CAPITOLO 1 • Anatomia generale
LA CELLULA La cellula è l’unità più piccola capace di produrre vita. Nell’uomo, la grandezza di una cellula può variare da 5 a 200 micron e la durata della sua vita è variabile. Alcune cellule, come ad esempio quelle bianche, che rappresentano la stragrande maggioranza dell’adipe presente nel corpo, vivono solamente pochi giorni, al contrario di alcune speciali cellule nervose che riescono a vivere addirittura un’intera vita. Esistono in natura animali costituiti da una sola cellula chiamati scientificamente protozoi, mentre quelli costituiti da più cellule prendono il nome di mesozoi.
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Tutte le cellule sono circondate dalla membrana cellulare chiamata plasmalemma (5), dove all’interno sono racchiusi gli elementi costituenti la cellula stessa che sono (figura 1): • Il citoplasma (1), suddiviso a sua volta in altri tre componenti: lo ialoplasma o componente fondamentale, il metaplasma, costituito da più componenti, che si forma dallo ialoplasma e il paraplasma costituito dai vari prodotti del metabolismo cellulare. • Il nucleo (2), costituito da proteine e acido ribonucleico (RNA). La grandezza è strettamente dipendente dal tipo di cellula ed è
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13 FIGURA 1 Schema tridimensionale di cellula animale che ne riassume le caratteristiche ultrastrutturali.
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CAPITOLO 2 • Gli apparati o sistemi
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SISTEMA CARDIOCIRCOLATORIO Per potere assolvere tutte le funzioni a cui è chiamato, oltre alle strutture della locomozione (muscoli e ossa), il corpo umano si avvale di altri apparati altamente specializzati. Uno di questi è quello cardiocircolatorio, paragonabile ad un sistema idraulico a circuito chiuso. Questo apparato è composto da: muscolo cardiaco, posto al centro della gabbia toracica, di forma ellissoide con un asse longitudinale più lungo ed uno trasversale più corto, costituito prevalentemente da fibre muscolari che strutturano il miocardio; è contenuto in un sacchetto che lo riveste chiamato pericardio. Il peso del cuore si aggira, per un adulto, intorno ai 350 g nell’uomo e 300 g nella donna. Visto in sezione, il cuore presenta quattro cavità o camere dette atri e ventricoli suddivisi in atrio e ventricolo destro ed atrio e ventricolo sinistro. La sommità del cuore è occupata dagli atri che sono strutturati da fibre muscolari più sottili rispetto ai ventricoli che occupano più della metà del volume cardiaco. Gli atri sono divisi tra loro longitudinalmente da un sepimento interatriale mentre i ventricoli sono separati per mezzo di un sepimento con decorso longitudinale chiamato setto interventricolare. Orizzontalmente, le cavità atriali sono separate da quelle ventricolari per mezzo delle valvole atrio-ventricolari: valvola tricuspide (costituita da tre lembi valvolari), quella posta tra atrio e ventricolo destro e valvola bicuspide o mitralica (costituita da due lembi valvolari), quella posta tra atrio e ventricolo sinistro. Il movimento alternato di apertura e chiusura delle valvole cardiache fa sì che il sangue pompato dal cuore abbia un flusso unidirezionale. Il processo dei flussi all’interno delle camere cardiache è regolato in maniera totalmente autonoma sia a destra che a sinistra. La metà destra riceve sangue povero di ossigeno dai tessuti periferici tramite la vena cava superiore e la vena cava inferiore che sboccano nell’atrio.
