Menorca
CAMMINARE significa viaggiare, spostarsi da un luogo all’altro. Avanzare, esplorare e innovare. The Walking Society è una comunità virtuale aperta a persone di ogni estrazione sociale, culturale, economica e geografica. Individualmente e collettivamente, TWS sostiene l’immaginazione e l’energia, offrendo idee e soluzioni preziose per migliorare il mondo. Con semplicità e onestà.
CAMPER significa “contadino” nel dialetto di Mallorca. I valori e l’estetica del nostro marchio sono influenzati dalla semplicità del mondo rurale combinato con la storia, la cultura e il paesaggio del Mediterraneo. Il nostro rispetto per l’arte, la tradizione e l’artigianato consolida la nostra promessa di fornire prodotti originali e funzionali di alta qualità con un appeal estetico e uno spirito innovativo. Cerchiamo un approccio più umano al business e cerchiamo di promuovere la diversità culturale, preservando le tradizioni locali.
MENORCA sembra come alla deriva nel Mar Mediterraneo. C’è un’immobilità in questa Riserva della Biosfera UNESCO che rimane incontaminata tanto quanto l’orgogliosa identità minorchina.
THE WALKING SOCIETY Il sedicesimo numero di The Walking Society è un viaggio in un mondo che ha vissuto conquiste, scambi e passaggi di potere ma che ne è uscito arricchito culturalmente, nonostante tutto. Un luogo resiliente e selvaggio in grado di ispirare ancora oggi i viaggiatori.
OMAR SOSA
Il co-fondatore della celebre rivista di interior design Apartamento ci apre le porte della sua casa di campagna di Menorca.
P. 19
LÍTHICA
Una cava di arenaria abbandonata è stata trasformata in un particolare museo a cielo aperto, un po’ installazione e un po’ labirinto.
P. 27
ILLA DEL REI
A pochi minuti di barca da Maó sorge l’Illa del Rei, una piccola isola oggi sede di Hauser & Wirth Menorca, e dello giardino di piante perenni disegnato da Piet Oudolf.
P. 37
CUINA MENORQUINA
Ricette di mare, ricette di terra, ricette in cui riecheggiano i diversi popoli che hanno attraccato a questo porto o dominato l’isola: uno sguardo sulla cucina di Menorca.
P. 45
QUARANTINE EVENTS
Una residenza artistica che funziona come una quarantena: si tiene dalla primavera del 2023 in un antico lazzaretto su un’isola paradisiaca.
P. 55
S’ÀVIA COREMA
Omaggio a uno dei personaggi più famosi delle tradizioni popolari di Menorca, tipico del periodo della quaresima: un’anziana signora con sette gambe.
P. 62
CAMÍ DE CAVALLS
Viaggio illustrato lungo lo spettacolare sentiero non asfaltato, da percorrere a piedi, in bicicletta o a cavallo, che forma il perimetro dell’isola.
P. 76
GEGANTS
Menorca è conosciuta come l’isola dei giganti. Abbiamo visitato una struttura megalitica costruita oltre duemila anni fa, “Sa Naveta Des Tudons”.
P. 90
BETTINA CALDERAZZO & MATT WESTON
Dall’Australia e dall’Inghilterra, passando per Parigi, sono infine sbarcati a Menorca. E hanno fondato un’innovativa galleria d’arte.
P. 105
CAVALL MENORQUÍ
I Cavalls Menorquins sono una razza autoctona dell’isola, e sono i protagonisti delle Fiestas che si tengono ogni estate.
P. 112
MAIONESA
Una delle salse più famose del mondo è nata qui nel 1700: una storia di conquista, di amori, e naturalmente di intuizioni culinarie.
P. 121
Un rifugio per asini abbandonati, in mezzo alla campagna dell’isola, è un’oasi di bellezza e tranquillità. E l’estate apre ai visitatori.
P. 128
A Menorca il sole sorge prima che in tutta la Spagna. Questo succede perché è il punto più a est dello stato, più di Cap de Creus in Catalogna, più di Capdepera nell’isola vicina e “maggiore”, Mallorca. In confronto l’alba arriva a La Coruña, in Galizia, più di un’ora dopo. Il punto in cui la luce arriva per prima è Mahón, che di Menorca è anche la capitale. E c’è un’altro dato statistico notevole da nominare a questo punto: quello di Mahón è il secondo porto naturale più grande del mondo, profondo più di 6 chilometri, come un lungo corridoio che dal Mediterraneo scava nella roccia dell’isola. Ci sono molte altre cose uniche, a proposito di questa isola, e sono cose che non si possono inserire in classifiche precise ma sono il motivo, più sfumato e intangibile, per cui Menorca è così unica. La principale è la natura. Menorca, con tutti i suoi 700 chilometri quadrati, è una Riserva della Biosfera dell’Unesco, proclamata nel 1993.
Nei boschetti a bordo strada, ovunque l’occhio sia in grado di spingersi, si trova il protagonista della flora di Menorca: l’ullastre, anche conosciuto come olivo selvatico. Copre un terzo del territorio isolano, e a differenza di altri olivi mediterranei, è in grado di crescere per diversi metri. Il suo dono alla comunità, da sempre, non sono tanto i frutti (la produzione è scarsa, anche se pregiata), ma il legno resistente e robusto. In tempi antichi con l’ullastre si costruivano gli strumenti agricoli, e oggi è ancora usato per i tradizionali cancelli, chiamati “araders”, che delimitano ogni vialetto.
E poi c’è la storia, così diversa dalle compagne Baleari. Lo si scopre sempre da Mahón, appena sbarcati nel porto. Al porto, la sensazione è quella di essere approdati in un’insenatura caraibica. Merito degli alberi che sono sempre verdi e rigogliosi dall’estate all’inverno, del lungo fiordo che rassomiglia a un fiume equatoriale, dell’architettura che non è quella tipicamente mediterranea, ma è eclettica e cosmopolita. Addentrandosi nella città, ecco spuntare i bovindi di origine inglese, e poi le finestre “a ghigliottina”, caso unico a queste latitudini, e invece tipiche sempre dell’Europa
settentrionale. Dal 1703 e, definitivamente, fino al 1802, Menorca appartenne infatti alla Gran Bretagna. Il secolo inglese segnò fortemente l’architettura minorchina, e non solo: è tradizione, sull’isola, produrre e bere il gin locale, e poi ci mangiare i pudding che i minorchini chiamano “greixera dolça”, eancora il “grevi”, che altro non è se non un sugo di carne, ovvero un classico gravy. Percorrendo le piccole strade interne oppure il lungo perimetro, ci si stupirà anche di quanto ampio sia il cielo sopra Menorca. Ben prima dell’elezione a Riserva della Biosfera Unesco, qui si preservò sempre il territorio dal turismo e dalla speculazione. Nella prima metà del Novecento fu una questione politica: Menorca, durante la Guerra Civile, rimase l’unica isola dell’arcipelago fortemente Repubblicana, e la successiva dittatura, per vendetta, decise di destinare tutti i fondi alle altre e non a lei. Una manna, vista con il senno di poi. Menorca è esposta a otto diversi venti, il più forte dei quali è la Tramuntana settentrionale. Si dice che gli altri balearici guardino con sospetto ai minorchini, perché il vento costante forma caratteri originali e imprevedibili. Al netto delle superstizioni, questo elemento è la sua ricchezza: un cielo che si apre e si chiude come una danza, un orizzonte senza costruzioni fuori scala, affidato agli ulivi e al mare, da cui annunciare il sole al resto della Spagna.
OMAR SOSA
La bouganville da cui spunta il viso di Omar è perennemente fiorita, una parte violetta, una parte arancione. Siamo lungo strade tranquille e silenziosa verso la fine di Sant Lluís, a pochi chilometri e minuti dal mare, qui le ville sono basse e nascondono preziosi giardini rigogliosi dietro le mura, e palme e pini marittimi che profumano l’aria.
Omar Sosa è nato a Barcellona ma ha un rapporto con Menorca lungo e complicato come tutti i legami profondi, che ha attraversato l’infanzia, l’adolescenza e ha trovato una nuova sintesi nell’età adulta. Omar fa e ha fatto molte cose. É un graphic designer, ha co-fondato la rivista di interni ormai cult Apartamento, ha anche co-fondato il wine club The Natural Wine Company, e più recentemente è diventato direttore artistico di BD Barcelona, uno studio di design fondato nel 1972. All’ingresso della casa, una lunga serie di sedie minorchine, tipiche dell’isola, di cui Sosa è particolarmente appassionato. La casa è semplice, funzionale, in equilibrio tra modernità e un aspetto ancora fortemente rurale. Omar si siede su uno dei due divani, ricoperti di un telo bianco come le pareti, di cotone grezzo.
Di tutte le cose che fa, la più riconoscibile e famosa è probabilmente Apartamento Magazine. E visto che siamo venuti a trovarti a casa tua, iniziamo da qui. Come è cominciata questa storia?
Era il 2006, io stavo cercando un appartamento a Barcellona, ed era difficile. Non riuscivo a vedermi da nessuna parte. All’epoca già esistevano diverse riviste di interni, ma mi sembravano tutte troppo aspirazionali, o per architetti o per professionisti, non mostravano il mondo che volevo vedere io. In quei mesi ho conosciuto il mio socio Nacho Alegre, lui faceva foto per la riviste,e io facevo graphic design. È stato un match facile.
