono, in vari settori, a raggiungere delle leader‐ ship spesso immeritate. Sappiamo come funzionano le cose in alcuni ambienti del settore pubblico o della politica e non ci interessano quei metodi, ma non siamo preoccupati di parlarne. Questi soggetti hanno una sola grande capacità, quella di rallentare il lavoro, invece di spingerlo e velocizzarlo, in un mondo dove la rapi‐ dità di esecuzione è un fattore primario, dove il famoso “battito d’ali di una farfalla può scatenare un uragano dall’altra parte del mondo”, questi assurgono a maestri della burocrazia e del formalismo: sono i “Non‐Leader”. E un non‐leader è quanto di più deleterio possa avere una comunità, un gruppo o un’azienda. Quante volte abbiamo incontrato soggetti del genere, come diceva bene il grande principe della risata Totò, che principe lo era davvero: “Siamo uomini o caporali?”, e questa frase, che nel film di Camillo Mastrocinque non voleva essere comica, racchiude il senso di parte del mio ragionamento. Il principe De Curtis, nella fase culminante del film, infatti spiegava: L’umanità, io l’ho divisa in due categorie di persone: uomini e caporali. La categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei caporali, per fortuna, è la minoranza. Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare per tutta la vita, come bestie, senza vedere mai un raggio di sole, senza mai la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama. I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che 11


maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza averne l’autorità, l’abilità o l’intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque. Dunque dottore ha capito? Caporale si nasce, non si diventa! A qualunque ceto essi appartengono, di qualunque nazione essi siano, ci faccia caso, hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi. Pensano tutti alla stessa maniera!

In questo dialogo tra Totò e il medico che lo esamina, è racchiuso il senso del film, e molta saggezza popolare, dove, non a caso, rispunta anche un pezzo di fisiognomica. Ecco, questa finta guida, che mi piace definire leader di plastica, è un caporale, uno che ha avuto una fortuna insperata, che con sofismi dialettici e mistificazioni ha raggiunto posti di potere ed esercita quell’autorità in modo magmatico, non facendo progredire la comu‐ nità che dirige, ma spesso addirittura ne rallenta la crescita. Le ambizioni nella vita, oltre a essere sacrosante, scatenano energie positive e servono a stimolare i soggetti a fare bene per raggiungere risultati positivi, sono però deleterie quando sospingono gli individui verso posizioni di comando che credono di poter detenere restando staticamente, appunto, come leader di plastica a governarle: questi non avranno lunga durata. Credo di poter affermare questo sulla scorta delle mie esperienze nei ruoli diversi che ho ricoperto: ho attraversato i territori della conoscenza anche stando, come si può comprendere, dall’altro lato della scrivania e se ho raggiunto certi obiettivi è perché ho conosciuto leader eccellenti e figure di plastica, quelli eccellenti mi hanno dato la forza di smascherare gli altri, mi hanno fornito l’antidoto affinché non restassi “drogato” dai falsi esempi. Per esprimere un’adeguata leadership si ha bisogno di alcuni punti fermi sostanziali. Innanzi tutto una formidabile energia. Una guida deve avere un’energia da trasmettere, da comunicare, una vivacità vigorosa che coinvolga gli interlocutori. Un leader non è statico, non può essere un “bradipo” sepolto dietro una scrivania e 12


