Eivissa
CAMMINARE significa viaggiare, spostarsi da un luogo all’altro. Avanzare, esplorare e innovare. The Walking Society è una comunità virtuale aperta a persone di ogni estrazione sociale, culturale, economica e geografica. Individualmente e collettivamente, TWS sostiene l’immaginazione e l’energia, offrendo idee e soluzioni preziose per migliorare il mondo. Con semplicità e onestà.
CAMPER significa “contadino” nel dialetto di Mallorca. I valori e l’estetica del nostro marchio sono influenzati dalla semplicità del mondo rurale combinato con la storia, la cultura e il paesaggio del Mediterraneo. Il nostro rispetto per l’arte, la tradizione e l’artigianato consolida la nostra promessa di fornire prodotti originali e funzionali di alta qualità con un appeal estetico e uno spirito innovativo. Cerchiamo un approccio più umano al business e cerchiamo di promuovere la diversità culturale, preservando le tradizioni locali.
EIVISSA è una delle più famose e famigerate isole del Mediterraneo. Prima, come porto per le civiltà marittime preRomane, negli ultimi cinquant’anni, in quanto ambita meta turistica per chiunque.
THE WALKING SOCIETY Il quindicesimo numero di The Walking Society viaggia attraverso La Isla Blanca, dove incontriamo anime in cerca di equilibrio fra tradizione e modernità.
SERGIO SANCHO
Una conversazione con il fondatore della fiera di arte contemporanea che ambisce a portare più cultura sull’isola.
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FINO ALL’ALBA
La club culture è uno degli ingredienti principali della vita di Eivissa. Si inizia a notte fonda, fino a vedere le prime luci dell’alba.
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L’UTOPIA GONFIABILE DI EIVISSA
È il 1971, e Eivissa viene scelta come sede di un importante congresso architettonico. Una storia di immaginazione e sperimentazione.
P.48
BALL PAGÈS
Il ballo tradizionale ibizenco, fatto di costumi preziosi, coreografie sia sensuali che acrobatiche, è tenuto vivo ancora oggi da appassionati dell’isola.
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THEATRE OF THE ANCIENTS
Maschere di cartapesta, cabezudos e altre tradizioni rituali delle isole Pitiuse: Joanna Hruby e la sua compagnia di teatro.
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SOUVENIR
Eivissa è uno dei luoghi turistici più ambiti e frequentati di tutto il Mediterraneo. Foto ricordo di magliette tipiche dell’isola, ieri e oggi.
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UN’ISOLA SACRA
Da sempre Eivissa è associata con il mistero e la spiritualità. Il merito è dell’isolotto di Es Vedrá, circondato da leggende.
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SPLASH
Un pomeriggio a Sa Figuera Borda, dove gli adolescenti dell’isola si tuffano da altezze da brividi nell’acqua cristallina.
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VICENTE GANESHA
Una giornata insieme all’icona ibizenca e re del vintage, proprietario di uno dei negozi più famosi di Dalt Vila.
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UN RIFUGIO SICURO
Una leggenda sostiene che Nostradamus abbia indicato Eivissa come unico luogo in grado di sopravvivere all’apocalisse.
P.125
GAIA REPOSSI
Eivissa è sempre stata un luogo di rifugio per la designer di gioielli e direttrice creativa di Repossi, famoso brand internazionale.
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La vita notturna ibizenca è anche caratterizzata da poster iconici, disegnati dagli anni Settanta da veri e propri artisti. Un viaggio estetico nel clubbing.
Eivissa è un universo intero in poco meno di 600 chilometri quadrati. Un caleidoscopio di colori, profumi, emozioni. Contiene moltitudini: di caratteri, di stili di vita, di linguaggi, di poetiche. A pensarci bene, è come se fosse un riassunto di tutti i caratteri mediterranei, così diversi ed eclettici, frullati insieme.
Partiamo dalla geografia. Nell’entroterra gli ulivi crescono, ordinati in file ben distanziate, sulla terra rossa, ricca di minerali ferrosi, tipica dell’isola. Case bianche sono nascoste tra gli oleandri fioriti. Sono loro, le casas payesas, che hanno dato a Eivissa il soprannome di Isla blanca. Hanno muretti a secco a dividere le proprietà dalla strada, cisterne che raccoglievano acqua piovana, i tetti sono facilmente accessibili a chiunque. Le coste sono frastagliate e friabili, e hanno permesso la nascita di decine di piccole baie e calette più nascoste, in cui nuotare nelle acque turchesi. Sopra le coste, le pinete incombono sull’acqua. Le cicale cullano le mattine assolate, protette dal vento che a Eivissa soffia sempre, come una benedizione, mantenendo il clima temperato anche nei mesi più caldi.
Percorrendo poi le strade che collegano un pueblo a un altro, la notte, capita talvolta di essere catturati dai fasci di luce che si muovono nel cielo. Non sono apparizioni, ma i segni delle discoteche che animano l’isola. La stagione delle discoteche cambia volto a Eivissa: il popolo della musica accorre da tutto il mondo nel periodo tra maggio a ottobre, e lascia poi le coste baleariche nei mesi rimanenti, come una marea. Molta dell’economia di Eivissa si fonda su questa piena, ma è quando la fiumana di turisti si ritira che Eivissa si mostra con il suo volto migliore. In questi mesi, che sono mesi spesso più freddi che in continente, si può fruire del tesoro più grande che ha quest’isola: i suoi spazi.
In questi mesi è più facile imbattersi in tutte le altre comunità che abitano Eivissa. Gli hippy, quelli vecchi e quelli giovani, si trovano il sabato soprattutto al mercato di Sant Jordi, vicino all’aeroporto, tra chincaglierie, cimeli e furbizie assortite, oppure al Bar Anita, lo storico ritrovo da più di cinquant’anni. In certe case comuni ben
nascoste nella vegetazione può capitare di essere invitati per caso, seguendo una voce, l’amico di un’amica, e di venire però sempre accolti, senza eccezioni. Ci sono poi gli appassionati di yoga e di retreat dotati di ogni comfort. I lavoratori stagionali, molti italiani, argentini, che lavorano nei bar, nei club, nei ristoranti dalla primavera all’autunno.
Gli ibizenchi, infine, che la domenica vanno in chiesa a Santa Gertrudis, che guidano i taxi dall’aeroporto agli hotel ogni giorno, che tirano le fila delle produzioni straniere e conoscono ogni spiaggia, radura, bosco dell’isola, che alle feste comandate si preoccupano di mantenere viva l’anima di un’isola così complessa e che però, grazie a loro, da quasi un secolo riesce ad aggiungere nuovi pezzi al variegato tappeto della sua tradizione, senza che il motivo di fondo ne sia troppo snaturato.
SERGIO SANCHO
Le radici di Sergio Sancho affondano da tre generazioni nel suolo secco del centro della Spagna, nella Meseta di Madrid. Quando lo incontri a Eivissa, però, sembra che sia di casa in quest’isola, dall’atmosfera magnetica e creativa Sergio indossa una giacca colorata, ha una lunga barba brizzolata e i capelli ricci che gli incorniciano il viso. Nel 2022, ha fondato Contemporary Art Now, una nuova fiera artistica a Eivissa, con l’obiettivo di far incontrare l’arte contemporanea con l’attitudine rilassata e poco performativa tipica del Mediterraneo.
Vive tra il continente e l’isola, perché a Madrid, quasi dieci anni fa, aveva aperto un’altra fiera, più dedicata alla street art, chiamata
UVNT Art Fair. Ma Sergio non è un professionista dell’arte inapprocciabile: è gentile e affabile, parla per ore dei progetti a cui sta lavorando e di quelli che sta ancora sognando. Vuole creare una rete per mettere in moto una comunicazione che sappia valorizzare le piccole gallerie ibizenche. Ci accoglie in una di queste, l’Estudi Tur Costa. Disegnato dall’architetto tedesco-americano Erwin Broner, tra i fondatori del gruppo Eivissa 59, fino al 2020 l’edifico fu anche lo studio dell’artista Rafael Tur Costa.
C’è tutta una tua vita prima di Eivissa: che vita era, e cosa facevi?