Avevate la stessa visione?
Anche lui era interessato all’interior design, ma non trovava, come me, riviste che gli piacessero davvero. Quindi abbiamo parlato un po’ e abbiamo deciso di iniziare con una pubblicazione, senza un’idea molto chiara di cosa fare. Dopo un po’ abbiamo fatto un mock-up con quattro idee, già nel formato che poi sarà quello di Apartamento, con la testata e tutto. Poi, un giorno che Nacho è andato a Milano per lavoro, ha conosciuto Marco Velardi, che è oggi il terzo moschettiere. Lui è stato molto importante perché noi eravamo due ragazzi di Barcellona, mentre Marco è italiano, e con lui Apartamento è diventata immediatamente una rivista internazionale. Da subito abbiamo iniziato a pensare a come avremmo potuto dialogare con il Salone del Mobile, che si tiene a Milano.
Ci siamo dati una deadline, e nel 2008 abbiamo presentato Apartamento da Spotti, a Milano.
È rivista che mostra come si vive nelle case, più che parlare di architettura e design.
Perché per noi c’è sempre la persona al centro. Gli interni erano una scusa, perché c’è sempre curiosità per vedere come vivono le altre persone, però in realtà le storie sono su chi ci vive, non sugli interni.
Vedere cose tante case degli altri ha cambiato il modo in cui guardi alla tua?
Sì, tutto ti cambia. Mi ha reso un po’ più consapevole. Ho notato che dieci anni fa facevo le cose più casualmente, e con il tempo sono diventato più organizzato, più preciso. Alla fine penso sempre che non ho idea di niente, però: spesso la gente mi chiama pensando che io sia chissà quale guru del design, mi chiede tipo: ho bisogno di un divano, cosa compro? E io: non ne ho idea, posso dirti quello che piace a me, ma non sono un arredatore.
Apartamento ha una forte identità cartacea: cosa pensi del futuro della carta?
Mi sembra quasi una domanda vintage, questa. Quando abbiamo iniziato, quindici anni fa con Apartamento, non si capiva cosa sarebbe dovuto essere digitale e cosa di carta. Adesso credo che la carta abbia trovato il suo posto. Si è creata una separazione naturale che resterà per molto tempo. E ci sono moltissime riviste di una qualità incredibile. Il libro-oggetto è un altro discorso ancora. Comprandoli e collezionandoli, dici: io mi identifico in questo, io sono questo. Per me è così:
la mia introduzione ai libri è sempre stata dal punto di vista dell’oggetto.
È diverso, invece, per i quotidiani.
Ti dico, il mio guilty pleasure a Menorca è leggere il quotidiano locale. E quello è bello leggerlo di carta, seduto sul divano oppure al bar: è un piacere che non passerà mai.
Come si riesce a rimanere contemporanei e non passare di moda dopo tutti questi anni?
Prima di tutto mi stupisce che siamo ancora così rilevanti, che ancora la gente aspetta di comprarci e di sapere cosa mettiamo insieme ogni sei mesi. Poi ci penso, e mi dico: le riviste tradizionali di interior design erano nate per spiegarti un tipo di stile, e per vederlo. Questo stile, di solito, dopo un po’ di anni passa. Con Apartamento, senza averlo scritto formalmente, noi non abbiamo una vera voce editoriale. La nostra voce è quella di tutta la gente che mettiamo sul giornale, sono loro che parlano del loro mondo. Il nostro lavoro è più quello di curatori: mettere insieme persone diverse in modo da creare una voce globale, non unica. Più che non passare di moda, Apartamento non è stato mai di moda. È diverso. Sullo stile è vero, quindici, vent’anni fa gli interni si scattavano in modo diverso, molto più “pulito”, e molte riviste di interior design hanno iniziato a fotografare adesso in modo più naturale. Apartamento è uguale esattamente al primo giorno. Tutto si muove grazie alla curiosità, e fortunatamente noi abbiamo ancora curiosità. Ed è molto importante dire che abbiamo un team di collaboratori molto giovani: tutta questa gente ci fa vedere le cose in un altro modo e non essere vecchi. Forse la formula è questa.
La tua storia con Menorca quando inizia?
Molto presto. Mio padre è venuto qui negli anni Sessanta, lui vendeva enciclopedie e le portava in giro in tutta la Spagna, nei posti in cui non arrivavano i libri. Quindi è arrivato a Menorca, si è innamorato dell’isola, ha venduto tanti libri. Quando ero piccolo ci tornavamo spesso, poi nel 2000 lui ha comprato una casa. Io ero un teenager, ed era molto comodo da Barcellona, quindi fino ai trent’anni ci venivo molto spesso. A un certo punto ho iniziato a viaggiare per diverse città, e qualcosa si è rotto: Menorca mi sembrava noiosa, prevedibile. Per dieci anni non ci sono più tornato, piuttosto in vacanza andavo in Grecia. Ho passato cinque anni a New York fino al 2020, finché non sono arrivati i lockdown. Quell’estate sono tornato in Spagna, e il mio socio Nacho mi ha detto: vieni a Menorca, che hai bisogno di un po’ di mare. E arrivato qui, ho visto l’isola con altri occhi.
Un ritorno di fiamma.
Due amici mi hanno detto: affittiamo una casa? Io ho detto: fantastico. Perché non sapevamo se ci sarebbe stato un altro lockdown, e io non avevo intenzione di trascorrerlo in città. Siamo stati a Mahón, e ho spostato la mia residenza a Menorca. Poi sono tornato per altre due estati con mia moglie Patricia, e non avevamo intenzione di comprare una casa. Guardavano gli annunci tanto per farlo, ma non avevamo soldi. Ce n’erano due sole che ci piacevano, la prima era brutta, la seconda era questa. Le persone che ci vivevano ci piacevano, erano due
“Sento spesso amici che dicono che la mia casa è vuota. Ma per me non è vuota! Solo, non ha bisogno di niente di più. Per esempio ho conservato i divani dei precedenti inquilini. È stato un lavoro di semplicità, perché ero stanco di avere case preziose in cui sei sempre nervoso che qualcosa si rompa, e questo è un posto che può accogliere tutti.”
anziani inglesi che avevano riempito la casa di fiori, e adesso volevano assolutamente venderla. È stata una cosa senza pensarci. È assurdo, ma è successo. E adesso, vivendo a Barcellona, è facile venire qua.
Cosa vi ha convinto?
Abbiamo cominciato a conoscere gente da subito, sia gente che vive qua stabilmente che gente che ci viene di tanto in tanto, e sono tutte persone gentili e interessanti.
Quanto hai lavorato a questa casa?
Poco: non avevo tempo e non avevo i soldi. Per fortuna l’abbiamo comprata da due persone che ci vivevano, e non era abbandonata o in rovina, come succede spesso. Era semplice e funzionale, e ho fatto il minimo. Più che altro il lavoro è stato togliere.
Preferisci una casa vuota a una troppo piena?
Sento spesso amici che dicono che la mia casa è vuota. Ma per me non è vuota! Solo, non ha bisogno di niente di più. Per esempio ho conservato i divani dei precedenti inquilini. È stato un lavoro di semplicità, perché ero stanco di avere case preziose in cui sei sempre nervoso che qualcosa si rompa, e questo è un posto che può accogliere tutti.
Cosa preferisci di Menorca, rispetto alle isole vicine?
Ogni isola è diversa ma questa è un’isola ancora molto contadina, poco costruita, e naturale. E l’architettura è molto interessante, con molte influenze inglesi.
Pensi che il desiderio di una vita più raccolta, di luoghi più intimi sia una questione di età?
È anche il richiamo della natura. Dopo cinque anni a New York la natura mi mancava. Ho avuto l’immensa fortuna che il primo
lockdown l’ho fatto in Messico, in uno dei posti più belli del mondo, e per tre mesi sono stato su una spiaggia praticamente solo per me. E dopo quell’esperienza, non potevo più tornare indietro. Anche per quello ho iniziato a vedere Menorca con altri occhi. Mi mancava il mare, mi mancava guidare, mi mancava avere spazio.
Avere una casa è come costruire delle radici?
È interessante pensare a cosa significa pensare alla casa in quest’epoca: paghi un sacco di soldi per un posto che ti dà, praticamente, altro da lavorare e mal di testa. Stare qui senza lavorare costantemente è impossibile. Ora devo installare un sistema di riscaldamento in bagno. Poi c’è il giardino, ogni settimana qualcosa da fare c’è. Ma è questa la bellezza di una casa come questa.
Tu hai anche co-fondato una distribuzione di vino, The Natural Wine Company, e hai disegnato un’etichetta di vino che ha avuto grande successo soprattutto negli Stati Uniti, Vivanterre. C’è qualcosa che collega il piacere di stare in casa, l’amore per la natura, e l’amore per la tavola e il vino.
Sì, alla fine è un modo di conoscere gente, di avere un dialogo costante con altre persone.
Quali sono i tuoi oggetti preferiti, nelle case?
Ho un certo feticismo per le lampade. Ma non quelle da soffitto. E in questa casa?
Forse le sedie che fanno qui sull’isola, le sedie minorchine. Sono fatte di pino dell’isola, tutto a mano qui. È una fortuna avere delle sedie locali, perché se hai una casa qui hai bisogno di un sacco di sedie. E di solito le sedie costano molto, e spesso sono brutte. Queste sono fantastiche.
