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CAMMINARE significa viaggiare, spostarsi da un luogo a un altro. Significa anche progredire, migliorare, svilupparsi, innovare. The Walking Society è una comunità virtuale aperta a chiunque e a background sociali, culturali, economici e geografici eterogenei. A livello individuale e collettivo, promuove l’immaginazione e l’energia, apportando idee e soluzioni utili e positive per migliorare il mondo. In modo semplice e onesto. CAMPER significa contadino. L’austerità, la semplicità e la prudenza del mondo rurale si fondono con la storia, la cultura e i paesaggi del Mediterraneo, influenzando l’estetica e i valori del marchio. Il nostro rispetto per la tradizione, le arti e l’artigianato è il valore su cui poggia la nostra promessa: offrire prodotti utili, originali e di qualità, che promuovano la diversità, con la forte intenzione di svilupparli e migliorarli attraverso l’innovazione, la tecnica e l’estetica. Puntiamo a un approccio più culturale e umano all’attività imprenditoriale. La SICILIA, di tutto il Mediterraneo, è l'isola più grande. Separata dalla Penisola italiana da un sottile lembo di mare – lo Stretto di Messina – ha in realtà una peculiare identità isolana. È un ponte tra l'Europa e il mondo al di sotto, l'Africa e il Medio Oriente. Da sempre un laboratorio di cultura, meticciato e nuove identità. La rivista THE WALKING SOCIETY contiene parole e immagini nate da persone e paesaggi che appartengono a questa comunità virtuale, che aiutano il mondo a evolversi e mutare. Il tema del nostro primo numero, uscito nel 2001, era l’isola di Maiorca, il luogo d’origine di Camper. La serie originale, che ha raccontato diverse regioni del Mediterraneo, è durata quattro anni e otto numeri, chiudendo i battenti nel 2005. Questo decimo numero non costituisce solo un viaggio nella più grande isola del Mediterraneo, ma anche nell’identità europea, che in quest’area è stata plasmata secolo dopo secolo, dai Greci, dai Romani, dai Califfati musulmani, dai Normanni. The Walking Society è un omaggio a uno degli attori protagonisti della civiltà occidentale: il Mediterraneo. WALK, DON’T RUN. 3
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Franco è un “maestro d’ascia”: un termine che indica chi costruiva, anticamente, barche di legno interamente a mano, tagliando il tronco in diverse sagome che avranno, nello scafo, diverse funzioni.
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Sicilia Dalla costa più meridionale della Sicilia, fino alle prime rocce della Tunisia, ci sono appena 140 chilometri. In automobile, ci si metterebbe un’ora o poco più. Navigando, i tempi sono più lunghi, ma l’Africa, per la Sicilia, è sempre stata una vicina di casa importante tanto quanto l’Europa. È l’isola più grande di tutto il Mediterraneo, e potrebbe esserne, senza troppi sforzi, un’immaginaria capitale. 7
Per secoli, da qui sono passati in molti: prima i Fenici, dal Medio Oriente, 800 anni prima dell'anno Zero. Poi fu la volta dei Cartaginesi, dalle coste del Nord Africa. In seguito si stabilirono in Sicilia i Greci, i Romani, e i Bizantini. Dall'ottavo secolo iniziò l'occupazione musulmana, seguita da quella dei Normanni. Poi la Sicilia diventò un regno a sé, e infine Italia. Nessun luogo in Europa ha subìto così tante stratificazioni culturali, e d’altra parte nessun luogo in Europa è particolare come la Sicilia, con chiese che un tempo sono state moschee, teatri della Magna Grecia che ancora ospitano commedie e tragedie, ricette con echi mediorientali e una lingua che, nell’alfabeto, porta ancora i segni di questi domìni. Il tempo della Sicilia scorre tenendo per mano il passato. È per questo che le tradizioni religiose, qui, sono ancora così pittoresche e sentite, ed è per questo che il rapporto con il territorio e 8
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La popolazione in Sicilia sta crescendo: fino rendendola 1900 non superava i 3 milioni di abitanti, ma nel 2010 ha oltrepassato i 5 milioni, diventando la più “giovane” regione italiana.
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Da queste terre, nei secoli, passarono innumerevoli popolazioni: greci e romani, ma anche vandali, ostrogoti, bizantini e musulmani, che lasciarono le basi per la fioritura dell'isola nell'anno Mille.
La Sicilia, sotto il dominio islamico, godette di un periodo di lunga prosperità: furono introdotte innovazioni nell'agricoltura, la rotazione delle coltivazioni, e le città si espansero enormemente.
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Diego è il comandante di una barca a vela di 24 metri. In estate naviga tra la Sicilia e le Eolie, arrivando fino alle coste della Liguria. Stare in mare, dice, è la cosa che preferisce.
RICETTE E FESTIVITÀ p.50 Ogni occasione, in Sicilia, ha una ricetta dedicata: ne abbiamo scelte 20.
IGOR SCALISI PALMINTERI p.64 L’artista e pittore che ravviva i muri di Palermo con i santi tipici dell’isola.
la natura, anche per chi nasce e cresce in città, è più forte che in molti altri luoghi europei. È questo, sempre, che causa contraddizioni culturali, sociali e politiche, ma forse è in questa ricchezza che si potrebbe scavare per costruire una nuova identità non soltanto europea, ma fortemente mediterranea, capace di unire tre continenti – Europa, Africa e Asia – in un’unica sintesi.
PORTICELLO p.18 La tradizione della pesca siciliana vista da un borgo di pescatori nei pressi di Palermo.
FABRIZIA LANZA p.38 Una scuola di cucina al centro dell’isola, per preservare e comunicare la cucina siciliana.
Anche la geografia particolare forma il carattere siciliano: se il mare è un elemento fondamentale lungo tutta la sua storia, sia come opportunità che come punto debole, unione e frontiera, e i mercati del pesce sono ancora oggi tra i più variopinti del Continente, la Sicilia ha anche un’anima terrestre molto legata alla montagna e al suo entroterra. È un territorio fatto di rilievi collinari e montuosi frequenti, e anche altissimi: già dal centro dell’isola, nelle giornate più chiare, si può distinguere all’orizzonte nord13
ANTICHI TEATRI GRECI p.84 La storia della Sicilia nei teatri greci di migliaia di anni fa, ancora oggi in uso.
ALESSANDRO VIOLA p.90 Nella Sicilia occidentale, un produttore di vino naturale vuole valorizzare il territorio. ANIMALI SICILIANI p.100 Le specie di animali che vivono soltanto qui, illustrate da Michele Papetti.
MONCADA RANGEL p.118 Una coppia di architetti che ha scelto Siracusa come punto di arrivo e di partenza.
orientale il profilo di quasi 3400 metri dell’Etna, il vulcano attivo più alto d’Europa, sempre innevato durante gli inverni. Le montagne coprono un quarto del territorio siciliano, ben più delle pianure, anche se non quanto le colline, su cui crescono ettari ed ettari di grano che, in estate, ricoprono l’isola con un mantello dorato. Nello spazio di un triangolo di terra, è contenuto un intero continente.
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Il cibo è una parte fondamentale della vita in Sicilia, e ogni città ha i suoi quartieri adibiti ai mercati: solo a Palermo ce ne sono quattro, tutti storici. Vucciria, Capo, Borgo Vecchio e Ballarò.
