L'invecchiamento

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1. La biologia dell’i nvecchiamento

1.1 La vita e la morte Nessuno di noi può sperare di vivere eternamente, l’immortalità ci è negata, e questo vale per tutte le altre specie animali e vegetali che popolano  la  terra.  La  morte  non  è  quindi  solamente    un’inevitabile conseguenza della vita ma è, in ultima analisi, quello che dà senso alla vita stessa. Il rischio di morte, per l’essere umano, come per tutti gli altri esseri viventi, inizia con il primo giorno di vita e lo accompagna, ovviamente, sino alla fine del suo cammino terreno. Per l’uomo gli anni più “sicuri” sono quelli nella fascia d’età compresa tra i 10 ed i 15 anni. In questo periodo, infatti, su scala Europea mediamente perde la vita, ogni anno, 1 adolescente su 2000, il che equivale ad un incidenza percentuale di mortalità pari allo 0.0005%. Nel prosieguo della vita questo indice di mortalità cresce in funzione di quel lento ed inesorabile processo di decadimento fisiologico che va sotto il nome di invecchiamento. Alla, invero veneranda, età di 100 anni, le capacità del nostro organismo di far fronte alle malattie ed alle varie aggressioni ambientali, sono enormemente diminuite, a tal punto che il rischio di morte tocca la quota del 50% annuo, un valore di ben 1000 volte superiore rispetto a quello dei nostri 15 anni. Se, per un attimo, astraessimo dalla nostra realtà biologica costituita dall’invecchiamento, e considerassimo la morte solo come un evento di rischio probabilistico, la cui probabilità di accadimento si attestasse su quello 0.0005% di appannaggio del nostro periodo adolescenziale, che cosa accadrebbe in termini di aspettativa di vita? Direi che in questa realtà fantascientifica si verificherebbe l’equivalente di una virtuale partita a dadi. Ad ogni lancio annuale, la probabilità fissa di 1 evento infausto su 2000, comporterebbe una piccola ma graduale perdita di individui. In ogni caso ben il 95% della popolazione festeggerebbe il centesimo compleanno, ed addirittura il 50% raggiungerebbe l’incredibile età di 1200 anni! Ma ritornando alla nostra umana realtà, queste cifre altro non fanno che sottolineare il fatto che la morte non è un evento meramente probabilistico, dovuto ad un capriccio del destino, come spesso sembrerebbe purtroppo essere ma, al contrario, è regolata, per la maggior parte degli individui, dall’ineluttabile processo dell’invecchiamento. La morale di tutto ciò è che, anche sperando di avere come compagna costante della nostra vita la buona sorte, la maggior parte di noi non vivrà a sufficienza per poter festeggiare il suo centesimo compleanno, dato che non è possibile evitare le conseguenze dello stesso vivere, ossia l’invecchiare. Ogni specie animale, uomo compreso, sembra quindi avere una propria “età Gian Nicola Bisciotti

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2. L’invecchiamento del muscolo scheletri co