A Madrid ho iniziato a lavorare nel mondo della pubblicità. Per quindici anni ho fatto quello, spostandomi in diverse agenzie. Facevo amministrazione, niente di creativo. È strano raccontarlo, perché tutti mi dicono che sembro un creativo, ma non lo ero. Non ho studiato pubblicità ma business administration, mi occupavo di cose come marketing. A un certo punto mi sono trovato in una piccola agenzia, un’agenzia-boutique, e condividevamo uno spazio con una galleria d’arte dove stava esponendo Julio Falagán. All’epoca avevo 25 anni, ho sentito subito una connessione con quell’artista, e gli ho comprato un’opera. Fu la prima opera che comprai nella mia vita. A partire da quel momento, da un lato continuavo ad avere la mia carriera in pubblicità, ma ho iniziato a interessarmi al mondo dell’arte. Cercando di scoprire altri artisti e comprando altre opere.
Cosa usavi come bussola, per orientarti nell’enorme mondo dell’arte?
Facebook e Instagram sono stati due strumenti fondamentali per me. In Spagna il genere di arte che mi interessava di più, la street art, non aveva molta visibilità. Non era nelle gallerie. Sì, c’erano alcuni importanti street artist spagnoli, ma praticamente tutti lavoravano fuori dalla Spagna. Ho iniziato a investigare attraverso Facebook e Instagram, usando le piattaforme per tenermi molto informato. Poi viaggiavo per vedere mostre e fiere. E tutto quello che vedevo all’esterno, mi accorgevo che non c’era nessuno che lo portasse in Spagna. A un certo punto mi sono detto che la Spagna aveva bisogno di una fiera in grado di dare una copertura a tutto questo. E ho deciso di fondarla a Madrid: l’ho chiamata UVNT Art Fair. Il primo anno mi dividevo ancora tra l’agenzia pubblicitaria e la fiera, poi ho scelto di lavorare solo con l’arte. Siamo arrivati alla settima edizione.
Il tuo è un percorso da autodidatta, ma quando ci si lancia in un progetto così grande si ha bisogno di collaboratori e collaboratrici. Come hai trovato le persone giuste?
Un anno prima, a Parigi, ero stato alla Urban Art Fair, che aveva una concentrazione abbastanza grande di gallerie di street art. Allora io già conoscevo molte persone, perché ci scrivevamo, ci tenevamo in contatto, chiedevo informazioni sulle opere... All’inizio è stato soprattutto un lavoro di raccolta e documentazione, per trovare gallerie di tutto il mondo. Una cosa fondamentale: a Parigi, in quella fiera, avevo conosciuto una galleria olandese, e insieme siamo riusciti a portare la prima mostra solista di Banksy a Madrid, dentro la mia nuova fiera. Quindi il primo anno ho inaugurato la fiera con diciassette gallerie e una personale di Banksy, di otto opere. Quando abbiamo aperto c’era chiunque: televisioni, giornali... Tutti parlavano di Banksy che era arrivato in Spagna e penso che, grazie a questo, tutti abbiano conosciuto la fiera, subito.
In quanti eravate, all’inizio?
La prima edizione eravamo in tre, quattro persone. Tutti lavoravano come freelance, c’era una persona di produzione che già lavorava con me, una persona per il contatto con le gallerie, una persona per la parte di pubbliche relazioni. Poi la fiera si
è evoluta, è cresciuta, e io mi sono accorto che c’era il rischio che diventasse troppo incasellata. Perché se tu tratti solo di “arte urbana” alla fine, ti stai perdendo molti altri tipi di arte. E allora abbiamo iniziato a introdurre più gallerie, altri stili, abbiamo iniziato a invitare nuovi artisti. E mi sono accorto che c’erano nuove correnti interessanti, anche se non avevano necessariamente a che fare con la street-art.
Come ci sei arrivato, quindi, a Eivissa?
Nel 2020 sono venuto a Eivissa all’inaugurazione di una mostra di Rafa Macarrón, alla fondazione La Nave Salinas. Tutte le discoteche erano chiuse per la pandemia, e ho notato che all’inaugurazione c’era tantissima gente, tutta interessata: collezionisti, persone con voglia di cultura, che volevano sapere cosa stesse succedendo sull’isola. E mi sono accorto che nell’isola non c’erano molti progetti culturali, tutto era basato sulla musica. Aggiungiamoci che dalla pandemia in poi molta gente ha iniziato a vivere qui, e non aveva a disposizione molte attrattive artistiche. Ho iniziato a pensare che organizzare una fiera a Eivissa potesse essere una buona idea. Così, grazie a un imprenditore locale, ho scoperto che il consiglio comunale stava cercando progetti culturali da portare all’isola, e mi hanno chiesto che se avessi voluto portare la fiera da Madrid. Io ho detto di no, perché il brand di UVNT era già molto definito, e preferivo creare un progetto nuovo. Così ho creato CAN, Contemporary Art Now. CAN vuole mostrare sempre l’adesso, l’ultimo, la tendenza, quello che sta succedendo ora nella nuova generazione.
Come funziona CAN?
Funziona solo per inviti. L’abbiamo inaugurata nel 2022, ed è stato un successo incredibile. Ci siamo accorti di quanto la gente, effettivamente, avesse bisogno di un progetto così. E adesso stiamo cercando di creare una rete tra tutto quello che succede nell’isola: gallerie piccole e indipendenti, che non avevano troppa visibilità, da connettere l’una con l’altra.
Avete scelto gallerie da tutta Europa?
Da tutto il mondo. Nella prima edizione abbiamo avuto gallerie da Tokyo, New York, Seoul, Los Angeles. E anche l’Europa, certo: il sessanta per cento veniva dall’Europa. In totale c’erano 37 gallerie. Solo 6 dalla Spagna. Penso sia più interessante dargli un respiro internazionale.
Come speri che si evolverà la fiera nei prossimi anni?
Vorrei soprattutto che sia un progetto sostenibile, non mi interessa che diventi troppo grande. Preferisco sia una fiera più di tipo boutique, in cui si scelgono con cura le partecipazioni, e che cresca a poco a poco. Vorrei che si affiancassero anche altri progetti. Logicamente, noi siamo un’attrazione, ma dovremmo anche essere uno stimolo perché il tessuto culturale sia sempre più forte nell’isola. Una delle cose che vogliamo è far sì che Eivissa diventi un punto importante del circuito internazionale dell’arte. D’estate solitamente il circuito chiude, e io vorrei offrire un lato un po’ più festivo. Il mondo dell’arte mi è sempre sembrato troppo pieno di tensioni, ma credo che l’arte sia qualcosa per divertirsi, per godere la vita. Penso che il successo di CAN sia derivato anche dal fatto che la gente
viene qui e si sente a casa perché la nostra formula è molto rilassata: apriamo soltanto la sera, dalle 5 alle 9, e vorremmo continuare a fare questa fiera come se fosse un festival dell’arte. Quello che vorrei davvero è portare l’arte in giro per l’isola, nelle vie. E credo che ci sia un grande potenziale anche nello sfruttare la cultura musicale e delle discoteche di Eivissa.
Come è cambiata la tua vita da una delle più grandi città d’Europa, a Eivissa?
Qui è come se il ritmo rallentasse. Io mi muovo molto bene nelle città, ma devono essere periodi di tempo brevi. Vorrei passare sempre più tempo a Eivissa, perché sì, mi piace stare in luoghi dove le cose si muovono velocemente, ma ho bisogno anche di posti come questo, in cui posso avere libertà di pensare.
Qual è il tuo rapporto con il Mediterraneo? Tu sei di Madrid, che è molto lontana dal mare, eppure sei venuto su quest’isola. Sei stato attratto da qualcosa? Il mare è diventato una parte importante della tua cultura?
