Numero Due

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CADILLAC MAGAZINE Numero Due - Anno Primo Aprile 2012 Pubblicazione Trimestrale Riservata Associazione Culturale Cadillac Society Milano Direttore responsabile Alvise Moncretona

Redazione Natan Mondin, Michele Crescenzo, Giulio D’Antona

Collaborano Alessandra Montrasio, Roberta Venditti, Mauro Maraschi, Marco Candida, Andrea Ferrari, Francesco Gallone

Hanno partecipato a questo numero Andrea Ferrari, Mauro Maraschi, Alessandra MR D’Agostino, Gianluca Pizzingrilli, Michele Crescenzo, Fabio Visintin, Alice Beniero, Manfredi Damasco, Matilde Quarti, Marco Lupo, Kjell Ola Dahl, Nicolò Cavallaro, Margherita Barrera, Francesco Bevilacqua Grafica e impaginazione Giulio D’Antona

Illustrazione di copertina Giulio D’Antona Abbonamento www.rivistacadillac.com

www.rivistacadillac.com redazione@rivistacadillac.com


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4000 E 400 AL MINUTO

uando le anatre abbandonano gli stemmi delle automobili, da quel momento inizia il declino e restano soltanto gli allori. Il ritmo si spegne, rimane il primato. Parte rallentato, arriva a centoventi battiti al minuto e si sintonizza con i giri del motore. La coppia massima del ciclopico otto cilindri la senti a quattromila e quattrocento giri al minuto. Cinquecento pollici cubici, quattrocento cavalli. Ne aveva meno il francese che ha fondato Ville d’Etroit; in Italiano suona male, in inglese suona Detroit. Con Berry Gordon ho cenato diverse volte, andavamo in un posto non distante da La Salle Street. A.P. Sloan non approvava, entrava nel mio ufficio. Odiavo quel cubicolo che sapeva di cane bagnato per colpa della moquette amaranto. A.P. Sloan entrava e si gingillava con la spilla fermacravatta. «Odio la musica di quel negro» berciava, mettendo da parte il suo contegno «il suo successo non ha niente di scientifico». Costanza e stile. Berry Gordon mi diceva di lasciar perdere, di avere costanza. Davanti a T-Bone grondanti sangue «il ritmo è tutto» mi ripeteva che il ritmo è tutto. Etta James, Diana Ross e Marvin Gaye. Il loro duetto. Costanza. Il cilindro accoglie il pistone, che imprime forza alla biella; il su e giù diventa tutto tondo e il tondo trasmette da destra a sinistra, da sinistra a destra, in obliquo, trasversale, verticale od orizzontale, un vortice di leghe metalliche, gomma e asfalto. Rollio che spinge, ammortizzato da sofisticati sistemi di sospensione, oppure assicurato da un semplice schema Mcpherson. È la chiave di tutto. Costanza e contenuti. Andare avanti, continuare perché i sequel non sono più brutti della prima uscita, perché se funziona così per il cinema, non è così per le riviste; la serialità porta alla perfezione se ogni volta si aggiunge un pezzo nuovo. Si arricchisce, si migliora. Aumentiamo le rubriche, aggiungiamo spazi. Perché si possa scorrazzare lusso non banale, lusso con contenuti. Design, Performance, Tecnologia. Sotto un cofano, sotto acciaio e mani di vernice stese fino alla nausea, anti-neve, anti-pioggia, anti-corrosione, batte un cuore da ottomila e due di cilindrata, capace di un’accelerazione

editoriale di Alvise Moncretona che ti spalma sul sedile. Connolly e tweed, lusso in periodo di crisi. Carta patinata. La mia Detroit non è quella delle case che crollano, dei viali abbandonati, dei teatri muti, dei lucernari in frantumi. Motown ha perso il ritmo, ha perso Supremes, Temptations e Jackson Five. Jacko è morto, lontano dal Lago Michigan e l’ottavo miglio è orfano di Eminem. Otto ore, i turni delle catene di montaggio hanno girato fino a spegnersi, una alla volta. Dopo cent’anni sono ferme. Il ritmo si è interrotto, il beat di strass e cromature ha lasciato colonizzatori e impresari al loro destino e mi si è appiccicato addosso in un bar in zona Bocconi. La Strada non è più un modello Fiat dal nome politically correct, è il sentiero di rinascita che parte da un bar in zona Bocconi. Niente moquette. Niente più spille fermacravatta. •

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IN QUESTO NUMERO NON FIORDI, MA OPERE DI BENE

DAHL GRANDE NORD (CON STIMA) Intervista esclusiva a Kjell Ola Dahl

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UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODERE

FOTTUTO MENGELE di Marco Lupo

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di Matilde Quarti

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IL PERIODO YAYOI LINCOLN’S CORNER NEWS

LEI NON RISPOSE

di Alessandra MR D’Agostino

LE RIGHINE DEGLI YANKEES

p.21 P.23

di Gianluca Pizzingrilli

p.25

di Nicolò Cavallaro

p.31

LA MANO DI DIO

SE FOSSIMO NATI MORTI

UNO STARNUTO COSMICO ovvero: Douglas Coupland

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NON FIORDI, MA OPERE DI BENE

NON FIORDI, MA OPERE DI BENE a cura di Andrea Ferrari illustrazione di Fabio Visintin

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DAHL GRANDE NORD (CON STIMA)

ro partito alla grande e con la giusta vena polemica per bastonare un po’ la così tanto incensata letteratura giallo/noir proveniente dalla Scandinavia, quando mi sono imbattuto nei libri di Kjell Ola Dahl, autore norvegese di professione psicologo. Mi sono armato di tutta la sua bibliografia in Italiano (che qui a Cadillac hanno promesso di rimborsarmi), edita da Marsilio, e con un po’ diffidenza ho iniziato a leggere. La diffidenza è passata alla decima pagina del primo libro, e si è tramutata in simpatia verso metà, per poi farsi stima quando ho avuto l’audacia di contattare direttamente l’autore via facebook. Ora, Ola Dahl non è proprio il primo scemo che passa per la via. In patria ha all’attivo ben otto romanzi tradotti, peraltro, in svariate lingue, e appartiene di diritto all’elite del thrilling scandinavo. Bene, questo signore sulla sessantina non ha avuto remore a chiacchierare del più e del meno con me per qualche tempo, poi ha addirittura pensato bene di chiedermi cosa ne pensassi del suo lavoro e si è interessato anche del fatto, per lui un po’ strano, che io sapessi scrivere in Norvegese. Ecco, alla fine di questo panegirico, ho deciso di chiedergli un’intervista per Cadillac e fra poco ve ne darò conto. La mia vena polemica verso la rappresentazione mediatica del giallo/noir scandinavo non è certo passata, ma a ragion venduta e per onestà intellettuale verso voi, prodi lettori di Cadillac e di questa rubrica, sottolineo una volta di più il grande gap che separa la letteratura di genere nostrana da quella del grande nord. Un vecchio slogan pubblicitario di una ventina d’anni fa (cito pari pari perché la pubblicità è l’anima del commercio, come ben sapete) diceva: “PROVARE PER CREDERE” e io vi dico: provate a contattare uno qualunque fra gli italici scrittori sopra le 10/15 mila copie e mi saprete dire. Tornando a noi, di Kjell Ola Dahl possiamo dire che è uno scrittore un po’ atipico nel panorama ormai classico del giallo scandinavo. La sua serie di polizieschi si ambienta in una Oslo contemporanea e molto attaccata al reale, e tratta tematiche estremamente vicine alla gente comune con tratti umani che a volte si

Intervista a Kjell Ola Dahl

avvicinano al poetico. I suoi due personaggi principali, Frølich e Gunnarstranda, strutturano nel corso della narrazione una dicotomia continua fra presente e passato intesi come macro categorie non solo temporali, ma anche del vivere quotidiano e simboleggiano due differenti approcci alla realtà norvegese tinta chiaramente di quel giusto punto di noir che ogni romanzo procedurale dovrebbe avere. Ora, bando alle ciance e lasciamo la parola a Dahl: Ciao Kjell, come Cadillac siamo molto felici di ospitarti sulla nostra rubrica e ti ringraziamo per la tua disponibilità. In questa chiacchierata virtuale ti chiederemo di Frølich e Gunnarstranda, i due poliziotti che animano la tua serie di libri e, in generale, del tuo modo di intendere la scrittura all’interno del tessuto sociale moderno. Qui in Italia abbiamo solo tre dei tuoi romanzi, potresti dirci a che numero sei arrivato realmente e introdurci un po’ i tuoi personaggi principali?

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Frølich e Gunnarstranda sono una coppia speciale: Gunnarstranda è un uomo un po’ complicato, attaccato al passato e che si cura poco di se stesso e nella serie è il superiore di Frølich. Frølich è più giovane, un tipo sinceramente più socievole e con la cattiva abitudine


NON FIORDI, MA OPERE DI BENE di invaghirsi di donne che spesso risultano essere pericolose. I due insieme si completano e questo aspetto è molto presente nel libro che in talia è uscito come Il Quarto Complice. Sia questi due personaggi che il loro universo all’interno dei libri (inteso come ciò che li circonda) sono andati sviluppandosi nel corso delle varie pubblicazioni. In Norvegia siamo all’ottavo libro, Isbaderen, dove, ad esempio, Gunnarstranda lavora con una donna poliziotto che si chiama Lene, e Frølich ha un ruolo più marginale. In quello prima invece, Kvinnen i Plast, Frølich lavora praticamente da solo.

dato che Oslo è la mia città. Non rappresenta solo un luogo dove ambientare una storia. Oslo riflette l’Occidente così come io lo vedo, e in un certo senso riflette anche l’Europa come insieme culturale. Quello che noi percepiamo in Europa come cambiamenti, come la crisi finanziaria e l’insicurezza comune, interessano certamente anche la Norvegia solo, generalmente, in scala minore. D’altro canto, lo stato del welfare norvegese esce prepotentemente nei miei libri, perchè i romanzi cosìdetti noir indagano le relazioni fra poveri e ricchi, fra la criminalità e le relazioni sociali in Norvegia.

Potresti parlarci del tuo rapporto con Oslo, Tu che in Italia sei uno fra i più conosciuti sia come città norvegese che come capitale eu- scrittori scandinavi di genere, potresti spiegarropea? ci quali sono le ragioni del grande boom che la letteratura di genere scandinava sta avendo nel Chiaramente l’azione, all’interno dei miei mondo? romanzi, si sviluppa per lo più ad Oslo perché i due poliziotti lavorano in quel distretto. Per ciò che riguarda la grande esplosione Quando scrivo questa serie il lavoro divie- del giallo/noir scandinavo, a livello internazione anche un modo per esplorare e indagare la nale, credo che dipenda da due fattori distincittà, e per sviluppare al meglio i personaggi. ti. Il primo è la tradizione; nel periodo fra gli La mia conoscenza nei loro confronti natu- anni settanta e gli anni novanta è stata preparalmente aumenta di avventura in avventura. rata una ottima base, da autrori come Sjowall Allo stesso tempo mi dedico ad esplorare Oslo, e Walooh (di cui abbiamo parlato nel primo trovare i luoghi e gli ambienti sociali in cui la numero NDA) e Henning Mankell, dai quali il trama riesca dipanarsi al meglio. Questo è un giallo scandinavo è stato davvero rappresenaspetto del quale mi faccio via via più coscien- tato internazionalmente. te durante il processo di scrittura di un libro, Dall’altro lato, credo che il giallo scandina-

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vo abbia comunque abbastanza tradizione per essere molto realistico e con un profilo sociale molto attaccato alla quotidianità. Vi si trovano vicende contemporanee che si focalizzano sui problemi della gente comune. I gialli scandinavi, sono costruiti spesso su flashback per cui e le azioni del passato provocano conseguenze nel presente. Così la maggior parte delle opere si fa attuale ed è in grado di coinvolgere molti lettori.

getto ideale per i due personaggi e per Oslo. I grandi giallisti che mi hanno influenzato di più sono certamente Raymond Chandler e R.D. Wingfield. Ma sono stato sicuramente influenzato anche da altri tipi di letteratura. Ora ad esempio sto leggendo un libro di Don De Lillo che mi sta entusiasmando. Grazie mille Kjell e a presto.