LÍTHICA
Quando si arriva a Lithica si fatica, al primo colpo d’occhio, a capire cosa siano quelle linee nere scavate nella roccia così chiara. Sono segni orizzontali, tutti della stessa dimensione, disposti lungo decine e decine di metri di altezza o profondità, su queste pareti friabili e profonde. Sembrano costruzioni monumentali. Ecco Lithica. Prima di essere quello che è oggi – ovvero: un parco naturale, un’installazione all’aria aperta, un complesso costruttivo ed educativo – era una cava di pietra arenaria. La pietra chiamata marès è stata il materiale tradizionale di costruzione di Menorca, dal Diciassettesimo secolo fino agli anni Settanta del Novecento. Quei segni sono i segni del taglio delle pietre, rimasti nella roccia. Dagli anni Ottanta in poi, le cave hanno iniziato a chiudere – era troppo forte la concorrenza del mattone. Negli anni Ottanta, però, una studentessa di architettura francese, Laetitia Sauleau Lara, arrivò a Menorca un fine settimana. La portarono a visitare queste cave che erano ancora attive, e immediatamente se ne innamorò. Contattò il capo cantiere, imparò tutto quello che era il linguaggio, la tecnica, la cultura della cava. Nel 1994 Laetitia ha fondato un’associazione per salvare la cava dal riempimento: ecco la nascita della Fondazione Lithica. Oggi le vecchie cave, ripulite dai macchinari, sono un museo all’aria aperta, che racconta l’isola di Menorca attraverso la sua geologia e la sua tradizione abitativa.
Geologicamente, Menorca è un’isola nettamente separata in due parti. La linea di divisione corre da est a ovest, seguendo la direzione indicata dalla profonda insenatura che forma il porto di Maó.
La parte settentrionale dell’isola è molto eterogenea, composta dai materiali più antichi: arenaria, argilla, calcare e dolomiti. Nel sud, la geologia è più uniforme, costituita quasi interamente di calcare.
L’arenaria è storicamente una delle pietre più utilizzate per la costruzione, per la facilità con cui si può lavorare. Quella che si trova alle Baleari, chiamata in queste isole “marès”, è stata utilizzata da sempre come principale materiale di costruzione, e si può ancora ammirare in moltissimi centri abitati dell’isola.
ILLA DEL REI
CHI ARRIVA IN BARCA A MAÓ, COME UN TEMPO FACEVANO
ESERCITI, FLOTTE COMMERCIALI E NAVI DIPLOMATICHE, SI TROVA A PERCORRERE IL PIÙ LUNGO PORTO NATURALE DI TUTTO IL MEDITERRANEO. UN LUNGO CORRIDOIO DI MARE CHE DAL FIANCO SUD-ORIENTALE DELL’ISOLA
SI ADDENTRA NELLE SUE VISCERE PER CHILOMETRI, FINO A VEDERE LA FINE DEL TUNNEL, E LE BANCHINE DI MAÓ. LUNGO QUESTA VIA, SI INCONTRANO PAESI, ALTRI PORTI E ISOLE. LA ILLA DEL LLATZERET, PER PRIMA, LA PIÙ GRANDE, SEGUITA DALLA ILLA DE LA QUARANTENA. PIÙ AVANTI ANCORA, DI FORMA TONDEGGIANTE, AL
CENTRO DELLA STRADA MARITTIMA, ECCO LA ILLA DEL REI. QUI, DURANTE LA DOMINAZIONE BRITANNICA DEL XVIII SECOLO, VENNE COSTRUITO UN OSPEDALE MILITARE CHE OCCUPAVA – E LA CUI PIANTA OCCUPA ANCORA OGGI – GRAN PARTE DELLA SUPERFICIE DELL’ISOLA.
FREQUENTATO FINO AGLI ANNI SESSANTA, VENNE IN SEGUITO DEFINITIVAMENTE ABBANDONATO. OGGI QUELLA STRUTTURA, INTERAMENTE RINNOVATA, È SEDE DI UN’ATTIVITÀ COMPLETAMENTE DIVERSA: SI CHIAMA HAUSER & WIRTH, UNA GALLERIA D’ARTE FONDATA NEL 1992 CON DIVERSE SEDI IN TUTTO IL MONDO.
HAUSER & WIRTH FU FONDATA A ZURIGO NEL 1992 DA IWAN WIRTH, MANUELA WIRTH E URSULA HAUSER, MADRE DI MANUELA. UN’IMPRESA FAMILIARE, ALL’INIZIO, MA CON UNO SGUARDO CHE NON SI È MAI POSTO CONFINI. NEL 2000 SI È AGGIUNTO ALLA SQUADRA IL PRESIDENTE MARC PAYOT, E NEL 2021 IL CEO EWAN VENTERS.
OGGI HAUSER & WIRTH RAPPRESENTA PIÙ DI NOVANTA
ARTISTI, E ORGANIZZA MOSTRE, FORNISCE BORSE DI STUDIO, RESIDENZE, PROGETTI DI RICERCA. FIN DALL’INIZIO, LE STELLE DEL MONDO DELL’ARTE – CONTEMPORANEA E NON SOLO – HANNO GRAVITATO VERSO HAUSER & WIRTH. LA PRIMA MOSTRA, NEL 1992 A ZURIGO, UNIVA SCULTURE (CHIAMATE “MOBILES” DA MARCEL DUCHAMP) E GOUACHE DI ALEXANDER CALDER CON ALTRE SCULTURE E DIPINTI DI JOAN MIRÓ. OGGI HA SEDI IN TUTTO IL MONDO: DA NEW YORK E LOS ANGELES A HONG KONG, PASSANDO PER L’INGHILTERRA, LA FRANCIA, LA SVIZZERA E LA SPAGNA.
L’ASTRONAVE DELL’ARTE È ATTERRATA A ILLA DEL REI NEL LUGLIO 2021, E L’OBIETTIVO, NON TROPPO NASCOSTO, È QUELLO DI RENDERE MENORCA UN CENTRO DI GRAVITÀ PER L’ARTE CONTEMPORANEA. MENTRE IL PROGETTO ANCORA ATTENDEVA IL VIA LIBERA DA PARTE DELLE AUTORITÀ SPAGNOLE, LA GALLERIA HA INVITATO UNA DELEGAZIONE DI MENORCA A VISITARE LA SUA SEDE DEL SOMERSET, IN INGHILTERRA, CHE HA SEDE IN UN’ANTICA AZIENDA AGRICOLA. IL VILLAGGIO DI BRUTON, SEDE DELLA DIVISIONE IN QUESTONE DI HAUSER & WIRTH, ERA DIVENTATO META DI MIGLIAIA DI APPASSIONATI D’ARTE: APERTO NEL 2014, ATTRAE OLTRE CENTOMILA VISITATORI OGNI ANNO. ANCHE A MENORCA HAUSER & WIRTH HA SCELTO DI RINNOVARE
UNA PRE-ESISTENTE COSTRUZIONE (IN TOTALE SONO 1500 I METRI QUADRATI DEL COMPLESSO ARTISTICO), 40
Il giardino di Piet Oudolf presso Hauser & Wirth Menorca
Courtesy Hauser & Wirth
Foto di Daniel Schäfer
Untitled (1981) di Hans Josephsohn
nel giardino di Piet Oudolf
© Josephsohn Estate. Courtesy eredi dell’artista e Kesselhaus Josephsohn
Foto di Daniel Schäfer
Courtesy Hauser & Wirth
Le Père Ubu (1973) by Joan Miró
nel giardino di Piet Oudolf’s
Courtesy Hauser & Wirth
© Successió Miró, 2024
Foto di Daniel Schäfer
Il giardino di Piet Oudolf presso Hauser & Wirth Menorca
Courtesy Hauser & Wirth
Foto di Carlos Torrico
CIRCONDATO DA UN GIARDINO DISEGNATO DALL’OLANDESE PIET OUDOLF, IN CUI SONO SPARPAGLIATE SCULTURE DI DIVERSI NOMI CHE HANNO SEGNATO LA STORIA DELL’ARTE: LOUISE BOURGEOIS, JOAN MIRÓ ED EDUARDO CHILLIDA.
OPERA D’ARTE VEGETALE TRA LE ALTRE OPERE ESPOSTE, IL GIARDINO DI PIET OUDOLF È UNO DEI MOTIVI PER CUI VISITARE LA SEDE MINORCHINA DI HAUSER & WIRTH. È DIVISO IN DUE SEZIONI PRINCIPALI. IL PRINCIPIO CHE STA ALLA BASE DEL GIARDINO È LO STESSO CHE, DA DECENNI, HA CONTRADDISTINTO L’INTERA CARRIERA DI GARDEN DESIGNER DI OUDOLF: L’UTILIZZO DI PIANTE PERENNI, QUESTA VOLTA PROVENIENTI DAL CONTESTO MEDITERRANEO. OUDOLF HA DETTO, A PROPOSITO DELLA SUA PRIMA VISITA A MENORCA: «QUANDO SONO ARRIVATO QUI LA PRIMA VOLTA, SONO STATO ISPIRATO DAI PERIODI DI FIORITURA CHE SI ALLUNGANO PER TUTTO L’ANNO, E RENDONO UN GIARDINO INTERESSANTE IN TUTTE LE STAGIONI». DEL GIARDINO, INVECE, HA SPIEGATO: «MI INTERESSA SOPRATTUTTO LA STRUTTURA DELLE PIANTE, E HO SCELTO LE PIANTE PERENNI PIÙ ADATTE A QUESTO CLIMA PER CREARE UN LUOGO RICCO DI FORME E TEXTURE». OUDOLF VIENE A MENORCA, CI HA SPIEGATO, UNA VOLTA ALL’ANNO, PER RIUNIRSI CON I GIARDINIERI LOCALI E DISCUTERE DI CAMBIAMENTI E MIGLIORIE DA APPORTARE.