Io sono nato a Madrid e vengo da tre generazioni di abitanti di Madrid, una cosa molto rara da trovare ancora. Mia moglie è della Galizia, da lì ho una certa connessione con il mare. Mio padre viaggiava spesso per lavoro e Maiorca. Ma quando sono venuto per la prima volta a Eivissa, quando avevo venticinque anni, ho subito percepito la sua magia. Ovviamente c’entra anche il fatto che ci venissi con una certa predisposizione a rilassarmi, a divertirmi. Penso che molte persone vengano inizialmente qui per una delle cose più famose che l’isola ha da offrire, che è la festa, la musica. Ma più tempo ci passi, più ti accorgi della bellezza e della tranquillità. E allora capisci cosa veramente l’isola può darti. Impari a guardare l’orizzonte, che a Madrid o nelle grandi città è molto difficile trovare.
Nonostante sia così famosa in tutto il mondo, Eivissa è riuscita a mantenere un’identità forte, e anche una vastità di spazi, come dici tu. Come pensi funzioni, questo equilibrio?
Penso che gli ibicencos siano un popolo molto tosto. Se Eivissa è ancora un’isola con una sua identità è perché gli abitanti lottano ogni giorno perché non si perdano le tradizioni. E ogni volta che qualcuno da fuori, per esempio, acquista una casa tipica ibizenca (casa payesa) e la converte in una casa tutta di cristallo, tutti ne parlano, e si fanno sentire. Anche le generazioni nuove stanno non solo conservando, ma ri-valorizzando queste tradizioni, perché non si perdano. Perché questa autenticità è ciò che fa sì che l’isola possa preservarsi.
”Penso che gli ibicencos siano un popolo molto tosto. Se Eivissa è ancora un’isola con una sua identità è perché gli abitanti lottano ogni giorno perché non si perdano le tradizioni. Anche le generazioni nuove si assicurano che non vadano perse. Perché questa autenticità è l’essenza dell’isola”.
La popolazione di Eivissa oscilla tra le 100mila e le 200mila persone, è difficile stabilire con precisione quante di queste risiedano stabilmente sull’isola. Ma è durante i mesi estivi che l’isola vede quasi triplicare i visitatori: il picco, si stima, sfiora il milione di persone. La bellezza dell’isola è fondamentale per il potenziale attrattivo, ma è soprattutto la vita notturna, e le sue numerose discoteche, ad affascinare i turisti. I club diventati storici, negli anni Settanta e Ottanta erano soltanto vecchie fincas tirate a lucido. Oggi sono astronavi di effetti speciali, uno spettacolo nello spettacolo ogni sera. Impossibile vivere una notte a metà, qui: si inizia a ballare ben oltre la mezzanotte, si prosegue mentre il buio cede il passo alle prime luci e, in alcuni casi, si può terminare ben oltre il nascere del giorno successivo. L’alba incornicia i ritorni a casa, nella natura che si risveglia. Giovani vestiti di luce, colori, riflessi, energia che ancora palpita come un’aura. Mentre il sole riscalda le prime onde del mattino.
FINO ALL’ALBA
GONFIABILE DI EIVISSA
Era il 1975, quando la Spagna si liberò dal giogo della dittatura militare di stampo fascista di Francisco Franco. Fu l’ultima a cadere in Europa dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, giusto un anno dopo la fine della giunta omologa in Portogallo, in seguito alla Rivoluzione dei Garofani. È incredibile pensare che questo sia accaduto meno di 50 anni fa. Franco prese il potere negli anni Trenta, e rimase l’unico caudillo fino alla metà dei Settanta. In quei decenni, l’unico partito ammesso era la Falange Española, le libertà erano fortemente ristrette, la censura all’ordine del giorno, il castigliano affermato come unica lingua del Paese.
A partire dagli anni Sessanta, in certe regioni della Spagna la dittatura andava già allargando le maglie della repressione del dissenso e dei costumi non ortodossi: a Eivissa, soprattutto, iniziano ad arrivare hippy da tutto il mondo, e si scaldano le braci di tendenze culturali che avranno fortuna anche fuori dai confini spagnoli. Un esempio è la settima edizione dell’International Council of Societies of Industrial Design (ICSID), organizzato nell’isola nel 1971, un congresso che trattava l’architettura, il design e l’arte nelle sue forme più sperimentali.
I congressi dell’organizzazione – oggi rinominata in World Design Organization – erano itineranti, ogni edizione si teneva in un Paese diverso: in questo modo si sarebbero create sinergie inedite tra professionisti di diverse nazioni, in un’ottica internazionalista del design, con una forte vocazione umanitaria.
Il titolo dell’edizione ibizenca era ambizioso: La utopía es posible (L’utopia è possibile).
Il luogo scelto dall’organizzazione era Port de Sant Miquel, nel nord dell’isola, poco distante da Portinatx, Benirrás e altre “cale” ancora oggi poco frequentate, insenature profonde con poche persone e molto silenzio. L’utopia possibile è diventata quindi realtà innanzitutto nella struttura, conosciuta come “Instant City”, progettata da José Miguel de Prada Poole, destinata ad alloggiaregli studenti partecipanti all’International Council che non avevano trovato posto negli hotel dei dintorni. L’idea originaria non era dell’architetto che la firmerà poi, ma di due studenti di architettura del Politecnico di Madrid, Carlos Ferrater e Fernando Bendito, a cui si era aggiunto, nella stesura del manifesto, Luis Racionero. Il manifesto dell’Instant City era una chiamata a raccolta: per designer di tutto il mondo che avessero intenzione di creare proprio quella città istantanea così battezzata. Diceva: «Le persone, i giovani della New Culture si incontreranno a Eivissa per ascoltare musica, bal-
lare e costruire uno spazio in cui vivranno per alcuni giorni. Chiediamo ai designer di tutto il mondo di aiutarci a costruire la città istantanea, che prenderà forma in quei giorni grazie alle nostre menti. Un evento incentrato sulla progettazione ambientale, dove comportamento e forma potranno incontrarsi per una settimana all’insegna di design, costruzione, musica, mimo, fiera, festival e improvvisazione». Il manifesto girò in tutto il mondo, le richieste di partecipazioni alla fine furono molto maggiori di quante se ne aspettavano gli studenti. Per questo chiesero l’aiuto di Prada Poole, che disegnò quindi il progetto. «Una città della libertà ma non anarchica», la definì lui, «perché la libertà più grande si trova sempre dentro un ordine superiore». In cosa consisteva, allora, questa Instant City? Basta soltanto vedere le foto per comprendere la portata rivoluzionaria della sperimentazione di Prada Poole: dall’alto si distingue un formicaio di moduli gonfiabili, costruiti in PVC di diversi colori e uniti tra loro da corridoi,
teoricamente espandibile all’infinito. Una sorta di labirinto fatto di spazi comuni e spazi di spostamento. Due forme geometriche, ripetute in continuazione: la sfera e il cilindro.
L’utopia architettonica di Prada Poole fu un momento di cambiamento fondamentale per l’architettura spagnola e non solo: una struttura effimera estremamente complessa, un terreno di sperimentazioni inedite nell’utilizzo di strutture pneumatiche e flessibili. E poi, su un livello più filosofico, per José Miguel de Prada Poole l’esistente configurazione urbanistica era ormai eccessivamente rigida. Sosteneva che le città fossero diventate troppo vecchie e statiche, ormai incapaci di adattarsi a bisogni che erano, negli anni Settanta, estremamente diversi da quelli di alcuni decenni prima. Per questo la sua Instant City era una risposta architettonica perfetta: rappresentava un modello di nuova città transitoria, in grado di espandersi o ritrarsi alla bisogna, senza che ci fossero edifici solidi a intralciare il cambiamento.
Anche l’eco europeo fu positiva: si parlò moltissimo della Instant City nella stampa underground, ma la notizia venne ampiamente ripresa anche su un giornale prestigioso come AD nel
dicembre del 1971: «La città istantanea non può essere giudicata come un successo o un fallimento, poiché come ambiente incentrato sulla persona era ciò che si faceva di essa. La città era costituita dalle persone che si conoscevano e dalle cose che si facevano con loro o senza di loro», si legge nell’articolo. «Nelle Instant City le persone si toccano. Sono amici. L’intenzione è stata quella di creare un ambiente che esistesse non come incoraggiamento alle relazioni sociali, ma come risposta ad esse», scriveva la stampa finlandese nel gennaio del 1972.