“filtrato” da nugoli di segretarie, il suo rapporto, con chiunque, dal‐ l’ultimo sottoposto al suo più vicino collaboratore dev’essere fisico, presente. La mobilità, la presenza fisica in tutti i settori delle attività rendono vivo il rapporto e gli lasciano trasmettere una delle possibili capacità esprimibili nel rapporto umano: l’empatia. Questo sentimento che ha un significato specifico negli studi sociali è riconosciuto come “simpatia estetica”. Nelle scienze umane, invece l’empatia designa un atteggiamento nei rapporti tra le persone che si caratterizza per la capacità di comprensione dell’altro, in grado di escludere ogni tipo di affettività personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale. L’empatia permette agli individui di entrare in sintonia in modo immediato con gli altri, saltando ogni tipo di “preliminare”. Un leader deve produrre empatia in modo istantaneo, deve essere accettato e contemporaneamente compreso e creduto: come nel rapporto di tipo emozionale che lega un cantante o un attore al suo pubblico, un leader deve coltivare questo rapporto, anzi, lo deve suscitare. C’è un’altra attività estetica che un capo deve suscitare: l’equilibrio. Niente estremismi, un leader dev’essere equilibrato, non spocchioso o presuntuoso, la sua sobrietà deve sempre caratterizzarsi. Le donne, la politica, l’ostentazione del successo vanno banditi, quello che deve emergere è un sano equilibrio. Un’altro tratto delle attività più identitarie di un capo in qualunque settore è l’esempio. Come dicevo agli esordi di questo short book, un buon leader esercita ovunque la sua leadership. E dove ciò si manifesta in tutta la sua valenza, se non nella famiglia? E qual è il metodo primario d’insegna‐ mento per i figli? L’esempio. I figli ricordano le attività familiari e i consigli, ma più di tutto si formano sull’esempio, copiano il modo di vivere dei genitori, emulano i loro atti e le loro azioni, acquisiscono un metodo e una cultura, si formano attraverso il confronto con loro. L’esempio è in assoluto la prima agenzia pedagogica, ha una valenza necessaria nella formazione di una persona: l’esempio è formativo. Allo stesso tempo però un buon leader deve darlo questo esempio, vivendo e operando in prima persona, secondo i comportamenti, i suggerimenti e i metodi che vado esponendo. 13


Una vera guida deve essere estroversa, non è possibile che un leader sia introverso, che possa essere una persona chiusa alle istanze che provengono dal mondo esterno, dal “non io”. Un soggetto chiuso è, per sua natura, un individuo immobile ‐ e gli introversi lo sono ‐ non si relaziona, non riesce a cogliere le istanze di modernità, di sviluppo, di progresso: quindi un altro dei fattori che regolano principalmente la vita di un leader è l’estroversione, cioè la sua capacità di porsi come una pagina aperta e leggibile verso gli altri. Tutto questo però con misura, la disponibilità non deve presupporre una riduzione del proprio carisma o un abbassamento della propria autorevolezza: un altro punto fermo della nostra analisi. L’autorità che deriva dal ruolo di leader e che gli è riconosciuta dal gruppo attraverso la sua autorevolezza va esercitata, con intelligenza e pragmatismo, senza però sfociare in autoritarismo: va usata per stabilire chi detiene il potere delle decisioni, che è poi anche l’obbligo delle decisioni, perché in certi ruoli si è designati e vincolati a decidere nel modo migliore e più velocemente possibile per tutti gli altri. A questo punto, se siamo stati coerenti con quanto sino ad ora descritto, avremo stimolato in chi ci vede e ascolta, interlocutori o compratori, un’altro fattore importante: la fiducia. Uno degli slogan politici più usati nella pubblicità comparativa negli Stati Uniti per combattere il proprio avversario è: “Voi comprereste una macchina usata da questo signore?” Ecco, in America, e non solo, soprattutto in politica, e non solo, il fattore sostanziale che si ricerca in un individuo è la fiducia. Stimolare la fiducia nell’interlocutore, fargli capire che si è sinceri, che non gli si stanno propinando bugie è il più grande risultato. Ma per fare ciò serve un ingrediente eccezionale: la passione! Senza, tutto suonerebbe sordo, percettibilmente falso e poco affidabile. Questa pulsione formidabile che Freud attribuiva alla sfera della sessualità, ma che il suo allievo Jung estrapolò dalla semplice libido, dandole la veste che conosciamo oggi: la partecipazione alle azioni con energia, sentimento e forza, la passione dunque. Essa è il fulcro di tutte le mie riflessioni, e sicuramente di tutte le attività umane: senza passione è superflua ogni azione, tutto resta ordinario, poco appagante e spesso scoraggiante. 14