Passando attraverso la tricuspide, il sangue arriva nel ventricolo destro, la vera parte che funge da pompa e che lo spedisce verso i polmoni per riossigenarsi, cedendo l’anidride carbonica. La parte sinistra funziona in maniera speculare, ricevendo nell’atrio sinistro il sangue ricco di O2 attraverso le arterie polmonari, reimmettendolo verso la periferia grazie alla grande circolazione che parte dal ventricolo sinistro e quindi dall’aorta, il vaso di calibro più grande di tutto il corpo umano. Altri dispositivi valvolari, detti valvole semilunari, sono posizionati all’imbocco delle arterie polmonari e dell’aorta. L’attività contrattile del cuore è legata al sistema nervoso autonomo dal quale trae gli adattamenti per sforzi fisici, influssi esterni, stress, fattori climatici e attività muscolare. Gli impulsi per la contrazione, una volta partiti dal cervello, giungono al cuore dove strutture specializzate provvederanno alla organizzazione degli stimoli. Il primo centro di raccolta è costituito dal tessuto nodale, localizzato nella parete posteriore dell’atrio destro, dal quale si diparte un’altra ramificazione chiamata seno atriale, il cui compito è quello di trasmettere l’eccitazione a tutti e due gli atri. L’atrio destro inizia la sua contrazione leggermente prima di quello sinistro. Le pareti degli atri, non avendo collegamenti di tipo muscolare con i ventricoli, diffondono l’impulso per la contrazione di questi ultimi attraverso la presenza di un altro nodo, chiamato nodo atrio-ventricolare (vedi figura 21) da dove si ramificano i fasci di His, che hanno il compito di rilanciare l’impulso a tutte le porzioni della muscolatura ventricolare. La contrazione ventricolare avviene contemporaneamente: in questa maniera, l’onda di eccitazione si diffonde a tutto il muscolo cardiaco. La contrazione ritmica del cuore, detta battito cardiaco, innesca il cosiddetto ciclo cardiaco che consiste in una fase di contrazione, detta sistole, e in una di rilassamento chiamata diastole. Nella fase sistolica gli atri iniziano la loro contrazione al fine di spingere il sangue nei ventricoli, che in questa particolare fase si trovano ad esse-
CAPITOLO 3 • Endocrinologia applicata allo sport
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INTRODUZIONE Qualsiasi tipo di movimento applicato o meno ad attività sportive, se prodotto con intensità medio alta, produce delle risposte da parte del sistema endocrino quantitativamente significative. Queste risposte, che sono di origine adattativa si associano oltre che allo sforzo muscolare, anche a tutte quelle espressioni emotive che lo sport, nel suo aspetto agonistico, manifesta. Si tratta quindi di ristabilire tutti quegli equilibri ormonali (omeostasi) richiesti dalla qualità dello sforzo, dalla sua intensità e della durata nel tempo. Il primo adattamento allo stress è quello dell’attivazione della corteccia surrenale che, tramite la produzione dell’ACTH (ormone adreno-cortico-tropo) da parte dell’ipofisi anteriore, viene stimolata alla produzione di corticosteroidi. Lo stress, secondo Selye, produce tre stadi di attivazione endocrina nel nostro organismo. La prima, detta reazione d’allarme, che ingloba tutta una serie di reazioni aspecifiche prodotte da particolari tipologie di stress come quelli rapidi, violenti ai quali non c’è adattamento fisico né di tipo qualitativo né di tipo quantitativo. Questa prima fase si divide a sua volta in due altri periodi: una detto shok, in cui l’organismo su-bisce passivamente l’evento stressante e l’altro detto controschok, caratterizzato dalla messa in opera di tutti i meccanismi di risposta ormonale. La seconda fase, chiamata fase di adattamento o stadio della resistenza, comprende tutti quei processi in cui l’organismo ha stabilito la quantità degli elementi per produrre adattamento e la specificità delle reazioni che si schierano a salvaguardia dell’organismo resistendo alle azioni nocive provenienti dall’esterno. L’ultima fase, ovvero quella detta di esaurimento, corrisponde a quel periodo in cui, esaurite le riserve protettive, il fisico soccombe ai processi stressanti. L’arrivo in questa fase può essere più o meno tardivo a seconda della capacità di risposta di ogni individuo, ma potrebbe pure non avere origine se lo stress si esaurisce in un tempo limitato.