2.1 La sarcopenia Nell’uomo l’invecchiamento è indissolubilmente associato ad una progressiva perdita di massa magra e ad una contestuale atrofia muscolare generalizzata che comporta uno scadimento delle capacità di forza dell’individuo (Evans e  Campbell, 1993;  Rosemberg, 1997). Tutti questi fenomeni involutivi sono inquadrabili in un più ampio contesto fisiologico denominato sarcopenia (SP), termine che deriva dal greco sarx, carne vivente,  e  penia,  ossia  povertà,  penuria.  La  sindrome  sarcopenica  nell’uomo è generalmente associata a tutta una serie di fenomeni anatomofisiologici interdipendenti, di cui i più rilevanti sono costituiti dall’osteopenia (progressiva diminuzione del contenuto minerale a livello scheletrico), da un aumento della massa grassa, da un abbassamento della temperatura basale,  nonché  da  altre  sindromi  dismetaboliche  come  ad  esempio  il diabete di tipo II. La SP è correlata a diversi fattori scatenanti di ordine sia genetico, sia ambientale che, in ultima analisi, comportano un difetto di sintesi proteica associato ad un aumento dei processi catabolici (Rall e coll., 1996; Short e Nair, 1999; Nair, 2000). La SP è sostanzialmente identificabile come un fenomeno di atrofia muscolare progressiva di eziologia  multifattoriale.  I  fattori  che  possono  maggiormente  influenzare  la sindrome sarcopenia sono infatti di diversa natura e vanno dall’attività fisica,  ai  cambiamenti  ormonali,  all’aspetto  dietetico,  allo  stress  ossidativo, oppure ad aspetti concernenti la denervazione muscolare (Evans, 1995a;  Evans 1995b.,  Roubenoff, 2003). La sindrome sarcopenica nell’uomo costituisce un fenomeno indissolubilmente legato all’invecchiamento, numerosi studi infatti dimostrerebbero come il 100% del corredo genico nell’anziano ne sia implicato (Castillo e coll., 2003; Gilette Guyonette e coll., 2003; Kyle e coll., 2001b) e come la sua diffusione non faccia differenziazioni dal punto di vista razziale (Baumgartner e coll., 1998). Tuttavia,  molti  Autori  hanno  proposto  una  definizione  maggiormente precisa e restrittiva del fenomeno sarcopenico che sarebbe, secondo questi criteri, identificabile e definibile come tale solamente nel momento in cui la diminuzione della massa muscolare sia perlomeno di due volte superiore  alla  varianza  misurata  su  individui  giovani  e  sani  (Wang  e  coll., 1989). Seguendo questo criterio la SP sarebbe riscontrabile solamente nel 24% degli individui compresi in una fascia d’età che vada dai 60 ai 70 anni e supererebbe il 50% d’incidenza negli ultraottantenni. L’incidenza della SP, inoltre, sarebbe maggiormente a carico della popolazione maschile (78%) rispetto a quella femminile (45%) (Baumgartner e coll., 1998), la Gian Nicola Bisciotti

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3. L’invecchiamento dell’apparato schele trico

3.1 Introduzione L’apparato scheletrico assolve sostanzialmente tre funzioni: la prima è il fornire il supporto architettonico a muscoli e tendini, in modo tale da permettere il movimento, la seconda è costituita dal suo ruolo protettivo nei confronti degli organi vitali, mentre la terza consiste nel fornire una riserva organica di calcio rivolta alla stabilizzazione della calcemia1, fattore che viene perturbato soprattutto nei periodi di carenza alimentare. Per questi motivi lo scheletro, in qualunque età biologica, non costituisce una massa inerte ma, al contrario, un’entità plastica in perpetuo rinnovamento, basti pensare al fenomeno del processo di rimodellamento osseo che si registra durante l’accrescimento, oppure alla necessità di idonei fenomeni riparativi nel caso di frattura, senza dimenticare il suo appena citato ruolo di riserva organica di calcio. Il comportamento plastico dell’impalcatura scheletrica è orchestrato da due fenomeni fisiologici ben precisi, l’osteoriassorbimento, assicurato dagli osteoclasti, e l’osteoformazione, riconducibile all’attività degli osteoblasti. Dal rapporto intercorrente tra questi due fenomeni, tra loro fisiologicamente antagonisti, risulta  il  possibile  mantenimento,  la  perdita,  oppure  l’acquisizione,  di massa ossea. L’osteoformazione e l’osteoriassorbimento sono regolati da numerosi fattori di tipo genetico, ormonale, nutrizionale e meccanico. È da tempo noto come il fattore meccanico rivesta un ruolo di cruciale importanza nell’ambito del controllo dinamico del rimodellamento osseo, permettendo alla struttura ossea stessa di potersi adattare nei confronti dello sforzo, per questo motivo la diminuzione degli impegni di tipo meccanico a livello scheletrico, può costituire un serio problema in termini di mantenimento della massa ossea. Nel paraplegico infatti, si registra in media una diminuzione del 33% del volume trabecolare nell’arco di sei mesi dall’insorgenza del danno neurologico, tale perdita ossea, inoltre, varia in funzione del distretto scheletrico considerato. Può essere infatti compresa tra il 25 ed il 66% a livello di segmenti ossei il cui compito biomeccanico è quello di sostenere il peso del corpo, come ad esempio la tibia, ma può essere ancora maggiore a livello del rachide lombare (Eser 1 Calcemia: tasso ematico di calcio. La calcemia nell’uomo, in condizioni fisiologiche è pari a circa 10 mg/100 ml di plasma, circa la metà degli ioni Ca++ sono presenti nel sangue in forma libera (frazione ultrafiltrabile) mentre la restante parte è legata alle plasmaproteine. La calcemia è legata prevalentemente all’azione di due ormoni, la calcitonina ed il paratormone, e la vitamina D.