IL MOVIMENTO DI CUI OUDOLF RAPPRESENTA IL MEMBRO PIÙ FAMOSO SI CHIAMA “NEW PERENNIAL”. NATO AD HAARLEM, IN OLANDA, NEL 1944, OUDOLF HA TEORIZZATO IN QUESTO MODO LA COSTRUZIONE DI GIARDINI CAPACI DI VIVERE TUTTO L’ANNO, DI TRASFORMARSI MESE DOPO MESE, ANZICHÉ DIPENDERE DA UNA SINGOLA STAGIONE DI FIORITURA. ALLA BASE C’È IL PRINCIPIO DELLA VITA ANTEPOSTA AL SEMPLICE ORNAMENTO. I SUOI DISEGNI PROGETTUALI, TUTTI REALIZZATI A MANO IN DIVERSI COLORI, SONO STATI PARAGONATI A VERE E PROPRIE ARCHITETTURE. PRIMA DI REALIZZARE IL GIARDINO DI HAUSER & WIRTH A MENORCA, OUDOLF HA FATTO PARLARE DI SÉ PER UN GIARDINO INSERITO NEL PIÙ GRANDE CONTESTO DI BATTERY PARK, A NEW YORK, E SOPRATTUTTO PER AVER CONTRIBUITO ALLA REALIZZAZIONE DELLA HIGH LINE, SEMPRE A NEW YORK: UNA FERROVIA ABBANDONATA E SOPRAELEVATA NEL WEST SIDE DI MANHATTAN SI È TRASFORMATA IN UN’INEDITA PASSEGGIATA NATURALISTICA TRA I GRATTACIELI E IL FIUME HUDSON.
TRA I BOSCHETTI DI ULIVO SELVATICO, NEL GIARDINO DI OUDOLF SULL’ILLA DEL REI SI CAMMINA TRA PIANTE SUCCULENTE, LUNGHI STELI DI AGAPANTHUS, PIANTE ODOROSE COME LAVANDA E TIMO, GLI ACULEI DEI CARDI E LA MORBIDEZZA DI GRAMINACEE COME LA STIPA TENUIFOLIA.
Minorca sa essere un’isola fredda e ventosa, per cui anche i piatti invernali e più caldi hanno un posto importante nella sua tradizione culinaria. Come il brodo, che può essere vegetale o carnivoro, e si mangia, tipicamente, il mercoledì. Un’iniziativa chiamata “Els dimecres és dia de Brou”, dal 2014, ha uniformato i prezzi di molti ristoranti dell’isola nella loro proposta di brodo. Ma solo nei mesi più freddi, ovvero dicembre e gennaio e, come vuole la tradizione, il mercoledì.
Gli ingredienti sono pochi e semplici, quelli strettamente necessari per una zuppa: cipolle, aglio, pomodori, peperoni, olio e prezzemolo. Oltre, naturalmente, alle aragoste. Di quelle che si trovano a Minorca, si preferiscono quelle di roccia, più piccole e rosso acceso, più saporite di quelle che vivono sul fondo del mare.
Caldereta de llagosta (zuppa di aragosta)Un altro famoso piatto marinaro di Menorca è il polpo, qui in una versione molto semplice: condito con cipolla. La preparazione è lunga perché richiede il surgelamento del polpo il giorno precedente, necessario per far ammollare la fibra, ma la cottura vera e propria non supera l’ora e mezza. Si serve con un poco di liquido.
Pop amb ceba (polpo con cipolla)
È una ricetta per palati forti, dalla preparazione lunga ma semplice. Si preparano le lumache il giorno prima, e si lasciano poi raffreddare. Del granchio vanno cotte le chele e le zampe, in un soffritto di aglio, cipolla, peperone e pomodoro. Le lumache, già cotte, vanno aggiunte alla fine, con una giusta dose di brodo.
Caragols amb cranca (lumache con granchio)
Un’isola ricca di natura e arbusti è, tradizionalmente, un’isola ricca di conigli. Per questo è tipico di Minorca questo coniglio in salsa, cucinato con aglio, cipolla e alloro, arricchito del grasso della pancetta e ridotto, alla fine, in un poco di sherry, eredità della dominazione britannica.
Conill amb salsa (coniglio in salsa)
Seppie e piselli, un piatto della tradizione marinara mediterranea che ha girato i principali porti europei, da Genova a Napoli fino a Menorca. Quindi: uno stufato di seppie insaporito da aglio, cipolla, prezzemolo e pomodoro. I piselli vanno aggiunti a fine cottura, per rimanere croccanti e freschi.
Sípia amb pèsols (seppia con piselli)
Si chiama riso, ma non è fatto con il riso. Al suo posto, una lavorazione del grano, pestato al mortaio, che somiglia molto al bulgur. Dopo l’ammollo del grano, si aggiungono patate dolci, pomodori, e pezzi di carne di maiale. Soprattutto, due salsicce tipicamente minorchine: il butifarró e la sobrassada.
Dolce tipico di tutte le Baleari, l’ensaïmada non è in fondo così dolce, o meglio: non sempre. A forma di spirale o chiocciola, è preparata con acqua, strutto, zucchero, farina e lievito. Può essere vuota, nella sua versione più classica, ma anche ripiena: con sobrassada, una salsiccia tipica dell’arcipelago, con crema, con formaggio. Ma il ripieno più famoso è quello dei cabell d’àngel , una speciale marmellata di zucca.
Per secoli, Menorca è stata uno dei porti più importanti del Mediterraneo, e la sua cucina, come anche l’architettura e la lingua, non poteva che esserne influenzata. Si riconoscono nei piatti più tipici dei arabi, inglesi e francesi, che però si sono ibridati con tradizioni invece contadine, spagnole ed europee. Un grano pestato simile al bulgur, per esempio, evidentemente proveniente dal Nordafrica, si consuma oggi con salsicce tipicamente campagnole, di carne di maiale. Ma nel menù menorquin c’è grande spazio anche per ciò che offre il mare, come aragoste, seppie e granchi, e quello che invece viene dalla terra, come zucche, pomodori e... lumache. A unire tutto, un filo dorato che attraversa i secoli, c’è naturalmente l’olio d’oliva.
I piatti che sono stati ricreati in queste pagine sono ospitati dalle ceramiche di Blanca Madruga, ceramista di base a Menorca. Blanca è nata a Madrid e cresciuta a Barcelona. Ha lavorato come avvocato, prima di lasciare tutto e viaggiare per il mondo. Etiopia e Madagascar, occupandosi di progetti sociali, per poi approdare qui. Si è fermata: merito dello stile di vita dell’isola, lento e compassato, merito dell’inverno menorquino, che reputa molto superiore al caos dell’estate.
QUARANTINE EVENTS
L’isola su cui sorge il Llatzeret di Maó era un tempo una penisola chiamata Sant Felip, collegata alla terraferma da una sottile striscia di terra lunga poco più di cento metri. È stata distrutta quando, all’inizio del 1700, venne completato il Llatzeret, per assicurare un isolamento completo, senza possibilità di fuga né contatto. Oggi, dal porto di Es Castells, ci si impiega appena pochi minuti con una delle due barche che servono giornalmente la tratta, a raggiungere l’antico edificio, conservato in uno stato eccezionale, che lo fa assomigliare più a un capolavoro architettonico che a un’antica prigione medica. Tra palme e pini marittimi, si possono visitare le centoquaranta celle, i magazzini, le stanze di purificazione, e naturalmente la cappella, il cimitero, le torri di osservazione. Dalla primavera del 2023, all’interno del Llatzeret, si tiene anche un inusuale residenza artistica: Quarantine, appunto, il nome dell’organizzazione indipendente, composta da Carles Gomila, Joan Taltavull, Itziar Lecea e Darren Green. Lo scopo di Quarantine è offrire un’esperienza artistica diversa da qualsiasi workshop o residenza conosciuti: sfruttare l’isolamento come motore per accendere l’ispirazione e la pratica in modo davvero non convenzionale.
Come descrivereste questo progetto, in poche parole?
CG Un purgatorio per artisti.
E come funziona questo purgatorio?
CG Mettiamo in quarantena, una vera quarantena, gli artisti. Quello che facciamo è provare a mettere in discussione il concetto di educazione artistica. Per farlo, dobbiamo alternare le coscienze. E lo facciamo con molto lavoro, aiutandoci con l’autorità di grandi artisti, e con una programmazione segreta, che non viene svelata prima ai partecipanti. In questo modo arrivano impreparati. Inoltre, gli smartphone sono vietati, e questo crea una sindrome di astinenza che è molto utile.