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Si parte sempre dal mare: è da qui che si arriva, e da qui – è il codice di regole che accomuna il destino di ogni isola – si salperà di nuovo. A differenza che in altre isole del Mediterraneo come la Sardegna o la Corsica, le cui culture sono più legate alle tradizioni dell’entroterra e delle montagne anziché a quelle del mare, in Sicilia la pesca è da sempre, e ancora oggi, una colonna fondamentale della vita dell’economia
Porticello isolana. Nessuna regione italiana, d'altra parte, possiede una flotta di pescherecci ampia come quella siciliana, sia per numero di imbarcazioni, sia di capacità totale. Lasciando Palermo per dirigersi verso Est, si incontra dopo poco uno dei numerosi promontori delle coste settentrionali dell’isola: è Capo Zafferano, una piccola altura che si 18
La pesca, in Sicilia, è una colonna fondamentale dell'economia: in nessuna regione italiana riveste un'importanza simile.
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La Sicilia è la prima regione, in Italia, per quantità di pesci catturati, per consistenza della flotta, e numero di pescatori impiegati.
Il prodotto forse più celebre, molto diffuso nella zona di Messina, è il pesce spada: è il protagonista di molte ricette tipiche dell’isola, dalla pasta ai tranci.
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La pesca siciliana è estremamente eterogenea: la specie più pescata è l'acciuga, ma sono abbondanti anche sardine, triglie, pesci spada, alalunga, tonno rosso e naselli.
protende su acque turchesi. A pochi passi da qui, per secoli e fino al 1961, si trovava un’antica tonnara, la cui attività ha fatto sì che la zona venisse abitata, e nuovi paesi fossero fondati. Uno di questi è Porticello: un borgo di pescatori e costruttori di barche, nato e cresciuto in simbiosi con il mare. Al mattino la baia è silenziosa: nel laboratorio di Franco è quasi terminata la costruzione di un nuovo gozzo di oltre 7 metri, e i suoni gracchianti delle seghe e delle pialle all’opera sul legno si mischiano ai richiami dei gabbiani poco lontano. Costruire una barca di questo tipo è un lavoro di circa tre mesi. Sono imbarcazioni sempre più rare, che soffrono la concorrenza di materiali come la vetroresina. Artigiani così, oggi, lavorano perlopiù sulle riparazioni. I vantaggi di una barca di legno sono però evidenti, racconta Franco: la barca è pesante, e quindi stabile. E naturalmente longeva: con la giusta manutenzione, può sfiorare il secolo di vita. 25
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La tipica imbarcazione da pesca siciliana è detta "paranza": pesca con una rete a forma di sacco, e si muove a velocità ridotta, in modo che la "bocca" possa inghiottire piccoli pesci.
I pescatori seguono ancora certe antiche tradizioni: decorano, per esempio, la prua delle barche con due occhi, allo scopo di “vedere” meglio i pericoli della navigazione in mare.
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Le persone iniziano ad arrivare dopo pranzo, intorno alle 3. È l’ora in cui tornano in porto le paranze, che erano uscite in mare esattamente 12 ore prima, 3 ore dopo mezzanotte. Si chiama paranza, in Sicilia, un particolare tipo di rete per la pesca, tradizionale da queste parti: è fatta come un sacco, e inghiottisce pesci, molluschi e crostacei mentre la barca procede a velocità di crociera per alcune ore. I pescatori hanno ancora addosso le tute cerate blu e arancioni che li fanno sembrare dei supereroi di qualche tipo mentre preparano le cassette con il pesce appena pescato da vendere direttamente sul molo. I compratori arrivano in macchina, a piedi o in motorino. Ci sono merluzzi, gamberi bianchi, sauri, mostelle, anche qualche totano. I bambini, tra una barca e l’altra, con piccole canne da pesca artigianali giocano a imitare i pescatori. Le montagne, qui, salgono verticali subito alle spalle della costa, e il sole ci si nasconde dietro già a metà pomeriggio. 28
Lasciando il porto per guidare verso l’entroterra, la campagna inizia all’improvviso, e senza tentennamenti. Il territorio si fa collinare, con montagne che salgono fino a 1500 metri sul livello del mare. Guidando verso Caltanissetta, nel cuore della Sicilia, le onde marine sono sostituite da quelle dei colli. Si va verso un’altra Sicilia, complementare a quella vista poco fa: la Sicilia della terra, dei formaggi, del pane. Delle tradizioni rurali, della pastorizia, degli inverni freddi.
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Lasciandosi il mare alle spalle e spostandosi verso sud-est ci avviciniamo al cuore dell’isola, meno conosciuto dal turismo. Qui, tra Palermo e Caltanissetta, le alture sembrano ricoperte di diversi tipi di velluto. È il grano, che copre chilometri e chilometri, e cresce sicuro, nonostante il sole che sa bruciare. Qui è campagna, ma anche montagna: a bordo strada crescono rovi, e poi ulivi, e cardi, e perfino conifere. Qui, in cima a una collina, 38
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c’è anche la scuola di cucina di Fabrizia Lanza, in un edificio del colore del grano con le imposte blu a ricordare la Provenza. Fu fondata da Anna Tasca Lanza, madre di Fabrizia, nel 1989, ma le radici della famiglia affondano in questa terra da generazioni.
Siamo lontani dal mare, ma non si può fare a meno di notare quanto grano circondi questa scuola di cucina, davvero immersa in un mare dorato. Siamo nel centro della Sicilia, siamo equidistanti da Palermo e Catania, più o meno. Questo territorio era la terra del latifondo, dai tempi più antichi. Latifondo vuol dire enormi appezzamenti di terreno in mano a un solo proprietario, e anche dal punto di vista paesaggistico, effettivamente, qui intorno non c'è una casa, non c'è più un albero. Soltanto enormi estensioni di terra fondamentalmente coltivate a grano. Il grano in Sicilia è una coltura abbastanza comoda, per così dire, se hai molte persone alle tue dipendenze: lo semini una volta, lo raccogli una volta, però non è una coltura sulla quale mettere troppa attenzione, non c'è da potare, non c'è da bagnare, e via dicendo. Per cui, la coltura cerealicola qui ha sempre avuto la meglio, in questa struttura latifondista. E poi il grano
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valeva. Quindi questo territorio è fatto di tante masserie come questa qui, che sono delle case padronali ma anche molto funzionali: non siamo nell'ambito della villa veneta palladiana, dove c'è una bellezza imprescindibile. Questi sono dei fortini: la sera si chiude la porta, e chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Qual è il tuo rapporto tra la vocazione internazionale – gli studenti sono quasi tutti nordamericani – e il territorio? Per me è sempre stato una gioia e un cruccio allo stesso tempo. Non c'è dubbio che, un po’, io ho facilitato agli stranieri i nostri contenuti. Però mi sono sempre chiesta che cosa, di questa operazione volta verso l'esterno, rimanesse qua. Penso che la scuola con i suoi standard, con la sua pratica, da tutti i punti di vista, sia quello dell’ospitalità che quello del cibo, della ricerca sul cibo, della qualità degli ingredienti,
“La definizione di tradizione mi sta molto stretta. Non credo esista una vera tradizione. Cucinare per me è semplicemente una relazione: è la costruzione di un percorso affettivo, diplomatico, anche politico, attraverso un mezzo. Tutto quello che io ricerco, e guardo, è un percorso antropologico. Le ricette sono noiose”.
dell’attenzione alla coltivazione, tutto questo, sia stata una trasfusione di know-how, di attenzione, che la gente del luogo ha percepito. Quindi io sul mio territorio indubbiamente ho segnato un modus operandi. Per esempio: noi d'estate facciamo l'estratto di pomodoro, questa pratica meravigliosa, e a un certo punto, nei miei tanti tentativi, avevo deciso di vendere l'estratto, perché è un prodotto fantastico, e nessuno lo conosce. Ma non sono una brava venditrice, e ho capito che non era quella la mia strada. Allora ho preferito mantenere questa pratica, e venderla tra virgolette come esperienza e come workshop agli studenti stranieri. In questo modo ottenevo due cose: per prima cosa, un'adesione sempre più concreta a un modello di turismo partecipativo, in cui le persone non sono qua e ricevono passivamente informazioni, ma sono parte nella custodia di un patrimonio immateriale, al quale io tengo
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molto. Seconda cosa, che le ragazze siciliane di qui, di Vallelunga e di Valledolmo, che hanno sempre fatto queste operazioni con me, vedendo l'interesse e la luce negli occhi degli stranieri, hanno rivalutato loro stesse questa pratica. Ho riqualificato in un certo senso una pratica che qui danno per scontata, un agire che davano per scontato. Questa è stata la mia cosa fondamentale. Hai dovuto riscoprire le radici siciliane, o nonostante tutto le hai sempre sentite? No, le mie radici ci sono sempre state, diciamo che come sempre con i posti forti e i legami forti, per staccarti devi usare una certa violenza. Io sono andata via a 18 anni, e quando sono tornata tutto quello che avevo vissuto qui mi è tornato addosso come una valanga. Allora mi sono anche resa conto della violenza dello strappo che avevo dovuto attuare.