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4. L’invecchiamento cardiaco

4.1 Introduzione  Tutte le modificazioni fisiologiche che sopravvengono con l’avanzare dell’età sono dovute agli effetti combinati della senescenza, intesa come mero processo d’invecchiamento biologico di per sé non patologico, e delle problematiche legate alle patologie dell’invecchiamento; anche l’invecchiamento cardiaco risente quindi di questi due fattori che, peraltro, non debbono essere considerati come consequenziali. Per cui, se da un lato è indubbiamente indiscutibile che con l’avanzare degli anni si registri un’innegabile perdita delle capacità di adattamento funzionale, dall’altro è altrettanto vero che la riduzione funzionale a cui anche il sistema cardiaco va incontro nell’ambito del processo d’invecchiamento, è stata per lungo tempo eccessivamente enfatizzata. Questa idea preconcetta, del fatto che il sistema cardiaco andasse incontro ad un inesorabile deterioramento funzionale in rapporto all’età, ha prevalso, nel secolo scorso, sino a tutti gli anni ’70, per essere poi progressivamente abbandonata. Oggi il concetto di “cuore senile”, come responsabile di una pessimistica visione di progressiva perdita dell’adattamento funzionale cardiaco nell’anziano, è stato sostituito dall’assunto secondo il quale il sistema cardiaco sarebbe perturbato più da cause patologiche piuttosto che dal semplice avanzare degli anni. D’altro canto numerosi studi ormai testimoniano del fatto che il sistema cardiaco dell’individuo anziano sano sia perfettamente in grado di adattarsi alle richieste funzionali sia a riposo, che sotto sforzo (Fleg e Lakatta, 1988; Lakatta, 1990; Lakatta, 2005). Tuttavia, soprattutto in quest’ambito età biologica ed età cronologica possono  differire  considerevolmente  (Priebe,  2000).  In  ogni  caso,  non bisogna disconoscere l’importante ruolo che i cambiamenti del sistema cardiaco-circolatorio subiscono in funzione dell’età, soprattutto in un’ottica preventiva delle possibili patologie cardiache legate all’invecchiamento e della scelta di un idoneo programma di lavoro fisico aerobico per il soggetto anziano (Priebe, 2000; Lakatta, 2005). Non possiamo infatti dimenticare che il processo d’invecchiamento, anche se scevro da complicazioni patologiche, comporta ineluttabilmente un declino della funzionalità dei vari organi ed apparati ivi compreso, ovviamente, il sistema cardio-circolatorio. Per cui, il concetto di età biologica a cui facevamo poc’anzi riferimento, risulterebbe essere, in ultima analisi, il risultato netto dell’interazione tra l’età anagrafica e le concomitanti possibili patologie associate ad un cambiamento della funzionalità organica. Nello specifico, la funzionalità cardiovascolare risulterebbe quindi essere dipendente dal risultato netto tra frequenza cardiaca, contrattilità intrinseca  del  miocardio,  funzione  sistolica  e  diastolica,  postcarico

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5. L’invecchiamento polmonare