Molti dei partecipanti a Instant City, che alla fine del processo di edificazione arriverà a contenere anche 500 persone, erano abbastanza vicini al movimento hippy, che in quegli anni si avviava sul viale del tramonto. Tuttavia per lo sviluppo culturale della Spagna quell’esperienza fu fondamentale: per un Paese ancora alle prese con una dittatura, il congresso, nonché la realizzazione di quell’utopia, erano segni di una fondamentale speranza verso il futuro. E infatti
il concetto dell’Instant City si sposterà, sempre all’interno del
territorio spagnolo, da Eivissa alla Navarra. Agli Encuentros de Arte de Pamplona, che si tennero nell’estate del 1972, fu chiamato ancora Prada Poole per creare una struttura pneumatica da destinare alle attività del festival. Questa volta Prada Poole concepì undici cupole di venticinque metri di diametro e dodici metri di altezza, per un totale di cinquemila metri quadri. Fu un ulteriore progresso della città instantanea di Eivissa: le cupole erano state pensate di colori differenti per immergere gli abitanti in un mondo sensoriale diverso da spazio a spazio, e il forte odore di plastica era stato stemperato con diverse profumazioni per ogni ambiente.
C’è un uomo vestito di tutto punto, con abiti di cotone bianchi e neri, accessori rossi. In mano ha due castagnole che suona al ritmo di un flauto. Sta ballando con grandi salti, riesce a lanciare una gamba fin sopra la sua stessa testa. Ai piedi porta scarpe di corda che si chiamano espardeñas. La donna, davanti a lui, si muove invece a piccoli passi. Disegna, con la sua traiettoria, una forma di “otto”. I costumi, preziosi, sono ulteriormente arricchiti dai gioielli, specialmente sulle donne. Loro, come segno di opulenza, arrivano a indossare fino a 24 anelli, e una collana tipica ibicenca, chiamata emprenada, fatta di oro, argento e coralli. Si chiama ball pagès, è una danza tradizionale di Eivissa, e più in generale delle isole Pitiuse. Il ballo rappresenta un rito di seduzione, ma non è poi così antico: le origini affondano “soltanto” nell’Ottocento, raccontano oggi gli anziani dell’isola.
BALL PAGÈS
I costumi delle donne, estremamente complessi, presentano uno scialle dai colori vivaci, un corpetto e una gonna a più strati.
VICENTE GANESHA
SE PRONUNCI A QUALCUNO IL NOME DI VICENTE
HERNÁNDEZ ZARAGOZA, NELLE STRADE DELLA CITTÀ
VECCHIA DI EIVISSA, CONOSCIUTA CON IL NOME CATALANO
DI DALT VILA, NON MOLTI SAPRANNO DI CHI SI TRATTA. SE INVECE PROVERAI CON IL SUO NOME DE PLUME, VICENTE
GANESHA, ALLORA UN’ESPRESSIONE PIÙ FAMILIARE
SI DISEGNERÀ SUI VOLTI DI CHI ABITA IN QUESTI VICOLI
BIANCHI: “VICENTE, MA CERTO, È UN’ISTITUZIONE”.
IL SUO NEGOZIO DI PREGIATI VESTITI VINTAGE, NATO NEL 1991, È UNA DELLE BOTTEGHE DI MODA PIÙ FAMOSE DELLA CITTÀ E DELL’ISOLA. OLTRE A PEZZI PREGIATI, VICENTE
VENDE ANCHE LA SUA COLLEZIONE, INTERAMENTE REALIZZATA IN INDIA. È, L’INDIA, UN POSTO CHE VICENTE HA
VISITATO PER LA PRIMA VOLTA NEL 1982, UNDICI ANNI
DOPO ESSERE ARRIVATO A EIVISSA DA UN PICCOLO
PUEBLO DELLA COSTA BLANCA. HA COLLEZIONATO PEZZI
UNICI, MA SOPRATTUTTO RICORDI E ANEDDOTI, COME
LE VISITE DI CLAUDIA SCHIFFER, VALENTINO GARAVANI
O GIORGIO ARMANI. OGGI HA PIÙ DI SETTANT’ANNI, MA
IL FISICO PRESTANTE E LA LINGUA ANCORA SCIOLTA.
UNA BOUGANVILLE SI ARRAMPICA SUI DUE PIANI DEL-
LA PALAZZINA CHE COMPRENDE IL SUO NEGOZIO, AL
PIANO TERRA, E LA SUA ABITAZIONE PRIVATA, A QUELLI SUPERIORI. LA CASA, COME IL NEGOZIO, È UNA STRA-
ORDINARIA WUNDERKAMMER DI OGGETTI, VESTITI, QUADRI, LIBRI E STAMPE DI OGNI EPOCA.
COME È INIZIATA QUESTA LUNGHISSIMA STORIA DI VESTITI?
Sono arrivato a Eivissa nel 1971. Con un amico, cinque anni dopo, abbiamo aperto un negozio multimarca. Gli affari andavano bene, vendevamo diversi marchi di alta moda. Poi abbiamo perso tutto. E ho dovuto ricominciare da zero, di nuovo, senza soldi. L’ho fatto nel 1991, con la seconda mano. Questa è un secondo capitolo, in un certo senso. La mia traiettoria nella moda è andata dal 1976 al 1991, e poi dal 1991 a oggi.
DA DOVE VIENE LA PASSIONE PER COLLEZIONARE VESTITI E PER VENDERLI?
In realtà non sono un collezionista, né un feticista. Mi piace trovare le cose, salvarle in un certo senso, e rimetterle in commercio. Ho imparato studiando, perché all’epoca non c’era Google, non c’era internet. Ma ero molto interessato, leggevo libri, parlavo con la gente, ascoltavo. Ero una spugna, non solo di informazioni ma anche di sentimenti estetici. Sono un autodidatta.
COME È CAMBIATA LA TUA VITA QUANDO SEI VENUTO A EIVISSA?
È cambiata molto: in Spagna, all’epoca di Franco, non sapevamo cosa fossero gli stranieri. Negli anni Settanta, quando hanno iniziato a venire, è stato come accorgersi che c’era tutto un mondo fuori. Io ero un adolescente, vivevo vicino ad Alicante, e ho chiesto a mio padre di farmi il passaporto. Allora mi ha dato il permesso, perché all’epoca si faceva così, serviva il permesso del padre. E subito sono partito, e sono andato a Parigi. Dopo Parigi sono venuto qua. Avevo vent’anni. Non sapevo cosa fosse Eivissa: per me, all’inizio, era semplicemente un’isola, non conoscevo il movimento che c’era. Avevo visto un film che parlava di Eivissa, e mi aveva aperto gli occhi su quest’isola così libera. E avevo pensato che sarei potuto andare lì, e vivere con poco.
COME È SUCCESSO CHE HAI SCELTO DI LAVORARE CON LA SECONDA MANO?
La seconda mano mi dava più opportunità per valorizzare delle conoscenze di moda che già avevo. Potevo andare indietro nel tempo, e fare una cronologia temporale dei vestiti. Sapevo che se compravo certe cose, anche se non erano di marca, potevano avere comunque un certo valore per i materiali, i colori, le forme che avevano.
QUAL È L’ORIGINE DEL NOME GANESHA?
Io avevo chiamato il primo negozio The End, come la canzone dei Doors. Ganesha, invece, l’ho scelto perché è la divinità
della fortuna, del buon auspicio. E avevo bisogno di fortuna, perché già una volta ero caduto. Lavoravo per essere indipendente, per non dover dipendere da nessuno, per non dover chiedere niente a nessuno. Non avevo grandi ambizioni, solo questo: volevo soltanto una casa mia, per quanto fosse piccola o lontana.
È DIFFICILE AVERE IL TUO NEGOZIO PROPRIO SOTTO CASA?
Non avrei mai pensato di avere un appartamento sopra il mio negozio. Ho chiesto al comune di poterlo alzare per costruire la casa sopra, e loro lo accettarono. Nel 1993 ho piantato la bouganville, e la bouganville, la casa e il negozio sono cresciuti tutti insieme. Non era una cosa che avevo in programma, ma la vita è come un puzzle, ogni cosa è legata a un’altra. Quando pensiamo che stiamo cambiando il nostro destino, in realtà è il destino che cambia noi.