Quando è arrivato il richiamo della Sicilia? Io stavo lavorando come storica dell’arte, mia madre si occupava della scuola. Sono tornata qui nel 2000, e da un’impresa abbastanza amatoriale, quella che aveva fatto mia madre, ho cercato di trasformarla in un progetto più strutturato. La scuola è adesso aperta tutto l’anno, e si divide in una parte di ospitalità e una parte di formazione. Questa si chiama Cooked the Farm, è un corso di due mesi a numero chiuso, per un massimo di 14 studenti, in cui vengono persone da tutto il mondo con un percorso curricolare piuttosto rigoroso, da lunedì e venerdì, dalle 9 alle 4 del pomeriggio, tutto sul rapporto tra cucina e agricoltura. Affrontiamo ogni argomento mantenendo, al centro, sempre il tema dell’agricoltura, della produzione: la terra, i mulini, come si trasforma il grano... Poi si lavora in cucina. Di cibo non si può parlare soltanto da una cattedra. L’obiettivo è creare consapevolezza. La cucina che insegni è da un lato salvaguardia e conservazione del passato, ma riesci anche a proiettarla nel futuro? Per me la cucina è relazione. La definizione di tradizione mi sta molto stretta. Non credo esista una vera tradizione: certo, mia madre faceva delle cose che mi piacevano, ma nel momento in cui le faccio io saranno per forza diverse. E saranno diverse anche a seconda degli ospiti per cui le faccio. Quindi la cucina per me è solo relazione. È la costruzione di un percorso affettivo, diplomatico, anche politico, attraverso un mezzo.
Tutto quello che io ricerco, e guardo, è un percorso antropologico. Le ricette sono noiose. Può essere uno strumento per aggiornare il passato, e aiutarlo a evolvere nel presente. Per esempio, poco tempo fa abbiamo ritrovato un ricettario dello chef che per anni ha vissuto con la nostra famiglia, che si è occupato del mio matrimonio, che ha lavorato con i miei nonni per decenni. Era un ricettario della cucina “monsù”, che deriva da “monsieur”. Questa cucina è lo specchio di una cultura fantastica, che unisce la cucina francese all’eccentricità siciliana. L’abbiamo testato, e con nostra grande sorpresa la maggior parte delle ricette erano buonissime. Una sorta di conservazione, che però rimanga dinamica. Per questo ho fondato anche una NGO dedicata alla ricerca sul cibo: si chiama Food Heritage Association, ed è nata nel 2019. Voglio che sia un laboratorio alimentare, per sistematizzare la cultura alimentare siciliana e mediterranea, e quindi promuoverla e farla girare per il mondo.
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Ti preoccupi anche di quello che lascerai?
Studiando il cibo e studiando la natura, quanti altri saperi si imparano? Tutto: impari i gesti, impari i ritmi, impari le stagioni... Io qui sono in un contesto molto agricolo, ho imparato tutto rispetto a quello che produce la terra, a come si trasforma, a tutto quello che viene prima del cibo. E poi naturalmente la psicologia, gli affetti, le cose di cui più hai bisogno, ma anche quelle di cui puoi fare a meno. Se invece ti poni degli obiettivi, o dei sogni, quali sono questi orizzonti? Ultimamente mi piacerebbe avere una voce politica. Perché è solo lì che si può fare un cambiamento. Naturalmente lo dico sottovoce, perché mi fa paura. Ci vado molto piano perché questo è un territorio molto difficile, e so che non mi devo montare la testa.
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Su questo sono abbastanza tranquilla. Vorrei che cambiassero certe cose. Durante il lockdown, la cosa che più mi ha preoccupato è stato il pensiero che si potesse tornare esattamente come prima. Le persone si sono molto allontanate dalla politica, per vari motivi. Però la politica è importante, non è un accessorio, nella vita democratica. Ecco, io che non ho mai fatto politica in vita mia, che sono sempre stata per i fatti miei, se ci riesco, se mi danno l'opportunità, e se le condizioni lo permettono, mi piacerebbe dire la mia, e cercare di cambiare un po' le cose. Dal basso, partendo dal lavoro.
Ricette e festività
Abbiamo visto quanto il cibo sia importante nella vita quotidiana in Sicilia: mentre la sua produzione misura le stagioni, la sua lavorazione e il suo consumo sono momenti fondamentali delle giornate. Ma è un elemento centrale anche della profonda spiritualità dell’isola. 50
Minne di Sant'Agata
Virgineddi di Torretta
Pignoccata
Cassata
3 - 5 febbraio Sant'Agata Catania
19 Marzo San Giuseppe Torretta
Periodo di carnevale Modica
Periodo pasquale In tutta la Sicilia
Sfincia
Panareddu
19 Marzo San Giuseppe Palermo
Periodo pasquale In tutta la Sicilia
La forte identità dei diversi comuni della Sicilia, unita alle feste religiose che da secoli scandiscono la vita di questi stessi comuni, originano così una sorta di calendario gastronomico: esiste, praticamente per ogni celebrazione, una ricetta speciale, che si cucina per l’occasione. 53
Turciniuna Ragusani
Babbaluci
Pastieri Modicani
Iado co cinu
Nzuddi
Frutta di Martorana
Periodo pasquale Ragusa
Periodo pasquale Modica
3 giugno Messina
Pane di San Calogero
1a settimana di luglio Agrigento
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15 luglio Santa Rosalia Palermo
29 agosto Ragusa
2 novembre Palermo
Ossi di Morto 2 novembre In tutta la Sicilia
Muffulette di San Martino
Sfuogghiu Ragusano
Cuccìa
Giurgiulena
Liatina
Buccellato
11 novembre In tutta la Sicilia
13 dicembre Palermo, Siracusa
25 dicembre In tutta la Sicilia
25 dicembre Ragusa
25 dicembre In tutta la Sicilia
25 dicembre Palermo
Il giorno di San Giuseppe, il 19 marzo, a Salemi vi è la tradizione di creare sculture fatte di vero pane. Solitamente rappresentano simboli della tradizione cristiana, ma lasciano anche ampio spazio all'immaginario pagano propiziatorio: galli e pavoni, bastoncini fioriti, rose e gigli. 57
La Sicilia è la regione più soleggiata d'Europa: in nessun'altra zona del continente il sole splende, in media, così a lungo ogni giorno, dalla costa fino all'entroterra.