5.1 Le modificazioni morfologiche La gabbia toracica (GT) partecipa ai movimenti respiratori e contiene al suo interno organi vitali quali cuore e polmoni, inoltre al suo interno si trovano le porzioni toraciche dell’esofago, della trachea e dell’aorta. La GT è delimitata inferiormente dal diaframma ed è formata nell’uomo da dodici paia di costole articolate posteriormente con le dodici vertebre della regione dorsale, e dallo sterno, al quale le costole si uniscono anteriormente mediante cartilagine. Le prime sette paia di coste sono dette costole vere e si uniscono direttamente allo sterno, le tre paia successive (costole spurie) raggiungono lo sterno tramite la cartilagine del settimo paio,  mentre  le  ultime  due  paia,  dette  fluttuanti,  non  sono  unite  allo sterno. La GT, durante il processo d’invecchiamento, assume un aspetto “a barile”, sostanzialmente dovuto ad una serie di fattori tra loro interagenti come l’aumento della cifosi dorsale, l’aumento dei diametri anteroposteriori  del  torace,  la  calcificazione  delle  cartilagini  intercostali  e l’artrosi delle articolazioni costo-vertebrali. Anche i muscoli respiratori, come d’altro canto il resto dei muscoli scheletrici, fanno registrare, a partire dalla quinta-sesta decade di vita, una diminuzione del numero e del volume delle proprie fibre, con perdita preferenziale di fibre a contrazione rapida, fenomeno che li conduce ad una progressiva perdita di trofismo. L’indebolimento della capacità di trazione muscolare verso l’esterno, unitamente alla perdita di compliance, ossia all’irrigidimento, della GT, viene nell’anziano compensato da un aumento della  compliance del tessuto muscolare, probabilmente derivante da una diminuzione del numero delle fibre elastiche del parenchima1. La compliance polmonare rappresenta la variazione del volume polmonare per unità di variazione della pressione di ritorno elastico; la modificazione della compliance dei polmoni e della parete toracica, che osservano nel soggetto anziano, sarebbero  le  maggiori  responsabili  delle  modificazioni  senili  della ventilazione e della distribuzione dei gas. I grossi bronchi2 non si modificano sostanzialmente durante l’invecchiamento, al contrario invece di quanto non sia riscontrabile a livello dei canali alveolari che si dilatano fortemente a causa della progressiva perdita di elasticità. Inoltre, nel soggetto anziano è possibile osservare un aumento delle dimensioni dei sacchi alveolari e della densità capillare (Mahler e Rosiello, 2002).  Parenchima: termine che indica genericamente il tessuto proprio di un organo, distinguendolo in tal modo dal tessuto connettivo di sostegno, che viene definito stroma. 2 La trachea ed i grossi bronchi formano la parte extra-polmonare del condotto aerifero. La parte del bronco che è scoperta dal rivestimento polmonare, forma il grosso bronco o bronco extra-polmonare. 1

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6. L’invecchiamento ed il controllo cerebr ale dell’esercizio

6.1 Introduzione Uno dei principali problemi che si possono riscontrare nell’ambito della ricerca sul fenomeno dell’invecchiamento, è rappresentato dall’obiettiva difficoltà che si incontra quando si cerca di differenziare i processi fisiologici legati all’invecchiamento stesso e quelli che invece possono essere imputabili ad un’involuzione patologica. Al di là di questa innegabile difficoltà, la maggioranza degli Autori si accorda sul fatto che è possibile tentare di rallentare il naturale declino delle funzioni senso motrici, al quale  inevitabilmente  si  va  incontro  nel  corso  dell’invecchiamento,  a patto di adottare una strategia multivariata basata essenzialmente sui seguenti punti (Hedden e Gabrieli, 2004). - Mantenere  un’attività  intellettuale  di  un  livello  impegnativo  e  costante. - Effettuare regolarmente un’attività fisica di tipo aerobico. - Adottare delle strategie comportamentali e degli stili di vita atti alla riduzione dello stress cronico, il quale è associato alla produzione di glucocorticoidi che, a loro volta, alterano la funzione dei neuroni dell’ippocampo.  - Integrare il regime dietetico con acidi grassi poli e mono insaturi, vitamina E, polifenoli ed antiossidanti. 6.2 La prevenzione dell’invecchiamento cerebrale In fisiologia vale il detto “si perde ciò che non si usa”, questa semplice regola è vera tanto per gli “umili” muscoli quanto per “l’aristocratico” cervello. Da tempo ormai le neuroscienze hanno individuato delle strategie ben precise per ottenere un miglioramento, o comunque almeno per preservare, le nostre funzioni cognitive anche in età senile. Il cervello è composto da circa 100 miliardi di neuroni, tra loro connessi attraverso le ramificazioni  dendritiche,  il  cui  numero  aumenta  in  funzione dell’apprendimento di nuove informazioni ed abilità. Il numero dei neuroni però diminuisce in funzione dell’invecchiamento (anche se sembra che un certo numero di neuroni venga prodotto giornalmente nell’area dell’ippocampo,  vedi  a  questo  proposito  il  box  specifico),  fenomeno  che comporta un progressivo deterioramento intellettivo. A causa di questo impoverimento neuronale il cervello perde, nel periodo compreso tra i 35 Gian Nicola Bisciotti