Grazie a voi, e soprattutto non vedo l’ora di Quale è stata la reazione di Oslo e della Nor- leggere l’intervista, sebbene non sappia l’itavegia alla tragedia del 22 luglio scorso? liano! • In merito ai fatti del 22 luglio scorso (La strage di Oslo e di Utøya NDA), il paese ha reagito in molti modi. La prima reazione è sta- L’illustrazione compare per gentile concessione ta quella di determinare che fosse stata tutta dell’autore e di Marsilio Editori. opera di un unico estremista fascista. Quanto successo poi è stata una lezione che ha portato molte critiche alla polizia e ai servizi segreti. Il fatto che la polizia fosse all’oscuro delle precedenti azioni di Breivik rappresenta uno scandalo. E rappresenta un altro scandalo il modo con il quale la polizia ha condotto l’azione. (Mio nipote di quindici anni era sull’isola, ma è sopravvissuto). Kjell Ola Dahl ha pubblicato in Italia: Un altro punto focale è rappresentato dal fatto che sia stato colpito il partito di maggioIl piccolo anello d’oro (Marsilio, 2000); ranza al governo (Socialdemocratici – Centro L’uomo in vetrina (Marsilio, 2001); Il sinistra NDA). Detto questo, anche il partito di quarto complice (Marsilio, 2005); maggioranza non è esente da critiche. Quanto successo il 22 luglio alimenterà il diInformazioni: battito per gli anni a venire. L’ultimo scandalo www.kjelloladahl.no è che gli psichiatri deputati abbiano definito Breivik solo come un folle dalla personalità eccentrica. D’altro canto è positivo che noi non fossimo pronti ad una tragedia simile. Come ultima domanda una cosa certamente più leggera: La serie di Frølich e Gunnarstranda proseguirà? E quante storie hai deciso di dedicare loro? E in ultimo, quali sono i grandi giallisti del passato che ti hanno influenzato?

Si sentì uno sguardo bruciante sulla guancia e girò la testa. Era Annabeth. E lo sguardo di Annabeth non lasciava dubbi. Per un motivo o per l’altro doveva aver capito qualcosa. Il nodo che le serrava lo stomaco si raggelò tutt’a un tratto. Annabeth lo sa, pensò Katrine. Quella brutta cretina. Lo sa. E Bjørn sa che lei sa.

Certamente mi piace scrivere di questi due personaggi, ma voglio anche scrivere di altre cose. Sono comunque sicuro ci saranno altri libri di Frølich e Gunnarstranda. Più vado avanti con loro e più mi avvicino al mio pro-

- Un Piccolo Anello d’Oro 9


UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODERE

UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODERE a cura di Mauro Maraschi illustrazioni di Manfredi Damasco

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hiamalo, se vuoi, sottobosco. È composto da entità dissimili: alcuni di loro sono aggiornati sul mondo dell’editoria, vanno alle presentazioni e si informano sulle cinquine. Altri sono scrittori allo stato puro, spesso bravi, ispirati, prolifici. Ma a noi interessano i primi, perché è più probabile che imbocchino il sentiero giusto. Questa rubrica (che non si occupa di scouting “puro”) si pone tra loro e gli editori quale osservatorio sulla fertile risorsa offerta da riviste, antologie e concorsi letterari. Approvvigionatevi.

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FOTTUTO MENGELE

o perché racconto questa storia. Nessun altro potrebbe. La storia inizia con due gemelli monozigoti. Stanno giocando nella camera da letto dei loro genitori. Hanno sette anni, sono alti come la tacca segnata sul muro in cucina, sono biondi e hanno gli occhi verdi. Stanno infilando le mani nell’armadio dei genitori. Da una parte, a sinistra, ci sono i vestiti della madre, le camicette, i tailleur, le gonne. Dall’altra, a destra, i pantaloni del padre, le camicie, i pullover, le giacche. Il gemello A si sbottona i pantaloni e li lascia cadere a terra. Si infila una gonna blu. Il gemello B lo aiuta con la cerniera lampo. Il gemello A chiede al gemello B come sto? Il gemello B sceglie una giacca di velluto marrone, la indossa dicendo benissimo. Il pomeriggio è freddo come l’inverno che ha raso al suolo il prato di fronte a casa. Gli alberi dal tronco bianco aspettano la lama delle cesoie e la brace del camino. La casa è grande, ha grandi finestre, camere dai grandi letti con grandi testiere e soffitti protetti da travi di legno. Lo scricchiolio è come un orologio da parete, non smette mai. I gemelli corrono lungo i bordi del corridoio, saltano sulla cassapanca, strisciano sotto il pianoforte a coda in soggiorno, sprimacciano il pelo del tappeto, mimano la posa delle corna dell’alce appeso in un angolo. La grande casa è vuota, l’Argentina è una terra accogliente, i gemelli sono felici, il giardiniere carica sacchi di foglie morte su un furgoncino bianco, i genitori dei gemelli stanno tornando a casa. La casa è grande e calda. La macchina guidata dal padre dei gemelli entra dal cancello appena riverniciato verso le 15:30 del 12 luglio 1958. A Buenos Aires, quel giorno, 120 bambini vedono la luce dell’inverno, 27 uomini scoprono di essere morti,13 donne fingono svenimenti per non parlare più. La madre dei gemellini gioca con la collana di perle nere e risponde a un domanda. La voce inquirente appartiene a un uomo vicino ai cinquanta, baffi neri, rughe rassicuranti che spianano la fronte. Lasciano la macchina vicino alle scale che portano all’ingresso principale. I gemelli vedono i genitori e l’ospite da una grande finestra in soggiorno. Corrono a ritroso verso la camera da letto, verso l’armadio. Il gemello A si fa aiutare con la cerniera

di Marco Lupo

della gonna dal gemello B. Rimettono i vestiti nella stessa posizione in cui li avevano trovati. Quando i genitori e l’ospite entrano in casa, lo scricchiolio si ferma.

Lo stesso suono di fibre che si divaricano, nella primavera di quindici anni prima. A partire dalla mattina del 30 maggio 1943, un laureato in antropologia e medicina prende servizio ad AuschwitzBirkenau. Nome cognome Josef Mengele. Detto l’Angelo della Morte, l’Angelo bianco, zio Mengele o semplicemente: Dr. Morte. Sua moglie, Irene Schoenbein, è bionda. A Irene piacciono molto Wagner e Liszt. Quest’ultimo le piace nonostante fosse ungherese. Josef Mengele, invece, ha denti bianchi e capelli neri. Li pettina spesso, almeno dieci volte al giorno. Nella maggior parte delle fotografie ha la riga al lato sinistro. Le orecchie sono proporzionate rispetto al corpo. Tra i segni particolari, uno spazio lieve che separa gli incisivi. Il 30 maggio del 1943, il genetista Ottmar von Verscheur accoglie il suo ex studente nei laboratori medici di Auschwitz-Birkenau. La giornata è luminosa, il cielo è turchese. Il futuro della medicina zittisce ogni voce, ogni scricchiolìo. Josef si accarezza le guance rasate con il dorso della mano e pensa, devo rimboccarmi la maniche. Lo fa. La prima cosa da fare è circondarsi di personale specializzato. Josef trova quindici medici tra i prigionieri del campo. Sono uomini di varie nazionalità, accomunati dalla passione per la scienza medica e dall’impotenza. Josef organizza il laboratorio in meno di una settimana. Promettendo migliori condizioni di vita, Josef ottiene ciò che gli manca. Una ventina di infermiere professionali. C’è solo una cosa di cui Josef ha ancora bisogno: un archivio fotografico dei pazienti. Tra i prigionieri del campo 11


UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODERE c’è una graziosa disegnatrice. Farà lei i ritratti ai pazienti. Quindi iniziano le analisi, le misurazioni, le sperimentazioni. Josef è affascinato dalle possibilità della ricerca sui gemelli monozigoti. Ad ogni vagonata di merce, Josef chiama personalmente a raccolta i gemelli. Zwillinge heraus, dice, Zwillinge heraus! C’è da dire che Josef apprezza anche i nani. I nani e i gemelli diventano il suo campo di specializzazione. Dormono separati dagli altri prigionieri, in una baracca speciale, nel blocco 14 del lager BIIf. Qui il vitto e le condizioni igieniche sono accettabili, qui i letti sono comodi e i prigionieri sono esentati dal taglio dei capelli, almeno per qualche giorno. Sono tutti piccoli, i prigionieri della baracca speciale. I soldati hanno istruzioni precise sul trattamento dei piccoli. Nessuno deve colpirli. Non è permesso uccidere nessun nano e nessun gemello, senza l’autorizzazione scritta di Josef. Nessuno può fare niente, senza che Josef lo sappia. Gli esami vanno a gonfie vele e la merce è abbondante. Perciò la vita media dei gemelli non può superare le tre settimane. Sono sicuro che qualcuno dei lettori starà soffiando, in questo momento, o sbuffando. Sono sicuro che alcuni di voi stiano pensando che non è necessario, sapere tutto questo non è necessario. I gemelli vengono uccisi simultaneamente con un’iniezione al cuore.

tello. Il 12 luglio del 1958 Josef Mengele entrò in casa mia. Mio fratello, il gemello A, morì il giorno dopo, il giorno del nostro compleanno. Quell’anno Thomas Bernhard pubblicò In hora mortis. Josef apprezzò quelle poesie. Gli parlavano di morte. Aveva l’impressione che fossero la vivisezione della sua vita. Erano potenti quelle parole. E lui le amava. Signore lasciami dimenticare/la mia anima/e il tormento degli occhi/e il pugnale di stanche labbra/e il fuoco verde di lontane capanne/la bocca di ogni stagno/dimenticare/ Signore/mio Dio/il giorno/che mi ha squarciato il grido/che gridai/e il corteo dei molti uccelli/è in pezzi la mia ira/e libero il mio sangue/in fiumi. E questo non è tutto. Questa è una parte, è sola la punta dell’iceberg. Mengele vive, respira bene. Io cresco. I miei mi mandano in Europa. Studio a Parigi, a Berlino, a Lisbona. Poi a Roma. Vado a vivere da uno zio, Tobias, pancia larga e occhi grigi. Ha i baffi color senape, fuma la pipa, mangia in piccole trattorie che lui chiama gioielli. Finisce per parlarmi di cose di cui non avrebbe voluto parlare. Mi racconta di Hitler, di mio padre, di mia madre, di mio fratello. So molte di quelle cose. Ma lo ascolto. Finisce per parlarmi di Kafka, di Varlam Šalamov, di Aleksandr Solženicyn, di Heinrich Böll, di Günter Grass, di Kafka ancora. Imparo a rispettare i tramonti. Guardo la luce tremolante che si infila tra le statue di ponte Sant’Angelo. Imparo la lingua che arrota le R e asciuga le consonanti. Sulle gambe mi crescono piccoli peli biondi. Il pene si inturgidisce casualmente. Ascolto tutto quello che sento. Il cuore striscia in un angolo ogni volta che mio padre e mia madre mi chiamano. So che non mi chiederanno di tornare, ma ho paura lo stesso. Mio zio poi muore. Lo saluto con gli amici del bar, in un cimitero monumentale circondato da marmi e gatti. Nessuno piange. La sera mi portano a mangiare in una vecchia osteria. Dicono che non sarò solo. Di non preoccuparmi. La mattina dopo bussano alla porta. Sento male, una specie di cerume alcolico occlude i timpani. Aperta la porta, mio padre e mia madre entrano con pellicce vistose e occhi asciutti. Dicono di andare. Dobbiamo andare. Dico che non è necessario.