E, come diceva Max Weber, “lo scoraggiamento è la scusa degli imbecilli”. Volendo cercare tra i tantissimi personaggi, che con le loro azioni hanno modificato nei secoli il corso della storia dell’umanità, una figura in grado di incarnare quanto sino ad ora discusso, la mente va senza dubbio a Napoleone Bonaparte; un uomo diventato leggenda, non solo per le sue gesta e i suoi scritti, quanto per l’aura che lo ha sempre accompagnato, e ancora lo circonda. Napoleone Bonaparte è stato un vero leader; al di là della valutazione storica che se ne vuol dare, IL leader per antonomasia. Ha avuto atteggiamenti da dittatore, ma ha posto le basi per la costruzione di una nazione che ancora oggi si fonda sui principi cardine da lui voluti. Ancora oggi la Francia ha una struttura amministrativa accentrata secondo la divisione in comuni, distretti e dipartimenti, retti da sindaci, sottoprefetti e prefetti, voluta da Napoleone. Il Code Napoleon fece assurgere al rango di diritto le idee illuministiche e fu “imposto” in tutti i Paesi conquistati dalle armate del generale còrso, attraverso un’operazione analoga a quella fatta, molti secoli prima, dai Romani. In questo personaggio storico coesistono tutti i concetti basilari del mio pensiero filosofico. Fu un uomo energico e della passione fece un ideale di tutta la vita. Il processo di empatia col suo popolo fu totale e cominciò la sera del 18 Brumaio, quando nel Consiglio dei Cinque‐ cento fece scattare la fiducia dei deputati che lo nominarono Console del triunvirato. La sua estroversione gli fece comprendere di aprirsi al popolo e frasi come questa lo evidenziano ampiamente: “Bisogna parlar agli occhi per persuadere il popolo”. O questa: “Che cosa è un governo? Nulla, se non è sostenuto dall’opinione”. L’equilibrio, che lo aveva sempre accompagnato, lo abbandonò solo alla fine, quando annebbiato dalla stanchezza non comprese che il suo tempo era finito. Ma se una fiducia venne meno fu quella di alcuni dei suoi generali, se un’energia venne meno fu quella dello spirito ferito dagli anni, per il resto fu una figura formidabile, soprattutto per i suoi soldati, che vedendolo a loro fianco, su ogni campo di battaglia, lo seguivano con passione e gli riconoscevano l’autorevolezza che gli derivava dall’esempio: un vero leader. 15


Ma per essere un leader non bisogna necessariamente essere un Napoleone, basta solo applicare con metodo, autocontrollo e tanto lavoro gli elementi di riflessione che abbiamo esaminato finora, gli otto “pilastri della leadership”: ‐ l’ENERGIA ‐ l’EMPATIA ‐ l’EQUILIBRIO ‐ l’ESEMPIO ‐ l’ESTROVERSIONE ‐ l’AUTOREVOLEZZA ‐ la FIDUCIA ‐ la PASSIONE che presuppongono però il nono “pilastro” qualificante, significativo e rilevante, che ne cementa il portato: la motivazione personale. Le persone infatti hanno bisogno di stimoli validi per poter usufruire degli ausili sopraelencati. Si tratta di un fattore determinante, ovvero possedere la capacità di motivare chi ci circonda con comportamenti, atteggiamenti, idee, progetti, obiettivi. La chiave del successo sta nell’avere vicino il maggior numero di collaboratori che si comportano come se fossero i veri proprietari del‐ l’azienda. E questo lo si ottiene solo con la motivazione e il coinvol‐ gimento, anche delle persone apparentemente meno importanti o determinanti ai fini del raggiungimento dei risultati complessivi. La genesi per la creazione di un solidale clima aziendale, dove far germogliare il seme di ottime performance è l’attenzione rivolta all’ultimo “soldato” delle retrovie, un fattorino aziendale, il caloroso saluto al portinaio o lo scambio di qualche parola con chi si occupa delle pulizie, perché anch’essi sono parte integrante di quel complesso ingranaggio che è un gruppo ‐ anzi, spesso ne sono le fondamenta ‐ parte dalla loro minuta efficienza, la piramide solida che si va a costruire o a gestire, e non si tratta di ipocrisia pelosa, di spettaco‐ larizzazione del rispetto per guadagnare pochi punti in paradiso. Un leader deve gestire con efficacia e continuità l’auto‐motivazione: la capacità di trarre entusiasmo e voglia di fare dalle azioni che ogni giorno si compiono, dagli obiettivi che si impongono. 16


