Le lesioni muscolari

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1.1 Introduzione Il muscolo scheletrico umano è composto da un’eterogenea tipologia di fibre muscolari (McComas, 1996; Pette e Staron, 1997; Staron, 1997). Questo ampio range di tipi di fibre permette al muscolo la sua ricca eterogeneità di capacità funzionali. Inoltre, le fibre muscolari possono adattarsi al cambiamento della domanda funzionale sia grazie a un cambiamento delle proprie dimensioni che attraverso una modificazione della tipologia. Questa plasticità costituisce il presupposto fisiologico sul quale si basano numerosi piani di terapia fisica, il cui scopo è l’incremento della forza e/o della resistenza muscolare del soggetto. Un cambiamento della composizione delle fibre può anche risultare parzialmente responsabile di determinate menomazioni e disabilità funzionali osservabili in alcuni pazienti che abbiano subito un decondizionamento muscolare, causato da un’inattività prolungata, da un’immobilizzazione degli arti oppure da una denervazione del muscolo (Pette e Staron, 1997). Nel corso degli ultimi anni, il numero delle tecniche utilizzabili per la classificazione delle fibre muscolari è notevolmente incrementato, sino a rendere possibile la classificazione stessa attraverso numerosi metodi d’indagine. In effetti, la tipologia delle fibre muscolari può essere descritta prendendo in considerazione le loro caratteristiche istochimiche, biochimiche, morfologiche e fisiologiche; per cui, come d’altronde è logico aspettarsi, i diversi tipi di classificazione, effettuati con i differenti metodi d’indagine, non sempre collimano tra loro. Pertanto, alcune fibre, seguendo un certo tipo di classificazione, possono ritrovarsi all’interno di un medesimo gruppo oppure essere ripartite in diverse categorie nel momento in cui si utilizzi un altro criterio classificativo. Tuttavia, in osservanza a un principio basilare di razionalità, occorre adottare un fondamento comune di concettualizzazione della struttura muscolare e della sua fisiologia, se si vogliono comprendere nella loro pienezza le diverse tecniche di classificazione muscolare.

1.2 Una visione storica I primi studi relativi alla diversa colorazione di preparati muscolari di origine animale, nello specifico di coniglio, sono da attribuirsi all’italiano Lorenzini nel 1678. Lorenzini classificò due tipologie di muscolo scheletrico: i muscoli “bianchi” e i muscoli “rossi”, pensando che questi ultimi fossero più ricchi di sangue rispetto ai primi. Questa ipotesi fu confutata nel 1896

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2.1 Introduzione L’evento lesivo a livello muscolare costituisce uno degli eventi traumatici più ricorrenti in ambito sportivo. L’entità della lesione può andare dal semplice stiramento, spesso associato a rottura dei piccoli vasi, con comparsa di dolore e tumefazione, sino allo strappo muscolare completo. Le conseguenze per lo sportivo, che appaiono ovviamente correlate all’entità della lesione subita, sono sempre comunque sgradevoli e comportano in ogni caso una sospensione, più o meno lunga, dell’attività agonistica, nonché l’attuazione di un’idonea terapia fisica. In questo capitolo cercheremo di chiarire i diversi quadri fisiologici che normalmente caratterizzano l’evento traumatico e di descrivere, seppur sommariamente, i meccanismi di riparazione muscolare. 2.2 La connessione dell’apparato contrattile alla matrice extra-cellulare La giunzione delle fibre muscolari al tendine o alla fascia deve avere la capacità di resistere a forze considerevoli che possono superare i 1000 kg durante sollecitazioni di tipo massimale (Tidball, 1991; Tidball e Daniel, 1986). Per possedere una così gran forza tensile, ogni fibra contiene delle specifiche catene di molecole: l’integrina e il complesso distrofina1-glicoproteina (Mayers, 2003; Michele e Campbell, 2003). Questi due complessi proteici connettono l’apparato contrattile miofilamentoso alla matrice extracellulare (ECM) attraverso il sarcolemma (Brown, 1996; Chargé e Rudnicki, 2004; Chiquet, 2003; Ervasti, 2004; Giancotti e Rouslathi, 1999; Kääriäinen e coll., 2000; Sunada e Campbell, 1995). Occorre ricordare brevemente che l’ECM è costituita da un’intricata rete di macromolecole formata da proteine fibrose incluse in un gel di polisaccaridi. L’ECM, oltre a Distrofina: la distrofina è una proteina e rappresenta una parte importante di un complesso di proteine che connette il citoscheletro di una fibra muscolare alla matrice extracellulare circostante attraverso la membrana cellulare. La sua deficienza è una delle cause della distrofia muscolare. È stata identificata nel 1987 da Louis M. Kunkel, dopo la scoperta, nel 1986, del gene mutato che causa la distrofia muscolare di Duchenne (DMD). Il tessuto normale contiene piccole quantità di distrofina (circa lo 0.002% della quantità totale delle proteine muscolari), ma la sua assenza porta sia alla DMD che alla fibrosi, una condizione di indurimento del muscolo. Una diversa mutazione dello stesso gene determina una distrofina difettosa, portando alla distrofia muscolare di Becker (BMD). La distrofina è il più lungo gene finora conosciuto.