Come è organizzato il team, in termini di resposabilità?
JT Carles è il creatore e il direttore, è lui che ha avuto l’idea originale.
CG E poi Joan è un ballerino, Darren si dedica alla gestione ed è anche un traduttore, e Itziar si occupa della comunicazione.
CG Prima di Quarantine avevo un “retiro” di arte. Si chiamava Menorca Pulsar, come la stella. Erano laboratori internazionali di pittura con grandi professori, figure internazionali che insegnavano tecniche pittoriche. È andato avanti dal 2016 al 2021. Funzionava molto bene, aveva un richiamo internazionale, ma a un certo punto mi sono accorto di una cosa. Gli artisti che si iscrivevano, alla fine, imitavano la tecnica dei loro modelli, dei loro idoli. E per un creativo, questo è un problema. Questo mi ha messo davanti a un dilemma etico, e a quel punto ho iniziato a progettare laboratori più radicali. Per rompere con un certo tipo di pubblico che aveva come obiettivo il puro risultato. Tutto questo ha trasformato Menorca Pulsar in un “bootcamp”, più che in un ritiro artistico. Infine, si è aperta l’opportunità di fare un salto, cambiare il formato, radicalizzarlo ulteriormente. E da lì è nato Quarantine.
Quando è successo, tutto questo?
IL La prima edizione è stata ad aprile 2023, la seconda a ottobre.
È stato accolto bene, da Minorca?
CG Molto bene: in quest’ultima edizione abbiamo avuto centottanta richieste, e abbiamo dovuto sceglierne appena 70. Abbiamo scelto le persone che più ci sembravano in grado di impegnarsi per seguire il programma. Una selezione è necessaria, perché può capitare che qualcuno prenda Quarantine troppo alla leggera. Invece è un percorso molto duro.
IL Questo solo per quanto riguarda gli studenti: devi aggiungere i mentors e lo staff.
Che tipo di artisti sono ammessi, a Quarantine?
CG Pittori, principalmente. Ma all’interno di questo gruppo, c’è uno spettro molto ampio: persone che lavorano con l’illustrazione, con i tatuaggi. Non necessariamente pittori figurativi, insomma. C’è gente dell’industria cinematografica, disegnatori, ma sempre con una relazione con l’arte plastica.
Come vi siete incontrati?
IL Io e Carles ci siamo incontrati a un opening, nel 2009. Io sono una giornalista e dovevo intervistarlo. Ci siamo conosciuti e siamo rimasti insieme. Oggi siamo sposati. E con Joan ci conosciamo da anni.
CG E Darren, il quarto membro di Quarantine, aveva un bar a Ciudadela e io ero un cliente. A quel tempo cercavo una figura molto pratica, per imbarcarsi nelle questioni più concrete dell’impresa, e mi è sembrato il profilo migliore.
Quando avete iniziato a comunicare Quarantine, e come è stata la reazione del pubblico?
IL Il brand Menorca Pulsar era già molto conosciuto internazionalmente, e abbiamo sfruttato quella piattaforma. Abbiamo lavorato soprattutto con Instagram, e con una newsletter su cui avevamo già una buona base di contatti. Comunicare bene cos’è Quarantine e cosa facciamo è fondamentale perché quello, per noi, è il primo filtro per far sì che non vengano persone che non siano adatte al progetto. Non vogliamo che Quarantine venga presa come una vacanza, o una settimana di svago a Minorca. È un’esperienza intensa, per certi versi difficile.
Come siete arrivati a quest’isola?
CG Nel 2016, ho avuto l’opportunità di venire qui in un momento in cui non era aperto al pubblico. Da quel momento, mi è sempre stato chiaro che avrei voluto fare qualcosa in questo posto, perché mi lasciò un’impressione forte. In quel periodo ho iniziato a fare dei sogni ricorrenti su quest’isola. Tutto quello che abbiamo messo in pratica l’avessi già immaginato negli anni precedenti. Tra queste cose, anche il logo: l’avevo disegnato nel 2016, e quando poi ho visitato una delle celle, ho trovato incisa nella pietra lo stesso simbolo. Una serie di coincidenze, chiamiamole così, hanno confermato che era una buona idea venire qui.
Avete quindi chiesto il permesso alla municipalità.
IL Sì, collaboriamo con il municipio di Es Castells, il paese qui di fronte, da cui partono le barche ogni giorno. Non è facile, perché è uno spazio che si usa molto poco, ed è anche molto grande, e logisticamente è molto complicato. Se ti sei dimenticato qualcosa per il pranzo del giorno, devi tornare in città in barca!
Formato e luogo sono nati insieme?
CG Questa era una prigione sanitaria, costruita specificamente per isolare le persone. E quello che facciamo qui è isolare gli artisti dal mondo esterno perché possano fare una quarantena dalle loro stesse idee. Ci siamo detti allora che è la geografia a condizionare il formato. Questo formato che abbiamo ideato può esistere soltanto qui: è nato dalla sensazione di essere circondati dai muri, e di attraversare il mare ogni giorno in barca, come un rituale di passaggio.
In futuro il modello si manterrà lo stesso, o avete pensato già a come ampliarlo?
«Questa era una prigione sanitaria, costruita specificamente per isolare le persone. E quello che facciamo qui è isolare gli artisti dal mondo esterno perché possano fare una quarantena dalle loro stesse idee. È la geografia a condizionare il formato: questo formato può esistere soltanto qui, perché è nato dalla sensazione di essere circondati dai muri»
CG Nel 2024 faremo un’edizione soltanto annuale, per poi tornare con due edizioni nel 2025, probabilmente. Non pensiamo di ampliarci, perché Quarantine funziona bene con gruppi non troppo grandi di persone, come abbiamo fatto finora. Ma sarebbe bello portare questo formato in altre specializzazioni. Per scrittori e scrittrici, soprattutto.
È molto interessante e contemporanea l’idea di disconnessione e isolamento dal mondo dei social network e degli smartphone. Dopo dieci anni di utilizzo incondizionato, si sta aprendo una discussione interessante sui loro effetti negativi.
CG Ci siamo accorti che l’astinenza da smartphone inizia a fare effetto intorno al secondo giorno. Tutti abbiamo ormai introiettato una pulsione istintiva a registrare cose, a fotografarle. Al secondo giorno si perde, e subentra una sorta di repulsione a riprenderla, come se le persone si sentissero liberate. Quindi è molto diverso il grado di attenzione. È diverso come gli artisti utilizzano la memoria. È diverso come stanno attenti. La testa funziona in un altro modo, si entra in un altro stato mentale. Tutto questo è da sommare al fatto che il programma è segreto, nessuno sa cosa aspettarsi, e le sfide che presentiamo sono sfide che non hanno una soluzione unica, quindi bisogna relazionarcisi creativamente.
IL Una delle partecipanti dell’ultima edizione, Lyda, mi ha detto che è stato importante anche che le persone parlassero davvero l’una con l’altra. E parlare costringe anche ad ascoltare.
Per certi versi può fare paura.
CG Ci sono due basi che usiamo per costruire il programma. La prima è che la paura è una bussola. Non bisogna evitare la paura, ma capire perché esiste e dove sta puntando. L’altro è che la vulnerabilità, nell’arte, è un potere. Basandosi su questo, non esiste un modo unico di dare valore a quello che un artista sta facendo. Non c’è bisogno di ricevere applausi, o un altro modo di qualificare un’opera. E questa pressione che smette di esistere ti permette di vedere qualsiasi errore in forma costruttiva.
Qual è una tipica giornata a Quarantine?
CG Le masterclass, la mattina, nella sala conferenza. Qui gli artisti invitati mostrano le loro stesse vulnerabilità, e questo serve anche a far vedere ai partecipanti che sono fatti come loro. Poi dei laboratori di arte, in cui andiamo a questionare certe regole imposte dai tradizionali sistemi di educazione artistica. Poi i pranzi in comune, per legare il gruppo. E infine attività diverse, per decomprimere la pressione: concerti piccoli e grandi, sessioni di espressione corporale... Allo stesso tempo, c’è un segmento di terapia psicologica, pensata insieme a degli psicologi. Infine, le mentorship individuali con gli artisti invitati. Questi sono dei “one to one” e sono molto importanti.
Niente voti, niente pagelle, alla fine?
CG Al contrario: quello che facciamo alla fine è bruciare tutto.
S’Àvia Corema, ovvero “Nonna Quaresima”: è uno dei personaggi più famosi delle tradizioni popolari di Menorca, e vive ogni anno durante la sette settimane di Quaresima. S’Àvia è enorme, a differenza di una normale nonna, o persona: la sua statua di cartone, che sfila ogni sabato fino a Pasqua per le strade di Maó, è alta tre metri e mezzo e pesa circa 65kg. Soprattutto, la nonna dispone della bellezza di sette gambe. Una, in pratica, per ogni settimana di Quaresima. Durante la sfilata si cantano e ballano le musiche tradizionali dell’isola Alla fine, la processione arriva in una plaça in cui un bambino viene scelto per togliere un piede di S’Àvia. Uno ogni sabato, finché non ne rimangono più, e la nonna, così come l’inverno, può lasciare il posto alla Pasqua e alla primavera.
