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Segnali dal clima

Passaggi artici

La diminuzione della banchisa apre nuove prospettive per la navigazione nei mari artici, ponendone però a rischio il fragile ecosistema

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a cura di Mario Vianelli

Il 13 agosto 1906 giunse nel porto di Nome, sulle rive del mare di Bering, la Gjøa, un’imbarcazione per la pesca delle aringhe salpata da Oslo più di tre anni prima al comando di Roald Amundsen. La barca – lunga soltanto 21 metri e dotata di un motore di 13 cavalli – aveva appena terminato la prima traversata completa del Passaggio a nord-ovest, concludendo così l’epoca delle grandi esplorazioni marittime. La notizia rimbalzò sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, ma ben presto ci si rese conto dell’inutilità della rotta ricercata fin dai tempi di Giovanni Caboto, inviato nel 1497 dal re d’Inghilterra per trovare una via che conducesse alle isole delle spezie e al favoloso Cipangu aggirando a settentrione il continente nordamericano: la via esisteva, ma era tortuosa, costellata di secche e di isolotti e di fatto impercorribile a causa del ghiaccio, che allentava la morsa soltanto per un periodo troppo breve e neppure tutti gli anni. Dopo decenni di oblìo l’interesse per il Passaggio a nord-ovest è rinato da quando l’innalzarsi delle temperature e la riduzione della banchisa artica nei mesi estivi vanno delineando uno scenario inedito, che rivoluzionerà i trasporti e lo sfruttamento delle risorse minerarie e ittiche di vasti territori finora intatti e quasi inaccessibili. Nel 2007 la via fu per la prima volta interamente percorribile senza l’ausilio di rompighiaccio, mentre nel 2013 il transito della Nordic Orion, nave lunga 225 metri, dimostrò la potenziale utilità della rotta settentrionale per le imbarcazioni troppo grandi per il transito nel canale di Panama. Finora hanno percorso il Passaggio a nord-ovest circa 350 navi di grandi dimensioni, con un netto incremento negli ultimi anni; il risparmio (di chilometri, tempo e carburante) è sostanziale, ma a limitarne lo sviluppo rimangono la stagionalità, le incognite meteorologiche e ambientali, la mancanza di porti e di punti di appoggio, le difficoltà di eventuali soccorsi e i rischi, tutt’altro che remoti in queste acque insidiose, di incidenti che avrebbero conseguenze gravissime per il fragile ecosistema artico, come testimoniato nel 1989 dal naufragio della petroliera Exxon Valdez sulle coste dell’Alaska. Al momento suscita maggiori aspettative la cosiddetta “rotta del mare del nord”, al largo delle coste siberiane, che riduce il viaggio marittimo fra Europa e Asia orientale del 40% rispetto ai 24.000 chilometri della rotta attraverso il canale di Suez e lo stretto di Malacca. In quelle regioni remote è in corso di realizzazione il progetto russo “Vostok Oil”, gigantesca iniziativa per la ricerca e lo sfruttamento del petrolio; i porti e le basi in allestimento potrebbero fornire il supporto logistico necessario alla navigazione. Circa 250 navi hanno percorso per intero il “passaggio a nord-est”, ma anche lì il traffico è limitato dagli stessi fattori che penalizzano la rotta attraverso l’arcipelago artico canadese. Il nuovo “Grande gioco” che ha per posta le risorse artiche è appena iniziato e la sinergia fra cambiamento climatico e nuove tecnologie apre possibilità impensabili in precedenza. Accanto al rinnovato interesse degli attori regionali tradizionali – Russia, Canada, Stati Uniti, Norvegia, Danimarca – sta crescendo l’ingombrante influenza della Cina, delineando un nuovo quadro di equilibri geostrategici. E a fare le spese di questa “corsa al polo” sarà inevitabilmente il fragile ambiente artico, già duramente provato dalla rapidità dei cambiamenti in corso.

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