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Racconti sotterranei | Nel continente nero

Fra esperienze riuscite, cinematografia commerciale e imprese fino a poco tempo fa impossibili, il presente delle riprese sotterranee. E i corsi che insegnano a raccontarsi

di Tullio Bernabei

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Il desiderio di raccontare il mondo sotterraneo e le vicende umane che nel tempo si sono svolte nelle profondità della Terra è sempre esistito. Ma, se vogliamo parlare di riprese nei luoghi reali, le difficoltà ambientali sono state a lungo quasi insormontabili: innanzitutto l’assenza di luce, poi umidità, fango, difficoltà di trasporto e utilizzo delle attrezzature in ambienti stretti, bagnati, ostili, a volte estremi. I tentativi sono rari e spesso di scarsa qualità. Negli ultimi 20 anni, lentamente, qualcosa è cambiato. Non le grotte, che sono rimaste un ambiente complesso e sempre abbastanza “remoto”, ma la tecnologia e le attrezzature per realizzare video. L’evoluzione della qualità dei sensori, che garantiscono risoluzione e sensibilità, assieme alla leggerezza di macchine sempre più compatte, hanno fatto e stanno facendo la differenza almeno a livello documentaristico. In ambito prettamente cinematografico, invece, i mezzi sono ancora molto pesanti e i film ambientati in grotta sfruttano prevalentemente costose ricostruzioni scenografiche affiancate a effetti digitali, o al massimo grotte naturali di facile accesso.

LE PICCOLE RIVOLUZIONI E I LUOGHI COMUNIE

sperienze come la recente dell’opera Il buco, di Michelangelo Frammartino sono quasi uniche e segnano una piccola rivoluzione in questo panorama. Il regista ha lavorato per davvero con speleologi e non a caso ha rivolto parole di elogio e ammirazione alla comunità speleologica in generale: in qualche modo, grazie a questa intensa esperienza, ci ha capiti. Ben diversa è la cinematografia commerciale con prodotti come Sanctum (un concentrato di errori e incidenti terribili) o The Descent (con le solite creature mostruose che l’immaginario collettivo ancora oggi colloca nelle profondità delle grotte): qui, come in molte altre vecchie pellicole, non si riescono proprio ad abbondonare i luoghi comuni su pericoli e mostri. Una buona eccezione è il recente (2019) The Cave - Acqua alla gola, che racconta in fiction la storia dei ragazzini tailandesi rimasti intrappolati nella grotta inondata di Tham Luang. La presenza di alcuni veri soccorritori, assieme agli attori, garantisce una dose di realismo che avvicina l’opera al grande documentario. Naturalmente il film è stato girato anche in altre grotte tailandesi, e alcune scene necessariamente in piscina, ma questo è il cinema... gli autori, tuttavia, non sono caduti nella trappola delle banalità di cui sopra. In sintesi, per me, il vero cinema in grotta è quello del documentario arricchito da ricostruzioni storiche e approfondimenti sui personaggi che quelle oscurità hanno illuminato. Da qualche anno mi dedico a trasmettere e condividere la mia esperienza attraverso corsi sulla documentaristica sotterranea, realizzati anche nell’ambito della Scuola Nazionale di Speleologia del Cai: lo scopo è proprio quello di innalzare il livello della qualità e della capacità di raccontare tra gli speleologi.

all’uscita della grotta dove hanno scavato come minatori, due dei giovani protagonisti del documentario

Il vero cinema in grotta è quello del documentario arricchito da ricostruzioni storiche e approfondimenti sui personaggi che quelle oscurità hanno illuminato

i preparativi per le riprese sulla teleferica sospesa sul pozzo da 200 metri nell’Abisso Saragato, Alpi Apuane, durante la lavorazione del documentario Caveman (foto Mattia Bernabei)

LE RIPRESE IN GROTTA

Come professionista ho avuto molta soddisfazione nel 2011, quando è uscito per il National Geographic il mio Alla ricerca del fiume nascosto (Grottenarbeiter), girato sul Carso triestino e sloveno, dove credo di essere riuscito a raccontare in modo preciso, ma avvincente, un secolo e mezzo di esplorazioni alla ricerca del misterioso Reka/Timavo. Mi è piaciuto in modo particolare descrivere la pseudo competizione di due gruppi, più e meno giovani, volti allo stesso obiettivo in due grotte diverse: perché l’aspetto più importante della speleologia, ne sono convinto, è racchiuso nelle parole curiosità e motivazione. Più di recente sono stato anche molto felice di poter omaggiare il mio amico Filippo Dobrilla, fortissimo speleologo e grande scultore, da poco prematuramente scomparso. L’ho fatto curando le riprese sotterranee del lungometraggio Caveman, presentato all’ultimo Festival del Cinema di Venezia con la regia dell’alpinista lucchese Tommaso Landucci (produzione DocLab). Una delle opere più emozionanti di Filippo è la grande statua di un gigante coricato, scolpita a 650 metri di profondità nel marmo dell’Abisso Saragato, in Alpi Apuane. Certamente l’opera scultorea più profonda del mondo. Girare per 3 giorni in questa grotta verticale molto complessa è stata una piccola impresa, credo a oggi unica, di cui vado fiero. Voglio approfittarne per ringraziare tutto il team che mi ha aiutato: mio figlio Mattia, Luca Ricci, Francesco Spinelli e gli amici (anche di Filippo) “Speleo Mannari”. Come dicevo all’inizio, la tecnologia oggi permette anche questo. E apre nuove porte nel continente buio.

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