Sono il gemello B. Mi chiamo Bernard. Mio padre era un famoso psicologo tedesco. Mia madre era una casalinga. Io e il mio fratello gemello siamo nati a Buenos Aires il 13 luglio del 1951. I miei genitori si sono trasferiti in Argentina nel 1945. Da allora non sono mai tornati in Germania. Sono morti a Buenos Aires. Sono morti qualche giorno fa, se ricordo bene. Simultaneamente. Nell’inverno del 1958 Josef Mengele venne a farci a visita. Mio padre lo rispettava come medico e come antropologo. Da un po’ di tempo i miei genitori erano preoccupati per l’atteggiamento di mio fratello, il gemello A. Il fatto che si travestisse da donna. Non riuscivano a capirlo. Mio padre, che era uno psicologo rispettato, non sapeva cosa fare con mio fratello. Chiese aiuto a molti colleghi, ma nessuno riuscì a cambiare nulla della natura di mio fra-

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Dicono che è ora. Dico che il cimitero è vicino. Dicono che il cimitero è lontano. Dico mi fate schifo. Dicono è normale, non ci pensare. Dico lo so che è normale, fate schifo. Dicono smettila ora muoviti. Dico no. Dico no. Dico no. Così sono il gemello B, quello scampato. Dimentico ogni cosa di mio fratello. So tutto, ma non posso scegliere. Devo cambiare. Devo ricordarmi di essere un uomo. Lascio tutto quello che ho. Mio padre mi disereda. Mia madre prova a chiamarmi di nascosto. Urlo, quando lo fa. Mi innamoro. Odio. Perdo oggetti, case. Cambio case e ritrovo tramonti. Seguo la scia della sabbia color zafferano. Corro sulle spiagge di Ostia. Ho qualche amico, pochi, essenziali. Cambio posto troppo spesso. Nessuno si ricorda di me, nessuno mi chiede come va. Studio, nel frattempo. Copro giornate intere con il cuore che striscia sui libri. Cresco ancora. Piango, ogni tanto. Faccio a pugni, anche. Mi tingo i capelli. Non posso guardarmi allo specchio. Non posso vedere mio fratello, il nostro marchio di fabbrica, la nostra condanna. Ho i capelli castani, ora, la barba anche. Scrivo, lentamente scrivo. Arrivo a capire qualcosa, della mia scrittura. Amo qualche donna. Amo qualche uomo. Viaggio, ma ritorno sempre in questa città. Ogni 13 luglio mi travesto. Esco di casa quando il tramonto lascia il cielo ai pipistrelli. Cammino male con i tacchi, ma ho imparato a non cadere. Uomini con grandi pance sorridono e mi accarezzano le natiche. Scendo per i vicoli di Trastevere, le ombre dei fili rossi della parrucca sui muri del ghetto. Vado in giro tutta la notte, ogni anno, per anni. Continuo a scrivere. Scrivo storie di uomini, di cani. Scrivo storie senza umorismo, senza nessuna vena ironica. Non riesco a ridere. Non ce la faccio. Poi immagino di scrivere di mio fratello. Sogno di scrivere. Incubi, arrivano presto. Ho paura, imparo ad ammetterlo. Paura di mio padre. Paura di mia madre. Paura che leggano ciò che scrivo. Un amico essenziale mi dice di inviare tutto a gente che conosce, gente che può fare qualcosa. Dico no.

Lavoro come facchino negli alberghi per turisti. Guadagno il necessario. Il cuore della città cambia. Cambiano gli archi, cambia la traiettoria del passeggio. La gente inizia a rientrare prima. Paura. Hanno paura di qualcosa. Leggo i giornali. Leggo di uomini che fanno la rivoluzione. Nei bar la gente parla. Poi tutti a casa. Continuo a tingermi i capelli. Mia madre ormai non ha più notizie di me. Una notte, a fine agosto, chiamo a casa dei miei. Risponde mia madre. Le chiedo soltanto, è ancora vivo? Parto il primo gennaio del 1979. Ho 27 anni. La prima settimana a Buenos Aires. Passo due volte davanti a casa dei miei. Non vedo mai nessuno. Il giardino è lo stesso, la stessa pulizia. Riconosco da lontano il giardiniere. Mi nascondo e lo guardo lavorare per ore. Viaggio ancora. Prendo corriere notturne. Attraverso campi, foreste. Piccoli contadini con la pelle scura mi guardano. Ho smesso di tingermi i capelli. Dopo un mese di viaggi, decido di prendere una stanza in affitto a Sao Paulo. La trovo al 5551 di via Alvarenga. Il quartiere è povero, strade sterrate, baracche di lamiera e case improvvisate con residui di cantieri. Imparo a conoscere il cuore dei brasiliani. Passo le notti del carnevale con il cuore che striscia su materassi unti. Sento il sudore, il cuore degli altri come fuochi d’artificio. Bevo nelle notti che di-

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UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODERE menticano tutto. Rido, ricomincio a muovere quei muscoli dimenticati. Una notte sogno un uomo che mi accarezza mentre qualcuno dice svegliati. Mi sveglio all’alba. Vedo il colore incresparsi, l’arancione diventare rosso. Mangio uova, quel mattino. Ricordo bene la forchetta. Il manico leggermente distorto. Quando esco le strade sono ancora vuote. Poi sento una porta aprirsi. Mi giro. Vedo il numero scritto a mano sul muro. 5555. Qualche vicino mattiniero, penso. Mi va di parlare con qualcuno. Ho bisogno di ascoltare una voce. Stamattina, penso in quel momento, devo scegliere. L’uomo che esce dalla porta verde indossa un cappello. Ha i capelli bianchi. Dice qualcosa, ma parla a se stesso. Lo guardo. Seguo la linea dei pantaloni cachi. Risalgo e vedo il movimento dei gomiti, gli avambracci scoperti, le maniche della camicia ripiegate in un certo modo. Non so spiegarlo. Non posso. So che ricordo. In quel momento ricordo. So che è lui. Che lo devo seguire. Che se smetto di pensare e forse fingo di cercare qualcosa tra i rifiuti non si accorgerà di me. Cerco qualcosa tra i rifiuti. Lui mi passa accanto. Sputa nel mucchietto di bottiglie in cui fingo di cercare. Sento il rumore di un motore. Una macchina. Si fermano davanti a lui e lui sale. Partono. Corro. Corro sulla strada che porta a un piccolo spiazzo. Da lì si può tagliare, lo so. C’è una bicicletta lasciata all’angolo da un magnaccia. Lo conosco, lo chiamano tutti Jimenez. Lui dorme ora. Nessuno prenderebbe mai la sua bicicletta. Io la prendo. Taglio per la strada. Tra i mucchi di spazzatura ci sono ratti e bambini. Il cuore dell’alba è fermo. Scende la luce che riscalda i secchi sui balconi. Pedalo, sento nei muscoli il formicolio del sangue. Attraverso altre strade. Baracche, palazzi, distributori di benzina, mendicanti assopiti agli angoli, sotto le tettoie. Vado veloce, il cuore che striscia nelle vie di Sao Paulo. Vedo l’ombra dei miei capelli su un muro su cui qualcuno ha disegnato un uomo con un fucile. Vanno lontano, lo capisco. Così faccio una cosa che non avrei mai pensato di fare. Taglio per una piccola strada che porta a una strada più grande. Ho sognato quella strada, una volta. Quando giro, la macchina mi prende in

pieno. Salto il passaggio che dovrebbe spiegare cosa succede dopo. Dico solo che entro in macchina. Parlo in tedesco, loro parlano tedesco. Parliamo nella lingua che ho cercato di dimenticare. Devo sforzarmi. Ogni articolo, ogni sostantivo, pesa come pugni in bocca. Mi chiedono di me. L’uomo che guida si chiama Bossert. La moglie gli siede accanto. Dietro, invece, siamo io e l’uomo che si fa chiamare Wolfgang Gerhard. So chi è. So che è lui. Attraversiamo piccole città, altre strade sterrate. La moglie di Bossert mi offre dell’acqua. Ammetto di essere uno scrittore. Wolfgang Gerhard mi chiede se conosco Bernhard. Dico no. Lui sorride. Da lontano il cuore della piccola città di Bertioga si estende sulla superficie dell’oceano. Vedo la spuma delle onde, i palmizi, il colore della sabbia simile allo zafferano, ma più scuro. Così la macchina si ferma. I Bossert scendono per primi. Lui si stiracchia premendo il sedere sul cofano, mentre lei indossa i suoi occhiali da sole. L’uomo che si fa chiamare Wolfgang Gerhard resta in macchina. Siamo soli, io e lui. Non dice niente. Guarda l’Oceano Atlantico. Penso a come farlo fuori. Penso che questo sia il momento. Lui guarda le onde e io lo uccido. Ma come ucciderlo, come non lo so. Esce, lui esce. Il vento corre sulla sabbia. I Bossert vanno in spiaggia tenendosi mano nella mano. Lui cammina lentamente. Come un uomo sulla luna. Un passo. Un altro. Lo seguo dal finestrino della macchina. Poi i Bossert si girano, mi chiamano. Dicono vieni. Dico arrivo. Lui cammina, un passo, la sabbia che ingoia i piedi, e ancora un passo. Lo vedo spogliarsi. La camicia. Lo vedo che si toglie i pantaloni. Lo vedo che lascia un oggetto sui vestiti. Esco dalla macchina. La sabbia si richiude come sabbia mobile. Entri ed esci. Ma devi fare forza. Ogni passo costa. Lui, Mengele, perché è lui, è Mengele, sta a riva. Scivola con i piedi nell’acqua. Mormora qualcosa ai Bossert. Loro ridono. Continuo a camminare. Ormai mancano venti metri. Lui si ferma. Si asciuga la fronte con il dorso della mano. Si tuffa. Entra nell’acqua. Cammino ancora. Ho solo cinque metri davanti a me. I Bossert si baciano. Lui è in acqua, la sua testa bianca illuminata dal sole. Vedo qualcosa. Cerca di dire qualcosa. I Bossert si 14


baciano ancora. Lui, Mengele, si muove male in acqua. Sembra un uomo sulla luna, o uno a cui hanno morso un piede. Apre la bocca, la richiude. Io resto fermo. Posso entrare, posso farlo. Ma resto con i piedi sulla sabbia. Lui sprofonda. Scende. I Bossert si baciano. Si baciano ancora. Guardo la scia di bolle. I Bossert si baciano. La scia di bolle che sale in superficie. La spuma che la copre. Devi stare attento, mi dico, guarda bene. Crea un diversivo. I Bossert ancora si baciano. Crea un diversivo. Ma intanto conto. Trenta secondi. I Bossert si baciano. Quaranta secondi. Lui la accarezza. Cinquanta secondi. Lui le dice qualcosa nell’orecchio. Un minuto. Lui si gira. Guarda l’oceano. Si gira ancora. Guarda me. Fingo, fingo di avere gli occhi incollati al palmizio che decora la spiaggia. Urla qualcosa, Bossert. Dice Josef, poi dice Wolfgang, poi se ne fotte e urla solo Josef. Ma Josef è colato a picco. Josef è dentro. Josef è andato. •

Nato a Heidelberg negli anni ‘80, Marco Lupo comincia subito a scrivere ma non propone niente fino al 2006. Quindi compare su diverse antologie, entra nella redazione da TerraNullius e, nel 2011, è finalista di Esor-dire. A maggio pubblicherà, a quattro mani con Luca Moretti, Mai Morti, per Dissensi. È alle prese con un romanzo che non sa quando finirà. Sfoggia una scrittura caustica, spiazzante, citazionistica. Unica pecca: posta troppa roba su Facebook: a quest’ora il romanzo sarebbe pronto. Di lui riproponiamo Fottuto Mengele, apparso su Scrittori Precari nel luglio 2011.