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3 3.1 L’ingegneria tissutale Soltanto dieci anni fa, parlare di ingegneria dei tessuti e poter ipotizzare che un giorno si potessero letteralmente “costruire” dei tessuti viventi, grazie appunto a tecniche ingegneristiche che riuscissero a combinare tra loro cellule viventi e materiali inerti, poteva sembrare del tutto inverosimile. Ad oggi la situazione è del tutto cambiata, basti pensare che solo negli Stati Uniti quasi cinquanta milioni di persone vivono grazie a organi artificiali concepiti e attuati grazie all’ingegneria dei tessuti e che nei paesi industrializzati, tra la popolazione degli ultra sessantacinquenni, un individuo su cinque sta attualmente usufruendo della sostituzione di organo. Un tessuto ingegnerizzato può essere costituito da un semplice aggregato cellulare oppure da un aggregato di sottili strati di cellule, ma anche da spesse e complesse strutture cellulari, in un crescendo di complessità tecnologica e biologica che si sublima nell’ultima sfida dell’ingegneria tissutale: la costruzione di un intero organo funzionante. Attualmente, tessuti artificiali come ossa, vescica, cornea e vasi sanguigni sono in fase di trial clinico. Gli incredibili progressi registrati in questi ultimi dieci anni sono essenzialmente ascrivibili alle nuove conoscenze acquisite nell’ambito della naturale costruzione organica dei tessuti, che avviene sia durante lo sviluppo embrionale che durante i processi di guarigione spontanea delle ferite. Lo scopo dell’ingegneria dei tessuti è quello di creare dei tessuti viventi che siano in grado di riparare, incrementare o sostituire i tessuti patologici (Huard e Fu, 2000). Il nuovo tessuto può essere creato grazie ad una tecnica interamente “in vivo”, oppure creato “in vitro” per poi essere impiantato nel paziente. Indipendentemente dal tipo di tecnica utilizzato, debbono essere comunque presenti tre componenti essenziali: un fattore trofico - ossia uno stimolo che sia in grado di indurre la crescita tissutale -, la presenza di cellule adeguatamente responsive ed un’idonea struttura di sostegno per la formazione del tessuto stesso. L’ingegneria tissutale si basa sull’utilizzo dei fattori di crescita e sulla terapia genica; in quest’ambito è noto da tempo come una specifica sottoserie di citochine - piccole proteine solubili capaci di influenzare il comportamento cellulare -, note come fattori dì crescita (GF), sia in grado di promuovere la mitosi cellulare. I recenti progressi ottenuti nell’ambito della biologia molecolare hanno permesso il sequenziamento dei geni delle differenti citochine. In tal modo si è reso possibile inserire le sequenze genetiche così ottenute in cellule animali, ottenendo