Questa sindrome generale di adattamento e di difesa è particolarmente legata alla produzione di corticoidi: infatti, ad ogni forma di adattamento allo stress corrisponde sempre una ipertrofia delle ghiandole surrenali. La sequenza ormonale in risposta a stimoli stressanti inizia più specificamente con una produzione di catecolamine (adrenalina e noradrenalina) e di ADH seguita successivamente dall’ACTH e dalle Beta-endorfine ipofisarie che vanno a stimolare una iperincrezione di corticoidi e glicocorticoidi i quali svolgono a loro volta il delicato compito di difesa e adattamento dell’organismo. Questa sequenza è identica sia nei soggetti allenati che in quelli non allenati: la differenza consiste solamente nella qualità e nella quantità della risposta. Gli allenati, ad esempio, rispetto ai non allenati, avranno grazie al loro processo di adattamento allo stress, una risposta di bassa entità. Anche negli adattamenti emotivi esiste una soggettività nella risposta. Soggetti maggiormente stabili o con un grado di controllo dei fattori emotivi rispondono con una produzione minore di catecolamine e aldosterone. La funzione delle catecolamine è quella di predisporre l’organismo ad un aumento proporzionato di spesa energetica. L’adrenalina, ad esempio, ha la capacità di influenzare parecchi processi fisiologici consistenti in: • Accelerazione dei processi energetici. • Aumento della frequenza cardiaca e della capacità contrattile. • Aumento della glicolinolisi nel fegato e nei muscoli. • Stimolazione della lipolisi nei tessuti adiposi. Interessante è anche l’attività svolta dalle beta-endorfine che per la sua caratteristica chimica di tipo oppioide agisce direttamente sul dolore fisico provocato da sforzi intensi e prolungati. La loro produzione è accreditata principalmente all’edenoipofisi, ma può essere prodotta anche nel tratto gastrointestinale,
CAPITOLO 4 • Le qualità fisiche dello sportivo
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INTRODUZIONE Una spiegazione dei sistemi energetici che permettono l’esplicarsi delle qualità fisiche è necessaria per meglio comprendere l’argomento. Il muscolo, per contrarsi, utilizza energia che gli deriva dall’idrolisi dell’ATP (Adenosintrifosfato), ossia dalla scomposizione di esso, con separazione di un radicale fosforico dei tre che esso contiene. La quantità di energia liberata nel muscolo, per ogni mole di ATP idrolizzato, è di circa 7-12 Kcal, una quantità notevolissima. Per ricostruire ATP dai sottoprodotti della sua idrolisi, ADP + P, necessita altra energia che può provenire da tre diverse fonti: una è rappresentata dall’idrolisi della fosfocreatina (PC), con separazione di un radicale fosforico e liberazione di energia; le altre due sono la glicolisi anaerobica del glicogeno e l’idrolisi aerobica dei carboidrati e dei grassi. La prima fonte di energia, la fosfocreatinica, è di immediata disponibilità, anche se i depositi di PC nel muscolo sono molto limitati, tanto da esaurirsi, a pieno regime, in pochi secondi. La glicolisi anaerobica, ossia l’idrolisi del glicogeno in assenza di ossigeno, permette la continuazione di uno sforzo massimale fino a 2-3 minuti. In questo caso l’idrolisi è solo parziale, e un prodotto finale è rappresentato dall’acido lattico, che gradualmente accumulandosi nel muscolo, lo affatica, fino a paralizzarlo temporaneamente. Con questo sistema, anaerobico, 180 grammi di glicogeno possono produrre 3 moli di ATP, contro le 39 ottenute con l’idrolisi completa in presenza di ossigeno. Quest’ultima fonte, aerobica, non produce acido lattico, ma acqua e anidride carbonica che, essendo gassosa, non si accumula nel muscolo, ma viene eliminata con la respirazione mano a mano che si forma. Il sistema aerobico può utilizzare anche i grassi per produrre energia utilizzabile per la resintesi dell’ATP: 180 grammi di grassi, idrolizzati, producono 65 moli di ATP. Per produrre una mole di ATP utilizzando come “carburante” i carboidrati, ci vogliono
