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davi-risaliti Acquisisci nuove conoscenze mentre rifletti sulle vecchie, e forse potrai insegnare ad altri Confucio
Gli sport di situazione Per “sport di situazione” s'intendono quelle discipline sportive nelle quali non è possibile predeterminare le azioni che si verificheranno. Le “situazioni” di gioco, infatti, mutano continuamente in funzione di diversi fattori: la presenza degli avversari e il loro comportamento (la loro strategia); la presenza dei compagni e il loro comportamento; gli spostamenti nello spazio dell’attrezzo (una palla, una spada, una katana…). Gli “sport di situazione” sono classificati generalmente in “duali” e “di squadra”. Ogni classe si divide ancora in due sottocategorie: senza contatto e con contatto. Una disciplina che appartiene alla classe di sport situazionale duale “senza contatto” è il tennis; è possibile annoverare, invece, tutti gli sport di combattimento in quella “con contatto”. Una disciplina di squadra “senza contatto” è la pallavolo; fra quelle “con contatto” si possono identificare il calcio, il rugby, la pallanuoto, il basket, la pallamano ecc… Altre classificazioni sono compilate in funzione dell’impegno energetico (classificazione fisiologico-biomeccanica) o in base alla complessità del movimento per produrre la performance (classificazione fisico-biomeccanica). Per ognuna di queste potremo fare esempi appropriati, ma fondamentalmente ciò che unisce didatticamente tutte le discipline “di situazione” è lo sviluppo del pensiero tattico e della maestria tecnica, intendendo per quest’ultima la completa padronanza di strutture economiche del movimento proprie di un esercizio sportivo, quando viene utilizzato per raggiungere il massimo risultato possibile (Djackov ’73). Pensiamo ad una qualsiasi azione di gioco o di gara dove due o più atleti si confrontano in una situazione oppositiva: sia l’attaccante che il difensore non conoscono con certezza il modo di agire dell’altro, ma sanno che il cosa fare, il quando, il perché e il come, sono sempre determinati dalla condotta dell’altro. Quindi, ogni sport di situazione è caratterizzato da uno spazio dove l’evento si svolge, da un regolamento che norma i comportamenti,
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davi-risaliti Statisticamente tutto si spiega, personalmente tutto si complica. Daniel Pennac
Scomporre e ricomporre le tecniche Siamo consapevoli che i gesti tecnici sono uno strumento fondamentale, l’acquisizione di questi consente all’atleta di “svolgere” al meglio il suo compito nella disciplina. L’idea che questi non abbiano bisogno di consistenti momenti di particolare attenzione è lontana da noi, sia sul piano della didattica (relativo alla fase di apprendimento) sia su quello dell’ addestramento specifico (relativo alla fase di specializzazione o di miglioramento), considerando che entrambi i piani sono da ritenersi “allenanti”, come vedremo in altra parte del testo. Il bagher nella pallavolo, la posizione delle tre minacce nel basket, il Kiba Dachi nel karate non appartengono solamente a discipline sportive differenti ma, come abbiamo già visto, sono anche diversamente finalizzate: difesa, attacco, posizione e radicamento. Tuttavia gli elementi che hanno in comune, non solo dal punto di vista biomeccanico, ci consentono di ipotizzare che possano essere “costruiti” seguendo un percorso trasversale; un protocollo comune che contenga le stesse caratteristiche coordinative o posturali, indipendentemente dalla disciplina già praticata o che si intenda praticare successivamente o da dove l’apprendimento acquisito verrà utilizzato. Ma procediamo con ordine. Sia in Percorsi Sghembi (Borgogni, Davi, 1997) che nel volume Il karate nell’età evolutiva (Davi, Sedioli, op. cit.) è stata trattata la possibilità di partire da un diverso contesto tecnico per arrivare alla disciplina attraverso una “inconsueta” didattica: diverso punto di partenza, stesso punto di arrivo. In quelle esperienze, e in particolare nel testo sul karate, gli autori sono partiti metodologicamente dalla condivisione del significato di alcune parole chiave, vista la loro diversa esperienza e formazione. Abbiamo proceduto analogamente, riportando in questo testo le definizioni condivise per comodità di riferimento: Adattamento: risposta dell’organismo come effetto provocato da stimoli allenanti, agenti di cambiamento in grado di alterare l’equilibrio del sistema; Allenamento: processo che determina un cambiamento di stato fisico, motorio, cognitivo ed emotivo, finalizzato al miglioramento della “prestazione”; Apprendimento: mutamento relativamente durevole prodotto in un organismo direttamente dall’esperienza. Va inteso come un cambiamento dei processi interni