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UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODERE

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a cosa che Ginevra ha sempre saputo fare meglio è ascoltare. Le braccia conserte, la testa leggermente reclinata, da ormai quattro mesi segue storia moderna alle dieci e trenta del lunedì, del martedì e del giovedì mattina. Ginevra non prende appunti, non li ha presi neanche una volta, e indossa una piccola borsa di cuoio a tracolla in cui un quaderno di quelli piccoli entrerebbe a stento. Ginevra non prende appunti, ma non deve neanche dare l’esame del corso, né di quello che sta seguendo né di qualunque altro. Ogni tanto chiude gli occhi, poi li riapre. Mancano solo cinque minuti alla fine della lezione, allunga il braccio destro verso sinistra, puntando l’indice nel vuoto come se stesse suonando un campanello. Lo fa istintivamente, sembra non farci neanche caso, e un istante dopo tira un colpo leggero, sempre con l’indice, sulla testa di Roberta, seduta davanti a lei. «È scoppiato? » le chiede Roberta. «Sì, è tornato minuscolo». Roberta si volta e ricomincia a scrivere. Ginevra ha diciannove anni, di cognome fa Paleari. Suo padre è il capo di qualcosa di non ben definito in uno degli uffici che danno su Piazza Affari. Ogni volta che Ginevra ha provato a chiedergli di cosa si trattasse, lui l’ha guardata, poi ha guardato le proprie mani e alla fine si è allontanato con una scrollata di spalle. Sua madre invece fa la moglie di un marito capo di qualcosa di non ben definito in Piazza Affari, il suo ruolo implica la compulsiva organizzazione di cene a più portate e l’accurata scelta di centrotavola coordinati ai tovaglioli. Suo fratello, Guglielmo, di quattro anni maggiore, dopo aver studiato in un collegio in Germania è volato a New Haven a studiare economia, Ginevra di lui sa soltanto che ha un bel sorriso, ascolta buona musica, ed è l’unico tra i suoi parenti a preoccuparsi di chiederle come sta. Ginevra, nata e cresciuta in un palazzo privato dietro Corso Venezia, possiede tutte le piccole nevrosi quotidiane che si confanno ad una giovane donna della Milano perbene; non ha mai accostato delle scarpe marroni a un vestito nero, pulisce ogni superficie di proprietà statale prima di sedercisi sopra, e chiama le

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IL PERIODO YAYOI di Matilde Quarti

lumache escargots e il coniglio lapin, ma solo quando rivestono il ruolo di portata. Oltre a queste, però, ne possiede un’altra sua particolarissima, talmente nevrosi e talmente quotidiana da aver suscitato l’interesse di più di un esperto, facendola entrare dalla porta d’ingresso nell’elenco dei loro casi irrisolti. Ginevra Paleari vede puntini. Vede puntini all’incirca dall’anno della prima elementare, ricoprono tutto il suo campo visivo e a seconda dell’intensità e del genere delle sue emozioni cambiano di colore e dimensioni. Quando Ginevra è serena i puntini sono piccoli come capocchie di spillo, di colori tenui, ma mano a mano che le sue sensazioni diventano più forti, virando dalla rabbia all’imbarazzo, al dolore, alla gioia, i colori si fanno più accesi e i pallini diventano sempre più grandi, raggiungendo il volume di un pallone da calcio, o ancora maggiori, tanto da oscurarle la vista con un’opaca e impenetrabile patina colorata. In questi casi, per farli tornare alle dimensioni originali, Ginevra è costretta a scoppiarli. È un gesto che ormai le risulta automatico, come scostarsi una ciocca di capelli dagli occhi. Così Ginevra punta l’indice nel vuoto, e con movimenti veloci scoppia i pallini, uno dopo l’altro, finché non sono tutti tornati di dimensioni accettabili. Ginevra alla fine della lezione si sporge verso Roberta. «Corro a casa, tra poco tornano. Di’ a Marco che co minciamo stasera». Poi esce veloce, con il cuore che le batte sempre più forte mentre scende le scale. Arrivata nell’atrio Ginevra si ferma un secondo, scoppia i pallini che le stanno annebbiando la vista,


si calma. Ancora non è riuscita ad abituarsi a questa nuova sensazione di libertà che avverte in ogni muscolo mentre aspetta la 94, mentre fa colazione al bar di fronte all’università. Al piacere segreto e clandestino di mangiare la pasta al formaggio della mensa, di fumare una sigaretta in chiostro dopo il caffè stantio della macchinetta, di parlare con quelle stesse persone con cui ha mangiato la pasta al formaggio della mensa e ha fumato la sigaretta in chiostro dopo il caffè. Guarda questi studenti passarsi l’accendino o salutarsi con una mano sulla spalla con la stessa scioltezza con cui lei fa saltare uno dopo l’altro i pallini che le confondono la visuale. E ogni volta le sembra impossibile, di fare parte anche lei del quadro. Poi i pallini le offuscano di nuovo la vista, e Ginevra li scoppia con la punta della sigaretta.

spiegato che doveva proprio scoppiarli, i pallini, Roberta e Marco invece di guardarla come faceva ogni volta sua madre, con gli occhi tristi e il labbro arricciato, le avevano chiesto di spiegarlo meglio. E quando lei lo aveva spiegato meglio, le avevano chiesto di spiegarlo ancora.

Ginevra percorre veloce la strada dall’università a casa, passa per Piazza Fontana, supera velocemente la confusione di Corso Vittorio Emanuele e San Babila, taglia dalle viuzze laterali alla circonvallazione interna stupendosi, come ogni giorno, che la folla di lavoratori in pausa pranzo del primo pomeriggio non la infastidisca. Stringe in mano il cellulare, spera che non vibri, che non ci sia nessuna telefonata da casa per sapere dove sia finita. Quella di Ginevra non è mai stata una prigionia conclamata, di quelle con ceppi ai polsi, stanze buie, e cibo passato da uno sportello nella porta. Ginevra non è mai stata la tragica eroina di una fiaba per bambini, nessuno ha mai chiuso a chiave la porta di casa impedendole di uscire. Quella di Ginevra è una reclusione dorata, in un palazzo del centro città di tre piani più una terrazza con piscina. La sua è una prigionia fatta di parole e allusioni, di cenni col capo derisori e occhiate indiscrete. Appena era stato scoperto il suo problema, Ginevra era stata trascinata in una girandola di dottori, neurologi, psichiatri, tutti affaccendati a scoprire quale fosse la causa scatenante di quei puntini che le davano la visione di un mondo con la varicella. Ma tutti i luminari avevano dovuto, con mal celato imbarazzo, spiegare al signor Paleari che il disturbo della figlia non aveva un esito prevedibile e, soprattutto, non poteva essere curato in alcun modo se non con il tempo. Così, facendo trapelare ad ogni parola in più la vergogna e il disappunto che la diversità della bambina suscitava, in famiglia era stato categoricamente proibito discuterne. Ogni volta che Ginevra allungava il braccio per scoppiare qualche pallino sfuggito al controllo, riceveva un sonoro schiaffo sulla mano, e quando lamentava di non riuscire a vedere niente e di doverli proprio scoppiare, i pallini, suo padre e sua madre continuavano imperterriti qualsiasi attività nella quale fos-

Quando, quattro mesi prima, aveva spiegato a Marco e Roberta il suo disturbo, lo aveva fatto con la certezza che sarebbero scappati senza neanche lasciarla finire di parlare. Era successo all’entrata, davanti al tabellone dell’orario dei corsi. Ginevra aveva deciso di seguire storia moderna. Le piaceva la storia, era un lungo racconto che non necessitava di analisi e formule, ma solo di una buona memoria. Poi si era bloccata, sommersa da nomi di corsi sempre più specifici, con orari che si accavallavano e intrecciavano tra loro senza alcuna logica apparente. Era rimasta ferma con lo sguardo rivolto verso un punto imprecisato e le braccia rigide lungo i fianchi. Aveva pensato che era sbagliato cercare di infiltrarsi in un mondo che non la riguardava, stare lì con la testa piegata all’indietro per scoprire in che aula si tenessero le lezioni, fingendo di essere simile a tutti quegli studenti che si muovevano, cercavano, trovavano intorno a lei. E mentre si convinceva che sarebbe immediatamente dovuta tornare a casa i puntini erano diventati sempre più grossi e, prima che Ginevra potesse rendersene conto, il suo indice era finito nella narice di Marco. Marco aveva fatto un salto indietro, mettendosi la mano davanti al naso, Roberta, in piedi accanto a loro, aveva riso. Aveva riso molto forte, con gli occhi sbarrati e le sopracciglia inarcate. E quando Ginevra scusandosi aveva 17


UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODERE sero impegnati, fingendo che niente e nessuno stesse cercando di attirare la loro attenzione. Soltanto Guglielmo provava compassione per la situazione della sorella, e così cercava di consolarla e di farsi raccontare di nascosto i colori e la disposizione dei puntini. Ma con la sua partenza per il collegio tedesco che lo avrebbe trasformato nel degno successore di suo padre, e l’incidente della moglie dell’ambasciatore, la vita di Ginevra era, se possibile, peggiorata ulteriormente.

L’incidente della moglie dell’ambasciatore risaliva al suo ottavo compleanno. Come consueto nei salotti della Milano perbene, sua madre aveva organizzato un pranzo in piedi invitando parenti, amici, e colleghi del padre, i più fortunati dei quali avevano un figlio di un’età più o meno vicina a quella di Ginevra da vestire bene e portarsi appresso. Ginevra, per l’emozione di una giornata dedicata solo ed unicamente a lei, da quella mattina era tormentata da pallini che non facevano altro che continuare a gonfiarsi poco dopo essere stati scoppiati. Aveva raggiunto il massimo dell’eccitazione che una bambina di otto anni può provare al momento dell’apertura dei regali; in quel momento teneva tra le mani una scatola cubica rivestita di carta traslucida rossa, con un nastro viola che la stringeva ai quattro lati per poi annodarsi in un tripudio di onde. Due macchie verdi cangianti, delle dimensioni di due palloni aerostatici, il cui centro si trovava esattamente sulla pancia dell’ambasciatore argentino e sul seno destro della moglie, le avevano impedito di trovare il capo del fiocco. Ginevra per qualche secondo si era contenuta. Poi, con le mani che ancora stringevano il regalo protese in avanti, non aveva potuto fare a meno di slanciarsi alla cieca, procurando la rovinosa caduta della moglie dell’ambasciatore e della sua anca.

alle Cayman è stato favoloso, che durante l’ultima immersione ha visto persino uno squalo, e che è appena arrivato a casa e spera che lo vadano a trovare presto. Il messaggio è rivolto ai genitori. Ginevra non andrà a trovarlo a New Haven, come non è mai andata in Germania, né ha mai fatto viaggi, oltre i canonici due mesi estivi in Liguria nella villa in collina del nonno.

Se Ginevra fosse nata in una famiglia normale, forse la donna che avrebbe fatto cadere il giorno del suo compleanno sarebbe stata una grassa amica della madre e forse non si sarebbe presa altro che uno scappellotto e una serata di prediche. Invece non era andata così. Ginevra vedeva puntini e li vedeva nella famiglia sbagliata. Dopo l’incidente della moglie dell’ambasciatore era stata ritirata da scuola. Studiava da sola a casa, con degli insegnanti privati, e vedeva gli altri studenti solo per gli esami statali alla fine di ogni anno scolastico. Aveva finito in questo modo le elementari, e poi tutte le medie e il liceo. Ginevra non Ginevra apre la porta di casa. È sola, si to- prendeva mai appunti e non amava leggere. glie la maglietta che puzza di fumo e, ferma in Le lettere, coperte e spezzate dai puntini, si reggiseno in mezzo al corridoio, ascolta il si- confondevano tra loro fino a formare un braillenzio. Dal piano di sopra arrivano attutiti il le indecifrabile. Per non dover passare troppo ronzio della lavatrice e il rumore dei passi di tempo a concentrarsi nella lettura cercava di Anya, la cameriera russa. In segreteria c’è un imparare tutto a memoria, dalle formule delle messaggio di Guglielmo. Dice che il soggiorno equazioni alle Critiche di Kant. Ricordava persino la maggior parte dell’Inferno di Dante, ma 18


con il Purgatorio e il Paradiso aveva dichiarato bandiera bianca. Poi, dopo le lezioni, Ginevra passava il resto della giornata cucinando, suonando la chitarra, ascoltando la musica, tutte attività che non potevano essere in alcun modo intralciate dai puntini. Aveva cominciato a suonare a tredici anni, ripetendo fino alla nausea gli accordi di Sparks, degli Who, che suo fratello le aveva fatto sentire a Natale. Guglielmo durante le vacanze le portava gli album dei Rolling Stones, di David Bowie, degli Smiths. Da allora, quando era sola in casa, inseriva un disco nello stereo e lo seguiva con la chitarra canzone per canzone, tutte le tracce di Strangeways here we come, o (What’s the story) Morning glory?. Ginevra amava l’arte, ma i musei erano per lei zone ad alto rischio. Amava il cinema, ma la paura di tirare scappellotti a quelli seduti nella fila davanti la costringeva a guardare i film dallo schermo al plasma che aveva sistemato di fronte al letto. Come ogni altra adolescente aveva pianto guardando Come eravamo e Sissi, pensava che Tim Burton fosse un genio, e si era innamorata di Aragorn del Signore degli anelli. L’unica differenza era che per lei Viggo Mortensen aveva l’aspetto di chi ha appena contratto il morbillo.

za baci, senza carezze. Informano la figlia, con un piede già fuori dalla porta, che vanno a rilassarsi in montagna, saranno di ritorno entro dieci giorni. Le raccomandano di uscire solo se è proprio necessario. E di non farsi male, anche.