circa 4,5 grammi di glicogeno e 3,5 litri di ossigeno. Invece, per produrre una mole di ATP idrolizzando i grassi, ci vogliono circa 3 grammi di lipidi e 4 litri di ossigeno. Dato che, a riposo, un individuo normale assorbe mediamente 0,2-0,3 litri di ossigeno al minuto, si otterrà, nel caso della combustione degli zuccheri: 0,2(0,3):60 = 3,5:x ovvero x = 60 · 3,5/0,2(0,3) 11(17) minuti per formare una mole di ATP. Nel caso invece dell’utilizzazione dei grassi, avremo: 0,2(0,3):60 = 4:x x = 60 · 4/0,2 (0,3) 10(20) minuti per formare una mole di ATP. Questo a riposo. Se la respirazione diventa più frequente, aumenta l’assorbimento di ossigeno e può formarsi anche una mole e mezzo di ATP al minuto, in condizioni di buon allenamento. In ogni caso la produzione è piuttosto lenta, anche se teoricamente illimitata data l’assenza di scorie lattacide, purché venga assicurato l’apporto di carburante (carboidrati e grassi). La massima quantità di ossigeno assorbibile dall’organismo in un minuto è chiama. ta massimo consumo di ossigeno (VO 2 max), ed è una quantità migliorabile con l’allenamento: può variare dai 40 mml per kg/min in soggetti non allenati, fino a 80 mml per kg/min. Applicando questi concetti alla pratica sportiva, ne deriva che: nelle attività sportive di breve durata e di grande intensità, scatti, lanci, salti, sollevamenti, l’ATP è risintetizzato quasi esclusivamente dall’idrolisi della fosfocreatina. L’idrolisi anaerobica del glicogeno interviene quando lo sforzo si protrae intenso per 1,5-3 minuti. Per sforzi più lunghi, quindi meno intensi, interviene il metabolismo aerobico dei carboidrati e dei grassi.
CAPITOLO 5 • Principi generali dell’organizzazione dell’allenamento
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INTRODUZIONE Quando un principiante si accinge ad affrontare un programma di lavoro con i sovraccarichi deve seguire con molta attenzione alcuni principi generali non solo per ottenere i risultati migliori e duraturi, ma anche, e soprattutto, per evitare conseguenze negative a carico delle strutture muscolo-legamentose. Innanzitutto, e questo non ci si stancherà di ripeterlo, la preparazione con i pesi deve essere inquadrata in una programmazione più ampia, che comprenda lo sviluppo parallelo di tutte le qualità fisiche. Tenuto ben presente questo fondamento, il primo punto da affrontare è quello della riduzione degli scompensi, ossia delle disarmonie fisiche e degli atteggiamenti viziati, migliorando l’articolarità e avvalendoci di carichi leggeri (palle zavorrate, bastoni, manubri, ecc.), anche quelli relativi al solo peso personale. Un altro principio è quello del cosiddetto allenamento centrifugo, col quale ci si propone di potenziare per primi i settori vicini al baricentro corporeo e successivamente quelli più lontani da esso. Per fare un esempio, la zona lombo-addominale dovrà essere affrontata prima degli arti inferiori; le spalle prima delle braccia, ecc. Questo perché i sovraccarichi fanno sentire l’effetto delle loro pressioni o delle loro trazioni prima sulle strutture prossimali, poi su quelle distali. La mancata osservazione di questo principio, frequentemente disatteso, costituisce la causa di sofferenza a livello dei settori più deboli, magari avvertite a distanza di anni. Altre basi su cui poggia una costruzione razionale dell’allenamento sono quelle della progressività e gradualità del carico. L’applicazione di questi principi è sempre raccomandata da ogni allenatore, ma il più delle volte è vista come una raccomandazione di tipo genericamente prudenziale: la tentazione di bruciare le tappe è troppo forte, tanto più che l’uso di carichi di elevata intensità gratifica il principiante, che
