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ACHI

OPERAZIONE P.I.C. UN MISTERO NELLE ISOLE PARTENOPEE


Operazione P.I.C. Un mistero nelle isole partenopee Copyright © 2018 Achi – www.achiofficial.it Opera pubblicata e distribuita da: & MyBook Un marchio di Caravaggio Editore Vasto (CH) – Italy www.andmybook.it info@andmybook.it Tutti i diritti di riproduzione, traduzione e adattamento sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere usata, riprodotta o diffusa senza autorizzazione scritta da parte dell’autore. Collana Editoriale Giallo E-Book Prima Edizione Novembre 2018 Immagine in Copertina: © Anna Kucherova

ISBN 978-88-6560-156-3


L’INCONTRO Le prime luci dell’alba, avvolte nella timidezza, non avevano ancora cominciato a illuminare un nuovo giorno nell’isola di Procida. Ancora non si riusciva a intravedere quel colore rosa pallido sfiorare l’orizzonte, mescolarsi con le delicate tinte di celeste che pian piano prendono posto per colorare d’azzurro il cielo del primo mattino. L’ombra densa di una figura scivolò rapida sul muro esterno del santuario di San Giuseppe a Marina Chiaiolella e sparì quando s’introdusse furtiva all’interno dell’edificio, attraverso la porta della sacrestia lasciata aperta da padre Antonio. Non proseguì oltre, subito s’imbatté nel religioso, intento a riordinare i paramenti sacri. Il prete non fu sorpreso dalla repentina intrusione, anzi, ammonì quella misteriosa figura per essere in ritardo. I due avevano un appuntamento. La voce del sacerdote giunse prima che l’affannata presenza potesse riprendere fiato: «Esci di nuovo dalla porta della sacrestia, vai sull’isolotto di Vivara e aspettami là. Non è prudente restare nella chiesa, qualcuno potrebbe ascoltare ciò che ci diciamo.» L’ospite comprese, non proferì alcuna parola e ascoltò l’esortazione del prete. Riconquistò l’uscita, non girò a destra per imboccare la stretta stradina principale, ma prese a sinistra, al fine di raggiungere la spiaggia. Seguendo la lingua di terra giunse fino alla ripida salita che l’avrebbe con5


dotta al cancello, oltre il quale era possibile percorrere il ponte che unisce Procida all’isolotto di Vivara. In realtà quel cancello era sempre chiuso, a causa delle immancabili quanto fervide mancanze della voluta inoperosità delle amministrazioni, che in questo caso vietavano l’ingresso a un piccolo spaccato naturale che sembrava essere fuori dal tempo e dall’insipienza umana. Gli abitanti del luogo e i turisti non ci stavano a subire la consuetudine del legale sopruso e, purtroppo, s’impegnarono nella triste usanza dell’azione illegale fai da te. Per questo, parte della rete di recinzione era stata semi divelta per consentire ai più agili e intraprendenti di montare su un muretto, infilarsi nel passaggio e scivolare all’interno di un breve tratto di vegetazione, raggiungendo così l’ingresso dalla parte interna. La misteriosa figura si servì proprio di questo passaggio al fine di raggiungere il luogo dell’appuntamento. Coprì il percorso in fretta e senza mai voltarsi. Dopo pochi minuti il piccolo portone dell’ingresso posteriore del luogo di culto si aprì nuovamente, padre Antonio uscì per raggiungere anch’egli la zona dell’appuntamento: uno scoglio nascosto proprio sotto il ponte che collega l’isola di Procida con l’isolotto di Vivara.

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SOSPETTI La giovane psicologa Rossella Spargo, in un fresco e soleggiato mattino napoletano, si stava recando alla Facoltà di Sociologia, come faceva ormai da quasi due anni. La dottoressa in Psicologia era a capo di un progetto di ricerca da lei stessa elaborato. Lo studio si prefiggeva il compito di indagare le dinamiche delle sette e le metodologie operative simili, impiegate anche nel quotidiano. Lo studio e l’analisi degli andamenti sottesi ad articolare questi gruppi volevano essere le fondamenta sulle quali erigere le basi per la stesura di un testo. Il lavoro avrebbe contenuto una funzione bivalente. Si prefiggeva d’incrementare l’aspetto scientifico del settore, ma soprattutto essere un libro fruibile da tutte le famiglie, affinché ogni singolo lettore fosse in grado di cogliere i segnali della presenza dell’influsso di tali dinamiche in parenti, amici, ma anche estranei, qualora si presentassero nella vita quotidiana. L’agile mente della ricercatrice sosteneva che l’azione di plagio, come quella di cecità e inadeguatezza caratteriale degli adepti, simile all’embrione di quella potente e profonda in uso nelle sette, è leggibile in numerosi comportamenti tenuti all’interno di alcuni gruppi o sottogruppi, sia da coloro che possono essere identificati come il leader o i leader, sia da chi può essere individuato come adepto. L’esempio che portava spesso nei suoi discorsi era quello riferito alle tecniche adoperate da alcuni personal trainer 7