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La venerazione per i santi patroni cittadini, in Sicilia, è però anche qualcosa che trascende la religione, diventando anche tradizione laica, simbologia e costume. Sono tre, in particolare, i più famosi tra gli autoctoni: Santa Rosalia, nativa di Palermo; Sant’Agata, di Catania; e Santa Lucia, di Siracusa. C’è un altro santo siciliano, tuttavia, dalla storia particolare, e che riassume bene in se stesso la particolare storia multiculturale siciliana: San Benedetto “Il Moro”. Nacque a Messina, nella punta più orientale dell’isola, in una famiglia di schiavi originari dell'Africa, probabilmente dell'Etiopia. Si legò, in vita, alla città di Palermo, dove visse come monaco per vent'anni. Oggi è il patrono cittadino, in coabitazione con Santa Rosalia. Il suo ritratto, alto diversi metri, sorveglia un campo da calcio di Ballarò, nel centro storico della città. È stato dipinto dall’artista e pittore, un tempo monaco francescano, Igor Scalisi Palminteri.
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Igor Scalisi Palminteri sta dipingendo un muro dell’Albergheria, uno dei quartieri più antichi di Palermo, a pochi passi dal mercato di Ballarò, con l’immagine di Santa Rosalia sdraiata, estatica, circondata da gigli. Igor è un artista, un pittore che si dedica spesso ai muri di Palermo.
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E a Palermo, e soprattutto all’Albergheria, è tornato dopo una vita rara, che non si incontrano spesso: sette anni in convento, da frate, prima di uscire per tornare qui, per dedicarsi allo studio della pittura, a crescere il figlio che voleva. Oggi il suo impegno si divide tra la spiritualità e l’attività con i bambini: dipinge i muri di Palermo, ma organizza anche laboratori artistici con le scuole della città. Per Igor è sempre arte, e sono sempre santi: santi diversi da quelli irraggiungibili del dogma. Santi della strada, santi utili, santi come metafore.
Hai dipinto santi per tutta Palermo, santi che dai muri guardano le piazze dove giocano i bambini, le strade dove passano le auto, le persone, la vita. È un tipo di street art molto particolare. Preferisco chiamarli “muri di strada”: è una parola che ho coniato alcuni anni fa, durante un intervento in cui insieme ad altri artisti di Palermo abbiamo dipinto cinque muri del quartiere Ballarò. E poi io sono più legato alla tradizione della tela, di una superficie che ha un limite. Questo tipo di pittura, che da artista doni agli occhi delle persone, è sempre una scommessa.
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Sono dipinti che definiscono molto l’identità di un quartiere, come questa Santa Rosalia. Hanno una funzione anche comunitaria? Sempre. Questo muro che sto dipingendo, nasce da un desiderio: dipingere qui Santa Rosalia così che non ci buttino più la spazzatura davanti. E l’hanno voluto persone del posto. C'è questo amore per la propria terra a partire dal proprio quartiere, anzi dal proprio marciapiede. Il legame con la spiritualità per te arriva da lontano. Cosa avevi in mente quando sei entrato in convento, e
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cosa ti è rimasto in mano quando sei uscito? Mi è rimasto in mano tutto. Tutta la mia ricerca pittorica è intrisa della ricerca spirituale che io ho vissuto dai 20 ai 27 anni. Spesso definiscono la mia pittura in bilico tra il sacro e il profano, ma per me non c'è niente di più sbagliato. La mia pittura è spirituale: racconta del mio spirito, dello spirito delle persone, dello spirito sacro che c'è nel mondo. Della voglia di astrarsi dalla materia o dalla contingenza, pur continuando a poggiare i piedi nel fango. Quando sono entrato in convento... io mi ero innamorato di San Francesco come ci si innamora di una ragazza, o di un ragazzo. Mi sono innamorato di San Francesco nel senso che avevo proprio una cotta nei suoi confronti. E la cosa che più mi ha appassionato non è stata la povertà, la cosa per cui è più famoso, ma il senso di fraternità che lui aveva creato con i suoi frati. La forza rivoluzionaria di San Francesco non è la comunione con le creature, quello lo è, naturalmente, ma lo ritroviamo in molti altri santi e
anche nel mondo non religioso. San Francesco non parlava soltanto agli uccellini: parlava alle persone. E aveva dentro questo fuoco, questa idea di poter fare le cose insieme. Questo mi ha fatto innamorare e mi ha fatto approdare ai frati. Poi, una volta uscito, quali sono stati i tuoi passi? Il passaggio è stato questo: sono uscito perché volevo un figlio. E ho continuato il mio lavoro con i minori, i bambini, che facevo anche da frate, e anzi da prima ancora: io ho cominciato a fare volontariato a 15 anni nel quartiere della Zisa, una delle zone più depresse della città, nella borgata di Danisinni, dove ci sono anche un paio di miei dipinti. Uscire è stato un passaggio difficile? Difficilissimo: ti senti un fallimento, come una separazione. Però oggi mi sento al mio posto. E quindi ho cominciato di nuovo a lavorare per strada con i minori a rischio di esclusione sociale, con il carcere
“Tutta la mia ricerca pittorica è intrisa della ricerca spirituale che io ho vissuto dai 20 ai 27 anni. Racconta del mio spirito, dello spirito delle persone, dello spirito sacro che c'è nel mondo. Della voglia di astrarsi dalla materia o dalla contingenza, pur continuando a poggiare i piedi nel fango". 70
minorile di Palermo, ed è come se in qualche modo fossi attratto da questo mio bambino interiore che soffre e continua a soffrire, e che ha bisogno di essere consolato, accudito. Come sono cambiate, tornandoci, le strade di Palermo? Istintivamente mi verrebbe da dirti: sono cambiate poco. Ma non è vero. Palermo ha fatto dei passi meravigliosi. Nonostante siano passi lenti. Palermo è lenta, è come una grande tartaruga. Come una tartaruga, ha una casa solida sulle spalle ma è lenta in questo suo percorso. E in questi tanti anni che ho vissuto a Palermo, andando via quando ero frate, e poi tornando, ho visto Palermo trasformarsi sotto i miei occhi, mi sono sentito per la mia parte partecipe di questo cambiamento, e oggi ancora di più perché coloro le strade, e quindi io mi sento perfettamente inserito in questo lento cambiamento. Palermo è migliorata, Palermo è più bella, è più sana. Ma allo stesso tempo Palermo ha bisogno di più cura, più attenzione. Più cura per le strade, per i luoghi, ma ancora di più i suoi cittadini. Palermo è da sempre una città multiculturale. Come cambia la sua identità anche in questo senso? I bambini che vivono in questo quartiere frequentano una scuola media che sta su via Maqueda, uno degli assi principali della città. In questa scuola ho fatto un laboratorio tre anni fa, con una classe, una seconda media, in cui c'erano soltanto tre bambine palermitane, e tutto il resto veniva da tutte le altre parti
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del mondo. Certo, questo comporta che gli equilibri siano spesso precari: l’integrazione è sempre una fatica, una lotta. Ma il fatto di essere porto, di essere una città al confine, eppure al centro del Mediterraneo, in qualche modo forza la mano, e quindi la ricchezza di Palermo è che abbiamo la fortuna di poterci confrontare con persone e con culture diverse. Noi siamo intrisi di questi colori: il fatto che noi stessi siamo figli di normanni, di arabi, di africani, di francesi, di spagnoli. Dove sono invece i confini del tuo lavoro, tra l’impegno con i bambini e la tua arte personale? Fino a 5 anni fa pensavo di avere due lavori: quello relativo ai miei quadri, che dipingevo e vendevo, e poi il lavoro nelle associazioni, nel territorio, e che era la mia passione. Li tenevo un po' a compartimenti stagni. Oggi questo confine è abbattuto: se io dipingo un muro con i bambini o lo dipingo da solo, gli do lo stesso valore e la stessa importanza, ci metto lo stesso impegno. E lo sento mio come quando dipingo una tela nel mio studio. Questa è stata una maturazione per me, un passaggio molto positivo. Lo devo ai bambini, non è retorica. I bambini e le bambine con cui ho lavorato sono stati inconsapevolmente preziosi per farmi comprendere la mia identità, di uomo e di artista e di pittore. Mi hanno liberato dalla necessità che dovevo soddisfare qualcuno o qualcosa. La loro spontaneità nel dipingere, nell'approcciare le cose, mi ha liberato da ogni ansia da prestazione. I santi sono protagonisti di tanti tuoi
“Palermo ha fatto dei passi meravigliosi. Nonostante siano passi lenti. Palermo è lenta, è come una grande tartaruga. Come una tartaruga, ha una casa solida sulle spalle ma è lenta in questo suo percorso. E in questi tanti anni che ho vissuto a Palermo, andando via quando ero frate, e poi tornando, ho visto Palermo trasformarsi sotto i miei occhi”.