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7. Attività ormonale ed esercizio fisico nel soggetto anziano

7.1 Introduzione I cambiamenti indotti dal fenomeno dell’invecchiamento a livello del tessuto muscolare, adiposo e scheletrico, si accompagnano a delle altrettanto  significative  modificazioni  a  carico  del  sistema  endocrino,  che mostra cambiamenti molto simili a quelli osservabili nell’individuo giovane affetto da deficit endocrino (Duclos, 2006). Al di là del mero fenomeno dell’invecchiamento in sé, occorre considerare che, con l’avanzare degli anni, si verifica una progressiva sedentarizzazione che a sua volta comporta una progressiva diminuzione dell’attività fisica e sportiva da parte del soggetto anziano; sapendo che l’esercizio muscolare rappresenta un forte stimolo per l’apparato endocrino, è chiaro come anche questo fattore possa contribuire alla diminuzione della secrezione ormonale osservabile nel corso dell’invecchiamento. Ci si potrebbe anzi porre il quesito di come il fenomeno dell’invecchiamento e quello della sedentarizzazione progressiva possano incidere, di per sé, sul fenomeno della diminuzione dell’attività ormonale nel soggetto anziano. 7.2 L’asse somatotropo La secrezione di GH e IGH-1 diminuiscono nel corso dell’invecchiamento, tanto è vero che il tasso di GH di un sessantenne sarebbe considerato come patologico in un giovane adulto (Vermeulen e coll., 1996). Se un soggetto giovane può infatti secernere sino a circa 1.5 mg di GH pro die, un soggetto anziano non può andare i 50 μg giornalieri, ed anche la produzione plasmatica di IGF-1 diminuisce da un 30 ad un 50% nel periodo compreso tra la terza e la settima decade di vita. Alcuni Autori hanno suggerito come questa diminuzione nella secrezione di GH ed IGF-1 possa essere correlata all’aumento della massa grassa ed al peggioramento delle condizioni fisiche generali che si riscontrano nel soggetto anziano, piuttosto cha al processo d’invecchiamento in se stesso (Veldhuis e Iranmanesh, 1996). Tuttavia, altri studi dimostrerebbero che la diminuzione della secrezione di GH osservabile nel corso degli anni risulterebbe indipendente dalla composizione corporea (O’Connor e coll., 1998) e dal livello di attività fisica del soggetto (Healy e coll., 2005) ed imputerebbero la sua diminuzione ad un’elevazione del tasso della somatostatina (un naturale inibitore del GH), ad una diminuzione della produzione di Growth Hormone Releasing Hormone (GHRH) causata da un aumento del meccanismo di feed-back negativo da parte dell’IGF-I e ad una perdita di cellule somatotrope a livello dell’adenoipofisi riscontrabile nel processo

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8. La capacità di res istenza organica del soggetto anziano