Le persone che circondano un leader, dalla prima all’ultima, devono sentirgli emanare un “calore”, una “familiarità” in grado di risvegliare le energie sopite. I dipendenti non devono essere mai considerati tali, loro dipendono sicuramente da una catena di comando e sono sottoposti all’autorità di un leader, ma si devono sempre sentire “collaboratori” e parte di un disegno comune. Motivare gli operatori di un’azienda significa quindi non umiliarli mai: gli encomi, le congratulazioni, le lodi devono essere sempre pubblici, i rimproveri invece privati e non mortificanti, che non creino mai sconforto. Kenneth Blanchard diceva: “Nessuno può farti sentire inferiore senza il tuo consenso”. Assolutamente mai avallare presunte inferio‐ rità in un allievo, un collaboratore o anche un amico a cui teniamo, crollerebbe tutto il processo motivazionale. Volendo poi analizzare le diverse motivazioni che sono state oggetto anche di studi scentifici, due sono quelle che ci interessano di più: ‐ le MOTIVAZIONI PRIMARIE. Le motivazioni primarie sono determinate da bisogni primari come, ad esempio, i bisogni fisiologici (fame, sete, sonno, ecc.). Queste sono spesso coincidenti con le motivazioni interne (bisogno, istinto, ecc.). ‐ le MOTIVAZIONI SECONDARIE. Le motivazioni secondarie sono determinate da bisogni secondari come, ad esempio, l’autorealizzazione, la carriera professionale, lo status sociale, e altri. Rientrano nelle motivazioni secondarie i desideri, le motivazioni sociali e personali. Le motivazioni secondarie sono spesso coincidenti con le motivazioni esterne (mete, obiettivi, scopi, ecc.). Il nostro scopo principale, in questo breve saggio, nel formare una classe dirigente, è che questi due aspetti della pulsione positiva si incrocino dando vita a un modello moderno di manager intensivo ma non oppressivo. Un esempio davvero eclatante della forte motivazione, che deve sem‐ pre accompagnare le azioni di un leader, ce lo ha dato tempo fa l’ormai ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama. 17


Nel caso specifico non si trattava di “motivare” un semplice gruppo aziendale, ma l’intero Congresso degli Stati Uniti e di concerto una nazione intera. Alla fine del 2012, per effetto del Fiscal Cliff americano, la situazione economica era sull’orlo di un burrone: bisognava approvare delle tasse che non gravassero sulla maggioranza del ceto medio, per non incoraggiare la recessione. Ad un passo quindi dal cosiddetto “baratro fiscale”, un concetto di macroeconomia che si riferisce ad una situa‐ zione di disastro economico nel quale si verrebbe a trovare uno Stato in cui si adotti una politica economica che preveda una riduzione molto consistente della spesa pubblica, accompagnata da un notevole aumento delle tasse: la coesistenza di questi due fattori porta un Paese alla recessione, riducendo fortemente il prodotto interno lordo. Ora, il presidente Obama sapeva bene che i termini della trattativa tra le due componenti politiche del Congresso americano erano in stallo e difficilmente accordabili tra loro: ciononostante era partito per le tradizionali vacanze natalizie sicuramente prevedendo, con una strategia accurata, il suo ritorno, e così fu. Preceduto da una conferenza stampa dalle Hawaii dove risiedeva, indirizzò un discorso drammatico alle parti politiche invitandole all’accordo e subito dopo interruppe in modo spettacolare le ferie per tornare a Washington. Il primo grande effetto di questa “motivazione collettiva” fu che a spingere a favore dell’accordo si mobilitò in quelle ore perfino Starbucks, la catena di caffetterie più famosa d’America, una icona del mercato e del pubblico americano. Il suo amministratore delegato, Howard Schultz, chiese ai camerieri dei centoventi punti vendita dell’area di Washington di scrivere tra giovedi 27 dicembre e venerdì 28, i giorni cruciali della trattativa, “Come together” sui bicchieri di cartone prima di consegnarli ai clienti. Il resto lo fecero i deputati: erano ormai motivati e sicuri. Si convinsero che solo un accordo equo tra le due parti (in politica da noi useremmo il neologismo “bipartisan”) poteva salvare gli USA dalla catastrofe. Questo ci insegna che un grande leader deve saper imporre il suo pensiero, anche spettacolarmente, per motivare la sua gente. 18


Ecco un modo di superare le difficoltà: avere la capacità di tenere sulle proprie spalle le responsabilità di un progetto, di un team, di un’intera azienda. Senza cedimenti, senza debolezze, senza eccezioni. Un leader non deve mai dimenticare che è solo. Barack Obama era solo nelle sue decisioni. Tutti i leader, sia ai vertici di un’industria che a capo di un’azienda a gestione familiare, spesso al culmine di una situazione importante, sono soli, in quel frangente devono saper decidere e trasmettre forti motivazioni anche emotive a chi li ascolta.