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Impegnare il corpo nella esplorazione e nella rappresentazione del mondo è una modalità di base dell’apprendimento, non solo una modalità dell’apprendimento di base. Gianmario Missaglia
Il valore educativo dell’agon
“Risultati vietati per i bambini inglesi” così titolava un articolo di Enrico Franceschini il 19 settembre 2008 (che pubblichiamo integralmente nel riquadro sottostante) inerente la decisione della Federcalcio inglese di non pubblicare né classifiche né punteggi specificatamente legati all’attività calcistica sotto gli 11 anni. La motivazione sta nella eventuale ossessione al risultato ed alla classifica rilevata dalla stessa Federcalcio “…convinta che ciò sia di detrimento al loro (dei bambini) sviluppo sia come atleti che come uomini”. Analogamente qualche anno fa Claudio Tedesco sul Sole 24 ore Sport raccontava di un’esperienza svolta nel Lazio, dove il settore giovanile della Figc si era voluto ispirare alla lealtà del Rugby inserendo poche ma significative “regole e procedure giudicate rivoluzionarie” (vedi secondo riquadro). Se la competizione abbia o meno intrinsecamente valori educativi, se le classifiche siano di “detrimento” allo sviluppo dell’atleta o se la competizione porti solo un’ossessione al risultato, non crediamo dipenda dall’agon in quanto tale. Il punto è dove si fa cadere l’accento:“Focus on performance or focus on man”? Attenzione al risultato o attenzione all’atleta che lavora, si allena e “produce” quel risultato? Al fine di inoltrarci su questi aspetti ed in particolare su questa domanda tanto cara a Gianmario Missaglia (2002) prendiamo spunto da una conferenza sul valore educativo della competizione svoltasi ad Imola qualche tempo fa.
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Se vuoi sapere quanto buio hai intorno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane. Italo Calvino Le città invisibili
Le padronanze trasversali dell’allenatore
La comune percezione del mestiere di allenare Siamo un paese di poeti, navigatori, santi …e allenatori. Siamo una nazione di 60 milioni di abitanti ed è per questo che possiamo considerare una quarantina di milioni di tecnici, allenatori, istruttori, preparatori atletici. Ciascuno di noi rispetto ad un qualunque allenatore o commissario tecnico avrebbe comunque fatto diversamente e, soprattutto, meglio. Ognuno di noi si sente nelle condizioni di entrare nel merito, di interferire con le scelte, di dare consigli, ma soprattutto di giudicare spietatamente il lavoro degli altri. Lo sport è terreno di tutti e, proprio per questo, terra di nessuno. Tre casi a scopo esemplificativo.
Il “portiere” di Udine Il contesto è quello di un seminario sulle attività motorie, come spesso accade, l’ambiente è quello di un hotel. I temi affrontati riguardano in particolare la relazione fra educazione e sport. Le professionalità a confronto sono specifiche e diversificate: laureati in Scienze Motorie, pedagogisti, psicologi. Dopo le relazioni di apertura iniziano i lavori di gruppo; l’argomento che ci interessa è quello che affronta il tema della terminologia nelle attività motorie e, ancor più nello specifico, nello sport. Ci troviamo con alcuni esperti ed iniziamo i nostri lavori in una piccola saletta aperta, il che rende la discussione del gruppo pubblica. Nell’ambiente si diffondono le domande, le risposte, il confronto: • si
può ancora utilizzare il termine istruttore? ha un ruolo educativo? • il termine “tecnico” è di fatto esaustivo di un ruolo? • quali competenze, quali padronanze, per quale ruolo? • con il termine “sport “ si può intendere l’intero universo delle attività motorie? • vi può essere un sottile filo culturale che lega il ruolo dell’allenatore ai metodi didattici che egli stesso utilizza? E al termine che utilizziamo per individuarne le mansioni? Allenatore, tecnico, istruttore, formatore? • quali termini, dunque, per indicare chi e che cosa? • l’allenatore
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davi-risaliti Se lasciate il Soggetto nella Vostra teoria, non avete ancora cominciato. Daniel C. Dennet Noi pensiamo che la Scienza del movimento umano non progredirà veramente che nella misura in cui essa sarà al contempo teorica e pratica. Il ricercatore dovrà essere capace non soltanto di formulare le sue ipotesi, ma ancora di confrontarle con la pratica al fine di andare più lontano nella formalizzazione. Jean Le Boulch