dipinti. Ma li dipingi come uomini o come simboli? I miei dipinti non sono religiosi: sono politici. Io sono stato anche blasfemo, un tempo, inconsapevolmente. Una volta ho fatto una serie di statuette con i santi vestiti da supereroi. Queste statuette le ho vendute ovunque, in America Latina, in Portogallo, in Brasile, negli Stati Uniti... Erano i santi della tradizione cattolica, che trovavo nei mercati, e poi travestivo. Santa Rosalia da Wonder Woman, Sant'Antonio da Batman, Gesù da Spiderman... Perché nella nostra cultura il santo a un certo punto è diventato un po' come un supereroe che risolve i problemi al posto tuo. Come se mettessi un gettone e delegassi a lui, e tu non fai niente. Io non volevo essere scortese o blasfemo, ma piuttosto fare una provocazione nei confronti dei credenti. E i frati amici miei mi hanno chiamato e mi hanno detto: ma
come, il Signore lo tratti così? Questo sottotesto a volte è incomprensibile anche se fai un dipinto per strada. Quando pensi alla tua identità e alle tue radici, cosa vedi? La cosa che sento profonda è questo senso naturale legato alla religione. Poi se scavo profondamente dentro di me, sai cosa trovo? I miei parenti che sono partiti per l'America. Questa idea di viaggio. Ma il tuo viaggio, alla fine, hai scelto di terminarlo a Palermo. Cosa ti lega qui? Io sono originario da parte di madre di un paese vicino a Palermo che si chiama Terrasini, sul mare. Ma ho vissuto quasi sempre a Palermo fino a quando non sono entrato in convento. E poi io sono ritornato a Terrasini, ma in fondo Palermo mi ha attirato, mi ha chiamato. Allora ho scelto Palermo, e ho scelto di rimanerci.
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A pochi metri da qui, come ogni giorno, il mercato di Ballarò si prepara alla giornata. È un mercato che se la prende comoda, e i banchi iniziano a essere montati soltanto dopo le 9 del mattino. Il sole già sta scaldando le pietre del selciato, che qui chiamano balate e che tra poco si bagneranno, come alluvionate, dell’acqua con cui i commercianti idratano con costanza le verdure e il pesce in vendita. Le zucchine, qui, possono essere lunghe anche più di un metro. I broccoli più grandi di un pallone da calcio. Poi i banchi di frutta secca, pomodori essiccati, conserve di capperi, gomito a gomito con quelli gestiti dai pakistani che sistemano grossi sacchi di riso, ceste di aglio, noci di cocco e papaye. Alcuni commercianti sono più famosi di altri: quello che espone una montagna di chili e chili di cavolfiori verdi si è dotato un cartello in cui si è nominato, da solo, lo specialista della verdura: u vruccularu.
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Ballarò è il cuore dell'Albergheria, uno dei quattro rioni storici del centro di Palermo. È la parte più antica della città, ospita sia il Palazzo Reale, o Palazzo dei Normanni che edifici più moderni che faticano, tuttavia, a nascondere i segni dell’età. Con gli altri due grandi mercati cittadini – Vuccirìa e Capo – faceva un tempo parte di un'unica area metropolitana, quella della medina, ancora oggi tipica delle città mediorientali. Anche il nome di Ballarò viene dall'arabo: deriva da Bahlara, villaggio a pochi chilometri da qui da cui, durante la dominazione araba, provenivano i mercanti che qui si recavano a commerciare. A pochi metri verso l’interno, la chiesa di San Giovanni degli Eremiti è quasi un simbolo della complessa storia della Sicilia: le sue cinque cupole rosse sono ispirate all'architettura islamica del Maghreb dell'Undicesimo secolo, e non sfigurerebbe nei panorami, un tempo così preziosi, di Baghdad o Damasco. 83
Antichi
greci
Sono 8 i teatri di costruzione greca ancora attivi in Sicilia, disseminati in tutta l’isola: dalla provincia di Messina, nella parte più settentrionale, ad Agrigento immersa nel Mediterraneo, passando per la costa occidentale, in provincia di Trapani, e per il centro dell'isola, nella provincia di Enna. Molti di più sono, invece, quelli non utilizzabili per scopi drammaturgici, ma ugualmente aperti alle visite.
teatri Anche l’epoca romana, successiva a quella greca, lasciò diversi teatri, sia pure in numero molto minore. Il teatro di Taormina, tra questi, è un caso unico: è di origine ellenistica, ma è stato poi “restaurato” dai romani, che vi hanno aggiunto diversi elementi ancora oggi fondamentali. Durante gli ultimi anni dell’impero, venne trasformato da teatro in arena, e agli spettacoli drammatici vennero sostituiti quelli con belve e gladiatori.
La colonizzazione greca della Sicilia durò diversi secoli: anche se alcune riconoscibili tracce architettoniche rimangono ancora oggi – soprattutto templi e teatri – i primi viaggiatori arrivarono oltre 2500 anni fa, e l’occupazione continuò fino a 300 anni, circa, prima dell'Anno Zero. Naturalmente, la zona più densamente abitata fu quella orientale, più vicina alla Grecia e più facilmente raggiungibile (oltre alla costa calabrese affacciata sul Mar Ionio): da Messina fino a Catania, e poi ancora più a sud verso Siracusa, per poi virare a ovest verso Gela, Agrigento e Selinunte. Di quella dominazione, i teatri sono il residuo più evidente: e se alcuni rimangono soltanto in forma di maestose rovine, come pietre bianche lavate dal sole e contornate di erba, molti altri svolgono ancora la loro funzione originaria, e nei mesi primaverili ed estivi ospitano, migliaia di anni dopo la loro originaria costruzione, rappresentazioni classiche e concerti.
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La strada per arrivare ai vigneti di Alessandro Viola si arrampica verso l’alto, dal mare di Alcamo, e sembra che si salga senza sosta, curva dopo curva, per poi
ALESSANDRO VIOLA girare un’ultima volta e scendere alcuni tornanti. A un certo punto, la visione: la valle verde, ricoperta di vigne, come un imbuto di luce che si apre sul mare. Alcune piccole case – in una aspetta Alessandro 91
con una bottiglia di Catarratto pronta – e un silenzio emozionante. I suoi vini sono tra i più famosi naturali Siciliani, e raggiungono gli scaffali delle migliori enoteche nordamericane e giapponesi. Lui, con i capelli lunghi e brizzolati, è silenzioso e concentrato. Guarda un nuovo terreno che ha comprato da poco. Sotto le vigne giovani fioriscono piccoli fiori di campo.
Dietro di noi c’è il Monte Bonifato, davanti il Golfo di Castellammare. Qui il vino è una tradizione antica.
Questo angolo di Sicilia, tra Palermo e Trapani, che è sia mare che montagna, ha caratteristiche uniche.
In Sicilia in tanti coltivavano le vigne, ma nessuno poi imbottigliava il vino. Lo si vendeva ai cosiddetti “mediatori”, che lo acquistavano in blocco. A parte un paio di grosse cantine storiche, in Sicilia si faceva così.