S’ÀVIA COREMA
CAMÍ DE CAVALLS
UN SENTIERO ORIGINI RISALGONO
XIV SECOLO, CHE
IL PERIMETRO ISOLA. PASSA
SPIAGGE, RADURE
COLLINE, SEMPRE IL MARE
SENTIERO LE CUI RISALGONO AL CHE DISEGNA
PERIMETRO DELL’INTERA
PASSA PER PRATI, RADURE E
SEMPRE CON IN VISTA.
TRA LE MOLTE MERAVIGLIE NATURALI DI MENORCA, CE N’È UNA INVECE COSTRUITA DALL’UOMO, E ANTICA, SI STIMA, ALMENO CINQUECENTO ANNI. NON SI STAGLIA SULL’ORIZZONTE, NON È UNA MERAVIGLIA ARCHITETTONICA CITTADINA O UN ANTICO CASTELLO: MA UNA STRADA, ANZI, UN CAMMINO. IL CAMÍ DE CAVALLS È UN SENTIERO STERRATO CHE DISEGNA IL PERIMETRO DELL’ISOLA, COSTRUITO NEL XIV SECOLO PER CONNETTERE TUTTI I FARI E I CANNONI E LE FORTEZZE DIFENSIVE MINORCHINE. SI PUÒ PERCORRERE A PIEDI, IN BICICLETTA O, NATURALMENTE, A CAVALLO, E ATTRAVERSA SPIAGGE, PRATI, PASSERELLE ARTIFICIALI, SEMPRE CON IL MARE IN VISTA. NEI SECOLI AMPIE PARTI DEL CAMMINO ERANO FINITE ALL’INTERNO DI PROPRIETÀ PRIVATE, E LA STRADA ABBANDONATA NELLA SUA COMPLESSITÀ. I MINORCHINI, NEGLI ANNI NOVANTA, HANNO INIZIATO UNA PRESSIONE SULLE AUTORITÀ PER RENDERLO DI NUOVO PUBBLICO, E CI SONO RIUSCITI NEL 2000, GRAZIE ALLA LLEI DEL CAMÍ DE CAVALLS. I PROCESSI DI RISTRUTTURAZIONE SONO DURATI FINO AL 2011, E DA ALLORA IL CAMMINO È DI NUOVO UN PATRIMONIO PUBBLICO DELL’ISOLA.
Qualcuno conosce Minorca come “l’isola dei giganti”. Sono, in effetti, parte di alcune tradizioni folkloristiche dell’isola, specialmente a Mahón: si chiamano anche “capgrossos”, dalle enormi dimensioni delle teste di cartapesta che portano, e passeggiano per le strade su trampoli alti anche un metro. Ma i giganti sono anche parte di un bagaglio di leggende più antiche, ed è questo, in realtà, il motivo per cui si è formato l’appellativo. La leggenda, in particolare, si riferisce a un’antica costruzione megalitica chiamata “Sa Naveta des Tudons”, risalente a un millennio prima dell’anno zero. Due giovani giganti, si narra nella tradizione popolare, abitavano anticamente le zone dove sorge l’attuale Ciutadella, e si disputavano l’amore di una giovane donna. Ma lei si mostrava indecisa, e alla fine i due giovani si decisero di ricorrere a una gara di forza e abilità
per risolvere il problema. Uno dei giganti si industriò a costruire l’attuale “naveta” (un tipo di tomba megalitica), mentre l’altro a scavare un pozzo per trovare acqua dolce. Il primo a finire la propria opera avrebbe potuto sposare la ragazza. Quando alla naveta mancava una sola pietra, il gigante del pozzo riuscì a trovare l’acqua. Infuriato per la beffa, il primo scagliò la pietra che portava in spalla verso il fondo del pozzo, uccidendo l’amico. Disperato per il senso di colpa, tuttavia, si uccise anche lui poco dopo. La naveta è stata scoperta negli anni Cinquanta, e si stima di un’età compresa tra i 2200 e i 1750 anni. È uno dei monumenti megalitici più antichi e meglio conservati in tutta Europa.
BETTINA CALDERAZZO & MATT WESTON
In greco si chiamano “etesias”, altre lingue preferiscono il nome “meltemi”: la parola indica in ogni caso un gruppo di venti secchi, che soffiano nel mar Egeo in estate. Sono venti che possono essere anche molto forti, e pericolosi. Un motore storico del Mediterraneo che hanno ispirato il nome della galleria di arte contemporanea di Bettina Calderazzo e Matt Weston, aperta a Ciutadella, che vuole essere uno spazio espositivo e, allo stesso tempo, molto di più.
Prima di fondare Etesian, Matt e Bettina hanno viaggiato in lungo e in largo per le sponde mediterranee, e hanno infine trovato una casa a Minorca. Etesian è nata come un’evoluzione di esperienze, e pensieri, e tentativi: organicamente. Oggi è sì una galleria, che ha esposto artisti internazionali come Alexandria Coe, Lemos-Lehmann, Lauren Doughty o Toni Salom, ma è anche un atelier per artisti e un progetto di residenze. Un progetto volubile e vivo, aperto ai cambiamenti come quelli che Bettina e Matt hanno affrontato nei loro viaggi.
Alla fine, di porto in porto, siete finiti a Minorca.
MW Alla fine sì, ci siamo stabiliti a Minorca. È qui che la nostra idea si è formata e ha preso una forma. E poi abbiamo trovato un posto perfetto a Ciutadella, era davvero ridotto male, e l’abbiamo rimesso a nuovo. Pulito, ridipinto, aggiustato. Allora non avevamo esattamente in mente che cosa sarebbe diventato, e con il tempo si è trasformato in una galleria –principalmente – con annesso anche uno store.
Che cosa facevate prima di imbarcarvi in questo viaggio?
BC Io lavoravo a Londra come art director nel mondo della pubblicità. Era un mondo lavorativo abbastanza folle, molto veloce, intenso, con costantemente deadline di tre giorni...
MW Io ero un designer di gioielli, una cosa che ho iniziato a fare quando ero in Messico come artigiano-viaggiatore, e alla fine si è evoluto in un negozio vero e proprio, in Australia, a Bondi Beach a Sydney. E alla fine sono andato a Londra, a disegnare per un brand, per poi mettermi in proprio, con il mio marchio personale.
Come vi siete conosciuti?
BC Sono per metà australiana e per metà italiana. Vivevo in Australia, mi sono trasferita a Parigi per cinque anni, ed è lì che ho iniziato a lavorare come art director. Poi ho incontrato Matt, e sono andata a vivere con lui a Londra, e alla fine eccoci a Minorca. Matt ha vissuto in Australia per dieci anni. Quando eravamo a Londra avevamo in mente di cambiare abbastanza radicalmente. In quel momento ho iniziato a pensare a come sono cresciuta, in che tipo di ambiente, com’era stata la mia infanzia. E volevo tornare a qualcosa del genere, ma senza andare così lontano.
E com’è stata la tua infanzia?
BC Molto tipicamente australiana: spiaggia prima della scuola, spiaggia dopo la scuola. Ma poiché mio padre è italiano, originario di Napoli, e si è trasferito in Australia quando aveva trent’anni, i miei genitori avevano una splendida compagnia di amici, tutti europei. E quindi avevo, da parte materna, questo background australiano, e dall’altro lato una pronunciata influenza di uno stile di vita europeo per cui, ogni settimana, andavamo a pranzo e a cena a casa di qualcuno. Davamo una grande importanza all’arte, alla cultura, e a certe conversazioni, diciamo, filosofiche. Sono cresciuta circondata da tutto questo, e naturalmente mi ha influenzato. Poi ogni estate, per due mesi all’anno, andavamo in Italia, e questo ha contribuito a creare una forte connessione con l’Europa.
Come mai avete deciso di cambiare vita così radicalmente?
BC Per me è stato in un certo senso ovvio. Stavo facendo qualcosa che non mi soddisfaceva del tutto, era un lavoro in cui mi sono ritrovata, senza averlo scelto davvero. Ero brava, e mi piacevano molti i miei colleghi, ma alla fine quel lavoro non era qualcosa che mi desse una profonda soddisfazione. La tua creatività, in questi lavori, spesso viene sfruttata, e messa al servizio di un’idea non tua per vendere un prodotto
che tu non compreresti nemmeno. E quindi abbiamo deciso di viaggiare. All’inizio funzionava: lavoravamo entrambi come freelance, erano gli anni pre-Covid, andava tutto bene. Ma appena sono arrivata a Minorca è stato chiaro che quella vita non si accordava con il posto in cui eravamo: passavo davanti al computer 12 ore al giorno, e a un certo punto mi sono detta: questa non è la vita che voglio vivere E poi è arrivata Coco, nostra figlia: è stata lei la ragione principale per cambiare.
Come avete trovato il posto in cui oggi si trova Etesian?
BC Abbiamo passato sei mesi a girare per l’isola, infilavamo cartoline sotto le porte di tutti i posti che ci piacevano. Un giorno ho incontrato questo anziano signore che aveva questo spazio. Era un personaggio molto particolare: aveva vissuto otto anni in Giappone perché la barca su cui navigava aveva avuto un incidente mentre si trovava lì. E l’abbiamo in un certo senso corteggiato per sei mesi, perché appena abbiamo visto questo spazio, e l’intero edificio, ci siamo innamorati completamente.
Come vi siete connessi con la scena artistica di Minorca?