vede migliorare subito le sue prestazioni; bisogna che si convinca invece che si tratta di risultati effimeri, dato che le strutture legamentose e quelle muscolari hanno tempi diversi di adattamento, e quindi, se i muscoli sopportano bene un nuovo carico, non altrettanto succede a tendini e articolazioni che necessitano di tempi più lunghi. Le conseguenze di ciò sono facili da prevedere: a lungo andare saranno proprio quelle strutture a soffrirne. Fondamentale è anche il principio della continuità dell’allenamento, senza lunghe interruzioni nel suo andamento, che non siano quelle necessarie al giusto recupero psicologico e funzionale: come l’adattamento a nuovi carichi è un processo lento, il disadattamento è piuttosto rapido Sul principio della periodizzazione dell’allenamento si dovrà parlare esattamente più avanti; per ora basti sapere che le esercitazioni per migliorare le qualità psicofisiche vanno alternate opportunamente variando sia la scelta di esse, sia l’intensità e la qualità di lavoro, inserendo recuperi più o meno attivi per favorire i processi di adattamento. Di tutta questa programmazione si deve avere consapevolezza, ci si deve rendere conto del perché si svolgono determinati esercizi e non altri, dell’utilità di essi, ecc., perché solo così sarà assicurata una partecipazione attiva e globale, e non solo passiva e “fisica”. La tabella di lavoro non va applicata acriticamente, bensì discussa e analizzata con gli atleti, per scoprire eventuali antipatie verso alcune esercitazioni, alcuni stati di stanchezza mentale, ecc. A tutto questo si ricollega la necessità dell’individualizzazione dell’allenamento; quanto prima possibile, si deve cercare di adattare l’allenamento al soggetto e non viceversa: ognuno ha delle peculiarità fisiche e di carattere; ha un passato motorio strettamente personale, e tutto ciò richiede una variazione del lavoro che si adegui a queste necessità, sempre nel rispetto però degli altri principi generali.
CAPITOLO 6 • I paramorfosmi
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INTRODUZIONE I paramorfismi costituiscono l’oggetto della ginnastica correttiva e rappresentano i difetti di portamento, atteggiamenti viziati da ipotonia muscolare o da rigidità articolare. Non ne fanno parte, quindi, i cosiddetti dismorfismi, caratterizzati da un’alterazione ossea. Un paramorfismo è reversibile tramite un’adeguata ginnastica tendente a ristabilire un equilibrio muscolare turbato, che altera la normale forma dei distretti corporei. Spesso non si nota neppure questa alterazione, come in molti casi di rigidità muscolo-articolare che impediscono una funzionale ampiezza dei movimenti. Altre volte la forma viene ad essere alterata solo in determinate situazioni, per esempio, il piattismo dei piedi sotto carico dovuto a lassità legamentosa, reversibile con un’opportuna ginnastica. Importante è ribadire la netta differenza tra paramorfismi e dismorfismi: questi ultimi rappresentano una vera e propria malattia fin dall’inizio e, dato che le cause di essi possono essere molteplici (genetiche, vira-
li, traumatiche, ecc.) necessitano di una vera e propria terapia medica e/o chirurgica, che nulla ha a che vedere con la ginnastica correttiva, addirittura dannosa in alcuni casi. Quindi è indispensabile un’esatta diagnosi differenziale che stabilisca la natura dell’alterazione; diagnosi che deve essere fatta da uno specialista. Non si può prevenire con la ginnastica l’evolversi di un dismorfísmo, quando esso è ad uno stadio iniziale e “appare” come paramorfismo. Prima che un paramorfismo si stabilizzi, dovrà essere affrontato in età opportuna, ossia nell’età dello sviluppo e per un tempo adeguatamente lungo, fino a quando il soggetto sarà capace di assumere una posizione normale e mantenerla senza sforzo. Il procedimento comune a tutti i trattamenti correttivi è il seguente: • presa di coscienza; • sbloccaggio, tramite esercizi di mobilità articolare e stretching; • muscolarizzazione.