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4 4.1 Introduzione L’uso dei fattori di crescita (GF) nel trattamento delle lesioni da sport è una pratica in continua espansione, a tal punto che, non soltanto la comunità scientifica ma anche i media stanno dimostrando una crescente attenzione su questo nuovo metodo di trattamento (Schwarz, 2009). Il marcato incremento dell’utilizzo nell’ambito della medicina sportiva di questa innovativa terapia è principalmente basato su una larga aneddotica di buoni risultati e trova un razionale di applicazione sia nel trattamento di patologie chirurgiche in sede intraoperatoria che nella cura di patologie muscolo-tendinee già trattate attraverso un metodo conservativo. A fare da contraltare all’entusiastico sviluppo ed alla diffusione di tale metodica vi è tuttavia una scarsa evidenza scientifica. In effetti, nonostante il fatto che la ricerca sulla terapia con i GF abbia fatto registrare, negli ultimi anni, una decisa ed indubbia accelerazione, sussistono relativamente pochi studi clinici randomizzati presenti in letteratura e la situazione è comunque tale da giustificare la richiesta di ulteriori approfondimenti soprattutto su alcuni particolari aspetti della terapia basata sull’utilizzo dei GF. Inoltre, l’impiego dei GF da parte di atleti professionisti è ostacolato dalla WADA, l’agenzia mondiale antidoping, che continua a mantenere una posizione decisamente ambigua, vietandone l’uso come prodotto derivato dal plasma estratto, lavorato e re-iniettato (WADA, 2009) ma prendendo, nello stesso tempo, in considerazione eventuali esenzioni per uso terapeutico (TUE) (Hamilton, 2009). Rimangono comunque poco chiare quali siano le giustificazioni terapeutiche che possano portare alla decisione di accettare una TUE, considerando l’assenza di evidenza scientifica del trattamento in questione. Non è possibile, infine, non prendere in considerazione le enormi potenzialità economiche legate al trattamento con GF, che hanno indotto molti operatori a intraprendere un loro utilizzo massivo, soprattutto per ciò che concerne le patologie croniche degenerative, vero tallone d’Achille dell’attuale stato dell’arte della medicina muscoloscheletrica, troppo spesso, però, con palese noncuranza nei confronti della scarsa evidenza scientifica a riguardo della metodica in questione. A tutt’oggi, secondo alcuni Autori, questa tecnica è considerata in grado di rivoluzionare non soltanto la traumatologia dello sport ma anche l’ortopedia in generale.

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5 5.1 Introduzione Un ematoma è per definizione una lesione di tipo traumatico, generalmente causata da un corpo di forma larga e smussata, che senza provocare lacerazioni a livello dell’epidermide causa una compressione dei tessuti molli sottostanti. A fronte di tale meccanismo traumatico, il sangue può infiltrarsi nei tessuti sottostanti e dar luogo, in tal modo, a un’ecchimosi o raccogliersi in preesistenti cavità del tessuto connettivo interstiziale, in tal caso si parlerà di suggellazioni oppure diffondersi nel tessuto cellulare lasso, dando luogo al fenomeno della suffusione o ancora formare una raccolta sia a livello tissutale che in un organo, in quest’ultimo caso si tratterà di ematoma propriamente detto (Klein, 1990; O’Donoghe, 1984). Clinicamente, i traumi contusivi sono classificabili in tre diversi gradi, dei quali il primo è caratterizzato dalla presenza di ecchimosi, il secondo dalla presenza di ematomi, mentre il terzo è contraddistinto da necrosi cutanea che esiterà nella formazione di una piaga con possibile presenza di febbre, accompagnata, nei casi di maggior gravità, da shock. Tuttavia, un ematoma muscolare può essere causato, oltre che da un trauma contusivo diretto, anche da una rottura delle fibre muscolari stesse (Hutson, 1996; Klein, 1990; Williams, 1980). In entrambi i meccanismi lesivi descritti, trauma diretto o lacerazione indiretta delle fibre muscolari, si verifica un danno strutturale a carico sia del tessuto connettivale che di quello vascolare, che si associa alla formazione dell’ematoma stesso (Bird e coll., 1997; Hutson, 1996). In ambito sportivo, questi tipi di trauma sono più frequenti negli sport di contatto come il rugby, il calcio o la lotta (Rothwell, 1982) e i distretti muscolari che fanno registrare la maggior frequenza d’insorgenza sono rappresentati dal bicipite brachiale e dal quadricipite femorale (Gray, 1977; Hutson, 1996; Williams, 1980). 5.2 I diversi tipi di ematoma Esistono sostanzialmente tre possibili tipi di ematomi muscolari: intramuscolare, intermuscolare e intramuscolare-intermuscolare misto. L’ematoma intramuscolare è caratterizzato dall’integrità strutturale della fascia connettivale che riveste il muscolo stesso e che, di conseguenza, confina lo stravaso ematico all’interno del ventre muscolare interessato dal trauma (Bird e coll., 1997). Questa situazione provoca un aumento della Gian Nicola Bisciotti