per operare una sorta di plagio nei confronti dei loro clienti. Gli istruttori, infatti, al solo fine di far credere ai clienti di essere una sorta di unico detentore delle conoscenze, utili per modificare il fisico modellandolo in guisa di artistiche statue di presunta bellezza, s’imporrebbero come una sorta di deus ex machina senza il quale il cliente non ha facoltà di fare alcunché. Il fine ultimo del personal trainer di turno è ovviamente la monetizzazione di ogni azione. Lo stato del cliente si mostra esattamente come quello degli adepti di una setta: completa cecità, assoluta mancanza di conoscenza persino sulla conta delle ripetizioni da seguire e totale venerazione quanto sudditanza nei confronti del leader. Nel corso della ricerca Rossella Spargo si era imbattuta, per caso, in un sacerdote. Il monaco, in un incontro segreto, le aveva confessato di essere membro di un gruppo composto da lui e da altri dieci, frati e laici. Con questi aveva giurato di combattere tutte quelle sette che con inganni e illusioni carpivano le menti dei più deboli, conducendoli, spesso con le loro famiglie, verso un epilogo estremo. In particolar modo, padre Antonio le aveva confessato di essere da qualche tempo sulle tracce di una setta che, con molta probabilità, operava anche sull’isola di Procida. Rossella, mentre percorreva i vicoli dei Decumani, attraverso i quali sarebbe stata condotta alla sede della Facoltà di Sociologia, fu attratta dal titolo di un quotidiano, esposto sul lato esterno di una delle edicole poste lungo il tragitto. Nella prima pagina si leggeva: Prete trovato morto nella sua cappella sull’isola di Procida, si segue la pista del malore. Di 8


fianco al titolo c’era la fotografia della piccola chiesa di San Giuseppe. Rossella la riconobbe, era quella nella quale era stata qualche tempo prima. Acquistò subito una copia del giornale. Non appena ebbe tra le mani il mezzo d’informazione riprese a camminare. Questa volta con passo più lento. Era impegnata a sfogliare con rapidità le pagine, per trovare quelle di cronaca, dove era stato inserito l’approfondimento sull’articolo annunciato nella prima pagina. Lesse con attenzione e scorse il nome della vittima: padre Antonio. L’articolo non presentava molti particolari, così come le edizioni dei telegiornali che la psicologa seguì nel corso della giornata. Per questo, la giovane ricercatrice, decise di attendere il giorno seguente per attingere nuove notizie, prima che i voli pindarici della mente la facessero giungere a conclusioni affrettate. Gli aggiornamenti che giungevano dalle cronache non resero pago il desiderio di conoscere i dettagli reali della vicenda. La desiderosa psicologa si trovò di fronte a ciò che si configura ogni qual volta un attento ascoltatore o lettore cerca di reperire informazioni valide su un avvenimento. In tali occasioni è inevitabile lo scontro con l’insostenibile consuetudine di confondere la scarna verità dei fatti con una fantasiosa e inutile fiumana di parole accompagnate da immagini, magari manipolate. A tutto ciò si accompagnano, finché si ritiene l’osso ancora ricco di polpa succulenta, tutte quelle trasmissioni che vantano d’essere la soluzione a ogni caso di cronaca, pronte a presentare esclusive e unicità operativa, che si risolve immancabilmente in fiumi d’inutilità, inconcludenti accozzaglie di 9