COS’È LA RICCHEZZA, PER TE?
Prendere un traghetto e andare a Formentera per me è molto meglio che stare su uno yacht non tuo con altra gente in cui però non puoi muoverti indipendentemente. Non mi è mai interessata la ricchezza. L’indipendenza per me è la più grande ricchezza. Avere e non dover chiedere.
SEI UN’ISTITUZIONE, A EIVISSA, UNA PERSONA FAMOSA: MA SEI DIVERSO QUANDO SEI DA SOLO O QUANDO SEI CON LE PERSONE?
Quando sono da solo sono più autentico, più reale. Più naturale. Faccio le poche cose che mi piacciono. Leggere, camminare, contemplare. Sono una persona semplice ma con molte idee. Ho una testa ancora piena di curiosità, e di desideri. Mi sento molto giovane, ancora, nella testa.
COME È CAMBIATA LA CITTÀ DI EIVISSA?
Moltissimo. Non solo la città di Eivissa: è cambiata tutta la vita di quest’isola. Ma non mi lamento comunque, perché non conosco un posto migliore di questo. Certo, a volte penso che se arrivassi adesso, sapendo quello che so ora, forse non rimarrei. Questa non è l’Eivissa che ho conosciuto quando sono arrivato. C’erano cani per le strade, le persone camminavano a piedi nudi, la gente era bella, era povera, senza soldi. Le persone sono più belle quando non hanno troppo denaro. Tutto era accessibile, non c’erano luoghi off-limits. Non c’era l’Aids. Non c’era la stupidità del denaro. C’era bellezza, musica, droga. C’era edonismo. C’era bellezza.
E LE PERSONE?
Oggi la gente non comunica più come una volta. Su Instagram c’è gente che mi segue, e pensa per questo di conoscermi. Da un lato va bene, perché mi permette di vendere di più. Ma ci sono anche dei problemi: le persone vengono, comprano, ti ringraziano, e se ne vanno. Non dicono più niente. Si vive con meno sentimenti. Non puoi andare in discoteca, ballare, e allo stesso tempo stare con il telefono in mano.
COSA TI PIACE, ANCORA, DI EIVISSA?
Il mio lavoro, lo stile di vita che c’è ancora a Eivissa. Il clima, le spiagge, il mare. La luce, la natura. Eivissa in un certo senso è sempre la stessa. Cambia solo la gente, la sua filosofia.
QUALI SONO GLI ARTISTI CHE HANNO INFLUENZATO LA TUA VITA?
Jean Cocteau, soprattutto. Nei suoi film, nelle sue poesie, ho formato la mia estetica.
VAI ANCORA SPESSO IN INDIA?
Sì, vado ogni anno almeno un mese.
QUAL È IL TUO RAPPORTO CON IL MEDITERRANEO?
Per me è l’unico posto. È tutto, il Mediterraneo. Ho sempre vissuto qui, voglio vivere ancora qui, voglio morire qui. È la culla di tutta una civiltà, da Atene a Beirut.
COS’È CHE SENTI PIÙ CARO, DI QUESTO MARE, DI QUESTE COSTE?
La natura, la vegetazione, il cibo, il sentimento. Vivere al sole. La filosofia. Il rispetto. Il Mediterraneo è tutto. La nostra storia viene da qui.
HAI ANCORA LA PASSIONE PER IL COMMERCIO, PER LA SUA FILOSOFIA?
Ogni volta che viaggio, in ogni città, vado a visitare i suoi mercati. Non posso dire di aver conosciuto una città se non ne conosco i mercati. È il mestiere più antico del mondo, in fondo. È la base di quello che siamo, il commercio, la base del Mediterraneo.
UN RIFUGIO SICURO
UN’ISOLA PER UN’ISOLA PER IL UN’ISOLA PER UN’ISOLA PER UN’ISOLA PER LE UN’ISOLA PER LE PER NASCONDERSI. PER SFUGGIRE ALL’APOCALISSE.
PER LA NATURA, DIVERTIMENTO, PER LA MUSICA, PER IL SILENZIO, LE TRADIZIONI, LE ARTI, UN’ISOLA NASCONDERSI. UN’ISOLA ALL’APOCALISSE.
che il veggente Nostradamus avesse indicato, in una delle sue profezie, che in caso di apocalisse nucleare, la Isla Blanca sarebbe stata uno dei pochi luoghi al mondo in grado di sopravvivere. Eivissa non compare in nessuno scritto dell’indovino e astrologo provenzale, tuttavia il comune di Sant Joan de Labritja ha deciso di utilizzare quell’invenzione come mezzo di promozione del turismo. Eivissa: il luogo migliore in cui passare la fine del mondo? Forse. E anche trascorrere sull’isola gli anni che la precedono non sarebbe così male.
THEATRE OF THE ANCIENTS
La prima volta in cui Joanna Hruby ha visto Eivissa aveva soltanto 6 anni. Poi, di nuovo, una seconda volta, quattordici anni dopo. In quella seconda visita, sentì un legame particolare. Nata e cresciuta a Londra, è lì che Joanna ha studiato il teatro di burattini. Oggi, a Eivissa, ha fondato Theatre of the Ancients: una compagnia di teatro e performance specializzata nel racconto delle tradizioni dell’isola con marionette e maschere giganti. Il suo studio è nel centro di Eivissa, tra gli uliveti di terra rossa e il silenzio delle strade deserte. Fuori, l’edificio bianco si apre su un terreno con nespoli, altri ulivi, yucca. Alcune vecchie auto degli anni Settanta e Novanta. Dentro, si è accolti da enormi teste di capre di cartapesta, sorrette da una struttura in legno. Sono le capre di Es Vedrá, spiega Joanna, l’unica specie di mammifero ad aver mai abitato lo scoglio ibizenco. Poi altri musi più aguzzi, i podencos, la razza canina tipica dell’isola, e le immancabili rappresentazioni della dea Tanit, protettrice di Eivissa. I cabezudos, spiega Joanna, sono invece rappresentazioni in scala gigante già presenti nella tradizione delle isole pitiuse, specialmente a Maiorca. Con queste teste giganti la sua compagnia crea coreografie, danze e cortei con cui celebrare i miti e il folklore di Eivissa.
Come è tradizione per la quasi totalità delle isole mediterranee, anche Eivissa, prima degli anni Sessanta, non gode di un’economia affatto florida. La sua popolazione ha una forte espansione all’inizio del Novecento, e questo provoca tensioni interne all’isola, proprio a causa della scarsità di risorse. Molti ibizenchi emigrano verso Cuba e, in parte, verso il Nord Africa. Tutto cambia con gli anni Sessanta, quando inizia il turismo di massa. Prima Eivissa è meta di hippy e altri appartenenti alle sottoculture giovanili, poi inizia a essere sempre più appetibile per tutti gli altri europei. A poco a poco, il turismo, spinto anche dalla tradizione musicale del luogo, diventa il principale motore economico isolano. Con il turismo è nato un ampio mercato di souvenir e altre chincaglierie di scarsa qualità, a loro modo, tuttavia, tipico del luogo. Abbiamo scelto alcune magliette, vintage e contemporanee, in questa serie fotografica.
SOUVENIR
UN’ISOLA SACRA
L’AURA DI MAGIA, MISTERO CHE CIRCONDA EIVISSA
PRINCIPALMENTE ALL’ISOLOTTO
NEL SUD-EST DELL’ISOLA, MODI SORPRENDENTI, MOLTO
Quanti significati ha la parola “magico”? «Eivissa è magica», dicono le pubblicità per attirare i turisti; lo ripetono quegli stessi turisti mentre contemplano il tramonto affacciati su Cala Comte; lo sussurrano anche i visitatori delle discoteche, quando escono avvolti dalle prime luci dell’alba, e poi i nuotatori nelle cale solitarie del nord dell’isola, gli hippy e gli sciamani che vengono a visitare quest’isola fin dai primi anni Sessanta. Poi c’è la magia non metaforica, più letterale. Quella misteriosa. E Eivissa, a quanto si dice, ne è intrisa da sempre.