BC All’inizio ci siamo fatti aiutare da Maiorca, anche. Abbiamo alcuni amici che vivono lì, e abbiamo iniziato, anche grazie a loro, a far venire artisti da Maiorca, e poi un’artista da Londra. Volevamo introdurre una prospettiva che fosse nostra, per questo all’inizio ci interessava portare artisti da fuori Minorca. Mi sentivo che quello che potevo offrire, personalmente, fosse proprio questa prospettiva diversa, anziché provare a fare qualcosa su cui non ero abbastanza preparata. Ma sono passati diversi anni, e adesso stiamo includendo sempre più artisti minorchini.
Quali sono le differenze tra una galleria come Etesian e una galleria più tradizionale?
BC Penso che Etesian sia un caso abbastanza unico per diverse ragioni. Una è la mia prospettiva australiana. Questa mi permette di mixare un’attenzione alle novità con l’arte grafica, le arti indigene, e ibridare tutto con una parte di cultura europea più poetica e romantica. Una volta, quando stavo progettando una mostra in cui tenevo insieme tutte queste anime, ne ho parlato con una persona che mi ha risposto: non funzioneranno mai insieme. Ma invece, alla fine, c’era un punto in cui le due strade si univano. Poi c’è dell’altro: c’è una struttura, in termini di spazio fisico, per cui questa galleria è costituita da tre diversi spazi, al suo interno. Grazie a questo, possiamo creare esperienze uniche: uno degli ultimi artisti, per esempio, ha utilizzato la caverna al piano interrato per creare un’esperienza sonora in uno spazio completamente nero. Entrando qui, non si ha la sensazione di entrare nella classica scatola vuota e bianca che molte altre gallerie evocano.
MW I muri sono spessi un metro, e ci sono dei tunnel al piano inferiore. E una torretta sul lato, che era una torre di guardia usata per individuare l’arrivo di potenziali invasori nel porto. Quindi si porta dietro un bel po’ di storia. Per noi questo spazio, in fondo, è un viaggio. Non avrebbe senso approcciarlo con chiusura ed elitismo, ma al contrario impariamo cose nuove costantemente, cresciamo e ci divertiamo.
BC Quando organizziamo una mostra, inoltre, cerchiamo di renderla un’esperienza immersiva: organizziamo delle cene dove è possibile incontrare gli artisti, o è possibile partecipare del lavoro degli artisti. Per una mostra che abbiamo fatto, abbiamo trasformato Etesian nell’atelier dell’artista esposta, in modo da poter vedere dal vivo in che modo lavorava. Questo storytelling, ed esperienza immersiva, è qualcosa che non vedo molte gallerie fare. Ovviamente non penso che siamo gli unici al mondo a fare queste cose, ma riceviamo molti commenti che apprezzano questa attitudine aperta e inclusiva verso l’arte.
Cosa vi ha fatto innamorare di Minorca?
MW Difficile nominare una singola cosa. Sembra una frase ingenua, da dire, ma semplicemente sembrava la cosa giusta da fare. Appena siamo usciti dall’aeroporto, la prima volta in cui mettevamo piede a Minorca, ci siamo immediatamente sentiti più rilassati, come se fossimo arrivati. Da quel momento, abbiamo subito cercato un posto in cui poter vivere. Ed era la prima volta che ci siamo sentiti così a casa, in tutti i posti che abbiamo visitato. Quel sentimento non è mai cambiato. Posso fare una lista di tutte le cose straordinarie di Minorca, dalle spiagge al cibo agli abitanti, ma quello che ha fatto la differenza è stato un sentimento.
BC Poi, naturalmente, ci sono anche diverse cose che erano sulla nostra checklist. Il mare. Non dover guidare due ore per andare da un posto all’altro. Un posto con cultura ma anche cose da fare. Una città che non fosse troppo piccola, con solo un ufficio postale e un caffè, ma anche la presenza di una natura libera, e cieli aperti.
MW Una cosa di cui ci siamo accorti dopo poco tempo, è che Minorca ha una vita indipendente dal turismo. Se i flussi scom-
parissero da un giorno all’altro, la vita continuerebbe allo stesso modo. C’è un’identità culturale molto forte, a differenza di altri luoghi che abbiamo visitato in giro per il Mediterraneo. Il concetto di comunità per noi è molto importante. La cittadina in cui viviamo è abbastanza grande per non conoscere chiunque, c’è sempre gente nuova da incontrare, ma allo stesso tempo è abbastanza piccola per conoscere moltissime persone. E l’amore per il Mediterraneo, da dove viene, prima di Minorca?
MW Io, nel 1990, ho lasciato l’Inghilterra per andare a vivere a Eivissa. Quella è stata la mia prima esperienza mediterranea e l’ho portata dentro di me da sempre.
BC Per me è una specie di dovere, amare il Mediterraneo. Sento molto, molto forte la mia parte italiana. Ho passato ogni estate della mia giovinezza nella Costiera Amalfitana. E nelle Baleari c’è il Mediterraneo e anche qualcosa di più: qualcosa che ha a che fare con la luce, con l’energia che si percepisce. Inoltre questa è un’isola molto giovane, piena di persone che hanno voglia di sperimentare in cose interessanti, c’è una mentalità internazionale e poi la vicinanza con Barcellona. Le idee girano facilmente, che è una cosa importante.
Minorca sta attirando molta attenzione dal mondo. Avete paura che possa essere troppa?
MW È vero che ci sono molti riflettori puntati, e si vede, ce ne accorgiamo anche solo camminando, ma non mi fa paura, onestamente. In questi anni, l’attenzione del mondo si posa su qualcosa e poi velocemente si sposta su qualcos’altro.
BC Penso che i minorchini siano molto resilienti, e che ci sia una resistenza forte contro le pressioni esterne.
“Una cosa di cui ci siamo accorti dopo poco tempo, è che Minorca ha una vita indipendente dal turismo. Se i flussi scomparissero da un giorno all’altro, la vita continuerebbe allo stesso modo. C’è un’identità culturale molto forte, a differenza di altri luoghi che abbiamo visitato in giro per il Mediterraneo.”
Il manto nero dei cavalli riflette la luce del sole estivo. I finimenti sono decorati sulla ganascia, sul naso e sulla coda, ma quello che brilla è un piccolo cuore d’argento al centro del petto. Attraversano tutta la città, come in una sfilata. I cavalieri, chiamati caixers, sono vestiti di nero e bianco. Quando arrivano alla plaça principale di ogni pueblo, la festa può iniziare. Sono le Festes de Menorca, che si tengono lungo tutta l’estate, tredici come tutti i paesi che celebrano, nell’arco di due giorni, il loro santo patrono. Il primo giorno la festa si svolge la sera, e dura fino alla mezzanotte. Il secondo, invece, la mattina. È questo il momento migliore e il più atteso. I cavalli (sono tutti cavalls menorquins, una razza indigena dell’isola) e i caixers attraversano le vie del percorso e sbucano nella piazza principale opportunamente ricoperta di sabbia. Qui trovano ad accoglierli centinaia, talvolta migliaia di persone. Una banda suona la musica che riempie l’aria. Per primo entra il fabioler, a bordo di un asino, suona un flauto e percuote un piccolo tamburo. Poi ecco i cavalieri: con la bandiera del villaggio, e via di seguito tutti gli altri. È a questo punto che si esegue il jaleo: il cavallo si alza sulle zampe posteriori, come un inchino, come un’esultanza, il culmine delle feste. Al termine della sfilata i cavalieri ricevono la canya verda, un giovane bambù a cui è stato legata una cullera, piccolo cucchiaio d’argento.
I cavalls menorquins sono una razza autoctona dell’isola, imparentata con il cavall mallorquí e il cavall català Sono, da sempre, stati molto apprezzati sia per il lavoro nei campi, sia per l’equitazione. È stata riconosciuta ufficialmente nel 1988.
Il numero attuale è di circa tremila esemplari, con una media di 250 nati ogni anno.
Grazie al loro ruolo di protagonisti nelle Festes dell’isola, il numero dei cavalls menorquins è in costante crescita.
UNA DELLE PISTE “FRANCOFILE” PARLA DI MAYENNE,
ANTICAMENTE CHIAMATO MAÏENNE, UN DIPARTIMENTO NEL NORD-OVEST DEL PAESE, A POCHI CHILOMETRI DAL
CANALE DELLA MANICA.
IL PROBLEMA DI QUESTA TEORIA È CHE DI ULIVI, IN QUELLA ZONA, NON CE NE SONO MAI STATI.
Tuorli d’uovo, freschissimi, succo di limone, olio, e poi sale, aceto, un pizzico di pepe in quantità minime ma fondamentali, e c’è chi mette un’aggiunta di senape. Gli ingredienti della maionese sono pochi, sono semplici, sono facili da ricordare. Significa che sono nati da una storia, o da un’intuizione, semplice? No, anzi. Invischiata in questa combinazione apparentemente così facile ci sono guerre di conquiste, ci sono amori clandestini, e intrighi culinari. È una storia che inizia a Maó, la capitale di Menorca. Avete sentito il suono? Ripetetelo. Maó. Maionese. Esatto.