La "Denominazione di origine controllata" (DOC) del territorio di Alcamo è una delle più antiche di tutta la Sicilia. Non è una zona troppo calda, ed è perfetta per dei vini freschi, fini, che sono quelli che amo di più. L'azienda di mio padre era invece più nell'entroterra, una zona con terreni argillosi, molto duri. Lì potevi avere vini di grande spessore, grande struttura.
Il vino per te è una questione di famiglia: anche voi facevate così? Sì, a partire da mio nonno, che era nato nel 1900. Io da piccolo vinificavo ancora con i vecchi metodi artigianali: con il torchio e con il mulo. Erano gli anni Ottanta: sono praticamente nato nelle vigne. Io e mio fratello siamo cresciuti così: aiutando nostro padre a coltivare le vigne.
Eppure il tuo vino è particolare: quasi personale, con caratteristiche uniche. Erano gli anni Novanta, e ho deciso di iniziare a farmi il mio vino personale nel garage di casa. Ho letto qualche manuale, e mi è piaciuto, mi sono
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appassionato. Anche perché mi sembrava che coltivare l’uva ma non fare vino fosse un po' come... fare un figlio e non vederlo mai, senza sapere cosa gli succede. Quindi era un lavoro svuotato di significato: fai una parte che serve a fare del vino, ma non sai che vino ne verrà fuori. Non era molto stimolante, perché il lavoro in campagna è un lavoro duro. In seguito ho deciso di iscrivermi all'università, per imparare qualcosa in più. La strada della viticoltura era ormai imboccata. Mi sono iscritto tardi, a 28 anni. A Marsala ho studiato Viticoltura ed enologia. Dopo che mi sono laureato sono andato a lavorare per un famoso enologo in Piemonte, dopodiché sono stato assunto da una grossa cantina sull'Etna. Però lavoravo in cantine grosse, tecnologiche, quindi con vino fatto con canoni industriali. Ma non mi ha mai appassionato quel vino, e tra me e me pensavo che il vino che facevo nel mio garage era più buono di quello che realizzavo in quella cantina tecnologica. Quindi mi sono licenziato e ho iniziato a fare il vino per i fatti miei come lo pensavo io. Era il 1999: quell’anno ho prodotto le mie prime 1000 bottiglie artigianali. Nel frattempo, anche tuo fratello ha seguito lo stesso percorso. Con Aldo non abbiamo mai fatto il vino assieme, da quando abbiamo iniziato a commercializzarlo, perché nel garage ci dilettavamo a farlo assieme, poi io ho studiato enologia e lui si è iscritto più tardi. E comunque lui faceva il suo vino, e io facevo il mio, come lo volevamo bere noi. Le strade
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si sono separate sul nascere in modo naturale: ognuno vuole fare il vino che vorrebbe bere, e mediare con un’altra persona avrebbe rischiato di farci perdere interesse. Anche per questo motivo siamo in ottimi rapporti! Quando nasce la tua etichetta? Nel 2000. Prima ci chiamavamo “Uva Tantum”, facevo il vino con un amico. Poi questo amico non riusciva a seguire il progetto, quindi ho continuato da solo, ed essendo un'azienda individuale, ho messo il mio nome. All’epoca acquistavo uva da altri produttori, perché qui in tanti fanno uva, ma in pochi fanno vino. Volevo studiare i territori, le diverse caratteristiche... Non è detto che se la vigna è mia e allora dà i migliori risultati. Volevo capire le differenze tra un catarratto coltivato in una zona e quello coltivato in un'altra, le potenzialità e le differenze del territorio. È una ricerca che continua tutt'ora. E infatti negli ultimi anni ho acquistato i terreni in questa zona, intorno al Monte Bonifato, perché secondo me ci sono condizioni davvero particolari. Come nasce per te un vino? Alla fine io cerco di realizzare il vino che vorrei bere. Lo immagino, lo sogno. E poi cerco di far avverare questo sogno. Che succede, però, se il vino che produci è diverso da quello che avevi sognato? In realtà il processo è un po' inverso: l'immaginazione di questo vino non avviene per pura fantasia, ma
“L'agricoltura negli ultimi anni qui non è stata focalizzata sull'ottenimento di vino di qualità. Quindi nessuno conosce ancora le vere potenzialità di questo territorio. È molto stimolante: qui posso scoprire, inventare, posso essere una specie di pioniere. Credo che il potenziale, qui, sia altissimo, e totalmente inespresso: quanto di più bello ci possa essere”.
per i sapori che degusti dall'uva. Quindi tu assaggi delle uve, e da quel sapore ti immagini il vino migliore corrispondente che ne potrai ottenere. Sì, la fantasia e l'invenzione hanno un loro ruolo, ma devi partire dal messaggio che ti lancia l'ingrediente unico, che è l'uva. Quindi il trucco è capire che talento può avere l’uva. Bisogna individuare il talento dell'uva, e poi essere bravi a guidarla affinché si esprima nella direzione giusta. C'è una frase di Albert Einstein che mi guida: dice che tutto ciò che puoi immaginare, la natura l'ha già creato. Per cui se tu ti immagini un vino, è perché hai assaggiato delle uve con quei sapori, e per questo sei riuscito a immaginarlo. Tornare in Sicilia è mai stato in discussione? No, mai. Per un semplice motivo: perché penso che questo sia il
posto più stimolante per fare vino. L'agricoltura negli ultimi anni qui non è stata focalizzata sull'ottenimento di vino di qualità. Quindi nessuno conosce ancora le vere potenzialità di questo territorio. È molto stimolante: qui posso scoprire, inventare, posso essere una specie di pioniere. Credo che il potenziale, qui, sia altissimo, e totalmente inespresso: quanto di più bello ci possa essere. La Sicilia, negli ultimi anni, si sta aprendo al mondo? Secondo me sì. Anche perché non c'è alternativa: oggi come oggi, nell’ambito del vino, sopravvivono o le multinazionale oppure le nicchie uniche e ben definite. Le vie di mezzo, se sei un imprenditore, non hanno molto futuro. Quindi se tu sei piccolo, devi fare qualcosa che il grande non può fare: metterci
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un'attenzione meticolosa, e anche assumerti più rischi nelle vinificazioni: io, ad esempio, non aggiungo solfiti, faccio vino naturale. C’è molta attenzione, nel mondo, verso il vino naturale. Come vivi questa nuova onda da produttore? Quando ho iniziato a fare vino, ho iniziato a farlo naturale. Perché quando mi dilettavo di fare il mio vino nel garage, non avevo né conoscenze né sostanze da aggiungere, e nemmeno tecnologie particolarmente invasive. Però avevo conosciuto quei sapori, e infatti quando poi mi sono scontrato con il modo tecnologico di fare il vino, ne ero insoddisfatto. Probabilmente perché ero stato conquistato da quei sapori veri, che mi ricordavano il momento in cui mi ero appassionato alla vinificazione. Quello che penso è semplice: il vino esiste da migliaia di anni, e l'uva... è come se qualcuno l'avesse messa su questa Terra affinché l'uomo la scoprisse: basta pigiare un grappolo e si ottiene del mosto, e se non fai niente per un po' diventa vino. Sembra quasi un segnale messo lì da qualche divinità. Nei secoli, poi, diversi grandi
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del passato hanno scritto che questa bevanda era qualcosa di mistico, di magico, il nettare degli dei. Ovviamente, a quei tempi, si parlavo soltanto di vino naturale. E per me il vino è quello. Il vino naturale è qui per rimanere? Sì: in futuro secondo me ci saranno sempre più vini naturali fatti bene. Poi, su un gradino sotto, ci saranno i vini naturali fatti meno bene, e poi i vini manipolati. Ma io penso che i grandi vini delle zone più blasonate siano già abbastanza naturali. I vini industriali ben fatti, in fondo, non sono del tutto originali. L'originale è il vino naturale: 50 anni di industrializzazione non possono cambiare i millenni precedenti.