Ginevra non si è mai fatta male, in verità. Prima dell’inizio del semestre non era neanche mai uscita di casa da sola per fare qualcosa di più complesso di un giro del quartiere. D’altra parte non avrebbe avuto neanche senso farlo non conoscendo nessuno, all’infuori dei figli degli amici dei genitori che incontrava alle feste e alle celebrazioni formali. A Ginevra non era mai stato proibito niente, fuorché la dignità di una vita normale. Aveva passato tutti quegli anni a vergognarsi, a nascondersi, a pensare di essere diversa dagli altri perché qualcuno glielo aveva fatto credere. E poi improvvisamente era tutto finito, e Ginevra non sapeva neanche quando fosse avvenuto esattamente, tra l’incontro con Roberta e Marco davanti al tabellone degli orari e quel pomeriggio in cui i suoi genitori e Anya erano partiti per la montagna. Mentre Ginevra si sdraia sul divano ad aspettare l’arrivo di Marco e di Roberta i puntini sono minuscoli, fitti e di color arancione tenue. Marco e Roberta arrivano facendo una gran confusione, si attaccano al citofono finché Ginevra non risponde, infrangono l’austerità di quella palazzina sepolcrale. Entrano sbattendo a destra e a sinistra secchi di vernice, rulli e pennelli. Roberta è sbalordita dalle dimensioni della casa, dalla scalinata, dall’ascensore privato, dai piani di stanze enormi, dai soffitti altissimi. Continua a ripetere se, per favore, prima di finire il lavoro potranno fare un bagno in piscina. Marco sorride, cerca di toccare la mano di Ginevra passandole i secchi di vernice, più volte, perché un po’ lei gli piace. Perché è l’unica ragazza che conosce che lo vede a puntini.

L’incontro di Ginevra con i suoi genitori è breve e imbarazzato. Suo padre entra parlando al cellulare, ha lo sguardo vitreo e annuisce al vuoto. Lo segue la moglie trafelata, tiene la borsa nell’incavo del gomito e gli occhiali in mano. «Sei uscita stamattina?» chiede a Ginevra. «Ho fatto solo una passeggiata». Sua madre sospira rumorosamente. Spera che non abbia incontrato nessuno di conosciuto, ma non glielo dice. Non capisce perché non possa limitarsi ad andare in piscina quando vuole prendere aria; lo pensa, ma non dice neanche questo. Chiama invece Anya, la prima volta quasi in un sussurro. Quando capisce che il suo pensiero non può attraversare i soffitti chiama più forte, Anya si materializza fuori dall’ascensore, con quattro bagagli enormi dietro di sé. Pochi minuti ed escono di nuovo, questa volta accompagnati dalla cameriera, con la stessa velocità con cui sono entrati, sen-

Decidono di cominciare il lavoro dal salone, la parte più difficile, e di volta in volta muoversi attraverso tutte le stanze fino alla terrazza. Si mettono i guanti in lattice, delle vecchie magliette rovinate, e aprono il primo secchio. 19


UNA COSA PICCOLA CHE STA PER ESPLODERE ne prende molti, pochi libri, tantissima musica. Percorre un’ultima volta la casa, le stanze bianche che non somigliano più a quelle dove è cresciuta. Osserva ridendo i puntini del suo sguardo che si sovrappongono ai pallini dipinti sui muri e sui mobili creando fantasie meravigliose. Poi Ginevra prende la valigia che ha lasciato all’ingresso ed esce. Qualche secondo e torna dentro, tiene in mano le chiavi di casa. Si guarda intorno di nuovo, soppesandole, e un attimo dopo le poggia sul mobiletto all’entrata. Esce di nuovo, chiudendosi piano la porta alle spalle. E non rientra più. •

Ricoprono i mobili di vernice bianca, tutti. Il divano, il tavolo, il cassettone, la libreria, le poltrone, tutte le sedie, il camino e il minibar. Ovviamente i muri e il soffitto. Poi passano ad ogni cornice, ogni bicchiere, ogni soprammobile, ogni oggetto che per caso si trova nella stanza, lasciano intatti solo i libri, i quadri e i tasti dell’enorme pianoforte a coda. E quando tutte le superfici attorno a loro sono completamente bianche le ricoprono di pallini, della dimensione e del colore di cui li vede Ginevra in quel momento. E così passano di stanza in stanza, le cinque camere da letto, i tre bagni, la cucina, la dispensa, lo sgabuzzino, i locali della cameriera, lo studio del padre, la sala giochi, la taverna. E ogni camera è completamente bianca, ogni camera è sommersa da pallini di differenti colori e grandezze. Quelli della sala sono giallo acceso, grandi come arance, quelli in cucina verde chiaro, del diametro di un anello, nella camera dei genitori blu elettrico, delle dimensioni di un 45 giri. Per dipingere tutto impiegano otto giorni, lavorano dalla mattina fino a notte inoltrata. Poi Ginevra va a dormire da Roberta, per non soffocare nell’odore acre della sua liberazione. Quando si svegliano fanno colazione e attingono dalla generosa carta di credito di Ginevra per comprare altra vernice.

Alla fine del lavoro Ginevra resta sola, nella casa immensa e silenziosa come la notte in montagna. Si lava, ride tra sé quando i rubinetti dell’acqua, bianchi a puntini viola, cigolano mentre li apre. Poi fa la valigia, con calma, in fondo mette tutti i soldi che riesce a trovare nei cassetti, nella scrivania del padre, nelle tasche interne delle borse della madre. E sono tantissimi, più di quelli con cui un lavoratore medio pagherebbe sei mesi di affitto. Di vestiti

Matilde Quarti, milanese, giovanissima (1987), studia filosofia, collabora con la casa editrice No Reply e cogestisce la rivista letteraria Follelfo. Ha pubblicato racconti un po’ ovunque, da inutile a Colla fino al prossimo Atti Impuri. Tutti la vogliono, e non è difficile capire perché. Malinconica quanto ironica ha uno stile asciutto supportato da strutture narrative quadrate e, soprattutto, da ottime intuizioni (risulta chiaro che non improvvisa mai, che non si muove se non in seguito a un’idea precisa). Un plauso all’estro nella scelta dei titoli. Di lei riproponiamo Il periodo Yayoi, pubblicato sull’antologia Clandestina (Effequ, 2010), curata da Federico Di Vita ed Enrico Piscitelli. 20


LINCOLN’S CORNER NEWS editoriale di Giulio D’Antona

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io com’è difficile scrivere gli editoriali. Niente, ci sono questi tre racconti, che per un motivo o per l’altro abbiamo deciso di pubblicare. Perché li abbiamo chiesti noi agli autori, perché ci piace come scrivono, perché ci piacciono loro come persone. Partiamo dal principio, dal numero due (che avete tra le mani, e già questa è una novità): la sezione racconti ha un nome. E mica un nome qualunque: Abramo Lincoln, sinonimo di rettitudine e integrità morale. Lincoln ha liberato gli schiavi, ha fondato la nazione, non ha mai detto bugie. O era George Washington? In tutti i casi: Lincoln viveva nella casetta di legno ai margini del bosco che lui stesso si era costruito, e questo, per me che vivo in affitto in via Padova, è già un grande esempio di rettitudine e integrità morale. Ecco, i racconti li abbiamo scelti come si scelgono le assi per costruirsi una casetta di legno: un po’ andando sul sicuro, un po’ cercando i rami flessibili, un po’ andando a caso e sperando di non aver raccolto dei legni marci e pieni di limacce. Ci è andata bene, abbiamo chiesto e ci è stato dato, con prontezza e qualità. Dai vecchi amici: Gianluca Pizzingrilli, che scivola sopra i rimasugli di un pranzo casereccio e sfiora un argomento a me caro: il baseball. Dai nuovi amici: Alessandra MR D’Agostino. Questioni irrisolte, città a misura di niente, e pancioni su tacchi altissimi. Dagli amici degli amici: Nicolò Cavallaro, che ci ha omaggiato di un atmosfera McCartiana da sud del confine, di una situazione irrisolta ma che è a un passo dallo scarto finale e del cameo più ambito: Joseph Ratzinger, detto il Papa (ma cosa volete che ne sappia, io?). Ci è stato dato e noi abbiamo pubblicato, scegliendo le assi e compiacendoci quando abbiamo visto che stavano in perfetto equilibrio pur venendo da tre alberi completamente diversi. Autori, alberi, Lincoln avrebbe capito. •

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LEI NON RISPOSE

ui si svegliò. Guardò l’ora. Poi il cellulare. Due messaggi. Che cancellò, senza leg-

gere. Si alzò dal letto. Si avviò in cucina. Preparò la moca. Sul ripiano accanto al microonde un post-it. Sbuffò, intuendo. Lo afferrò. Lo lesse, veloce. Lo stracciò. Non c’era spazio. Finalmente l’aveva capito. E aveva tolto il disturbo. Finalmente anche quello. Tornò al suo caffè. Tornò al suo letto. Appoggiò la tazza sul comodino. Rimase un po’ seduto, appoggiato ai cuscini contro la testiera. Prese di nuovo il cellulare. Compose il numero. Un paio di volte fece suonare. Poi desistette e lo appoggiò sul parquet. Si mise steso. La mano sulla fronte, a pensare. La sveglia suonò di nuovo. La spense. Si girò da un lato. Si riaddormentò. Lei preparò tutto. Su un biglietto lasciò detto. Mise le scarpe nuove. Aprì la porta. Chiuse la porta. Scese le scale. Incontrò quella del primo che le ricordò che il cane le pisciava ogni giorno sullo zerbino, scendendo. Disse che le dispiaceva, che avrebbe provveduto affinché non accadesse più. Che però doveva andare, ora doveva proprio andare. E così lasciò quella del primo, quella grassa separata due figli a carico, beh lasciò quella del primo guardarla scendere le scale, stretta nel cappotto grigio sciancrato alla vita. Squillò il cellulare. Si fermò. Lo prese dalla borsa. Guardò. Non sorrise. Anzi. Lo spense, direttamente. Lo rimise in borsa. Poi continuò a scendere. Si fermò poi, ancora un istante. Pensò che non aveva salutato il cane. Così fece per tornare su, ma si fermò, di nuovo, e pensò che sarebbe stato meglio così e continuò quindi verso il portone, uscendo. Attraversò la strada, tenendosi il pancione, sotto. Camminava piano. Camminava a fatica su quelle scarpe nuove dai tacchi altissimi. Quelle costate tantissimo. Girò attorno all’isolato e arrivò davanti a quel portone. Si fermò al citofono. Cercò. R.S. Lo sfioro col dito quel tasto coperto da nastro adesivo. Fece per suonare. Ma non suonò. Si

di Alessandra MR D’Agostino illustrazione di Francesco Bevilacqua

massaggiò invece un po’ la pancia, nel punto dove scalciava di più. Continuò a camminare. Incrociò per strada per caso la portinaia scesa a prendere il latte per il gatto che le disse che aveva ritirato una raccomandata per lei, giusto il giorno prima, e che forse avrebbe dovuto passare a prenderla che magari era cosa urgente. Suggerì che forse magari avrebbe dovuto farle una delega per il ritiro di certe cose così quell’inconveniente ora non lo avrebbe avuto. E magari sarebbe stato necessario anche un mazzo di chiavi in copia che si sa mai cosa succede si rompe un tubo delll’acqua una perdita di gas qualsiasi cosa insomma e non la puoi prevedere. A quel punto lei prese le chiavi dalla borsa, quelle di casa, e gliele mise in mano. Alla portinaia. Che non fece in tempo a dire, né chiedere niente insomma. Perché lei la salutò e continuò a camminare. Sempre più veloce. Sempre con quella mano appoggiata ferma alla base del pancione. Arrivò al corso. Attraversò al semaforo. Scese di corsa le scale della metro, fino al binario. Guardò il display: solo tre minuti di attesa. Si mise seduta. Respirava a fatica. La pancia, da dentro, scalciava, sempre più forte. Chiuse gli occhi. Cercò di ricordare quella sera. Poi il rumore della metro ringhiosa sui binari la fece trasalire. Così si alzò. Si avvicinò al vagone che stava fermandosi. Entrò. Una donna la fece sedere. Grazie, disse, resto in piedi. Fa niente. La donna sorrise, scocciata, e si rimise al suo posto. Lei rimase in piedi, reggendosi a fatica sul braccio appoggiato al sostegno metallico. Poi una voce la chiamò. Riconoscendola, lei non si voltò. Ma quello insistette. E lei, di nuovo, non si voltò. Fin quando una mano appoggiata alla sua spalla non la costrinse a girarsi. 23