CAPITOLO 7 • L’attività fisica nella terza età
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SOCIETÀ E TERZA ETÀ Facendo un’attenta disamina degli ultimi dati forniti dall’Istat sull’invecchiamento della popolazione italiana, con una proiezione statistica fino al 2020, è lecito affermare che “gli anziani saranno i giovani del domani”. Lo sviluppo dei dati indica infatti che gli ultrasessantacinquenni dall’attuale 18% (quasi 10 milioni) passeranno al 23% della popolazione italiana. L’aumento della vita media (riferimento 1994) ha fatto registrare in Italia 74,7 anni per gli uomini e 81,2 anni per le donne, assegnandoci il primato della popolazione più longeva del mondo. Un altro primato mondiale della nostra popolazione è che gli ultrasessantacinquenni hanno superato numericamente i giovani con meno di 15 anni. Tra la fetta di popolazione considerata di terza età, un’alta percentuale è rappresentata dagli ultraottantenni che, secondo alcune previsioni demografiche, dovrebbero raggiungere entro il 2041 il 10% della popolazione totale. A livello mondiale l’Europa risulta avere il primato, rispetto al resto dei continenti, annoverando il 14,6% di over 65. La prospettiva di incremento della popolazione anziana non avrà lo stesso corrispettivo, in termini numerici, della popolazione mondiale. I demografi delle Nazioni Unite sono certi che a metà del prossimo secolo ci sarà non solo un arresto, ma addirittura un decremento del numero di abitanti sulla Terra. Questa previsione è supportata da un attento studio sulla procreazione nel mondo. Prendendo in considerazione il ventennio che va dal 1975 al 1995 è possibile notare il minimo storico raggiunto dalla popolazione mondiale in fatto di procreazione per cui, se i dati riportati nella figura 94 avranno la stessa tendenza, in una previsione a medio termine, è possibile ipotizzare che nel 2050 si avrà la riduzione della popolazione mondiale. Se questi dati saranno confermati, sarà altrettanto vero che le politiche di sviluppo
sociale dovranno tenere in stretta considerazione questi parametri di trasformazione demografica; si dovranno indirizzare energie in studi e ricerche che sfruttino al meglio questa pregevole risorsa umana: gli anziani. La terza età che compone la nostra collettività è il frutto, nel bene e nel male, della società industriale che, se da una parte ha dato benessere e longevità, dall’altra ha richiesto un tributo elevato da parte degli anziani. La società industriale, fino ad ora, li ha snobbati, non ha creduto nella possibilità di un loro impiego nel sociale, non ha mai puntato sulla loro esperienza, non gli ha mai dato la possibilità di continuare ad essere giovani investendo per loro in impegni culturali, sportivi e sociali. Se qualcosa è stato fatto, lo si deve prevalentemente al privato. Ma i numeri stanno vertiginosamente cambiando, gli anziani sono in netta crescita; quelli di domani saranno costretti a contribuire come forza lavoro fino a tarda età per dare sostegno all’economia dei propri paesi. Questi cambiamenti però non possono avvenire casualmente, non si può certo pensare di dover posticipare il pensionamento solo perché la vita media è aumentata; sarà necessario creare condizioni che permettano di avere ultrasessantacinquenni fisicamente capaci, efficienti ed in buona salute. Per tali ragioni anche il mondo dello sport deve programmare strutture e mezzi allenanti in questa direzione. Ci si deve abituare, da qui in avanti, ad avere una partecipazione sempre più numerosa di persone che hanno abbondantemente superato il mezzo secolo nei vari ambienti sportivi. Allo stato attuale come stanno sotto l’aspetto fisico e della salute i nostri anziani? Un interessante dato è fornito da una ricerca effettuata dal C.N.R. (Consiglio Nazionale delle Ricerche) e dall’Università di Roma, curata nell’occasione dal Prof. Vincenzo Marigliano, coinvolgendo in questo studio 8.190 ultrasessantacinquenni residenti nei comuni di Ariccia, Albano, Genzano, Lanuvio
CAPITOLO 8 • Cinesiologia: concetti di base
LE ARTICOLAZIONI COME LEVE La funzione dei muscoli è quella di vincere delle resistenze che sono rappresentate dalle ossa su cui sono inseriti, e dai carichi applicati a queste ossa, siano essi rappresentati da pesi artificiali o naturali. Quando un muscolo si contrae, esercita una forza di trazione su un osso, e quindi il sistema rappresentato dalla forza agente e dalla resistenza da vincere è assimilabile ad una leva meccanica che può definirsi una macchina dove sono presenti una potenza, una resistenza e un fulcro. Più esattamente, la potenza è situata nel punto di applicazione del muscolo sull’osso da spostare; la resistenza nel punto su cui si scarica la forza da vincere; e il fulcro è rappresentato dal punto, situato nell’articolazione, che rimane fermo relativamente alla potenza e alla resistenza. Si definisce braccio della potenza, la distanza che separa il fulcro dal vettore che rappresenta la potenza, e braccio della resistenza, la distanza tra il fulcro e il vettore che rappresenta la resistenza. Una maggior lunghezza del braccio della potenza rispetto a quello della resistenza comporta una vantaggiosità della leva, ossia la potenza applicata potrà essere minore della resistenza per poterla vincere. Viceversa, se il braccio della resistenza è maggiore del braccio della potenza, dovrà essere applicata una grande forza per muovere una piccola resistenza: la leva si dice, in questo caso, svantaggiosa.
