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Racconti sotterranei | Scattare foto sospesi nel vuoto

Fotografo di scena durante le riprese de Il buco, Natalino Russo racconta che cosa vuol dire condividere le diverse fasi di un set senza intralciare il lavoro degli altri

di Natalino Russo

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Quando Michelangelo Frammartino mi ha chiamato sul set ho capito subito che sarebbe stato un lavoro impegnativo. Non tanto perché moltissime scene del film si svolgevano nell’Abisso del Bifurto (a fotografare in grotta sono abituato), quanto perché quello di Michelangelo è un cinema che non prevede scorciatoie. Se una scena è ambientata in una valle remota, la si può girare anche altrove ma deve essere comunque una valle remota. Se l'azione si svolge in un posto scomodo e bagnato, deve essere scomodo e bagnato. E deve esserlo davvero. Attori e troupe sono tutti coinvolti. La finzione, che è propria del cinema tradizionale, con Frammartino è ridotta ai minimi termini. C'è recitazione, ma non c'è finzione. O ce n'è davvero poca. Il fotografo sulla scena deve muoversi senza intralciare il lavoro del regista, degli operatori, dei fonici e delle decine di altre persone necessarie alla buona riuscita delle riprese. Sul set de Il buco non è stato così semplice. In grotta si lavorava su più livelli contemporaneamente: quello tecnico e logistico, necessario alla movimentazione di uomini e materiali; quello della sicurezza; infine quello cinematografico. Spesso si stava in spazi angusti, oppure si era sospesi nel vuoto. Tutti, dai tecnici speleo alla troupe e agli attori, eravamo sempre imbracati e assicurati alle corde, o comunque le usavamo per spostarci da una posizione all'altra. In questo sono stato facilitato dall'esperienza accumulata in trent'anni di grotte, un lungo viaggio cominciato col Gruppo Speleologico del Matese e proseguito nell'Associazione La Venta, con la quale mi ritrovo spesso a fotografare sottoterra e in ambienti ostili.

IN PUNTA DI PIEDI

Che fosse sulla lunga verticale di un pozzo o in pochi metri di meandro, per ogni spostamento l'attrezzatura fotografica doveva essere protetta adeguatamente da acqua, fango, urti. E c'era bisogno di tempo per farla acclimatare, onde evitare che si formasse condensa sulle lenti e soprattutto sulle parti elettroniche. Ogni scatto sulla scena ha richiesto lunghi tempi di attesa e preparazione, in sintonia coi tempi lentissimi delle riprese del film. Basti pensare che i tecnici speleo e la troupe entravano in grotta di primo mattino e lavoravano molte ore per allestire il set. Molto più tardi, spesso quattro o cinque ore dopo, entravano gli attori. Si girava una scena o due. Poi gli attori tornavano all'esterno. Infine usciva la troupe e per ultimi i tecnici. Ed era ormai sera, spesso già notte. Tutto questo era coordinato sia fuori sia dentro la grotta, in un meccanismo complesso che ha funzionato grazie a un enorme lavoro di squadra. Il mio compito era restituire in fotografia questa complessità e al tempo stesso provare a rendere la spontaneità di alcuni istanti, momenti di fatica, esultanza, stanchezza, sconforto. Ho provato a muovermi in punta di piedi, tra le corde degli speleo, i cavi dei fonici, la fibra ottica che portava il segnale video all'esterno, il cavalletto e i movimenti di macchina dell'operatore. Questa esperienza "frammartiniana" mi ha insegnato molto. Il mio compito era documentarla. Spero di esserci riuscito, almeno in parte.

riprese in un pozzo dell'abisso del Bifurto, Cerchiara di Calabria (foto Natalino Russo)

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