LINCOLN’S CORNER NEWS: RACCONTI INEDITI Eri tu. Lei non rispose. Non mi avevi riconosciuto. Lei non rispose. Come stai? Lei non rispose. Come sta andando? Lei non rispose. Ma stai bene? Sei pallida.. Lei non rispose. Il vagone si fermò. Devo scendere, disse lei. Così scese, senza neanche salutarlo. Lui rimase su. Attonito, nel suo disappunto. Lei rimase sulla banchina con le mani serrate sulla pancia. Sola, sulla banchina di una metro. •

Alessandra MR D’Agostino nasce nel villaggio operaio delle Falck, a Sesto San Giovanni. Germanista, vive e lavora a Milano e dintorni. Ha pubblicato Voice recorder, Ed. Untitled; Salva con nome, Lulu; Vertoiba 5 Ed. Zona; La regola dei salici Ed. Leggere Leggere. Giorni, Ed. Zona Contemporanea, è il suo quinto romanzo. Suoi racconti hanno vinto concorsi letterari. Blogger splinderiana, recentemente passata a wordpress (www. dicosaparliamoquandoparliamodiparole.wordpress.com), scrive per musica, teatro, arti visive. Conduce laboratori di terapia della scrittura. È fautrice e tutor del progetto Human book del quartiere Crescenzago di Milano. E’ altresì fautrice del progetto Oltrecorpo su storie di transgender. Fotografa la vita e ne sorride. Adora i teletubbies. È un gatto nero. 24


E

LE RIGHINE DEGLI YANKEES

ra la prima volta che vedeva la sua fronte. In più di trent’anni. Ampia, molto alta, visto che era praticamente calvo. Si indovinava un termine alla fronte per il cambio di colore della cute, come una differente densità della pelle della testa, una volta destinata a ospitare i capelli. Lo fissava, mentre mangiavano seduti sul piccolo tavolo da pranzo grigio della cucina. Un pasto semplice: fusilli con un sugo alle olive preconfezionato, affettati, formaggio e pomodori. Un pasto da uomini. Soli e senza passione per la cucina. Non poteva lamentarsi, un pranzo del genere era un notevole passo avanti rispetto a quelli a cui si era abituato negli ultimi tempi, dopo la separazione. Suo padre non amava mangiare panini o piadine e si era improvvisato cuoco. Era seduto di fronte a lui, chino sul piatto, ingobbito mentre affondava la forchetta tra i fusilli. Al dente: i condimenti non erano il suo forte, ma sulla cottura non si poteva dire nulla. La fronte era rossa. E rugosa. Quante erano le rughe? Dieci, undici? non riusciva a contarle, continuava a confondersi. I profondi solchi orizzontali andavano e venivano, a seconda dell’espressione che assumeva il volto del padre.

di Gianluca Pizzingrilli illustrazione di Manfredi Damasco «Vedremo. Non lo uso quasi mai». «Ma io sì. E poi si fa fatica ad arrivare in fondo al barattolo. Dove l’hai presa questa saliera?» «Ricordo di un viaggio».

Davvero non aveva mai visto la fronte spaziosa di suo padre? No, non riusciva a ricordare di averla mai veramente notata. In sé, come entità a parte. Come parte di un corpo, di una persona, di un uomo. Aveva sempre e solo visto suo padre, e questo bastava. Un tutt’uno, riassunto in quattro lettere: papà. Un concetto unitario, monolitico. Ogni volta che lo aveva osservato, aveva visto suo padre, in ogni parte l’insieme. Non c’era mai stato spazio per i dettagli. «Manca di sale», sentenziò mentre masticaMa adesso, questa parte lo aveva colpito va il primo boccone. come una novità, come se fosse stata indossata «No, va bene così». Paolo pensò che un po’ di per la prima volta. sale effettivamente mancava, ma non era poi così importante per lui. «Quale viaggio?» Ettore si era alzato per to«Ne metto sempre troppo poco. A casa è mia gliere i piatti fondi, ormai vuoti. Li posò nel lamoglie che cucina». vabo e prese una coppa trasparente contenen«Va bene così». te pomodori tagliati e conditi. «Bé, io ci voglio un po’ di sale. Me lo passi?», «In quale viaggio hai comprato il portasaera fatto così: perfezionista e testardo. le?», insistette. «Boh, mi sembra in Sicilia. Non ne sono siPaolo distese il braccio e arrivò facilmente curo». alla saliera, sulla mensola accanto al tavolo, «Bel ricordo», osservò sarcastico il padre. anch’essa grigia. Nessuno sforzo per il ginoc«Già, gran bel ricordo», rispose asciutto Pachio operato. Sollevò il contenitore di terracot- olo. Non ricordava dove l’aveva preso, ma certi ta azzurra e lo posò sul tavolo. occhi e certi sorrisi erano ancora riconoscibili sulla terracotta. «Non esagerare», si raccomandò. «Non esagero», il padre sollevò il coperchio Suo padre si riempì il piatto con i pomododi terracotta e infilò la mano, «È quasi vuota. ri e tagliò del formaggio. Posò pure quello nel Bisognerà ricomprarlo». piatto. Poi si guardò attorno in cerca di qual25


LINCOLN’S CORNER NEWS: RACCONTI INEDITI cosa.

giusto?» «Lo sai». «Io non c’ero».

«Pane?», domandò.

Paolo prese la scatola di plastica trasparente che conteneva le sfoglie che usava al posto del pane e gliela passò.

Ettore guardò in cielo, come per dire: non ho già pagato abbastanza?

«Sì me lo sono rotto su un campo di baseball: erano i playoff per salire in A».

«E questo lo chiami pane?», si lamentò Ettore con disgusto e disprezzo. «Potevi comprarlo». «Con questo non si può fare la scarpetta. Nun mi da ‘usto. Questo magut, kaput...». «Si chiama kamut. Te l’ho già detto: mangio questo pane perché sono intollerante al frumento». «Sì, come tua madre». «È intollerante al frumento?» «È solo intollerante. Specialmente a me!» le rughe sulla fronte ricomparvero, sorridenti per la battuta. Ancora loro. Non che fosse nulla di importante: notare le rughe di una fronte, o un naso storto o le sopracciglia. Però sentiva che qualcosa di diverso c’era. Sì, era la prima volta che vedeva Ettore. Un uomo di sessantacinque anni, occupato a prendersi cura di un figlio trentaseienne immobilizzato a casa per un’operazione al ginocchio. In una città che non era la sua per di più. A vederlo adesso, con una felpa sformata dei New York Yankees, ingobbito sul piatto, non sembrava un granché. Ma lui sapeva che, a discapito delle apparenze, quell’ometto lì era una forza. Ne aveva combinate in vita sua. La squadra, il giornale, la radio, la televisione, i festival, le notti in bianco. I successi, i fallimenti, le fughe in avanti, le confusioni, i ripensamenti. Non l’avresti detto di un ometto così dimesso. Un ragioniere per giunta. Di alcune avventure portava ancora i segni sul corpo. Come il naso, per esempio. Grande lo era di famiglia, il suo era pure storto. Se lo era rotto in un modo che proprio non si poteva immaginare vedendolo.

Paolo la storia l’aveva sentita tante volte, confusa nei ricordi dei personaggi che vi avevano assistito, gonfiata dai sentito dire di chi non c’era, storpiata dal sarcasmo della madre, non avrebbe saputo dire cosa fosse realmente accaduto.

«È difficile credere che tu fossi a un passo dalla serie A», disse. Il padre lo guardò sorpreso, quasi risentito, «A quel tempo erano in pochi a giocare a baseball. Non era poi così difficile. E comunque eravamo una bella squadretta. Alcuni dei miei ragazzi finirono anche in nazionale». «E tu?» «Io cosa? Li allenavo». «Come ti eri improvvisato allenatore?» «Non mi ero improvvisato. Da ragazzo mi sono imbattuto in alcune foto di Joe di Maggio e Babe Ruth. Mi sono innamorato delle divise». «Le divise?» «Certo. Hai mai visto gli Yankees giocare? Incantano tutti con quelle righine lì. Gran classe, te lo dico io». «E poi?» «E poi avevo scritto alla federazione italiana per avere attrezzature e aiuti». «E hai creato una squadra dal nulla». «Già». «In quanto tempo arrivaste ai play-off?» Ci pensò qualche secondo, mentre cercava di intingere la sfoglia di kamut nell’olio dei pomodori, «Sette anni. Proprio un bel periodo». «La storia del premio è vera?». «Certo che è vera! Come miglior allenatore delle serie minori. Niente di che».

«Sai che hai proprio un brutto naso?» «Oggi sei in vena di complimenti?» «Te lo sei ridotto così giocando a baseball,

Niente di che, diceva lui. Il ginocchio lanciò una fitta di invidia. 26


«Peccato che ora non puoi più allenare». Ettore scrollò le spalle, «Meglio così, mi ero comunque scocciato». «Dai racconta, non farti pregare», Paolo voleva sentire ancora una volta la versione del padre, come quando era bambino. Ettore sospirò, poi si arrese a raccontare. «Quella partita la giocavamo contro una squadra importante dell’Emilia. Noi eravamo lì quasi per caso. Almeno così la vedevano loro». «Loro chi?» «Loro tutti. Gli avversari, che sembravano aver vinto già dal riscaldamento: continuavano a parlare di dove sarebbero andati a cena, di chi avrebbe pagato la pizza. Gli spettatori, che ci guardavano dall’alto in basso, ne avevano più loro a quella partita che noi in tutta la stagione. Persino il campo sembrava snobbarci: avevano un diamante immacolato, erba vera dappertutto, non come noi che giocavamo su un vecchio campo sterrato, dove se provavi a scivolare ci lasciavi divise e carne. Avevano persino le tribune!» Ettore posò la forchetta.