MISTERO E MISTICISMO EIVISSA È ATTRIBUITA ALL’ISOLOTTO DI ES VEDRÀ, DELL’ISOLA,
CHE SI MANIFESTA IN
MOLTO DIVERSI FRA LORO.
Non è una strategia di marketing recente o una trovata new age fatta di pozioni e fasi lunari. Si percepisce un alone di spiritualità già a partire dall’etimologia associata al nome “Eivissa”: alcune teorie lo fanno risalire alla divinità egizia Bes, che proteggeva i suoi fedeli da tutti gli animali velenosi. All’epoca, infatti, prima che altre specie alloctone fossero importate, a Eivissa non esistevano serpenti, e i cartaginesi, che la utilizzavano come porto strategico per le loro rotte commerciali, nel Mediterraneo, la trovavano per questo un’isola benedetta. L’aura di magia, mistero e misticismo che circonda Eivissa si deve però principalmente all’isolotto di Es Vedrá, nella parte
meridionale dell’isola, e subisce declinazioni sorprendenti e molto diverse tra loro.
Una delle storie più antiche e affascinanti arriva dall’Odissea di Omero. Dopo la permanenza nel palazzo di Circe, secondo l’opera, Ulisse decide di prendere il mare per navigare verso la natia Itaca. Prima di partire, Circe lo mette a conoscenza di alcuni pericoli in cui si imbatterà durante la navigazione. Il primo, e il più famoso di tutti in quella che è diventata ormai mitologia popolare, è quello delle Sirene, creature ibride, metà donna e metà uccello, che attirano i marinai con la loro dolce voce. Le istruzioni sono precise e severe: Ulisse dovrà tapparsi le orecchie con la cera d’api per non sentirne il canto, e farsi incatenare all’albero maestro della nave per non esserne stregato, e correre poi il rischio di lasciare tutto buttandosi in mare. Gli uomini che si fanno ammaliare dalle Sirene sono condannati a non tornare mai più, e infatti, racconta Omero, gli scogli che circondano quelle creature sono coperti di scheletri e cadaveri. Oggi, fortunatamente, non è così, ma è credenza che la dimora delle Sirene, quello scoglio maledetto, fosse proprio l’isolotto di Es Vedrá.
Montagna in mezzo al mare di oltre 400 metri, parte della riserva naturale di Cala d’Hort, dal punto di vista geologico Es Vedrá
è un’isola calcarea, formatasi nel Mesozoico come tutte le Baleari. Non è abitata né da esseri umani né da mammiferi: soltanto da una specie di lucertola e da uccelli che nidificano tra le rocce frastagliate. Un tempo, a voler essere precisi, ci fu una persona che ci si stabilì: si chiamava Francisco Palau y Quer, era un frate carmelitano e, per motivi politici, cercò esilio a Eivissa da Barcellona,
nel 1855. Per un certo periodo, con una barca a remi, raggiunse Es Vedrá e si stabilì in una caverna dell’isolotto. Qui si dedicò alla meditazione, alla preghiera, vivendo da solo in una grotta. Sopravviveva soltanto, dice la leggenda, grazie alle gocce d’acqua piovana che filtravano dalle pareti del suo rifugio.
Durante la sua permanenza sull’isolotto, Francisco ebbe diverse visioni mistiche, documentate nei suoi scritti, Mis Relaciones con la Iglesia. Qui troviamo visioni di imponenti giovinette celestiali che diffondevano amore. Curiosamente, in uno degli scritti, il frate specifica descrive anche alcuni spettacoli luminosi che, in seguito, sono stati interpretati come oggetti volanti non identificati.
Per gli appassionati di UFO, Es Vedrá è infatti uno dei luoghi più interessanti d’Europa. Gli avvistamenti segnalati sono decine, e ce n’è uno più rilevante di altri. È successo l’11 novembre 1979, quando un aereo che stava percorrendo la rotta Maiorca-Tenerife si trovava proprio sopra l’isolotto. In quel momento, secondo il rapporto del pilota, l’apparecchio ha incrociato la traiettoria con un oggetto circolare e luminoso che emetteva forti lampi di luce e si muoveva a velocità impossibili da raggiungere per i mezzi a noi conosciuti. L’aereo è stato costretto a un atterraggio forzato all’aeroporto Manises di Valencia, e il fenomeno non è mai stato spiegato.
Ci sono ancora leggende, tra i pescatori, che narrano come Es Vedrá sia un polo magnetico potentissimo, in grado di mandare in tilt le bussole e gli strumenti di navigazione. Una storia simile, insomma, a quella che circonda il Triangolo delle Bermuda, ma facilmente smentibile. Un’ultima leggenda, questa volta positiva-
UNA DELLE
LEGGENDE INTRIGANTI PROVIENE DALL’ODISSEA È CREDENZA CHE ES VEDRÀ MALEDETTO DOVE LE SIRENE, METÀ DONNA E METÀ UCCELLO, ULISSE CON LE LORO
mente affascinante, vuole che l’isolotto sia il luogo di nascita di Tanit, la dea lunare fenicia della danza e della fertilità, protettrice di Eivissa. Il volto della dea, oggi, è riprodotto in migliaia di statuette in vendita nei mercatini come souvenir, ma centinaia di anni prima del Cristianesimo era una parte importante del pantheon dei Fenici. Nel 1907, a Eivissa, venne scoperto il santuario rupestre di Culleram, in cui i fedeli depositavano terrecotte votive da offrire in dono a Tanit. In modo molto più prosaico, nell’Eivissa odierna, il nome di Tanit si trova associato a stabilimenti balneari, ristoranti e hotel.
LEGGENDE PIÙ ANTICHE E
DALL’ODISSEA DI OMERO: VEDRÀ FOSSE LO SCOGLIO
SIRENE, CREATURE IBRIDE, UCCELLO, ATTIRARONO
LORO VOCI MELODIOSE.
Altre divinità minori popolano infine la mitologia ibizenca: come i fameliars, folletti che nascono da un fiore che cresce soltanto nella notte di San Giovanni sotto il ponte vecchio di Santa Eulalia. Non sono troppo fastidiosi, ma domandano costantemente comida o trabajo, cibo o lavoro. E, suggerisce la saggezza popolare, è sempre meglio tenerli impegnati con qualche mestiere anche molto duro. In giro per il centro di Santa Eulalia si trovano, riprodotti sotto forma di sculture, diversi fameliars: li ha scolpiti lo scultore Andreu Morenu. Non domandano cibo né lavoro, ma testimoniano, con la loro presenza, che la vecchia Eivissa riesce ancora, in qualche modo, a conservarsi.
SPLASH
A Sa Figuera Borda si arriva superando il parcheggio affollato di Cala Comte, dove le auto sono tutte impolverate. Si prosegue, e allora di nuovo compaiono i campi, le balle di fieno, il finocchietto selvatico alto come bambini o sentinelle in piedi ai bordi della strada. Il mare spunta all’improvviso quando l’isola finisce, quindici metri più sotto. L’orizzonte è aperto. La roccia rossa sotto il primo strato di polvere sabbiosa. Per accedere all’acqua, i turisti scendono una scaletta ripida per accomodarsi nella baia più sotto. I ragazzi ibizenchi stanno su, si affacciano sull’abisso. Sono in equilibrio sul bordo, tra la roccia e il niente. Tirano prima un sasso per sicurezza o per scaramanzia, quasi fosse un rituale. Poi annunciano il tuffo con un conto alla rovescia. Uno alla volta. Tres, dos, uno. Spingono in avanti con le gambe, l’ombra si stacca da terra, sparisce nell’aria. Fanno un giro su loro stessi. Da sopra, li perdiamo di vista. Passano due secondi prima di sentire il rumore del corpo che incontra l’acqua.