interviste a personaggi di vario genere, coronate dalla presenza del vacuo, ancor più rissoso, politico di turno. Rossella era consapevole del fatto che quando ci si trova di fronte a una circostanza fautrice di un’indagine della polizia, le notizie per motivi di sicurezza, nonché di riuscita delle investigazioni devono essere centellinate e spesso guidate. Sapeva anche che a un giornalista non si chiede altro che riportare i fatti reali, per quanta consistenza numerica e di contenuto possano avere. I pensieri condussero la donna a soffermarsi sull’azione giornalistica, forse per lenire il senso di angoscia generato dal non riuscire a sapere ciò che desiderava: Sebbene possano essere molto scarne e gonfiate, almeno le notizie che potrò attingere dai mezzi di comunicazione resteranno per qualche verso fedeli alla realtà. In quella condizione di scarse informazioni, Rossella Spargo sentiva di non poter resistere a lungo. Trascorse l’intera giornata ascoltando notiziari radiofonici, guardando telegiornali di ogni rete televisiva possibile, compresi quelli di divulgazione online. La quantità, ma soprattutto la qualità delle informazioni e dei dettagli in suo possesso non aumentò. Al contrario fu resa ancor più caotica e fuorviante dai mezzi busti, coadiuvati da esperti d’ogni genere, comodamente seduti su poltroncine o bordi di scrivanie, più attenti ad autoglorificarsi e stupire, piuttosto che informare. Si consumarono le ore necessarie a far sorgere un nuovo giorno, Rossella quel mattino uscì di casa prima del solito. Aveva trascorso una notte agitata, la brama di conoscere, di 10


sapere cosa fosse accaduto all’amico prete era riuscita ad alimentare pensieri e congetture. Soprattutto era riuscita a tenere in fervida attività quell’energia capace di sostenere il continuo movimento produttivo delle cellule del cervello in qualsiasi situazione. Dopo una rapida colazione e una veloce rinfrescata, la psicologa si affrettò a raggiungere il portone d’ingresso della sua abitazione diretta all’edicola più vicina. Voleva acquistare una copia di un quotidiano napoletano, dove sperava di cogliere nuovi sviluppi sulla vicenda che la interessava. Non appena Rossella aprì la pagina della cronaca, vide qualcosa che la turbò a tal punto da spingerla a chiudere con rapidità il giornale e correre con veemenza verso la sede universitaria, dove era ubicata la stanza messa a disposizione dalla facoltà per la ricerca che stava svolgendo. Quando giunse all’ingresso salutò il guardiano con un gesto rapido della mano, ma non fermò la sua corsa fino a quando non giunse nella stanza. Trafelata, si tolse lo zaino, prese posto su un lato della scrivania, aprì il suo marsupio nel quale custodiva una rubrica con i numeri di telefono dei suoi amici e colleghi più riservati, la scorse con rapidità fino a quando il dito indice della mano destra si bloccò su Arcos Mele. Prese il telefono cellulare, compose il numero e dopo pochi squilli rispose una voce giovane, chiara. Rossella non si perse in chiacchiere: «Ciao Arcos, sono Rossella, sei impegnato? Ho bisogno di parlarti. È urgente.» «Ciao Rossy», le rispose con voce coinvolta, «se si tratta di una faccenda così urgente ti raggiungo subito. Sei all’università?» 11


Sapeva che quel qualcosa capace di spingere l’amica, una donna solitamente pacata, a manifestare un tale stato di ansia doveva essere una faccenda a dir poco straordinaria. «Sì, sono in ufficio. Si tratta di una questione che non mi convince, ho cominciato a formulare troppi sospetti.» «Bene, dammi giusto il tempo di finire di scrivere un concetto che ho elaborato, prima che lo perda e arrivo.» Arcos Mele era un ricercatore, ma il suo campo d’interesse si differenziava leggermente da quello dell’amica con cui aveva condiviso la realizzazione di un progetto qualche tempo prima. Era un socio-antropologo che aveva integrato le sue conoscenze con qualifiche in Psichiatria Sociale e studi in Criminologia. Attualmente era occupato in una campagna a favore dell’impiego di figure come quella del socio-antropologo non esclusivamente forense, sia nel campo dell’investigazione e delle dinamiche socio-psicologiche nelle espressioni di violenza sulle donne, sia nelle implicazioni sociali dei comportamenti. Il ricercatore era convinto della necessità di affiancare, accanto alla Criminologia moderna, e nell’intero campo delle Scienze Comportamentali, fatta d’investigazioni scientifiche dal sempre crescente supporto tecnologico, figure come quella del socio-antropologo culturale. Questi, arricchito da studi di diversa natura, sarebbe stato in grado di valorizzare e completare il quadro di una moderna squadra d’investigazione. La sua sembrava una battaglia persa in partenza in un paese dove figure professionali come quella che voleva proporre non venivano sviluppate e soprattutto non erano comprese.