«Li dovevi vedere: prima della partita il loro allenatore si avvicinò masticando il tabacco ti rendi conto? Da noi il tabacco da masticare manco si sapeva. Insomma si avvicina e mi fa “complimenti a lei e ai suoi ragazzi per essere arrivati fin qui”. Capito? si sentiva talmente superiore che poteva farmi i complimenti» «E tu?» «E io che gli dovevo dire? Ho fatto i complimenti anche a lui e gli augurato buona fortuna! Poi mi sono girato e gli ho detto di andarsela a pigghià ‘ntercule!» «Eri nervoso?» «No. Tutto sommato eravamo tranquilli, non era mica la prima volta che ci sottovalutavano. Eravamo una squadretta di provincia dal centro Italia: non ci prendeva mai sul serio nessuno. Poi però è iniziato il primo inning, e Dino ha cominciato a lanciare» «Trivella?» «Sì, Trivella. Lo chiamavano così perché aveva una palla veloce che il battitore si doveva fare il segno della croce. Infatti, i primi tre li lasciò sul piatto: tre strike-out. Da non creder27


LINCOLN’S CORNER NEWS: RACCONTI INEDITI ci. Dovevi vedere che facce che avevano nella panchina avversaria: avevano smesso di fare casino, era iniziata la quaresima. «Il secondo inning partì allo stesso modo, un altro strike-out. E allora quel pezzo di merda del loro allenatore cominciò a protestare con l’arbitro: cominciò a contestare tutte le chiamate, non era d’accordo sugli strike, si lamentò per la posizione in pedana di Dino che secondo lui non era regolamentare» «Ed era vero?» «Tutte cazzate, voleva solo innervosirci. Arrivò persino a chiedere di cambiare la palla perché secondo lui Dino usava il grasso» «Per truccare i lanci?» «Da non crederci, insistette finché non riuscì a farla cambiare» «E Dino?» «Non dice nulla, prende la palla nuova, sale sulla pedana, si mette in posizione, tocca la pedana con la punta della scarpa come sempre, carica e spara una curva lenta che fa abboccare il battitore come un tonno: quello sventola a vuoto la mazza con tanta foga che cade a terra per lo slancio» Ettore sorrideva adesso; aveva lo sguardo perso oltre la testa di Paolo, oltre la cucina abitabile, oltre la finestra che dava sul cortile interno, era di nuovo sul campo. «Però, a furia di protestare, l’arbitro evidentemente cominciò a pensare pure lui che noi eravamo lì per sbaglio». Si versò un po’ di vino bianco e lo bevve d’un sorso. «Dopo cinque inning, Dino cominciò a calare e loro iniziarono a toccare. Erano bravi, non c’è che dire: due punti li segnarono. Poi però al settimo Fausto, che non aveva combinato nulla fino ad allora, va in battuta e il lanciatore gli mette una veloce al centro del piatto». Paolo sorrise, questa parte la ricordava, «È vero che ha ancora la palla del fuoricampo?» «Verissimo: fece il giro delle basi e poi corse fuori dal campo a cercare la palla! Segnò lui il nostro unico punto» «E il naso?» «Seconda metà del nono, sotto di un punto. Due eliminati. Uomo in terza». «Chi era?»

«Pigi, te lo ricordi?» «Quello bassetto che fumava come una ciminiera?» «Bravo. Ha sempre fumato, ma correva come il vento. Ha rubato più basi lui che punti a scopa tuo nonno. Faceva degli scatti fenomenali e poi rientrava in panchina e diceva “Ho bisogno di un panino” e si accendeva una sigaretta. «Insomma, eravamo sotto di uno e con due eliminati, ma avevo l’uomo giusto in terza. Io ero lì al suo fianco perché facevo anche il suggeritore di terza. Stava lì che fischiettava a due metri dalla base, lo vedevi che scalpitava, che voleva partire, e lo vedeva pure il lanciatore avversario. Un paio di volte lanciò delle pallette debolucce in terza per vedere se lo beccava fuori dalla base. Figurati, erano talmente lente che Pigi aveva il tempo anche di lamentarsi prima di rientrare. «Alla fine quello si decide a lanciare al battitore. Ma era talmente spaventato da Pigi che sparò una schifezza inguardabile: la palla volò oltre il ricevitore. E io diedi il segnale di rubare» Ora i muscoli del viso si erano contratti. «Pigi era una scheggia. Arrivò a casabase che la palla era ancora in volo. Salvo per un’eternità». Si interruppe, quasi si afflosciò. «E?» «Lo sai». «L’arbitro chiama l’eliminazione». «E io prendo una mazza e gliela do in faccia». «In faccia?» «Aveva la maschera protettiva, non s’è fatto niente. Mafioso di merda». «E tu?» «Per fermarmi mi hanno fatto questo bel ricordino». Quel piccoletto lì davanti a lui s’era fatto squalificare a vita per una rissa con un arbitro. «L’unica contenta fu tua madre. Non potevo più passare il mio tempo libero in giro a giocare a baseball». «Contenta per poco». «Già. Per poco». Ripresero a mangiare in silenzio. «Come mai hai smesso con la televisione?», la domanda gli uscì seguendo il flusso di pensieri, senza quasi che l’avesse pensata. 28


Il padre rimase con la forchetta a mezz’aria. I pomodori e il formaggio sembravano trattenere il respiro. Gli occhi grigi si offuscarono fissando qualche punto del proprio passato. «Non era compatibile con la famiglia», sentenziò alla fine per chiudere l’argomento, soprattutto con se stesso. «Non lo era nemmeno quando avevi iniziato». Il padre sorrise e abbassò lo sguardo, sopraffatto dall’evidenza di quella frase e quasi mormorò, «quando mi proposero di venire quassù a lavorare capii che non ci sarebbe stato verso di continuare».

Nelle ultime due settimane Paolo c’aveva provato a mostrarsi adulto, passando ore al telefono con l’ufficio, sbraitando ordini, parlando inglese a più non posso, leggendo e scrivendo e-mail. Tutto per marcare le differenze e sottolineare la propria indipendenza. Tutto inutile: chi gli dava da mangiare? Chi gli ricordava le medicine da prendere? Chi lo scarrozzava in giro per la città? Suo padre. Non c’era scampo: era un figlio.

«Allora verrai con me?», domandò distrattamente Ettore mentre rimuoveva l’ultima traccia di buccia. «Te l’ho già detto. È il minimo che possa fare», Paolo aveva quasi finito il suo frutto. «Non ce n’è bisogno, lo sai». «Lo so. Non ce n’è bisogno. Ad ogni modo io non farò nulla. Mi limiterò ad accompagnarti». «Basta una cartina». «Certo che basta, lo so. Non è la prima volta che vieni qui». «Basta che mi dici dove devo andare». «Ti accompagno, facciamola finita. Piuttosto, quanto tempo pensi che ci vorrà?». «Non lo so. È tanto che non la vedo. Sembrano millenni a pensarci». «Almeno vent’anni. Non ti ha chiesto cosa volevi per telefono?» «No, non ce n’era bisogno. Lo sa benissimo». «Ah sì?» «Sono vent’anni che rimandiamo questo momento». «Allora ci vorrà un bel po’». «Te l’ho detto: non serve che vieni». «Sì, me l’hai detto. Facciamo così, mi compro un giornale e ti aspetto in un bar. Mi chiami quando la cosa è sistemata». «Quando la cosa è sistemata. La fai sembrare un regolamento di conti». «Non lo è?» «Non vado mica ad ammazzarla. Dobbiamo parlare». «Certo. Solo parlare. Conoscendovi, sarebbe più facile ammazzarvi». «Conoscendoci. Come se tu ci conoscessi». «La cocciutaggine è un marchio di famiglia! Tu e tua sorella siete uguali».

Era vero, aveva provato a vivere per un po’ a Milano per seguire quella sua passione; aveva raccontato, a se stesso e alla moglie, che chissà magari se avesse funzionato si sarebbero potuti trasferire tutti.

«E poi?» «Poi? lo sai già. Ho mollato tutto e sono tornato». «Ti manca mai?» «La televisione?» «Quell’esperienza». «Un po’. Era divertente fare il regista. Creare, anche se per una piccola emittente locale». «Perché hai smesso?» «Te l’ho detto. Per voi». «Avresti voluto continuare?». «Avrei voluto?» ci pensò un po’ «Non me lo ricordo». «Non te lo ricordi?» «Avevo voglia di scrivere, sperimentare, di provare», si fermò un istante, per mettere a fuoco i ricordi, «ma non a tutti i costi. E poi mi mancava il mare». Si alzò per togliere i piatti piani e pure i resti del formaggio e del pane di kamut. Armeggiò un po’ nel frigorifero e poi con il lavello. Quindi posò sul piccolo tavolo due pesche gocciolanti. Cominciò subito a lavorare con cura la buccia di una delle due. Paolo prese l’altra e diede un morso deciso. «Sarebbe meglio che la pulissi», fu il commento del padre.

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LINCOLN’S CORNER NEWS: RACCONTI INEDITI Avevano parlato in quei giorni, avevano sorvolato le loro storie e il loro passato. Ma lo avevano fatto come sempre: da due sponde opposte del fiume. Da due trincee opposte di un campo di battaglia. Non erano mai riusciti a essere due uomini che parlavano. Erano solo e sempre un padre e un figlio. Il secondo cercava di rinfacciare torti e conseguenze sulla propria vita, il primo continuava a domandarsi dove aveva sbagliato. Il dialogo si era anche inasprito quando ne era stata evidente l’inutilità: arrivavano sempre dove erano già, giacché facevano sempre la stessa strada circolare. Dopo due settimane però, era la prima volta che notava la fronte di quell’uomo davanti a se. I pochi capelli bianchi e grigi che ne circondavano le tempie, come una coroncina di alloro vecchia e stanca. Quei particolari gli parlavano di Ettore, senza ricordargli di essere suo figlio. Pezzi di un uomo che non aveva mai conosciuto davvero perché mai aveva provato. Sapeva che quella sensazione sarebbe durata lo spazio di un pranzo, ma l’assaporò con piacere, cercando di arraffare quanti più particolari riusciva. In basso, poco sopra gli occhi: sopracciglia folte e incolte, color cenere, formavano un buffo altorilievo. Peli di una lunghezza insopportabile si intrecciavano a fare ombra agli occhi chiari.

«Sì? come mai?» «Perché sono miei. E sono gli unici che mi rimangono in testa. Ormai nemmeno più la barba cresce bene. Non ha più voglia». Si passò la mano sul mento e sulle guance, effettivamente la rada barba di un paio di giorni, cresceva a chiazze. «Ormai? Che io ricordi, hai sempre avuto pochi peli». «Alla tua età avevo le basette più lunghe delle tue, anche se non portavo il pizzo. A proposito, perché non lo tagli? Ti sporca il viso». Paolo passò una mano sul pizzo incolto. No, quello non se lo sarebbe tagliato mai. Delle volte sentiva che quel perimetro di peli intorno alla bocca fosse l’unica parte vera della sua faccia.

«E comunque stai perdendo i capelli anche tu. Fra qualche anno smetterai di fare lo spiritoso», profetizzò il padre.

Sì, aveva cominciato a perderli. E si rendeva conto di quanto si somigliassero. Non soltanto nei capelli. Dentro. Le stesse acque scure, le stesse scogliere, le stesse maree. Due uomini simili. Ettore cominciò a sparecchiare, mentre Paolo lo scrutava attentamente. «Prendi il Clorane», gli ordinò senza guar«Non le tagli mai le sopracciglia?», osservò darlo. Paolo. Ecco, la sensazione se n’era andata. • «No», il padre sembrò sorpreso «perché?» «così, tanto per dire». «Mi piacciono così». «Se vuoi ho una macchinetta per sistemare barba e basette». Suo padre sembrava non capire.

«Possiamo tagliare un po’ di quei pelacci». «No, grazie. Mi piacciono i miei pelacci». Gianluca Pizzingrilli è nato nel 1971 ad Ascoli Piceno. Vive a Milano da vent’anni senza essere riuscito a prendere l’accento. È un ingegnere. Atipico. Come dicono tutti gli ingegneri.