Era il 1756 quando Louis François Armand de Vignerot du Plessis, duca di Richelieu e comandante delle truppe francesi nella Battaglia di Menorca, sbarcò a Ciutadella, insieme a oltre diecimila uomini usciti da 200 navi. Gli inglesi sono sconfitti, anche se non è una vittoria definitiva francese: le truppe si ritirano a Gibilterra, ma è uno dei primi atti della Guerra dei sette anni, che terminerà con una vittoria britannica nel 1763. Fin qui, i fatti crudi e facili. A questo punto si aprono diversi bivi che portano a diverse storie, e non è stato a lungo facile distinguere tra leggenda e verità, visto che spesso le due sono mescolate e amalgamate come l’olio, il limone e il tuorlo.
Una delle storie che si tramandano, sulla permanenza di Richelieu a Menorca, racconta che il duca, una notte di preoccupazioni, vagava per Maó così immerso nei pensieri da scordarsi di cenare. Solo molto tardi si accorse dei brontolii dello stomaco, e decise di entrare in una piccola taverna.
L’oste, avendo terminato tutte le pietanze ma timoroso di mostrarsi inospitale, gli presentò degli avanzi di carne di pessimo aspetto. «Signore, è tutto quello che c’è, ma non è adatta a sua eccellenza», gli disse. Richelieu rispose: «Condiscilo come puoi, che in tempo di fame non esiste pane troppo duro». L’oste gli presentò allora la carne con una salsa che il duca apprezzò così tanto da domandargli la ricetta. «Signore, è solo una salsa d’uovo», fu la risposta. Ma il duca insistette, e si segnò tutti i passaggi. Al suo ritorno in Francia, portò con sé anche quella crema, che presentò come “maionesa”.
Tuttavia, non è quest’ultima la versione più accreditata sui natali della maionese. Un’altra storia viene raccontata da Pep Pelfort, studioso di storia gastronomica e direttore del Centre d’Estudis Gastronòmics Menorca, e sembra più solida. Narra, questa, che Richelieu incontrò la salsa il 21 aprile 1756, pochi giorni dopo lo sbarco sull’isola, durante un banchetto in onore delle truppe francesi in una grande tenuta. In quell’epoca, Pelfort ha scoperto, non erano molte le grandi famiglie che collaborarono con i francesi, o quelle apertamente francofile. Soltanto due, apparentemente, erano anche in grado di produrre il proprio olio d’oliva, ingrediente fondamentale per la maionese: una a Sant Lluís e un’altra ad Alaior. La dama che servì la famosa crema doveva allora essere o una certa signora Joana o una certa signora Rita: un’investigazione apparentemente ben condotta.
Naturalmente, i francesi contestano queste versioni dei fatti. Per alcune teorie più “francofile”, la salsa potrebbe avere origine proprio nella patria di Richelieu, e cercano indizi di queste radici anch’esse nel nome. Una parla di Mayenne, anticamente chiamato Maïenne, un dipartimento nel nord-ovest del Paese, a pochi chilometri dal Canale della Manica. Il problema di questa teoria è che di ulivi, in quella zona, non ce ne sono mai stati: troppo settentrionale, infatti, per la produzione dell’ingrediente principe della maionese. Altra teoria geografica ci porta invece a Bayonne, con un leggero cambio ortografico che trasformò la “b” in “m” nei secoli a venire. Un’altra pista è quella di Marie-Antoine Carême, cuoco e scrittore nonché “inventore” dello stile haute cuisine: scrisse, lui, che il nome originale della salsa sarebbe “magnonnaise”, derivazione dal verbo francese “manier”, ovvero mescolare. Questo, come è facilmente intuibile, a causa del continuo movimento che la preparazione richiede.
La disputa potrebbe essersi conclusa definitivamente nel 2022, quando è stato ritrovato il ricettario di famiglia dei Caules, di Maó, a Menorca. La scoperta è stata fatta da Pep Pelfort, seguendo le tracce di un’amante minorchina di Richelieu, che dell’isola di dice apprezzasse la cucina ma anche, e soprattutto, le donne. Era proprio lei la proprietaria della casa che offrì ai francesi il celebre banchetto dell’aprile 1756. Seguendo una pista di lettere, e mesi di ricerca in archivi familiari, lo storico Pelfort finalmente riesce a trovarlo. Da lì, esami calligrafici, esperti bibliofili e storici lo hanno analizzato, finché non è
stata trovata la prova definitiva: in una pagina alla fine del manoscritto, ecco il menù del banchetto di Richelieu. La maionese lì registrata, tuttavia, non era tale e quale a quella che mangiamo attualmente: si chiamava “salsa de peix crua”, e si serviva con all’interno pezzetti di cipolla, erbe e prezzemolo. D’altra parte, nelle lettere del Duca Richelieu, sappiamo che si trova un passaggio in cui è possibile leggere: «E nel caso che io vi dimentichi, Madame, questa salsa amorosa con la quale tante volte avete reso felice il mio palato mi porterà il vostro ricordo, e da questo momento vi dico che, nell’impossibilità di chiamarla con il vostro nome, la battezzerò maionesa».
«E NEL CASO CHE IO VI
DIMENTICHI, MADAME, QUESTA SALSA AMOROSA CON LA QUALE TANTE VOLTE AVETE RESO
FELICE IL MIO PALATO MI PORTERÀ IL VOSTRO RICORDO, E DA QUESTO MOMENTO VI DICO CHE, NELL’IMPOSSIBILITÀ
DI CHIAMARLA CON IL VOSTRO NOME, LA BATTEZZERÒ MAIONESA»
SUNNY’S DONKEYS
Riparati all’ombra degli ulivi brucano l’erba e sembrano aspettare che il tempo passi, circondati dal frinire incessante delle cicale nell’estate minorchina. Sono curiosi, se ti avvicini si avvicinano anche loro in cerca di qualcosa da mangiare, di una mano che si strofini sul muso, dietro le orecchie. Gli asini del Menorca Donkey Rescue sono accuditi da Gundi, nata in Germania ma da quasi trent’anni, ormai, di stanza a Minorca. A questo santuario che ha salvato dall’abbandono ormai 20 asini dedica tutti i fine settimana, e molto tempo libero. Non è da sola: Sunny, una donna inglese, ha inaugurato la colonia otto anni fa con soli quattro esemplari, grazie a questo pezzo di terra di proprietà di una sua amica. All’inizio Gundi veniva qui saltuariamente, poi le è piaciuto sempre di più. Dice: «Mi piace l’idea di poter aiutare con le mie mani, e non solo con una donazione a distanza». Durante l’estate il santuario apre ai visitatori, soprattutto famiglie. È il modo migliore di finanziarsi, per poter continuare a ospitare altri asini, all’ombra degli ulivi.
S’HOMO BÉ DES
Nella vita di tutti i giorni si chiama Sam, ma per una sola giornata all’anno si chiama anche s’homo des bé. In minorchino significa “uomo della pecora”, una figura folkloristica e religiosa importante, soprattutto a Ciutadella. La settimana precedente alla festa di Sant Joan, s’homo des bé, vestito con un manto di agnello, e con un altro agnello, stavolta vivo, poggiato sulle spalle, si aggira per le case della campagna, bussando alle porte. È senza scarpe, con una croce rossa dipinta su ogni piede, e un’altra tratteggiata in fronte. Rappresenta, nella tradizione, la figura di Sant Joan Baptista, e annuncia ai minorchini l’arrivo della festività – la più importante dell’anno. È come un antico banditore, che camminava di strada in strada annunciando le disposizioni dell’autorità. E non è da solo: è accompagnato dalla junta de caixers, i cavalieri della festa, e dal fabioler, che darà il via allo spettacolo vero e proprio suonando un flauto cavalcando un asino. Non è un compito facile, quello di Sam: sono circa 35 i chilometri che, agnello in spalla, s’homo des bé deve percorrere ogni anno.
S/S 2024 Thelma S/S 2024 Casi Myra S/S 2024 S/S 2024 Kobarah Kobarah Flat S/S 2024 S/S 2024 ROKU Casi Myra S/S 2024 Casi Myra S/S 2024 Dina S/S 2024 S/S 2024 Pix Thelma Sandal S/S 2024 S/SEdizione e creazione
Alla Carta Studio
Brand Creative Director
Achilles Ion Gabriel
Brand Director Gloria Rodríguez
Fotografie Valentin B Giacobetti
Styling Francesca Izzi
Illustrazioni
Angela Kirkwood
Testi
Davide Coppo
Produzione
Hotel Production
Un ringraziamento speciale a
Maria Barceló Pons
Chimera Sleepwear
Cristine Bedfor Hotel
Hauser & Wirth
Lessico Familiare
Miguel Ángel Martorell Mancebo
Álvar Ortega Alonso
Asja Piombino
Olivier Simille
Spaccio Maglieria
Via Piave 33
Crediti immagini
© Valentin B Giacobetti
© Angela Kirkwood: pp. 77-88
© Fele La Franca, still video: pp. 142-147
© Daniel Schäfer, © Carlos Torrico
Courtesy Hauser & Wirth
© Josephsohn Estate. Courtesy the estate of the artist and Kesselhaus Josephsohn.
© Successió Miró, 2024 pp. 37-44
Stampa
Artes Gráficas Palermo, Madrid
ISSN: 2660-8758
Legal Deposit: PM 0911-2021
Stampato in Spagna
Alcudia Design S.L.U. Mallorca
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