Il momento della potenza è il prodotto del braccio della potenza per la potenza, e il momento della resistenza, il prodotto del braccio della resistenza per la resistenza. Perché la leva sia in equilibrio, i due momenti devono essere uguali. Attraverso la proporzione: R : bP = P : bR dove R e P sono la resistenza e la potenza espresse in kg, e bP e bR sono i rispettivi bracci espressi in metri, si riescono a trovare i valori della Resistenza, della Potenza e dei rispettivi bracci: R = P x bP : bR P = R x bR : bP bP = R x bR : P bR = P x bP : R Si riconoscono 3 tipi di leve: di I, II e III genere.
Leva di I genere In questo tipo di leva, il fulcro è situato tra la potenza e la resistenza. Risulta evidente che tale leva può essere vantaggiosa o svantaggiosa, a seconda che il fulcro sia situato più vicino alla resistenza o alla potenza. Un esempio nel corpo umano si ha nella flesso-estensione del capo: l’estensione è determinata dall’azione dei muscoli inseriti sull’occipite e quell’inserzione rappresenta il punto di applicazione della potenza. La resistenza è rappresentata dal peso del
FR
FA MR
Fulcro
MA
Leva
FIGURA 100 Una leva. Alla forza esercitata perpendicolarmente alla leva in un punto di contatto viene contrapposta un’altra forza in un punto di contatto differente. FA = forza applicata alla leva; MA = braccio del momento della forza applicata; FR = forza che si oppone alla rotazione della leva; MR = braccio del momento della forza resistiva.
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CAPITOLO 9 • Comunicazione
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INTRODUZIONE Le relazioni umane sono costituite da varie forme di comunicazione. Dalla capacità degli interlocutori di scambiarsi adeguatamente le informazioni dipende il rapporto interpersonale, l’efficacia della comunicazione e la probabilità che venga raggiunto l’obiettivo comune. Ogni messaggio non è mai neutro, porta sempre un contenuto che è caratteristico della personalità di chi lo ha emesso. Allo stesso modo, chi lo riceve lo integrerà con la propria personalità e strutturerà una risposta. Affinché la comunicazione sia andata a buon fine, bisogna essere sicuri che questi messaggi siano stati recepiti dal nostro interlocutore così come sono stati pensati da colui che li ha emessi, senza fraintendimenti di sorta, onde evitare conflittualità tra comunicazione verbale (CV) e comunicazione non verbale (CNV). È importante altresì accertarsi che il nostro interlocutore abbia capito e, di conseguenza, formulato una risposta in sintonia col messaggio ricevuto e decifrato (meccanismo del feedback). Per essere sicuri di tutto ciò, bisogna monitorare costantemente la propria ed altrui CV e CNV. Il termine comunicare è storicamente collegato alla parola comune , che deriva dal verbo latino communicare (“condividere”, “rendere comune”); la radice latina del verbo pone in risalto la “profondità” del comunicare qualcosa, diversamente dalla superficialità di informare qualcuno su qualcosa. Per Anolli la comunicazione è “(...) uno scambio interattivo osservabile fra due o più partecipanti, dotato di intenzionalità reciproca e di un certo livello di consapevolezza, in grado di far condividere un