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L

LA MANO DI DIO

a settimana scorsa ho sparato al papa. Ora mi trovo in Messico, in un alberghetto tutto colorato, bevo un margarita e scambio due chiacchiere con Alejandro. Alejandro non ha la faccia del barman, sembra più un galantuomo, uno di quelli all’antica. È molto cordiale. Ha una sessantina d’anni, folti baffi bianchi, e l’aria di chi è vedevo da sempre. Alla tv è un gran parlare, tutto il mondo ha gli occhi puntati su Roma, sul policlinico Gemelli. Migliaia di telecamere, ore e ore di servizi, registrazioni, approfondimenti, interviste, menate. Ratzinger sta lì dentro da cinque giorni, all’inizio intubato, poi in progressivo miglioramento. Ovviamente, ce la farà. Da quello che arriva qui in Messico, Roma è un tappeto di fedeli. Al confronto, l’inesorabile agonia del vecchio tremante Woytjla, con i suoi successivi funerali, non è stato che un raduno per pochi intimi. Il fatto è che stavolta, fin da subito, nonostante le condizioni fossero gravi, l’impressione era che Ratzinger potesse scamparla, potesse sconfiggere la morte, che le preghiere dei fedeli potessero andare a buon fine. E quando si ha la sensazione di poterla vincere, una battaglia, la si combatte con molto più ardore, con un vigore sconosciuto. In ogni caso, è diventato ormai impossibile quantificare l’afflusso di gente, ardito farne una stima, seppur approssimativa. Tutti gli alberghi sono pieni, le piazze traboccanti, le strade una tendopoli, il traffico paralizzato. «Alejandro, otro, por favor». Il galantuomo mi prepara un altro margarita, buonissimo. Poi torna sulla tv. Gli ho sparato mentre salmodiava l’Angelus, affacciato alla finestra del suo palazzo, sopra le teste delle sua folla. Gli ho sparato mentre dispensava la sbobba, il rancio melmoso servito nelle scodelle dei disperati in coda. Non ho mai amato così tanto il mio mestiere. Ciò che ha seriamente rischiato di fare andare a puttane tutto l’affare è stata la violentissima tentazione di fargli esplodere quella faccia grinzosa. In diretta mondiale. Lui lì che parla, recita, e all’improvviso bum!, un proiettile al posto di un occhio, lo sbalzo all’indietro, la testa schizzata, aperta, inondata. Io, proprio io. Io potevo. Ma ho resistito, per fortuna. Del resto, sono

di Nicolò Cavallaro illustrazione di Margherita Barrera

un professionista serio, io. Sono il migliore. Per questo hanno scelto me. Quindi ho puntato dove dovevo puntare e ho fatto fuoco, con precisione millimetrica, la mia precisione millimetrica. Tutto liscio, tutto perfetto. Come questo margarita. Hanno messo immediatamente dentro uno qualsiasi, un musulmano, un turco, un cazzo di qualcosa qualsiasi. Forse l’avevano già pronto. Forse hanno pagato anche questo tizio per farsi vent’anni, o dieci o cinque di galera, e poi via, una bella pensione dorata. Spero per lui che sia così. Spero non sia un’altra vittima. A me invece mi hanno fatto sparire in un baleno: dopo un’ora ero già in volo verso il Messico. Qui è estate. Sarà estate per altri cinque mesi.

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LINCOLN’S CORNER NEWS: RACCONTI INEDITI Oggi pomeriggio, finalmente, il momento agognato dalle orde: Ratzinger ha parlato. In una conferenza stampa in diretta, il portavoce riferisce che il primo pensiero il papa lo ha rivolto a tutti coloro che hanno pregato per lui. Il portavoce, citando testualmente, dice che il papa ha sentito due miliardi di anime battere dentro il suo cuore e tenerlo in vita. «Que pena», dice Alejandro, con gli occhi fissi sul televisore. «Sì, que pena», gli rispondo. Poi gli chiedo di versarmi un bicchiere di acqua ghiacciata e due dita di whisky. Il portavoce prosegue, racconta gli umori, la sua stessa commozione. Poi rivela un breve aneddoto. Sostiene di aver detto al papa che il proiettile è passato a meno di un centimetro dall’aorta, senza sfiorare, miracolosamente, alcun organo vitale. È stata la mano di Dio a guidarlo, gli avrebbe quindi risposto Ratzinger. Io mi osservo il dorso della mano, mentre Alejandro mi versa da bere. Muovo le dita. Quindi esamino il palmo, passo in rassegna tutte le linee, mi accarezzo i polpastrelli sfregandoli con il pollice. «Non immagini nemmeno quanto tu abbia ragione», dico a mezza voce. Poi butto giù un sorso d’acqua e il whisky, saluto Alejandro, e vado a fare un bagno nell’oceano trasparente. •

Nicolò Cavallaro è nato a Palermo nel 1981. Dal 2006 vive a Roma, dove ha frequentato il corso per redattori editoriali dello studio Oblique e lavorato come redattore, editor e lettore per Gaffi, Nutrimenti, Fanucci, LeggerEditore, 66thand2nd, Gremese, L’airone. Attualmente gestisce l’agenzia di servizi editoriali Duemila battute. Ha pubblicato il racconto lungo Reale utopia (Di Salvo, 2005), tratto dalla sua tesi di laurea in Relazioni e politiche internazionali, il racconto Dirimpettaia all’interno dell’antologia Pazzità (Navarra, 2008). Nel 2009 ha partecipato con il racconto Fegato di maiale alla prima edizione del concorso letterario 8x8, organizzato da Oblique e Fandango. Ha pubblicato i racconti Gaza dolce Gaza (In vino veritas, Perrone, 2011) e La voce bianca (La pagina bianca, Perrone, 2011).

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SE FOSSIMO NATI MORTI a cura di Michele Crescenzo illustrazione di Alice Beniero

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SE FOSSIMO NATI MORTI

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UNO STARNUTO COSMICO

icembre 1989. Tanta neve copre Vancouver. Douglas Coupland lavora in un ufficio nel cuore della città. In un momento imprecisato della mattina starnutisce. Il più grande starnuto della sua vita, il più rumoroso che i colleghi abbiano mai sentito. Mentre lo fa, sputa qualcosa sul tavolo:

Ovvero: Douglas Coupland

«C’era questa cosa - ricorda l’autore in un’intervista al quotidiano The Guardian - il formato, il colore e la forma ricordava quella di un chicco d’uva verde circondato da piccole vene, come un alieno malvagio!»

Coupland, preoccupato, si reca in ospedale per un controllo, ma il medico lo rassicura. Tutto nella norma.

«Da allora devo usare tappi per le orecchie ogni notte. Non sono mai stato in grado di individuare i suoni. Non è tanto il rumore quanto la direzionalità di quel rumore».

agisce come uno dei suoi personaggi virtuali, eseguendo in modo passivo le richieste, senza troppe valutazioni di merito o morali su quello che sta facendo. Una storia surreale, nella quale il protagonista è costretto a relazionarsi con una madre omicida e coltivatrice d’erba, un fratello attivo contribuente all’immigrazione clandestina e addirittura con il suo stesso autore, Douglas Coupland. Generazione X, sua opera prima, resta sicuramente il romanzo più “adirezionale”, con meno punti di riferimento. All’uscita, nel 1991, il libro fu talmente apprezzato che lasciò in eredità all’umanità la definizione generazionale ancora oggi utilizzata nel marketing, nelle scienze sociali e nella cultura popolare. Generazione X: i giovani degli anni novanta, identificati come apatici, cinici, senza valori o affetti, ma intraprendenti in ambito tecnologico (a loro si deve in gran parte l’espansione e del successo di internet). A quasi vent’anni dall’uscita di questo romanzo, Coupland scrive Generazione A, opera dalla prosa visionaria e a tratti esilarante, in cui l’autore si cimenta con una favola postmoderna, immaginando un 2020 senza più api nel quale cinque persone in diversi punti del globo vengono misteriosamente punte. Il titolo riprende

Forse è proprio questo l’elemento in comune di tutti i tredici romanzi di Coupland: non hanno direzionalità, una narrazione standard o personaggi prevedibili. Già dalle prime pagine, il lettore si rende conto di trovarsi dentro un piccolo mondo, fatto di cultura pop, meteoriti e videogiochi, citazioni dei Simpson o dei R.E.M., dialoghi brillanti, colpi di scena, situazioni paradossali, personaggi con disturbi ossessivi compulsivi e ricerca della spiritualità. Coupland non dà punti di riferimento, e lo fa ironizzando sui legami sociali della nostra società e sugli effetti sempre più influenti che la tecnologia e la globalizzazione hanno sul linguaggio e sulle vite delle persone. In La Sacra Famiglia (Frassinelli) o nella nuova traduzione, più fedele al titolo originale, Tutte le Famiglie Sono Psicotiche (ISBN), l’autore , in modo ironico e tagliente, denuncia i falsi miti del matrimonio e, senza semplici moralismi, regala alla famiglia la nuova definizione di “micro-mondo” di amore e perversione in cui ogni singola, privatissima azione di un membro, condiziona ed influenza il destino degli altri. In Jpod, costruisce una trama intorno alla vita di uno sviluppatore di videogiochi che

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le parole di Kurt Vonnegut pronunciate all’apertura dell’anno accademico alla Syracuse University, discorso durante il quale l’autore americano non volle definire questa nuova generazione con una lettera a due dalla fine dell’alfabeto, ma all’inizio, dando ai giovani il compito di ricostruire il futuro. «Come Adamo ed Eva, migliaia di anni fa».

L’adirezionalità non si sviluppa solo in ambito narrativo, Coupland non è solo uno scrittore, ma anche un visual artist e stylist; in questo campo i suoi studi lo hanno portato a Milano, all’European Design Institute. In una recente intervista gli è stato chiesto cosa ricordasse di quel periodo, lui ha replicato: «Ricordo solo una profonda depressione clinica. E’ stato un periodo terribile. Ho ancora dei problemi solo a leggere la parola “Milano” (mi spiace Milano, non è colpa tua)». Il suo interesse verso l’arte visiva è presente anche nelle sue opere. Ad esempio in La vita dopo Dio c’è un’illustrazione per ogni pagina che L’illustrazione compare per gentile concessione rappresenta lo stato d’animo del protagonista, dell’autrice e di ISBN Editore. mentre quasi tutte le edizioni di Generazione X sono state pubblicate con bordi bianchi più ampi del normale per permettere l’inserimento di fumetti, disegni e soprattutto di una specie di dizionario dei nuovi sentimenti condivisi. In un’intervista al Morning News, spiega questa ulteriore sua caratteristica. «Non credo che i libri debbano essere sempre intuitivi. Ci deve essere qualche sperimentazione critica. Vengo da una scuola d’arte, e in questo mondo, quando si fa uno spettacolo, Interviste citate: The Guardian (www.guardognuno deve sperimentare. Dio vi aiuti se il ian.co.ik) - Douglas Coupland: the writer who prossimo spettacolo è come l’ultimo!» sees into the future, 7 Settembre 2009, D. Aitkenhead; LINK Magazine (www.linkmagazine. La lettura di Coupland è una lente d’ingran- blogspot.com) - Non sai nulla del mio lavoro!, dimento sul presente che ci circonda, è un 21 Novembre 2011; The Morning News (www. terremoto sulle nostre sicurezze sociali, è un themorningnews.org) - Douglas Coupland, 4 rumore lontano, come un forte starnuto del Settembre 2003, R. Birnbaum. quale è difficile stabilire la provenienza. •

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SE FOSSIMO NATI MORTI

In Italiano:

“Il destino è quello per cui lavoriamo. Il futuro non esiste ancora. La fatalità è solo per gli sfigati.”

Generazione X (Interno Giallo, 1992; Mondadori, 1996); Generazione shampoo (Corbaccio, 1994; TEA, 1997); La vita dopo Dio (Tropea, 1996); Microservi (Feltrinelli, 1998); Fidanzata in coma (Feltrinelli, 1998); Miss Wyoming (Frassinelli, 2001); La sacra famiglia (Frassinelli, 2003; ISBN, 2012, col titolo Tutte le Famiglie sono Psicotiche); Eleanor Rigby (Frassinelli, 2005); Jpod (Frassinelli, 2006); Hey, Nostradamus! (Frassinelli, 2007); Generazione A (ISBN, 2010); Le ultime cinque ore (ISBN, 2012).

- Fidanzata in Coma -

“Quello che considerate un piccolo dettaglio pittoresco della vostra vita, per me rappresenta l’anti-evoluzione della specie.” - Generazione A -

“Le ragazze ai miei tempi erano molto educate, questo è il motivo per cui ora soffriamo tutte di colite.”

Memoria Polaroid (Tropea, 1997); Marshall McLuhan. La biografia pop dell’uomo che aveva previsto il futuro (ISBN, 2011).

- Tutte le Famiglie sono Psicotiche -

“Nella vita c’è un giorno in cui passiamo il segno e ci rendiamo conto di avere bisogno di proteggerci da noi stessi.”

Informazioni: www.coupland.com

- La Vita dopo Dio -

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