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6 6.1 Introduzione Nell’uomo gli effetti metabolici e meccanici di un esercizio muscolare intenso si osservano molto precocemente, sin dalle prime ore (in genere dalle 8 alle 24) successive all’esecuzione dell’esercizio che ne è stato la causa (Tiidus e Ianuzzo, 1983). I sintomi, che sostanzialmente si identificano in indolenzimento muscolare, gonfiore e impotenza funzionale, sono in grado di perdurare per periodi piuttosto lunghi, che possono arrivare a due-tre settimane (Evans e Cannon, 1991; Sjöström e Fridén, 1984). L’origine di questa sintomatologia algica muscolare è essenzialmente di natura microtraumatica ed è da imputarsi al verificarsi di microlesioni a livello della miofibrilla, indotte essenzialmente dalla contrazione eccentrica, che, in ultima analisi, testimoniano uno stato di sovraccarico meccanico del muscolo a seguito di un esercizio particolarmente intenso (Bigard, 2001; Proske e Morgan, 2001).

6.2 Le alterazioni ultrastrutturali

I primi lavori incentrati sulle lesioni muscolari indotte dall’esercizio eccentrico intenso sull’uomo risalgono al 1981 (Fridén e coll., 1981). In questo primo lavoro, Fridén e collaboratori evidenziarono, tramite biopsia muscolare, come un esercizio eccentrico intenso - rappresentato dalla discesa effettuata di corsa da una rampa di scale - causasse delle importanti modificazioni nella struttura miofibrillare del muscolo soleare. L’osservazione al microscopio elettronico del campione bioptico rivelò, in particolare, una rottura della banda Z, contestuale a un allargamento delle fibre stesse. Queste modificazioni dell’ultrastruttura delle miofibrille si mantennero evidenti per circa sette giorni. A fronte di queste osservazioni, gli Autori avanzarono l’ipotesi che tali microlesioni ultrastrutturali avessero causato la liberazione di enzimi lisosomiali che, a loro volta, avessero provocato un processo infiammatorio. In seguito, ulteriori ricerche, sempre condotte dallo stesso Autore (Fridén e coll., 1983), confermarono queste ipotesi. A questi primi studi seguirono ulteriori ricerche, condotte soprattutto nell’ambito della corsa su lunghe distanze (Hagerman e coll., 1984; Sjöström e Fridén, 1984; Warhol e coll., 1985), che, oltre ad avvallare i precedenti risultati ottenuti da Fridén, evidenziarono come le lesioni muscolari indotte dell’esercizio intenso fossero molto simili a un processo di Gian Nicola Bisciotti