determinato significato sulla base di sistemi simbolici e convenzionali di significazione e di segnalazione secondo la cultura di riferimento”. Alcuni elementi di carattere generale possono essere individuati nella comunicazione: • caratterizzazione aperta o bidirezionale (a volte pluridirezionale) dello scambio; • possibilità di inversione dei ruoli fra emittente e destinatario; • valorizzazione dell’attività partecipativa del destinatario, anche nei casi in cui ricopra il semplice ruolo di ricettore; • attenzione agli effetti dell’azione comunicativa; • tendenziale disponibilità a considerare il rapporto di comunicazione come un’interazione paritetica e, quindi, come una forma di conversazione almeno potenziale. Ogni scambio comunicativo implica e coinvolge la “personalità” degli interlocutori (individuale o collettiva), li mette in gioco soggettivamente nell’incrocio che il loro rapporto va costruendo, al di là dei dati e dei contenuti oggettivamente scambiabili. Lo psicologo William James (1890) non a caso sosteneva che: “ogniqualvolta due persone si incontrano ci sono in realtà sei persone presenti. Per ogni uomo ce n’è uno per come egli stesso si crede, uno per come lo vede l’altro ed uno infine per come egli è realmente”.
CAPITOLO 10 • Personaltà
INTRODUZIONE Il più antico precursore dello studio della personalità fu Ippocrate che definì quattro tipi personalità, in base all’umore di base presente nel suo corpo: • • • •
collerico; sanguigno; melanconico; flemmatico.
Cicerone definì la “personalita-te” come l’aspetto e la dignità di un essere umano oppure, in un’altra definizione, quella parte che si recita nella vita, e non a caso “persona” rappresentava la maschera indossata dagli attori, attraverso (per) la quale usciva la voce amplificata (sona) dell’attore. Alla soglia del XX secolo si affermò la convinzione che la personalità del soggetto si rispecchi nel modo in cui la realtà gli appare e nelle idee che esprime. Questo modello, che in Kurt Lewin e Kurt Koffka ebbe i suoi migliori esponenti, venne definito “fenomenologico”. Lo psicologo anglo-tedesco Hans Eysenck (1916-1997), studioso della struttura della personalità, nella sua opera “The structure of Human Personality” afferma che: “La personalità è la più o meno stabile e durevole organizzazione del carattere, del temperamento, dell’intelletto e del fisico di una persona: organizzazione che determina il suo adattamento totale all’ambiente.”
Collerico
Sanguigno
FIGURA 105 Tipi di personalità.
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Allport riporta ben 50 definizioni della personalità. Lui stesso definì la personalità come l’organizzazione dinamica, interna all’individuo, di quei sistemi psicologici che sono all’origine del suo peculiare genere di adattamento all’ambiente. La personalità è pertanto una particolare integrazione e organizzazione degli elementi sia fisici che psichici che ha come risultato un peculiare modo di adattarsi dell’individuo all’ambiente. Secondo Pinkus, la personalità può essere intesa come quel “sistema che si costituisce nell’individuo umano partendo da una base neurologica ereditaria e che si modella via via nei rapporti con l’ambiente, dal quale giungono all’individuo informazioni che vengono recepite, memorizzate, interpretate ed utilizzate”. Si può dire che la personalità si struttura su uno sviluppo psico-biologico (temperamento) e in un contesto psico-affettivo che contribuiscono a formare una serie di tratti difficilmente modificabili. I tratti che costituiscono la personalità sono una trama di pensieri, sentimenti, comportamenti e stili percettivi, che si manifestano in maniera inconsapevole. Il DSM 4 definisce i tratti della personalità come modi costanti di percepire, rapportarsi e pensare nei confronti dell’ambiente e di se stessi, che si manifestano in un ampio spettro di contesti sociali e personali.
Melanconico
Flemmatico