GAIA REPOSSI
Dalla casa in cui ci accoglie Gaia Repossi si sente soltanto il mare. Ci sono altre case, nei dintorni, ma sono ben nascoste nella boscaglia di conifere. Una piscina è protetta dall’ombra di un pino. Molti metri più sotto, il vento agita il mare davanti a Cala Molí, nel Sud-Ovest dell’isola. Gaia si muove languida nel pomeriggio fresco. Questo isolamento che si gode, in questa terrazza, è anche un riassunto di quello che lei cerca da v.
È direttrice creativa del marchio Repossi, uno dei più influenti brand italiani di alta gioielleria del mondo, da quando aveva soltanto 21 anni. Ne sono passati sedici. Repossi fu fondato negli anni Venti del Novecento dal nonno di Gaia, Costantino, poi ampliato ulteriormente dal padre Alberto. Nel 2015 l’azienda è stata rilevata in parte da LVMH. L’anno dopo, Repossi apre uno store a Parigi, Place Vendôme. Tra la Francia e l’America, Eivissa rimane per Gaia un ritiro di inestimabile valore.
Oggi, i confini tra il marchio di famiglia e i social network diventano sempre più sfumati. Chi è allora Gaia Repossi, in poche parole?
Sono Gaia Repossi, faccio la stessa professione che facevano mio padre e mio nonno prima, per la terza generazione. Sono quindici anni che faccio questo mestiere, ma in realtà ci sono nata. Non era la mia prima passione, all’inizio, ma il design mi interessa moltissimo. Mi interessa rompere certi codici e proporre nuove cose. Penso che la gioielleria sia un campo abbastanza vergine per questo tipo di approccio.
Sei nata nel 1986, hai appena compiuto 37 anni. Ma da ragazzina volevi arrivare fino a qui oppure, con il mondo del gioiello, non volevi avere niente a che fare?
Non volevo averci niente a che fare. Pensavo che l’ambiente non fosse interessante né intellettualmente né artisticamente, lo trovavo superficiale. Negli anni Novanta, poi, la gente cool non metteva i gioielli, e anche agli inizi del Duemila. Ci si metteva un po’ di strass, e basta. Quindi per me era soltanto una cosa da red carpet, lontano dal design o dagli antichi gioielli che erano invece una forma di identità, l’espressione di un linguaggio che sembrava perso nel tempo. Ma la moda mi interessava molto: sono cresciuta in Costa Azzurra, quindi non avevo la moda intorno. Avevamo degli uffici a Parigi e appena potevo andavo, mi incuriosiva molto quel mondo. Ho studiato pittura, poi ho studiato archeologia mentre davo una mano a mio padre negli uffici di Parigi. E intanto a poco a poco pensavo: questa cosa io la farei così…
Quando ti sei detta: ok, ci provo?
In realtà ho cominciato a mettere un piedino dentro, a dare dei consigli quando avevo 18 o 19 anni, mentre facevo ancora l’università. Mio padre è stato molto intelligente e rispettoso nei miei confronti, dandomi molto spazio e permettendo di esprimermi. Ho preferito scegliere di studiare archeologia a Parigi per poter lavorare in ufficio e frequentare l’università nello stesso tempo. Ho fatto dei viaggi in India, dove ho scoperto per esempio i gioielli nomadi, mi attirano da sempre i gioielli etnici. Da lì i gioielli hanno preso una loro identità, e hanno iniziato a nascere delle mie idee per creare.
In che modo hai iniziato a far dialogare diverse culture nel mondo del gioiello?
Penso per esempio al mondo del punk. A me piacciono moltissimo i gioielli punk, che sono a loro volta ispirati dai gioielli africani. Questa ispirazione, poi, la trasformo in un prodotto estremamente raffinato, mantenendo però un certo posizionamento. Poi mi piace molto lo stacking, un metodo tradizionalmente africano.
Quali sono le difficoltà nel tradurre un’ispirazione in un gioiello contemporaneo?
Il gioiello etnico è il mio influsso principale, ma oggi la gioielleria non è scultura, e non è un dipinto in cui puoi esprimerti e fare una cosa astratta. Serve un oggetto perfetto, fatto con dei disegni tecnici, insieme a degli orafi. L’obiettivo in gioielleria è sempre quello di fare un nuovo classico, che è la cosa più difficile: dare a un prodotto un senso di atemporalità.
Se rispetti le regole del passato, abbinandole a un concetto più moderno del design, puoi creare in questo senso.
In che modo trovi che un gioiello valorizzi o cambi l’identità di una persona?
Se guardi al passato, il gioiello è un linguaggio. Per una tribù, per una civiltà, per uomini, donne. In un contesto più contemporaneo deve soprattutto sembrare tuo.
Sul rapporto tra moda, lusso, velocità e lentezza. Il gioiello sembra collocarsi in uno spettro lento, grazie anche alla sua lunga vita. Secondo te?
È un mondo lento in generale: decisamente slow-fashion. Ma è un settore abituato a essere così tanto slow che a volte lo è un po’ troppo, e per principio. Il gioiello gioca sulla desiderabilità, è un oggetto che si vuole acquistare, sia che sia un investimento oppure un colpo di fulmine. Ma se si è troppo lenti allora non funziona. È giusto essere contro il fast fashion e l’overconsumption, però bisogna anche avere un ritmo di creatività che nutre le richieste di oggi.
Cosa vuol dire, nel gioiello, la parola “etica”?
La moda è un disastro, anche se sta cercando di reagire. Penso ci vorrà tempo perché questi grossi conglomerati trovino una soluzione, è tardi e sarà lunga. Il cliente invece ha già una nozione di qualità, di sostenibilità più avanzata. Nel gioiello il vantaggio è che parliamo di un settore slow-fashion, un segmento di mercato che permette di non produrre troppo, di lavorare con volumi più piccoli che non distruggono gli ambienti.
Bellezza, invece?
A volte quando guardi un oggetto in sé, non indossato, sembra quasi brutto. Molti oggetti di gioielleria sono fatti per meravigliare. Succede che quando li si indossa prendano nuove proporzioni. Si muovono con il corpo.
Nel 2021 hai prodotto una collezione ispirata ai gioielli del fotografo Robert Mapplethorpe. Come è successo?
Avevo comprato una sua foto a una mostra, che aveva curato Sofia Coppola. Era la foto di una palma, e da allora abbiamo usato delle sue foto per il marchio: per inviti, per campagne. Quindi regolarmente, una o due volte all’anno, chiedevamo i diritti di alcune fotografie. E la Fondazione Mapplethorpe a un certo punto ha avuto l’idea di collaborare. Io ho detto: beh, certo! Allora sono andata a New York e ho chiesto un appuntamento per vedere l’archivio, poi a Los Angeles al Getty, che possiede centinaia di oggetti di Mapplethorpe. Ho fatto un documento con tutti i concept, un dossier di 50 pagine. E il capo della Fondazione mi ha detto: vorrei incontrarla. Alla fine abbiamo creato venti reference su tutta la selezione che avevo fatto. E ho preso due tematiche generali, una erano proprio delle repliche di alcuni gioielli che mi sembravano stupendi, e un’altra direzione è stata reinterpretare.
La stampa è stata ottima.
È stato un bellissimo progetto, da subito l’ho preso molto sul serio. Sono molto figurativi i suoi gioielli, a me di solito piac-
ciono le cose più astratte. Però la sua fotografia mi piaceva molto, soprattutto per questa rigidità che mostra.
Parliamo di comunicazione. Come ti è venuta l’idea di comunicare in un modo così diverso nel mondo così tradizionalista del gioiello?
Innanzitutto volevo avvicinare il gioiello alla moda, con un’astuzia semplice. Dire: perché del dress code generale di oggi non fa parte anche il gioiello? Negli editoriali di moda era sempre separato, associato al gala, ai vestiti lunghi. I gioielli per tutti i giorni non c’erano.
Gaia Repossi è anche una sorta di brand. Come vivi il fatto di avere più follower del marchio di famiglia?
Il brand non ha ancora una voce sul mondo degli influencer. Io personalmente mi diverto. All’inizio no, ero più timida. Oggi in un certo senso lo capisco, ci ho messo un po’.
Hai detto di essere cresciuta in Costa Azzurra, quindi sul mare. In che modo pensi che il mare abbia influenzato il tuo modo di essere, di vivere?