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7 7.1 Introduzione

Il metabolismo dei radicali liberi (RDL) fu scoperto nel 1968 da Mc Cord e Fridovich, da allora, in questo campo, si sono susseguiti numerosi lavori, che hanno permesso, a tutt’oggi, la scoperta di diversi tipi di RDL e dei loro meccanismi d’intervento sui processi fisiologici. I radicali liberi sono sostanze prodotte naturalmente dall’organismo che determinano un gran numero di funzioni cellulari, tra le quali si può ricordare la sintesi dell’acido arachidonico , il transfert degli elettroni a livello della catena mitocondriale oppure la loro partecipazione nel meccanismo di difesa organica nell’ambito del fenomeno della fagocitosi, solo per citarne alcune. L’RDL è una molecola, o un atomo, che possiede uno o più elettroni non appaiati o singoli, a livello dei suoi orbitali esterni. La sua caratteristica peculiare è quella di reagire spontaneamente, con altri atomi o altre molecole, per formare nuovi RDL, innescando in tal modo una catena che viene interrotta soltanto nel caso in cui due RDL reagiscano tra loro. Gli RDL sono delle molecole instabili, molto reattive, che possiedono un emi-vita estremamente corta, nell’ordine di 10-9 -10-6 secondi. Le reazioni che portano alla formazione degli RDL possono essere schematicamente riassunte nelle modalità riportate di seguito. Addizione: X° + Y → (XY)° Cessione di elettrone: X° + Y → X + + Y°Prelevamento di elettrone: X° + Y → X- + Y°+ Nelle quali ° indica la presenza di un elettrone non appaiato. L’interruzione della reazione a catena avviene solo nel caso in cui due RDL reagiscano tra di loro secondo lo schema: X° + Y° → XY X° + X° → X2

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8 8.1 La sarcopenia Nell’uomo l’invecchiamento è indissolubilmente associato a una progressiva perdita di massa magra e a una contestuale atrofia muscolare generalizzata, che comporta uno scadimento delle capacità di forza dell’individuo (Evans e Campbell, 1993; Rosemberg, 1997). Tutti questi fenomeni involutivi sono inquadrabili in un più ampio contesto fisiologico denominato sarcopenia (SP), termine che deriva dal greco sarx, carne vivente, e penia, ossia povertà, penuria. La sindrome sarcopenica nell’uomo è generalmente associata a tutta una serie di fenomeni anatomo-fisiologici interdipendenti, di cui i più rilevanti sono costituiti dall’osteopenia (progressiva diminuzione del contenuto minerale a livello scheletrico), da un aumento della massa grassa, da un abbassamento della temperatura basale nonché da altre sindromi dismetaboliche come ad esempio il diabete di tipo II. La SP è correlata a diversi fattori scatenanti di ordine sia genetico che ambientale i quali, in ultima analisi, comportano un difetto di sintesi proteica associato a un aumento dei processi catabolici (Rall e coll., 1996; Short e Nair, 1999; Nair, 2000). La SP è sostanzialmente identificabile come un fenomeno di atrofia muscolare progressiva di eziologia multifattoriale. I fattori che possono maggiormente influenzare la sindrome sarcopenica sono infatti di diversa natura e vanno dall’attività fisica ai cambiamenti ormonali, all’aspetto dietetico, allo stress ossidativo oppure ad aspetti concernenti la denervazione muscolare (Evans, 1995a, 1995b., Roubenoff, 2003). La sindrome sarcopenica nell’uomo costituisce un fenomeno indissolubilmente legato all’invecchiamento; numerosi studi, infatti, dimostrerebbero come il 100% del corredo genico nell’anziano ne sia implicato (Castillo e coll., 2003; Gilette Guyonette e coll, 2003; Kyle e coll, 2001b) e come la sua diffusione non faccia differenziazioni dal punto di vista razziale (Baumgartner e coll., 1998). Tuttavia, molti Autori hanno proposto una definizione più precisa e restrittiva del fenomeno sarcopenico, che, secondo questi criteri, sarebbe identificabile e definibile come tale soltanto nel momento in cui la diminuzione della massa muscolare sia perlomeno di due volte superiore alla varianza misurata su una popolazione di individui giovani e sani (Wang e coll., 1989). Seguendo questo criterio, la SP sarebbe riscontrabile soltanto nel 24% dei soggetti compresi in una fascia d’età che va dai 60 ai 70 anni e supererebbe il 50% d’incidenza negli ultraottantenni. L’incidenza della SP, inoltre, sarebbe maggiormente a carico della popolazione maschile (78%) rispetto a quella femminile (45%) (Baumgartner e coll., 1998); la