Animali
siciliani
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È subito riconoscibile per le sue corna, lunghe e attorcigliate su loro stesse, a forma di spirale. Arrivò sull'isola intorno all'anno 800, insieme agli Arabi: il suo aspetto ricorda infatti alcune razze tipiche dell’Asia.
Nero dei Nebrodi Un maiale nero, la cui esistenza si fa risalire alla dominazione greca. Rispetto ad altri suini, ha dimensioni piccole. Viene allevato, nella zona dei Monti Nebrodi, in Sicilia nord-orientale, solitamente allo stato brado.
Una delle poche razze equine a vivere ancora allo stato selvatico, si pensa che sia arrivata in Sicilia intorno all'anno 1000, forse con gli arabi. Vive principalmente nel territorio di San Fratello, sui Monti Nebrodi.
Asino Ragusano
Il Ragusano è una razza di asini riconosciuta nel 1953, molto diffusa nei comuni di Modica, Ragusa, Santa Croce Camerina e Scicli, nella Sicilia meridionale. Sfortunatamente, dal 2007 è stato inserito nell’elenco delle specie a rischio da parte della FAO. La vacca "cinisara" è molto grande, e completamente nera. È capace di pascolare sui terreni più impervi, e viene allevata solitamente allo stato brado. Un tempo in pericolo di estinzione, oggi ne esistono più di 3.000 capi.
Vacca Cinisara
Capra Girgentana
Cavallo Sanfratellano
Razza antichissima, si pensa frutto di un incontro tra polli siciliani e altri provenienti dall'Africa Settentrionale. Mentre le galline sono grandi produttrici di uova, i galli si riconoscono per una caratteristica cresta a forma di corona.
Gallina Siciliana
Si pensa che questa particolare razza canina possa avere avuto origine, migliaia di anni fa, nell'Egitto dei Faraoni, per poi diffondersi in Sicilia grazie alle navi dei Fenici. Sono cani eleganti ma robusti, impiegati per la caccia.
Cirneco dell’Etna
Per andare verso Siracusa si attraversa da parte a parte tutta l'isola, guidando nei suoi paesaggi così diversi, l'uno dall'altro, come si passa da una scena all’altra nella trama di un film. Appena sparisce la vista, e poi la sensazione, del mare, puntando verso sud, subito si alzano le montagne. Ci avviciniamo al Parco delle Madonie, che da lontano appare avvolto, come da una frangia, di nuvole basse. La strada è circondata di eucalipti. I tornanti si inerpicano su alcune delle vette più alte d'Italia. Paradossalmente, il Mediterraneo non è così lontano, eppure la temperatura, metro dopo metro, si abbassa drasticamente. I cartelli sulla strada annunciano la presenza di cinghiali. Il cielo è più vicino.
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Tobia ha fondato una piccola azienda con cui lavora grani antichi, per produrre farina e pasta con varietà antiche e autoctone siciliane.
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L'associazione culturale Porto di Terra si occupa di permacultura e agroecologia. I fondatori vengono dalla Sicilia, ma anche da altre parti d’Europa, e ospitano laboratori e festival aperti al pubblico.
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Federico, uno dei fondatori dell’associazione, ha vissuto in Australia, Thailandia, India e Nepal. Ha imparato tecniche di permacultura che ha poi portato in Sicilia, la regione da cui viene.
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Facciamo una sosta: un gruppo di ragazzi e ragazze ha scelto di vivere qui, ristrutturando una vecchia casa in una valle piena di noccioli. Hanno centinaia di metri quadri di orti destinati alla coltivazione di frutta e verdura, e gli ulivi con cui producono l’olio sono un patrimonio naturale che arriva a 500 anni di età. E poi gli animali: cani, gatti, e muli, galli e galline. Superate queste cime, si ricomincia a scendere. Prima verso Enna, nel cuore dell’isola, e poi a Catania, ancora più a est. Di qui, giù verso la Sicilia greca, aperta al mare, rivolta verso l’Africa e l’Asia Minore. Di nuovo i colori e i profumi della partenza, come un cerchio che si chiude.
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MONCADA RANGEL
Da Siracusa, nella parte più orientale e meridionale della Sicilia, si potrebbe guardare dritto, senza ostacoli se non il mare e la curvatura della Terra, verso il Cairo, il delta del Nilo, addirittura Gerusalemme. Il centro della città, d’altra parte, è una vera e propria isola: si chiama Ortigia, sospesa nel mare ma aggrappata alla terraferma, eletta patrimonio Unesco nel 2005. 118
Qui Francesco Moncada e Mafalda Rangel hanno fondato il loro studio di architettura, aperti sul Mediterraneo come la loro ricerca. Lui siciliano, lei portoghese, vogliono valorizzare questa periferia dell’Europa continentale, ma in realtà centro della cultura mediterranea da secoli. Moncada Rangel: già dal nome, ha tutto dello studio internazionale, che è stato in giro per l’Europa e non soltanto, prima di scegliere di tornare e stabilirsi qui. Come è andata? Francesco: Io sono di qui: sono nato a Siracusa, ho studiato a Palermo, ma da ragazzo avevo voglia di andare via. Prima di laurearmi sono andato prima in Spagna, dove ho sia studiato che lavorato, e poi dal 2001 sono stato in giro per il mondo: Londra, Oslo, Portogallo, Dubai. In Portogallo ci siamo conosciuti. Poi siamo stati insieme tanto tempo a Rotterdam, dove abbiamo lavorato entrambi per un grosso studio, OMA, e ci siamo sposati, avuto dei figli. E poi da lì sia per motivi personali, sia per motivi professionali, abbiamo deciso di tornare a sud. Eravamo un po' stanchi della formalità dei Paesi del nord e avevamo voglia di una vita un po' più lenta, più informale. Mafalda: In verità non ci sono così tante differenze tra il Portogallo e la Sicilia, perché ci sono molti valori
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fondamentali in comune. Tra Porto e la Sicilia abbiamo scelto la Sicilia perché era un posto meno esplorato, in cui avremmo potuto contribuire di più. Più simile a una tabula rasa, a livello di design, di architetture contemporanee, di creatività. Porto, invece, è una città già molto ricca a livello creativo. Qual è il minimo comune denominatore dell'architettura del Mediterraneo? F: Sicuramente la luce è importante, perché cambia le cose, cambia lo spazio. E nel Mediterraneo lo spazio ha un'importanza predominante perché c'è una luce molto forte, che crea molte ombre e molto contrasto. Ma anche il cibo: i prodotti della terra, nel bacino mediterraneo, sono molto simili. M: Quando vai in Nordafrica non vedi tutte queste differenze tra lì e questa parte di Europa: è il mare che li unisce. Ortigia e Siracusa sono patrimonio
Unesco da diversi anni: spesso si è parlato del rischio di “musealizzazione” connesso a questi riconoscimenti. È un tema di cui vi siete occupati? F: L'autenticità per noi è molto importante, ma purtroppo è difficile preservarla. Uno dei temi su cui noi riflettiamo molto, e su cui abbiamo anche iniziato a lavorare, è il fatto che spesso i temi di “preservation”, e quindi anche tutto quello che fa l'Unesco, si concentrano molto di più sull'immagine che sulla sostanza reale. Siracusa, al tempo dei Greci, era una città enorme, e ricchissima: oggi è più piccola di allora, e questa semplice esperienza mostra quanto le città possano essere vive, capaci di espandersi ma anche di stringersi. F: Sì, è un fatto molto raro che una città sia più grande nell'antichità che nei tempi moderni. Solitamente le città o scompaiono, oppure difficilmente rimangono. Siracusa invece è rimasta, ed è cresciuta stratificandosi. La politica e le organizzazioni che spesso si occupano di preservation guardano molto più all'immagine esteriore che alle dinamiche sociali. Ma la natura attiva dei luoghi, la loro evoluzione, dovrebbe essere qualcosa da preservare: la loro tendenza e essere sempre moderni. Come è stato adattarsi alla Sicilia? M: Abbiamo passato diversi periodi: il primo è stato di osservazione. Guardarci intorno, per adattarci. La nostra strategia è sempre l'interazione con il territorio. Non