All’inizio poco: dopo l’adolescenza sono andata direttamente a Parigi, ho vissuto in America, lavoravo da subito moltissimo e non volevo niente di calmo e di tranquillo. Invece durante il Covid c’è stato un primo momento di autocoscienza. Da quando poi Repossi è entrato in LVMH il mio ruolo si è definito e ha trovato un ordine: quando sei una piccola maison invece devi fare tutto tu, io e mio padre. Oggi ho anche 37 anni, e mi sono detta: ho dato tantissimo. Continuo a lavorare molto, ma ho imparato anche a gestire il mio tempo.
Quando hai scoperto Eivissa?
Tanto tempo fa. La prima volta avrò avuto 17 anni, forse 16.
Ci eri venuta per la musica, per le feste?
No, a me piace l’isola per il mare, per scappare. Quello che mi piace al di là della festa è lo spirito libero che ha. In confronto alla Costa Azzurra, che è molto tipicamente francese, molto “vestirsi per la cena”, Eivissa è molto più libera. Mi ricorda più posti che ho trovato in Jamaica, o in Thailandia. Nel Mediterraneo non penso ci siano molte isole così libere. Sento che qui posso nascondermi, circondata da veri amici. Poi faccio yoga da 16 anni, si riflette anche qui questa energia, un po’ più spirituale.
E con il mare, che rapporto hai?
Sono cresciuta nuotando, il mare mi dà immediatamente un senso di pace.
Il periodo del Covid, quindi, l’hai trascorso qui?
In parte. Quando è tornato possibile viaggiare, ho ritrovato posti che mi mancavano, come India e Giappone. Ma Eivissa è rimasto un paradiso dove scappare, staccare. Un posto dove ci si sente a casa.
Ci sono cose che ancora stai imparando?
Certo. Abbiamo tutti questi libri di gioielli in studio, ogni tanto li apro e trovo sempre qualcosa che non avevo visto prima. Pochi mesi fa è uscito un orecchino ispirato a un orecchino africano che avevo trovato da un antiquario, e qualche tempo dopo, sfogliando dei libri, l’ho ritrovato praticamente uguale.
” A me piace l’isola per scappare. Quello che mi piace al di là della festa è lo spirito libero che ha. Mi ricorda più posti che ho trovato in Jamaica, o in Thailandia. Nel Mediterraneo non penso ci siano molte isole così libere”.
DISEGNARE LA NOTTE
La storia del clubbing di Eivissa non è fatta soltanto di musica. È complessa, variegata e stratificata, e si mescola con l’economia, anzitutto, ma anche con l’antropologia. Diverse sottoculture hanno animato le notti dell’isola, lasciando il segno sia a livello musicale che visuale, grazie alle loro incredibili opere.
Sull’isola c’è un collezionista particolare che, nel suo archivio, ha raccolto la storia decennale di questi poster: si chiama Pep Pilot. Oggi Pep ha superato i sessant’anni, ma dal 1970 in avanti ha attraversato tutta la storia notturna ibizenca. Un tempo le serate non si succedevano, come oggi, ogni giorno, ma erano più diradate. I poster, allora, avevano una vita più lunga, e il loro impatto era maggiore, la loro eco aveva più tempo per espandersi e rimbalzare da pueblo a pueblo. Gli autori che si dedicavano a disegnarli erano artisti veri e propri. I più famosi, nomi da e chiamano Yves Uro, Rom Ero, Carlos Díaz Genicio. La collezione di Pep Pilot spazia dai famosi party hippy del Pacha, ancora oggi attivi, chiamati Flower Power, al leggendario KU di San Rafael, oggi chiamato Privilege. C’è poi lo scomparso Es Paradis Terrenal, e naturalmente lo Space. Ogni serata aveva un tema, scherzoso come il tema di un travestimento oppure più serio, come il progetto del Pacha di finanziare la piantumazione di 1000 alberi sull’isola.
Yves Uro, Acid House, 1988 (disegno)
Yves Uro, Opening Summer, 1984 (disegno)
Yves Uro, Extasis, 1977 (disegno)
Yves Uro, Noche Tanga, 1981 (disegno)
Yves Uro, KU, 1988 (disegno)
Yves Uro, Miss Tanga, 1988 (disegno)
Yves Uro, Luna, 1988 (disegno)
YVES URO
Forse il più leggendario degli artisti che hanno firmato i poster della storia del clubbing ibizenco, Yves Uro è nato nel 1954 e morto prematuramente nel 1995, a Parigi. Ha lavorato principalmente per il KU, disegnando quasi 400 poster, e in parte per altri club e discoteche. Il suo stile è caratterizzato da disegni ricchi di realismo e dettagli, ed evidentemente ispirato alla fantascienza. Frequenti sono gli accenni ad altre correnti pittoriche, soprattutto il surrealismo. La sua opera è stata raccolta nel volume Urovision, pubblicato dall’editore inglese IDEA Books, curato dalla sorella Catherine.
Rom Ero, Acuarius, 1991 (disegno)
Rom Ero, Erotic Dreams, 1995 (collage)
Rom Ero, 28 Aniversario, 2001 (acrilico)
Rom Ero, Cherrys & Diamond, 1989 (acrilico e collage)
Rom Ero, Caligula, 1993 (collage)
Rom Ero, House Of Madness, 1991 (acrilico e collage)
ROM ERO
Originario di Granada, Rom Ero ha iniziato a disegnare poster a Eivissa nel 1989. Ha sempre mantenuto la sua attività di artista figurativo a fianco a quella di illustratore: la vecchia direttrice del Pacha lo chiamò dopo aver acquistato, nel 1988, un suo quadro in una mostra che aveva tenuto a Eivissa. È suo il celebre logotipo del Flower Power, quello che raffigura un occhio stilizzato. Negli anni d’oro del clubbing, lavorava molto con lo strumento del collage: con lui lavorava un’equipe di collaboratori per ritagliare e incollare a mano, prima dell’arrivo dei computer. Inoltre, era a capo di un team che si occupava della decorazione del club.
CARLOS DÍAZ GENICIO
Carlos Díaz Genicio voleva fare per Es Paradis Terrenal quello che Tolouse-Lautrec, decenni prima, aveva fatto per il Moulin Rouge a Parigi. Nato nelle Asturie, si trasferisce a Eivissa negli anni Settanta. Il successo arriva negli anni Ottanta, con i poster di Es Paradis Terrenal, considerata ancora oggi una delle discoteche più belle del mondo. Per Es Paradis Carlos lavora anche come direttore artistico nell’organizzazione delle feste, e fino al 1995 disegna tutto a mano. Il suo stile è futuristico, e rivoluzionario per la capacità di integrare il disegno con le nuove possibilità offerte, allora, dalla grafica computerizzata.
Carlos Díaz Genicio, Summer of Love, 1993 (aerografo e collage su cartone)
Carlos Díaz Genicio, Night of Sant Joan, 1987 (acrilico su carta)
Carlos Díaz Genicio, Pyramids, 1995 (aerografo)
Carlos Díaz Genicio, Mister, 1989 (acrilico su carta)
Carlos Díaz Genicio, Circus, 1989 (pastelli)
Edizione e Creazione
Alla Carta Studio
Brand Creative Director
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Brand Director
Gloria Rodríguez
Fotografie
Stevie & Mada
Styling
Francesca Izzi
Illustrazioni
Jo Minor
Testi
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Produzione
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Un ringraziamento speciale a Antonio Cobo
Guillermo Clavel Marì
Thomas Derville at L’attitude Productions
Estudi Tur Costa
Ilaria Norsa
Pep Pilot
Asja Piombino
Paulo Vieira
Crediti fotografici
© Stevie & Mada
© Jo Minor: pp. 71-83
© Prada Poole Archive: pp. 42-47
© The Estate of Yves Uro / Yves Uro / Catherine Uro: pp. 134-135
© Rom Ero: pp. 136-137
© Carlos Díaz Genicio: pp. 138-139
Immagini gentilmente concesse da Repossi: pp. 124-131
Stampa
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ISSN: 2660-8758
Legal Deposit: PM 0911-2021
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