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9 9.1 Introduzione Lo stretching si può annoverare senza dubbio come una delle metodiche d’allenamento più utilizzate nell’ambito delle più svariate discipline sportive; la sua capillare diffusione non ha infatti conosciuto soste, sin dal momento in cui la pratica è stata diffusa e razionalizzata, soprattutto da Anderson (Anderson, 1978), il più noto dei suoi promulgatori, tanto da esserne praticamente considerato il “padre fondatore”, ma anche da altri Autori, come ad esempio Sölveborn (Sölveborn, 1983) oppure Heyward (Heyward, 1984), che hanno contribuito alla sua promulgazione. Tuttavia, nonostante questa crescente diffusione e l’innegabile successo riscosso nella maggioranza delle discipline sportive, lo stretching è oggi l’oggetto di numerose controversie interpretative che ne stanno mettendo in discussione sia l’efficacia che l’effettiva utilità. Il termine di “controversie interpretative” non è stato utilizzato casualmente: in effetti, molte delle divergenze di opinione sull’efficacia e l’utilità della pratica dello stretching nascono da una diffusa “confusione concettuale” che molti dimostrano di avere nei confronti delle basi fisiologiche e metodologiche dello stretching stesso (Björklund e coll., 2001). Lo scopo di questo capitolo è appunto quello di cercare, per quanto possibile, di fare chiarezza, in termini metodologici e fisiologici, sullo stretching, mettendo a confronto le due “linee di pensiero dicotomiche” oggi esistenti a questo riguardo, chiarendo anche quanto sia giusto attendersi da una pratica regolare e razionale di questa metodica di allenamento. 9.2 Il concetto di flessibilità Per poter ben comprendere i meccanismi d’ordine fisiologico alla base dello stretching non è possibile esimersi da una chiarificazione del concetto di “flessibilità muscolo-articolare”. Per flessibilità muscolo-articolare s’intende la capacità di movimento di un muscolo e/o di un articolazione nell’ambito della loro totale estensione di movimento - full range of motion (Alter, 1996; Björklund, 1999). Tuttavia, spesso il concetto di flessibilità è assunto come sinonimo di elasticità, il che costituisce, da un punto di vista biomeccanico e fisiologico, un grossolano errore. Meccanicamente, infatti, l’elasticità è definibile come la proprietà di un corpo, che subisce una deformazione causata da una forza esterna, di riprendere, almeno parzialmente, la forma e il volume iniziali. In ambito fisiologico, quindi, Gian Nicola Bisciotti

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10 10.1 La classificazione delle lesioni Le lesioni muscolari sono classificate in due categorie in funzione della natura diretta oppure indiretta del trauma stesso (Craig, 1973). Si possono per cui suddividere in: - lesioni muscolari da trauma diretto, che per la loro stessa natura implicano l’azione diretta sul ventre muscolare di una valida forza esterna; - lesioni muscolari da trauma indiretto, la cui eziologia prevede l’accadimento di meccanismi più complessi che comportano l’esistenza di differenti forze lesive. 10.2 La classificazione delle lesioni da trauma diretto Fermo restando che il danno anatomico e le susseguenti fasi di riparazione biologica dell’area lesa, in caso di lesione da trauma diretto non differiscono sostanzialmente da quanto sia osservabile nelle lesioni da trauma indiretto (Armstrong e coll., 1991a, 1991b), le lesioni da trauma diretto possono essere classificate, in base alla loro gravità, in tre gradi: - grado lieve, nelle quali è consentita oltre la metà dell’intero arco di movimento; - grado moderato, nelle quali è consentita meno della metà ma comunque più di 1/3 dell’intero arco di movimento; - grado severo, nelle quali è concesso un arco di movimento inferiore a 1/3 dell’arco di movimento totale. 10.3 La classificazione delle lesioni da trauma indiretto Nell’ambito della classificazione delle lesioni muscolari da trauma indiretto esiste, malauguratamente, in ambito bibliografico, una certa confusione lessicale. I vari Autori, infatti, utilizzano differenti terminologie classificative, che spesso non si rivelano altro che sinonimi, ma che, in ogni caso, generano una non indifferente confusione interpretativa. Ritenendo che la classificazione delle lesioni rivesta in ambito riabilitativo un’importanza centrale, si riporta di seguito la classificazione delle lesioni da trauma indiretto che sembra risultare di maggior razionalità sia dal punto di vista dei criteri anamnestici e sintomatologici adottati che dal quello di ordine anatomo-patologico. Gian Nicola Bisciotti