siamo qua per essere degli stranieri che non hanno rapporti con il territorio. Proviamo quindi a diversi livelli, anche con la scuola, a interagire con il territorio: delle maestranze, di ricerca dei materiali, ai progetti. La Sicilia è un'isola molto stratificata. È multiculturale, con diverse store, diversi tipi di persone, ed è il centro di quello che sta succedendo nel Mediterraneo con i nuovi fenomeni migratori. Quindi è un territorio fertile per sviluppare un pensiero contemporaneo, e per agire sulla realtà contemporanea. Speriamo di farlo anche tramite l'educazione, oltre al nostro studio architettonico. F: Quando ero bambino mi stupivo sempre del fatto che la Sicilia era sempre al centro di tutte le mappe del mondo. Ma in realtà è una cosa reale, e si sente. Dalle piante che provengono da tutto il mondo alle tantissime influenze che ci possono essere in quest'isola. Il Mediterraneo può essere il centro di un “rinascimento” artistico e culturale? M: Certo: uno dei temi che abbiamo più sviluppato con gli studenti dei nostri corsi “Made Program” è legato al territorio: partire da stimoli e materiali dell’isola e rivederli con occhi contemporanei. F: Una studentessa, per esempio, ha fatto un progetto sugli scarti delle cozze: spesso pensiamo siano rifiuti organici, ma non lo sono, e vengono buttati in mare, ma un’eccessiva quantità di scarti fa male al mare. Quindi lei si è reinventata una sorta di riutilizzo di questi scarti per fare
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Left: CRCLR S/S 2021 Right: Pelotas Ariel
“Non siamo qua per essere degli stranieri che non hanno rapporti con il territorio. Proviamo quindi a diversi livelli, anche con la scuola, a interagire con il territorio, a diversi livelli: delle maestranze, di ricerca dei materiali, ai progetti. La Sicilia è un'isola molto stratificata”.
materiali edilizi. Perché di fatto il guscio delle cozze è carbonato di calcio. Oppure, un'altra studentessa ha creato una sorta di bio-pelle a partire dalla carruba. Altri hanno fatto ricerche su alcuni gesti che potrebbero andare perduti: una studentessa ha fatto una tesi sui gesti di come si fa il pane, una sorta di dizionario della panificazione attraverso i gesti delle mani, ispirata da Bruno Munari. Mafalda viene dal Portogallo, Francesco dalla Sicilia: ma la cultura portoghese è una cultura mediterranea? M: Buona domanda. Per me è un misto tra cultura mediterranea e influenze nordiche, atlantiche. La base multiculturale, però, è un aspetto in comune con la Sicilia F: L'influenza del mare c'è, dell'Atlantico con le sue connessioni che vanno dalla Norvegia alla Francia, e anche un legame stretto con il Nordafrica e con il Sudamerica.
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Ogni estate la scuola “Made Program” si trasforma in dei laboratori estivi per studenti internazionali: Made Labs. Nell’estate 2020 non si sono potuti tenere, ma il tema “Scarcity” era estremamente contemporaneo. M: Sì, era perfetto. E ha diversi riflessi: politici, economici, architettonici. Era un invito ai designer e ai creativi a guardare le possibilità autonome del territorio siciliano. F: La scarsità di risorse è un tema fondamentale, non solo per gli architetti e i designer, ma per tutti. E dovrebbe essere al centro dell'attenzione di chiunque. Un altro vostro progetto interessante si chiama "Piedi Liberi. Tactical Urbanism Proposal": un tentativo di creare più zone pedonali in città, sottraendo spazio alle auto e ai parcheggi. F: Il progetto è urbanistica tattica: ripensare, con un budget ristretto,
dei luoghi o degli incroci che fino a quel momento non erano visti come luoghi con potenzialità. Ma non in centro storico: Siracusa è una città strana, perché ha un centro storico che è un'isola. Quindi spesso si tende a separare Ortigia da Siracusa. Ed è una cosa assurda: Ortigia è Siracusa, anzi, per molti anni Siracusa è stata soltanto Ortigia. Ma per molte persone che arrivano da fuori, il punto focale è solo Ortigia, oppure si pensa che sia un'entità staccata, come se Siracusa fosse la parte sulla terra e Ortigia la parte sul mare. Però allo stesso tempo tutto ciò che è fuori da Ortigia ha bisogno di più attenzione, perché i locali abitano proprio lì. M: Il progetto nasce dall'idea di coinvolgere le comunità intorno a queste future piazze: si inizia dalla delimitazione di zone che non erano pedonali, trasformandole in zone pedonali, e dando la possibilità alla comunità di appropriarsi di quello spazio.
F: L'obiettivo finale è cercare di invogliare sempre più persone a spostarsi a piedi e non in automobile. E dopo il lockdown che ha segnato il 2020, e la necessità sempre più diffusa di “social distancing”, il concetto di piazza può tornare, architettonicamente, a essere l'elemento centrale delle città del futuro. M: La piazza è stata molto rivalutata, come tutti gli spazi pubblici. Ma è soprattutto un elemento fondamentale dell’architettura mediterranea. Siracusa è circondata dal mare. Come vivete questo confine? F: Il mare per me non è un confine, ma un conduttore. Se c'è il mare, c’è una possibilità di connessione: sul mare si può andare in tutte le direzioni. M: L'acqua è un vero e proprio territorio, come la terra: con la sua morfologia, la sua flora, la sua fauna.
“Siracusa è una città strana, perché ha un centro storico che è un'isola. Quindi spesso si tende a separare Ortigia da Siracusa. Ed è una cosa assurda: Ortigia è Siracusa, anzi, per molti anni Siracusa è stata soltanto Ortigia. Ma per molte persone che arrivano da fuori, il punto focale è solo Ortigia”. 128
Left: CRCLR S/S 2021 Right: Pelotas Ariel
THE WALKING SOCIETY
Un viaggio in Sicilia è un concentrato di cultura mediterranea. SICILIA
La sera, dalle coste di Trapani, il tramonto è forse uno dei più belli di tutta la regione: le isole di Favignana, Levanzo, Marettimo e Formica si illuminano dell'ultimo bagliore rosato che scende sul mare. Sembrerebbe, a guardarle, di poterle raggiungere a nuoto in pochi minuti. È un’illusione: sono in realtà ben più lontane, e le ultime navi fanno la spola tra i porti sul mare piatto. O forse ci si può arrivare davvero, invece. Basterebbe andare piano, e avere pazienza. Con il tempo, qui, si può fare tutto.
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Edizione e creazione Alla Carta Studio Direttore artistico del marchio Gloria Rodríguez Rivista Fotografia: Osma Harvilahti Scenografia: Aapo Nikkanen Illustrazioni: Michele Papetti Testi: Davide Coppo Video Regia: Fele La Franca Editing: Luca Lo Nigro Direttore della Fotografia: Andrea Nocifora Fonico di presa diretta: Gianluca Donati Musica: Luis Luft, Dirt O’Malley Aiuto Regia: Angelo Maniscalco camper.com © Camper, 2021
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Drift S/S 2021