Umiltà: “Non c’è leadership senza umiltà” disse Kenneth Blanchard. Anch’io ho sempre ritenuto che uno degli elementi fondamentali della leadership sia avere una grande attenzione per le persone. Tutto ciò che noi facciamo dipende dalle persone, dal fattore umano. E da qui sono sempre partito, accompagnato da un pensiero fisso: “Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”. In ogni ambito rela‐ zionale, privato e pubblico, ma soprattutto nel contesto lavorativo, l’umiltà si esprime facendo comprendere ai propri collaboratori che sono una parte fondamentale della soluzione di un problema, che il proprio capo ha bisogno di loro e che il successo conseguito un poco gli appartiene. E non vorrei che ciò possa sembrare troppo “buonista”, poiché non è affatto così. La mia è una forma di leadership decisa e forte, ma al contempo “umana”e “comprensiva”, e non sempre facile da capire. Vorrei far comprendere, a questo punto della mia analisi, una cosa in cui credo fortemente: si deve essere fermi e talvolta anche duri, ma le le persone intorno a noi devono comunque sentirsi importanti, perché solo se le persone si sentono tali si esprimono al massimo delle loro possibilità e del loro talento; senza umiltà tutto ciò non è affatto possibile. La determinatezza delle proprie azioni, la capacità di imporre una rotta, non deve precludere mai di avere un comportamento umile verso gli altri. Pensare: “Questa gente ce l’ho in pugno!” è un errore gravissimo, oltre a essere eticamente scorretto è autolesionista. 19


L’umiltà è dunque l’ultimo dei miei dieci “pilastri della leadership”, gli “altri” miei 10 comandamenti, ciò in cui credo, ciò da cui molti anni fa sono partito, quando non sapevo di avere davanti a me un grande avvenire, sei lustri di una storia e una carriera meravigliosa. Guardarsi intorno e farsi un’umile “spugna” per assorbire concetti e formule di orientamento nella società degli anni ’80 che si andava formando, fu il mio principale portato ideologico: fare il contrario mi avrebbe lasciato nel mio piccolo ufficio di periferia, come un solitario sceriffo, la cui sola compagnia sarebbe stata la sua presunzione. Mi piace spesso ricordare una riunione con tutti i miei collaboratori, con la “Forza Vendita Commerciale” e voglio soffermarmi un attimo su questo termine tecnico, che serve a dare contezza del volume di persone operative in un ambito lavorativo. Ci può sembrare freddo e irrispettoso verso le persone, ma così non è: serve solo a stabilire l’ampiezza della forza (appunto) umana su cui poter fare affidamento per realizzare i progetti. Come quando altrove si parla di “squadra” o “esercito”, qui si parla di forza, non più del singolo ma del gruppo, composto da esseri umani con proprie specificità. Mi piace chiarire certe questioni che sembrano a volte “scontate” ma così non è. Sovente, noi manager, siamo considerati freddi stru‐ menti di potere, macchine per accumulare mero guadagno, mentre non sempre è così, almeno per il mio credo. Ciò detto, in questa riunione programmatica, mi sono trovato di fronte a circa cinquanta persone presenti. Un meeting di lavoro dove era necessario dare una “scossa”e in cui ho espresso concetti forti, pesanti, con toni molto duri e determinati. Il commento, successivo all’incontro, che ho gradito di più è stato quello di un collega che avvicinandosi mi ha detto: «Tu hai la capacità di dire cose durissime e difficili da sopportare, ma di riuscire a trasformare tutto ciò in una energia formidabile che ci fa uscire dalle riunioni straordinariamente motivati a fare meglio. Non dai l’impressione di essere un presuntuoso saccente, ma un comunicatore forte». Credo che in questa frase ci sia tutta l’essenza della mia modalità di gestione delle persone: la capacità di essere coerente, e quindi anche duro quando serve, ma sempre autentico, affidabile e credibile. 20