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11 11.1 Introduzione

Il bicipite femorale (BF) è un flessore del ginocchio e un estensore dell’anca; inoltre, come tutti gli altri flessori della gamba, impedisce, se la gamba è estesa, di forzare l’elevazione dell’arto inferiore oppure di flettere il busto in avanti: i muscoli flessori, infatti, non possono essere allungati oltre una certa misura, che costituisce, di fatto, il loro limite di estensibilità. Il BF è uno dei muscoli maggiormente insultati nell’ambito sportivo generale. In ambito calcistico, ad esempio, i danni al BF rappresentano il 13% di tutti i traumi e causano una perdita di lavoro pari a ben il 16% dell’allenamento totale (Sewar e coll., 1993), mentre nell’atletica leggera rappresentano il danno più ricorrente agli atleti dediti alle discipline di velocità (Drezner, 2003). Un recente studio condotto da Askling (Askling e coll., 2003) mostra come, nell’ambito del football australiano1, ben il 47% dei traumi muscolari indiretti subiti durante le gare o gli allenamenti siano a carico dei muscoli flessori della coscia (bicipite femorale, semitendinoso e semimembranoso, indicati nella letteratura inglese con il nome collettivo di hamstring). La maggioranza degli studi nell’ambito del calcio si attesta invece su un’incidenza lesionale a carico degli hamstring pari al 12-15%, il che significa una media di sei incidenti per club professionistico nell’arco di una stagione (Hawkins e coll., 2001; Orchard e Seward, 2002; Woods e coll., 2004).

Football australiano: Il football australiano (australian football, australian rules, aussie rules, footy) è lo sport nazionale australiano e l'attività atletica di gran lunga più praticata e seguita in Australia. È giocato fra due squadre di 18 giocatori (con quattro giocatori di riserva con sostituzioni volanti) sui campi di cricket o altri campi in erba sempre di forma ovale. Questi campi variano nelle dimensioni: possono essere lunghi fino a 185 metri e larghi fino a 155, dunque rappresentano i campi da gioco più grandi tra tutti quelli utilizzati nelle diverse forme di football: quasi quattro volte più grande in superficie del campo di calcio. I giocatori possono passarsi il pallone in due modi: con un calcio (kick) o con un passaggio alla mano (handball). Il calcio è la propulsione del pallone con una qualsiasi parte della gamba al di sotto del ginocchio; un handball è il lancio del pallone tenuto in una mano colpendolo con l'altra chiusa a pugno. Ogni altro modo di passarsi la palla è vietato, a meno che non sia fortuito o costretto dalla situazione di gioco (ad esempio nella conquista di un pallone vagante da parte di più giocatori). Non esiste fuorigioco: quindi i passaggi possono avvenire in ogni direzione, così come i giocatori possono disporsi sul campo a loro piacimento.

