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Lettere

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Paesi sommersi

di Luca Calzolari*

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Eall'improvviso ecco l'autunno. Non quello degli alberi spogli e del fogliame giallo e rossastro che colora strade, vie, sentieri e selciati. Non è l'autunno dei funghi e neppure l'autunno delle castagne. Tutti temi piacevoli e carichi di malinconica poesia su cui mi soffermerei volentieri e a lungo, perché nessuna stagione colora le montagne come l'autunno. Eppure, ahimè, la mia riflessione, per quanto ugualmente malinconica possa apparire, vorrebbe spingersi oltre. Come già accaduto in passato, anche quest'anno l'autunno è arrivato con uno schiaffo in pieno volto. Prima il crollo repentino delle temperature che hanno messo fine alla lunga estate, poi il maltempo e infine le alluvioni. Devastanti. Uno schiaffo sempre più frequente perché ha a che fare con l’emergenza climatica. Leggiamo di un "meteo pazzo" che ha messo in ginocchio città e paesi, che ha fatto crollare ponti e che ha strappato vite da questa terra. Forse non era abbastanza, e allora l'esondazione dei fiumi si è portata via anche le bare dai cimiteri, proprio com'è accaduto in una frazione di Garessio, nel cuneese. Il bollettino dei danni registrati nel ventaglio di terra tra la Liguria e il Piemonte è ormai noto, inutile soffermarsi ancora elencando le morti irreparabili e i milioni di euro che serviranno a riparare i danni (anche solo parzialmente). Che l'Italia sia un paese fragile lo sappiamo, l'abbiamo sempre saputo. Non possiamo impedire i terremoti o le piogge torrenziali. Quello che però possiamo (e dobbiamo) fare è che il contrasto all’emergenza climatica sia una priorità concreta e quotidiana. Occorre consapevolezza, responsabilità, onestà e perfino un po' di coraggio. Sia da parte della società civile (ovvero noi) sia dalla politica. Se interi paesi vengono spazzati via dalla furia del maltempo, l'indice accusatore non è da rivolgere, come era plausibile nella società prescientifica, alle mitologiche divinità del vento, dei fulmini e della pioggia. Carlo Cacciamani, fisico e direttore della struttura idro-meteo-clima di Arpae Emilia-Romagna, nell’introduzione al suo libro (una serie di racconti per imparare) dal titolo La giostra del tempo senza tempo (Bonomo editore, 2019) scrive: “Si può certamente dire che non ci sia praticamente settore di attività umana, o sistema ecologico, o territorio montano, pianeggiante, urbano o non urbano, che non sia già adesso, e che non sarà sempre di più in futuro, colpito dalle conseguenze del Clima che sta mutando a velocità vertiginosa, come mai avvenuto prima di oggi. Non ci sono dubbi nella comunità scientifica sul fatto che il “problema climatico” si debba considerare come il principale fra tutti i problemi che l’umanità dovrà affrontare per la propria sopravvivenza sul Pianeta Terra negli anni a venire.” E prosegue: “È ormai noto e incontrovertibile che la causa principale del cambiamento climatico sia di natura antropogenica”. Intervenire in tempo ordinario con adeguate opere idrauliche, l'attenta gestione dei piani e dei regolamenti urbanistici e paesaggistici, la manutenzione del territorio e la salvaguardia dell'attività agricola e forestale basterebbero di per sé a migliorare di gran lunga lo stato di conservazione e protezione dei territori montani troppo spesso vessati dall'incuria umana. E tanta prevenzione non strutturale, che altro non è che formazione per conoscere i rischi a cui siamo sottoposti da fenomeni di questo genere e adottare i comportamenti adeguati per diminuirli (concetto che fa parte dello zaino culturale di chi va in montagna). Le parole chiave restano mitigazione e adattamento. Sul tema dei comportamenti autoprotettivi la pandemia ci ha insegnato quanto essi siano fondamentali per la resilienza individuale e della società. E allora bisogna insistere sulla costruzione di una società della cura. Una cura però che sia preventiva, non conseguente ai disastri. Una cura capace di generare valori, comportamenti e ricchezza, sia culturale sia economica. Azioni preventive e terapeutiche. Perché intervenire quando ormai è troppo tardi significa perdere per sempre (o quasi) storia, abitudini, tradizioni e relazioni sociali. Basta pensare a Massiola, paesino piemontese della provincia di Verbano-Cusio-Ossola che conta 121 abitanti in tutto. Nel 1861 erano 309, anche se il picco si è registrato nel 1936 (377 abitanti). La recente alluvione, fortunatamente, non ha causato vittime umane. Ma il paese di Massiola purtroppo non c'è più. O quasi. Poco più in là, a circa mezz'ora di macchina, a Verbania un apicoltore ha perso a causa della piena più di un milione di api. Come lui, anche gli allevatori hanno visto i loro animali morire, così com'è morta parte dell'attività agricola del territorio. La mancanza di ciò che è stato distrutto non graverà solo sulle vite dei protagonisti, ma anche su quelle dell'intera comunità. Dal boom economico in poi tanta montagna è stata progressivamente abbandonata. Ed ecco che quelle terre che per lunghi anni sono state manutenute con maniacale sapienza hanno ceduto il passo all'abbandono e alle conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. E se non mettiamo al centro del nostro agire il contrasto all’emergenza climatica quale futuro spetterà a chi verrà dopo di noi? Per rispondere prendo nuovamente in prestito le parole di Cacciamani: “In sostanza le nuove generazioni potrebbero avere la sfortuna di trovarsi ad abitare in un Pianeta molto diverso da quello attuale e nel quale sono vissute le generazioni passate, e molto più “inospitale”. Questo aspetto apre un grande dibattito di natura etica e sociale: l’attuale Società ha delle “responsabilità generazionali” nei confronti dei futuri abitanti della Terra, e non può scordarsene”. Teniamolo a mente. * Direttore Montagne360

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