Ho citato in questo breve saggio un paio di volte un guru della grande formazione del management: Kenneth Blanchard. Questo signore ha venduto oltre nove milioni di copie del suo libro “One minute manager” ed è stato tradotto in venti lingue del mondo. Se è facile comprendere alcuni successi di vendita stratosferici di alcune opere letterarie, più o meno fantasiose, comunque prodotti realizzati per intrattenerci nel tempo libero, non può invece che impressionarci l’enorme successo di un saggio sulla leadership e su come formare nuove generazioni di manager. Un’opera del genere, acquistata da nove milioni di persone, e che, considerato il book crossing, cioè il passaggio di mano in mano, dal compratore a un altro, o attraverso prestiti di lettura e biblioteche, è stata potenzialmente letta da dodici milioni di persone, desta uno stupore e una meraviglia incredibili. Queste emozioni, leggendo il libro, sono poi effettivamente suffragate da un prodotto di altissima qualità, in grado di fornire utili strumenti e riflessioni anche a quanti, come me, ne hanno fatto una professione. Vale la pena qui soffermarci su uno dei punti fondamentali del lavoro di Blanchard: l’organizzazione delle aziende. In questo punto del suo lavoro esamina con particolare attenzione il meccanismo delle riunioni, considerato da più parti il più diffuso ed efficace elemento di integrazione. Io odio le riunioni inutili. Le aziende “muoiono” di riunioni spesso troppo lunghe, prolisse, poco concrete e quindi inutili, e forse addirittura dannose. La maggior parte del tempo di un manager dev’essere utilizzato all’ interno dei “gruppi ” di lavoro per rendere efficaci riunioni e meeting, quando servono, ma soprattutto per migliorare il livello di coinvolgi‐ mento e partecipazione dei collaboratori, e rappresentano una com‐ petenza fondamentale per essere un manager di successo. Ma sarà necessario combinare la capacità di essere un buon leader del gruppo con l’esserne anche un buon membro, con l’umiltà di far parte di una squadra. Gli elementi del pensiero di Blanchard (e del suo co‐autore Spencer Johnson) portano, con pochi concetti ordinari, ad un’organizzazione del lavoro efficace e veloce; da qui il titolo “Manager in un minuto”. 21


E non sempre un concetto ordinario è anche scontato. Ad esempio il concordare a fissare con i collaboratori ‐ che Blanchard chiama in modo un po’ freddo “risorse”, ma che io definisco uomini e colleghi ‐ pochi obiettivi (non più di cinque o sei) e stabilire le aspettative del leader. Questo modello di assegnazione degli obiettivi, pare scontato, ma è invece inusuale, e pensare che funziona! Perché una delle fonti essenziali di motivazione delle persone è il riscontro riguardo ai propri risultati. Gli obiettivi prefissati, però, vanno di volta in volta monitorati per fare in modo che il capo possa “sorprendere” il collaboratore intento a compiere bene qualcosa e lodarlo subito all’istante: è un sistema di motivazione efficace, dove l’immediatezza del complimento stimola il soggetto. Naturalmente il leader supporterà adeguatamente gli aspetti positivi, senza dare eccessivo peso ai risultati più sconvenienti, perché è impossibile e alquanto raro trovare soggetti che sappiano fare tutto subito e bene. Sorprendere un operatore, mentre fa una cosa “più o meno bene” è uno dei segreti per costringerlo a migliorarsi, almeno fino a che non impara. Altresì, ma questo è un concetto che ho già affermato in queste pagine, rimproverare un collaboratore, il soggetto che sta operando, in funzione meramente punitiva è controproducente. Il richiamo deve essere legato a quell’azione specifica con discrezione e chiarezza di analisi, in modo che chi deve apprendere capisca che comunque si ripone fiducia in lui e che dovrà nel tempo, sotto la sua guida, saper correggere un rendimento inadeguato. Con obiettivi fissati e aspetta‐ tive chiare la persona comprenderà che il rimprovero è giusto e il manager verrà rispettato perché avrà detto, sulla scorta della sua esperienza e capacità, una “verità”, scevra da gratuite imposizioni. Un rimprovero rapido e focalizzato su un punto preciso, su una specifica azione, dovrebbe generare meno risentimento, o non gene‐ rarlo affatto. Blanchard parla anche di ambienti di lavoro “rilassati in cui la gente disponga di tutto il tempo necessario per perseguire degli importanti obiettivi”. Questo concetto mi impone di ricordare la figura di Adriano Olivetti, l’illuminato imprenditore di Ivrea che negli anni Cinquanta portò la sua azienda di macchine da calcolo e da scrivere 22