8.1 La valutazione organica del soggetto anziano L’organismo umano, per poter utilizzare il suo apparato muscolare, si avvale di tre fonti energetiche o, per meglio dire, sfrutta tre meccanismi di ripristino energetico, ossia il meccanismo anaerobico alattacido, il meccanismo anaerobico lattacido ed il meccanismo aerobico. In questo capitolo parleremo principalmente della valutazione del meccanismo aerobico e di quella particolare fase di transizione fisiologica che determina il passaggio dal meccanismo aerobico a quello anerobico. Questa scelta è dovuta al fatto che tutte le esercitazioni che si effettuano in ambito prettamente aerobico o, al limite, nella zona di transizione tra quest’ultimo ed il meccanismo lattacido ci sembrano, senza ombra di dubbio, le più pertinenti  per  ciò  che  riguarda  la  programmazione  di  un  piano  di  lavoro adatto ad un soggetto anziano che desideri iniziare, oppure proseguire, un’attività  specifica  atta  all’aumento,  o  al  mantenimento,  della  propria resistenza organica. Inoltre, occorre sempre ricordare come il meccanismo aerobico sia sempre la via energetica preferenzialmente sollecitata in  tutti  i  piani  di  prevenzione  primaria  o  secondaria,  che  comportino, come loro parte integrante, una complementazione basata sul lavoro fisico e rivolti alle più frequenti patologie riscontrabili in età avanzata, come nel caso di alcune patologie cardiovascolari e respiratorie, alcuni tipi di diabete o alcune forme neoplastiche. In pratica, il soggetto anziano che intenda intraprendere, ma anche proseguire, un’attività sportiva, deve necessariamente  sottoporsi  preventivamente,  oppure  regolarmente  a seconda dei casi, ad una visita medica specialistica di idoneità. L’esame, effettuato da un medico specialista, deve scrupolosamente perseguire lo  scopo  di  identificare  tutti  quegli  eventuali  fattori  di  rischio,  nonché ogni controindicazione, assoluta o relativa.

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9. Nuove strategie ter apeutiche nella gonart rosi secondaria dello sportivo

9.1 Introduzione L’artrosi, o osteoartrosi1 (OS), è una malattia cronica degenerativa che si manifesta a livello articolare con interessamento specifico della cartilagine articolare in associazione a fenomeni di degenerazione dell’osso sottostante. Nel quadro osteoartrosico risultano però assenti i fenomeni infiammatori al contrario tipici delle artriti. La sua insorgenza di norma si registra al di là dei 50 anni d’età ma è possibile osservare dei quadri francamente artrosici anche in individui giovani, persino al di sotto dei 30 anni (Farag e coll, 2005) L’OS si manifesta con maggior frequenza nel sesso femminile ed in individui con tendenza all’obesità (vedi il riquadro specifico) al diabete, alle varici, all’iperlipidemia ed all’iperuricemia (Steadman e coll., 2007). È possibile classificare le osteoartrosi in due categorie, di cui la prima è costituita dalle osteoartrosi primitive e la seconda dalle osteoartrosi secondarie. Le forme primitive sono riconducibili a fenomeni generali di usura meccanica a carico della cartilagine articolare (Rudolph e coll., 2007). Tra le cause responsabili dell’insorgenza di un OS primaria vanno annoverati diversi fattori come l’aumento ponderale, gli squilibri metabolici, le turbe endocrine, le malattie epatiche o renali, l’insufficienza venosa periferica, oltre che una predisposizione di tipo ereditario. Le OS cosiddette secondarie, sono invece collegate ad alterate condizioni biomeccaniche che sottopongono la superficie articolare, o una parte di essa, ad un carico alterato, compromettendo, in tal modo, il corretto funzionamento dell’articolazione stessa (Rudolph e coll., 2007). Le OS secondarie sono di norma monoarticolari e non mostrano tendenza alla diffusione. Soprattutto negli ex-sportivi sono ampiamente diffuse le OS secondarie di tipo post-traumatico e da alterazione della statica. Le OS post-traumatiche sono il risultato di eventi traumatici che hanno agito unicamente o reiteratamente a livello articolare. Nel caso di unicità del trauma si vengono a determinare gravi danni a livello della cartilagine articolare e della capsula, nel caso invece di microtraumatismi ripetuti si verifica, al contrario, una precoce usura della cartilagine articolare (Lohmander e coll., 2007;  Wu e coll., 2007). Le OS da squilibrio della statica, vedono invece la loro insorgenza legata ad un’alterata e non corretta distribuzione del carico sulla superficie articolare. Degli esempi tipici in quest’ambito sono costituiti dalle OS dell’anca che si manifestano in esiti di lussazione d’anca congenita, oppure le OS conseguenti ad esiti di fratIl termine “osteoartrosi” ha ormai sostituito quello di “artrosi” in virtù del fatto che, contrariamente a quanto si pensasse antecedentemente, nella patogenesi dell’osteoartrosi non si verifica unicamente un danno a livello della sola cartilagine articolare ma, al contrario, è altresì evidenziabile anche un coinvolgimento dell’osso subcondrale. 1