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12 Introduzione Il muscolo retto femorale (RF) prende origine con il suo capo diretto dalla spina iliaca antero-inferiore, mentre il capo riflesso origina dal solco sovraacetabolare a livello del margine superiore dell’acetabolo. Si inserisce alla patella tramite un tendine comune agli altri capi del muscolo quadricipite. Il RF è l’unico muscolo biarticolare dei quattro capi del muscolo quadricipite, essendo sia un flessore della coscia che un estensore della gamba sulla coscia. Durante la deambulazione la sua azione è sinergica rispetto a quella del muscolo ileopsoas, del sartorio, del tensore della fascia lata e del m pettineo. È innervato dal nervo femorale (L2, L4). Il fatto di essere un muscolo biarticolare e particolarmente ricco di fibre veloci ne fa una delle locazioni lesive più ricorrenti in ambito sportivo. Inoltre, il suo tendine riflesso presenta una vasta aponeurosi centrale e profonda, frequente sede di lesioni soprattutto in alcune categorie di atleti come ad esempio i calciatori. Le lesioni dell’aponeurosi profonda centrale sono inoltre piuttosto subdole e di difficile diagnosi clinica. Questo tipo di danno, infatti, spesso non è associato alla retrazione del muscolo e alla tumefazione del moncone, oppure in altri casi la tumefazione del muscolo può fuorviare la diagnosi (Bianchi e coll., 2002). Per capire appieno il meccanismo lesivo che porta all’insulto traumatico della muscolatura estensoria dell’arto inferiore, è interessante capire che cosa avvenga biomeccanicamente durante la fase eccentrica di un movimento effettuato grazie a un ciclo stiramentoaccorciamento (stretch shortening cycle, SSC). Si prenda ad esempio un tipico cambio di direzione effettuato a media velocità di corsa compiuto da un atleta la cui massa corporea (BW) sia pari a circa 70 kg. Prima, però, occorre riassumere velocemente la sequenza biomeccanica di un movimento effettuato tramite un SSC. Un ciclo di SSC ha inizio con la fase eccentrica del movimento stesso, a cui fa seguito un tempuscolo minimo e tendente a zero, ma comunque meccanicamente misurabile, in cui l’unità muscolo tendinea (UMT) ha un comportamento isometrico - è la fase che alcuni Autori denominano come coupling-time - a cui fa seguito la fase concentrica del movimento. Per cui, a tutto rigore, l’SSC, visto che la fase eccentrica e quella concentrica sono divise da un momento di condizione isometrica, dovrebbe essere denominato stretch-isometric-shortening cycle. A sua volta, la totalità della fase eccentrica può essere ulteriormente suddivisa in tre parti.

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13 13.1 Introduzione I muscoli flessori della coscia, oltre a essere i più insultati in ambito sportivo, presentano anche un’alta incidenza di recidive che, ad esempio, nell’ambito del calcio professionistico, è pari a circa il 12% (Orchard e Best, 2002; Woods e coll., 2004), ma in altre discipline sportive, come il football professionistico australiano, può raggiungere anche una percentuale di ben il 30% (Orchard e Steward, 2000, 2003; Orchard e Best, 2002). Inoltre, è importante notare che le lesioni a carico del bicipite femorale presentano una prognosi peggiore rispetto alle lesioni del semimembranoso e/o del semitendinoso (Connell e coll., 2004). È altrettanto interessante sottolineare il fatto che se l’entità della lesione presenta una forte correlazione con i tempi di recupero (Pomeranz e Heidt, 1993; Slavotinek e coll., 2002; Connell e coll., 2004; Gibbs e coll., 2004) altrettanto non si può dire per ciò che riguarda il rischio di recidiva (Gibbs e coll., 2004). Il fatto che il deficit di forza sia un importante parametro per ciò che riguarda il rischio di recidive della muscolatura flessoria dell’arto inferiore trova, in bibliografia, un unanime consenso (Burkett, 1970; Heiser e Weber, 1984; Yamamoto, 1993; Jonhagen e coll., 1994; Orchard e coll., 1997; Croisier e coll., 2002; Drezner, 2003). Pertanto, al fine di minimizzare tale rischio, si consigliano i seguenti punti. - Non ricominciare l’attività di corsa sino a che il valore di forza dei flessori non raggiunga un valore pari ad almeno il 70% del baseline o un valore di ratio flessori/estensori pari ad almeno 0,55 (Heiser, 1984). - Non ritornare all’attività sportiva specifica prima che il valore di forza dei flessori lesi (sia in modalità eccentrica, che concentrica) non sia ritornato al 90-95% del valore dei flessori dell’arto controlaterale (Croisier e coll., 2002; Drezner, 2003). - Il picco di forza misurato sia in modalità concentrica che eccentrica dovrebbe essere prodotto, nell’arto leso, allo stesso angolo articolare in cui si registra nel controlaterale (Brockett e coll., 2001, 2004). - Dal momento che l’attività maggiormente a rischio per la muscolatura dei flessori è lo sprint, ancor più di quanto non sia il calciare (Orchard, 2002), occorre essere particolarmente prudenti nel reinserimento di quest’ultimo nell’ambito del programma riabilitativo. Gian Nicola Bisciotti

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