ai vertici mondiali, fermato da un decesso improvvido a cinquanta‐ nove anni che impedì a lui, ma anche e soprattutto a noi italiani, di poter primeggiare nell’industria dei calcolatori elettronici che stava nascendo e su cui la Olivetti aveva già progetti lungimiranti. Olivetti non allevava manager, guidava la sua industria micromec‐ canica con operai sì qualificati, ma che non dovevano fare grandi sforzi intellettuali per essere motivati nel loro lavoro. Pur tuttavia sviluppò un moderno modello di fabbrica che consentiva ai lavo‐ ratori di operare in modo efficiente e sereno. Quando fece costruire la magnifica sede di Pozzuoli, volle che i reparti di lavoro si affacciassero sul mare, e che, specialmente le numerose operaie non perdessero il legame con il territorio, come se la fabbrica fosse un po’ casa loro. Chiamò accanto a sé architetti illuminati, e, a dirigere i servizi sociali e il personale, uno scrittore, Paolo Volponi, a significare la sua attenzione verso tutto il corpo produttivo, operaio e dirigenziale: un umanista in grado di motivare le risorse tramite la loro valorizzazione sociale. Non è un caso se la città di Ivrea, dove ancora si raggruppa il massimo dell’edilizia industriale voluta da Olivetti, sia candidata dal maggio del 2012 a Patrimonio Mondiale Unesco e gli impianti Olivetti oggi siano considerati dei veri e propri monumenti. “Abbiamo voluto che la natura, la luce, accompagnassero la vita della fabbrica, per non trasformare nessuno in un essere troppo diverso da quello che vi era entrato”: questa frase di Olivetti, che potrebbe far pensare ad una situazione statica di quanti entrano nel mondo del lavoro, senza possibilità di crescita, ha invece un valore opposto: non vogliamo trasformare i lavoratori in automi, ma considerare valore tutte le loro peculiarità, accrescerle e non diminuirle, e io che non gestisco fabbriche con operai in tuta e casco, ma professionisti in giacca e cravatta, ho pensato, non dico di fare di più, ma di mettere a profitto alcune delle intuizioni di Olivetti per traslarle ai vari bisogni di crescita di un’azienda. “L’autentico valore di un leader si misura nell’impatto umano, nella capacità di mettere la gente giusta al posto giusto, anche sfidando l’ovvio. I leader veri sono persone normali, ma capaci di innescare il cambiamento”. 23


Questo è un concetto a cui tengo molto, un’immagine plastica, che mi ha guidato almeno negli ultimi vent’anni, da quando ho compreso di avere, sia la capacità di organizzare format aziendali di successo, che di riuscire a formare intorno a me persone in grado di portare avanti insieme a me i progetti che costruivo o anche autonomamente. Agli inizi ho avuto una formazione empirica, poco scientifica, basata sulla mia forza di volontà, ma capace di apprendere dalle persone esperte tutto quello di cui avevo bisogno ed elaborarlo, con l’umiltà e la voglia di andare avanti e progredire, che la consapevolezza odierna di essere una persona di successo non mi ha fatto perdere: perché dentro di me sento di essere una persona profondamente normale. Successivamente però ho avuto accesso a informazioni e studi più specifici che mi hanno aiutato moltissimo. Di alcuni ho già detto, di altri due di seguito dirò brevemente, se non altro per un giusto tributo al loro lavoro. Stimo ad esempio molto Malcolm Knowles che per primo ha parlato di terapia Andragogica (Andragogia), la terapia dell’apprendimento ed educazione degli adulti ‐ il termine fu coniato in analogia a quello usato per i bambini: Pedagogia. Su questi concetti ha poi lavorato ed elaborato nuove teorie il professor Giampiero Quaglino, professore ordinario della facoltà di Psicologia di Torino, uno degli studiosi eccellenti in tecnica di forma‐ zione leaderistica. Quaglino parte dal presupposto che l’individuo adulto debba essere guidato, da parte del formatore, verso un’auto‐ formazione, indicandogli attraverso una guida precisa gli indirizzi per accrescere la sua cultura e portarlo alla conoscenza, valutazione e crescita del “Sé”. Il docente, nel processo di indirizzo autoformativo, deve trascinare l’allievo verso una consapevolezza privata di apprendimento, fornen‐ dogli tutti gli strumenti utili a scansare “l’anarchia didattica” in cui potrebbe cadere. Il principio attivo è la formazione del formatore, se l’educatore‐formatore non conosce tutti gli strumenti della psicologia personale, se non conosce “se stesso” profondamente, sarà superfluo tentare la strada dell’indirizzo formativo. In un’intervista infatti ha detto, in modo quasi lapidario: «Penso che i primi che dovrebbero beneficiare di un processo autoformativo dovrebbero proprio essere 24