Passaggio Il “passaggio” è un fondamentale d’attacco in diverse discipline sportive. Infatti, per spingere la palla avanti si hanno due possibilità: palla vicino al corpo (piede, mano o oggetto mediatore) o palla lontano dal corpo. Il passaggio è dunque quell’elemento tecnico che consente di verticalizzare rapidamente il gioco oppure di velocizzare la circolazione di palla per mettere in difficoltà una difesa, basato su una azione in sincronia, combinata fra due o più attaccanti. Sarebbe normale in un libro che si occupa di attività motoria e sportiva fare riferimento al “passaggio”. Ma, con lo stesso termine, viene inteso anche lo spostamento di un oggetto (consistente passaggio di automobili) o di una persona (intenso passaggio di turisti) da un posto ad un altro. Oppure, facendo nuovamente ricorso allo Zanichelli “un cambiamento, un mutamento da una condizione a un'altra: il passaggio dal caldo al freddo, dal giorno alla notte, dalla primavera all'estate…” o dalla teoria alla pratica; punto, momento, fase di passaggio. O ancora “brano o passo di un testo, di un autore…”; nonché “insieme di ornamenti improvvisati durante l'esecuzione di una forma sonata; la transizione tra primo e secondo tema; un brano affidato a un gruppo di strumentisti: passaggio di violini...”. È proprio il passaggio dalla teoria alla pratica che si vuole significare in questo contesto nel considerare un mutamento di condizione. Ci rifacciamo, dunque, più alla lingua italiana che non al gergo tecnico sportivo. Rendendo omaggio al pensiero di Dennet e di Le Boulch, abbiamo indirizzato questo capitolo alla descrizione di buone pratiche, coerenti con quanto fino ad ora evidenziato e fedeli nei significati con i concetti espressi nei capitoli precedenti. Con l’intenzione di essere più illustrativi che esaustivi, ci avventuriamo nella descrizione di percorsi didattici al fine di fornire anche alcuni strumenti di lavoro pratici e concreti già sperimentati. Le varie proposte non vanno lette come rigide sequenze di esercizi applicabili ad una sola e specifica disciplina (anche se le proposte sono “in disciplina”), in quanto verrebbe meno la caratteristica situazionale della destinazione “gioco”. Nel “tutto” ogni singola attività va utilizzata se ritenuta utile a risolvere quel particolare problema ad essa collegata, insomma, essendo il Pensiero Laterale, il gioco didattico, il Tranfert di apprendimento e via di seguito… utilizzati con finalità funzionali e non estetiche, va sempre tenuto conto del contesto al quale ogni singola proposta risulta connessa.
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Che c’è fuori dalla Maremma? Se non ci si va… e non lo s’impara. Paolo Hendel
A questo punto verrebbe da sedersi sul divano per osservare rilassati e da lontano (quasi in terza persona) il materiale appena sfornato, ma la nostra attenzione ritorna al quarto capitolo e in particolare al paragrafo “La sedia e il gruppo di sedie, ovvero l’interconnessione fra concetti già interconnessi”. Con la nostra lama sottile abbiamo aperto una piccola finestra sul mondo dei neuroni specchio; la scoperta di questa tipologia di neuroni ci dà la possibilità di comprendere quale reazione “speculare” viene attivata a livello neurale (corteccia motoria in particolare) fra un osservatore ed un attore nel momento in cui l’attore sviluppa un atto. Proviamo ad immaginare un bambino che per la prima volta osserva un altro soggetto nell’atto di afferrare una palla. Nelle sue aree motorie vengono attivati gruppi di neuroni (specchio) che predispongono schemi motori che contengono la possibilità di coordinare aree visive e sequenze muscolari per un movimento che quel bambino non ha mai fatto. Da quel momento in poi però egli sarà in grado di riconoscere il senso di quell’atto perché presente nel proprio “vocabolario di atti” (Rizzolatti, Sinigallia, 2006). Atti e non più semplicemente movimenti. Infatti, “la maggior parte dei neuroni in area F5 (area motoria) non codifica singoli movimenti, bensì atti motori, cioè movimenti coordinati da un fine specifico (e in un contesto, aggiungiamo noi). […] Noi non ci limitiamo a muovere le braccia, mani e bocca, ma raggiungiamo, afferriamo o mordiamo qualcosa. È in questi atti e non meri movimenti, che prende corpo la nostra esperienza dell’ambiente che ci circonda e che le cose assumono per noi immediatamente significato. Lo stesso rigido confine tra processi percettivi, cognitivi e motori finisce per rivelarsi in gran parte artificioso: non solo la percezione appare immersa nella dinamica dell’azione, risultando più articolata e composita di come in passato è stata pensata, ma il cervello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende.” (Rizzolatti, Sinigallia, op.cit.). Se ricordiamo bene, gli stessi rimandi ai lavori di Le Boulch contenevano riferimenti agli atti “intendendo la struttura generale di una azione” ( Le Boulch, op. cit.) e Le Boulch non disponeva di strumenti diagnostici sofisticati.
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