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10. La protesi di gin occhio ed il ritorno allo sport: realtà od utopia?

10.1 Introduzione L’indicazione alla protesi di ginocchio negli anni ’80 e ’90 era essenzialmente basata sulla sintomatologia algica, in altre parole l’impianto di una protesi aveva come precipuo scopo la riduzione della sensazione algica sofferta dal paziente in seguito alla grave gonartrosi di cui era portatore. All’epoca praticamente nessun chirurgo ortopedico consigliava al paziente il ritorno all’attività sportiva (Lo Presti, 2011) ed il paziente era totalmente soddisfatto se riusciva ad ottenere una flessione di circa 100° ed a camminare per lunghe distanze (Perrone, 2011). Già all’inizio del terzo millennio le richieste del paziente erano cambiate, oltre all’ovvia richiesta della risoluzione della sintomatologia dolorosa, si pretendeva il ritorno ad una soddisfacente funzionalità articolare. Oggi le richieste del paziente sono nuovamente aumentate, al di là della risoluzione del dolore e del ripristino della piena funzionalità articolare, viene posta, con sempre maggior frequenza, la richiesta del ritorno all’attività sportiva. Molto spesso tale richiesta riguarda lo stesso sport praticato in precedenza e l’aspirazione, ovviamente, è quella di ritornare, se non allo stesso livello di pratica, o perlomeno al raggiungimento di una condizione simile. Ma questa rappresenta un’aspirazione plausibile, o meglio, in quali termini è ragionevole poter pensare che lo sia? Vediamo in questa nostra breve e semplice disamina di poter dare un’onesta ed obiettiva risposta alle aspettative di chi, costretto alla protesizzazione, non vuole comunque rinunciare alla  pratica sportiva. 10.2 I diversi tipi di protesi La sostituzione protesica del ginocchio trova la sua indicazione in tutti i tipi di gonartrosi, primarie e secondarie, nel momento in cui il trattamento di tipo conservativo – basato su FKT, adattamento dell’attività funzionale, terapie mediche come infiltrazioni intra-articolari di acido ialuronico, , riequilibrio posturale ecc…- non riesce più a controllare la sintomatologia algica del paziente e la funzionalità dell’articolazione è seriamente ed irrimediabilmente compromessa. Ma non solo le gonartrosi possono richiedere la realizzazione di un impianto protesico, molto spesso anche le artriti, in special modo l’artrite reumatoide e la condrocalcinosi, nel caso in cui l’articolazione sia danneggiata in modo irreversibile, possono richiedere un intervento di protesizzazione. Attualmente esistono sul mercato numerosi tipi di protesi: monocompartimentali, bicompartimentali, tricompartimentali…. ma per ciò che riguarda la possibilità di ritorno ad

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11. Il rischio di cad uta nel soggetto anz iano