i professionisti della formazione e chi svolge attività di consulenza (in quanto esperti nella trasformazione del sapere tout-court e del sapere su di sé): solo vivendo in prima persona il significato della conoscenza di sé essi potranno comprendere difficoltà e agi che questo comporta per gli altri e mettere al loro servizio un insieme di competenze ancora più strutturato». Per il professore, che si parli di apprendimento in autoistruzione o di percorso di formazione trasformativa del proprio sé per il forma‐ tore, dovrebbe essere chiaro che non tutti i partecipanti potranno beneficiare allo stesso modo di ciascuna proposta e, ancor prima, che esse non potranno essere fatte nella stessa forma a tutti; pertanto la proposta (auto) formativa dovrebbe, in primo luogo, comprendere le diverse “propensioni” individuali. Differente è il grado con cui ciascuno può affrontare la dipendenza o l’indipendenza nell’apprendere, con la quale ognuno può “reggere” la maggiore o minore consapevolezza di sé e del proprio contesto, la misura della sua possibile resistenza o della propria tendenza alla proiezione. Il grande vantaggio di una buona formazione sarà che un individuo super formato e quindi “maturo”, quando andrà a operare in una struttura “immatura”, andrà a popolarla con intelligenza fresca con‐ tribuendo alla crescita e alla salute e al recupero di quella struttura: «se c’è un senso per la Psicologia è che questa, prima che non una Scienza, possa essere un’arte per ciascuna persona. Non ci interessa una Psicologia che sia la Scienza degli studiosi di Psicologia; ci interessa invece una Psicologia che sia l’arte con cui ciascuno coltiva la propria esistenza» sostiene Gian Piero Quaglino. Anche di queste ultime intuizioni scientifiche ho fatto tesoro nella mia vita professionale e si è evinto dai successi nelle aziende in cui ho operato, contribuendo alla loro crescita e alla crescita delle aziende dove i miei allievi sono intervenuti come neo manager. «Giudicatemi per le mie azioni, non per le mie parole» recita un proverbio francese. Ancora la cultura popolare ci aiuta a capire che più delle parole, servono i fatti, e nulla c’è di più concreto al mondo se non di un leader: dalle sue azioni nasce il successo o il declino di un’azienda. 25


Pubblicazione liberamente ispirata a TRENT’ANNI DI UN AVVENIRE di Bruno Vettore Stampa: AG&P s.n.c. (Senago ‐MI) ‐ Foto di copertina a cura di Sergio Sechi Picture Milano, 10 gennaio 2017



BRUNO VETTORE è uno dei maggiori protagonisti del real estate italiano, con una esperienza trentennale al vertice di aziende come Tecnocasa, Pirelli Re, Gabetti. Già presidente di Assofranchising, nell’aprile del 2011 riceve l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine “Al merito della Repubblica Italiana” conferito con decreto dal Presidente della Repubblica. Da sempre attento ed interessato alle tematiche della formazione e dello sviluppo del “Capitale Umano”, è stato relatore in oltre 400 seminari e conferenze, con più di 1000 iscritti alle sessioni formative nell’ultimo triennio e circa 15.000 partecipanti ai suoi corsi aziendali. Attualmente è a capo della sua società BV Invest, che si occupa di consulenza strategica, formazione manageriale, network development e real estate advisory. (www.brunovettore.it)

I 10 PILASTRI DELLA LEADERSHIP di Bruno Vettore Pubblicazione a cura di BV invest s.r.l. ‐ Piazza della Repubblica, 27 ‐ 20124 Milano © Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati ‐ Prezzo E 10,00

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