11.1 L’anamnesi patologica prossima La caduta nel soggetto anziano rappresenta un evento di facile riscontro le cui conseguenze, purtroppo, possono rivelarsi spesso drammatiche. Le cause di caduta nell’anziano sono sostanzialmente da ricondursi a tre categorie principali: - La sincope. -  I problemi connessi all’andatura e all’equilibrio. - Le cadute accidentali. L’esatta distinzione tra queste tre distinte condizioni eziologiche è spesso difficile a causa della concomitante presenza nel soggetto di patologie neurologiche, cardiache ed ortopediche (Kenny, 1997). La caduta provocata da sincope può essere ulteriormente classificabile in quattro categorie principali: - Da ipotensione ortostatica. - Da sincope vaso-vagale classica. - Da sincope situazionale. - Da ipotensione post-prandiale/situazionale. L’identificazione dell’esatta causa di caduta in un soggetto anziano, oltre che essere complicata come già menzionato dal sovrapporsi di diverse patologie, è ulteriormente resa maggiormente difficoltosa dal fatto che circa il 30% dei soggetti cognitivamente intatti, non è comunque in grado di ricordare cadute dopo i tre mesi dal loro avvenimento. Oltre a ciò, anche altri dati ci fanno capire come identificare la causa certa di caduta sia a volte molto meno evidente di quanto si possa supporre, basti ricordare che in circa il 50% dei casi non vi sono testimoni, nel 40% dei soggetti con sindrome del seno carotideo l’unico sintomo è rappresentato da una sensazione di “dizziness” (capogiro, vertigine) e che nel 20% dei casi di sincope il paziente non ricorda di aver perso conoscenza (Kenny., 1997).  Degli strumenti particolarmente utili al fine di cercare di identificare l’eziologia della caduta ci sembrano essere i questionari proposti dal Gruppo Italiano per lo studio della Sincope nell’Anziano (Gruppo GIS) e del Centro di Valutazione e Ricerca Gerontologica dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Questi gruppi di studio propongono uno schema di anamnesi patologica prossima e di analisi della condizione dell’evento di caduta (riportati integralmente in tabella 1 e 2) che rappresentano un utile strumento ai fini di poter identificare correttamente la causa o le cause dell’evento stesso.  Gian Nicola Bisciotti

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12. I test funzional i nella popolazione anziana

12.1 Il declino della funzionalità legato all’invecchiamento Il declino delle capacità fisiche che è inesorabilmente connesso al fenomeno dell’invecchiamento può, talvolta, compromettere anche le normali attività quotidiane come salire o scendere le scale, alzarsi da una sedia, oppure  il  semplice  camminare  autonomamente  senza  la  necessità  di ausili. Dal momento che per molti soggetti anziani la richiesta funzionale durante le normali attività quotidiane (daily activities, DA) si rivela molto vicina alla loro massima richiesta funzionale, è facile capire come anche una minima perdita di funzionalità si può tradurre in una drastica diminuzione della qualità di vita e in una perdita dell’autonomia funzionale nell’ambito della vita quotidiana (Rikli e Jones, 1997). La perdita di capacità funzionale connessa all’invecchiamento può essere schematicamente ricondotta a quattro fasi anagrafiche(Shepard, 1997): - La cosiddetta “mezza età”, compresa tra i 40 ed i 65 anni, associata ad una perdita delle funzioni biologiche compresa tra il 10 ed il 30%. - La prima età anziana, definita dagli Autori anglosassoni con il termine di “young old age” che va dai 65 ai 75 anni e che fa registrare un’ulteriore perdita delle funzioni biologiche ma senza comunque che si evidenzino drastiche compromissioni dell’omeostasi. - La seconda età anziana, che seguendo sempre la nomenclatura degli Autori anglosassoni viene definita come “very old age”, compresa tra i 75 e gli 85 anni, fase dell’invecchiamento caratterizzata da un sostanziale declino funzionale nell’ambito delle normali DA, ma che comunque vede il soggetto ancora capace di mantenere una sua indipendenza funzionale.  - L’età dei grandi anziani, ossia quella che per gli anglosassoni è la “oldest old age”, che raggruppa tutti i soggetti che abbiano superato l’ottantacinquesimo anno di vita, in cui si ricorre spesso, per far fronte efficacemente alla perdita di autonomia, all’istituzionalizzazione. La maggior perdita di funzionalità, e quindi di autonomia durante le DA, sembrerebbe essere più riconducibile alla diminuzione delle capacità di forza muscolare che non al declino funzionale dell’apparato cardiovascolare (Pendergast e coll., 1993). La perdita di forza muscolare interesserebbe prima la muscolatura degli arti inferiori che quella del tronco, compromettendo pertanto in primo luogo le capacità di deambulazione autonoma del soggetto (Frontera e coll., 1991). La funzionalità della mu-

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