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Trascorsa circa una mezzora dalla telefonata, la sagoma di Arcos Mele comparve sulla soglia dell’ufficio di Rossella. La giovane donna non si accorse dell’amico, era completamente assorta nella disamina del giornale, all’interno del quale aveva scoperto un nuovo elemento che si aggiungeva a quello sconcertante di poco prima. Arcos diede due colpetti alla porta con le nocche della mano destra, affinché la collega destasse la sua attenzione, poi entrò nella stanza e si avvicinò alla scrivania, dove era seduta: «Ehi, Rossella, sono arrivato. Dimmi cos’è successo di così importante da farti agitare in questo modo.» La donna si staccò dalla lettura, fissò il suo interlocutore con il volto preoccupato e pensieroso: «Ottimo, non perdiamoci in chiacchiere. Adesso ascoltami, penseremo dopo ai “vari ciao come stai”, “dovevi chiamarmi”…» Prese due pagine della cronaca del quotidiano che stava esaminando e fece spazio sulla scrivania affinché potesse poggiare le due metà del giornale, una accanto all’altra. «Osserva bene questi due ritagli e ascoltami senza interrompermi finché non ho finito.» Il tono della donna era severo, faceva trasparire la preoccupazione di non essere presa sul serio. «Come sai circa due anni fa ho cominciato la ricerca sulle sette. Durante gli studi sono riuscita, grazie a un amico, a contattare un sacerdote di Procida che si occupava di quest’argomento in maniera clandestina. Riuscii a incontrarlo. Durante il colloquio padre Antonio mi rivelò di essere un membro di un gruppo che aveva come obiettivo quello di contrapporsi alle sette, con lo scopo di salvare quante 13


più persone possibili. Il sacerdote non volle raccontare i particolari, ma mi parlò dell’esistenza di un libretto, di alcuni segnali e di un codice che gli consentivano di comunicare con gli altri membri del gruppo. In particolare mi disse che se uno di loro avesse subito un incidente mortale, provocato da appartenenti a qualche setta, avrebbe compiuto, prima di morire, un gesto che sarebbe stato utile a identificare l’azione della setta nella propria morte, fornendo così un indizio ai membri del suo gruppo. Malauguratamente dovetti lasciare l’isola senza altre notizie. Il nostro colloquio fu interrotto da un rumore di passi e dal precipitare di piccoli sassi che si sbriciolano, come sotto il peso di un piede in movimento furtivo. Eravamo nell’oscurità sotto il ponte che unisce Procida a Vivara, sul lato di Vivara. Padre Antonio sembrava molto spaventato, a dire il vero anch’io non mi sentivo al sicuro. Dopo pochi attimi il volto del sacerdote impallidì. Mi esortò a lasciare l’isola al più presto e scappò via prima che potessi replicare. Diedi una breve occhiata in giro, non vidi nulla. Pensai di non indagare oltre e ascoltare le esortazioni del religioso. Tornai al porto e presi il primo traghetto per Napoli. Rimasi per questo con i pochi indizi forniti dal racconto, narrato in tutta fretta. Provai, dopo qualche giorno, a ricontattarlo, ma si fece negare. Non riuscii più ad avere sue notizie. Ieri, sfogliando il giornale, ho letto che padre Antonio è stato trovato morto.» La psicologa proseguì il suo racconto mostrando ad Arcos ciò che aveva trovato quel giorno sul quotidiano: «Mi segui fin qui?»

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«Certo che ti seguo, mi hai detto di non dire nulla finché non mi avrai esposto bene ogni particolare.» «Guarda cosa ho trovato su un quotidiano locale.» Mostrò all’amico il pezzo dedicato alla morte del sacerdote e mentre lo faceva proseguì senza interrompersi: «Il Reparto della scientifica di Napoli ha reso noti i risultati dei rilievi effettuati sulla scena di Procida. Attraverso i rilevamenti compiuti sul posto e le successive analisi, i tecnici fugano ogni possibile dubbio su un’eventuale morte non avvenuta per cause naturali. A supportare la teoria del malore giunge anche il referto del medico legale, con il quale dichiara padre Antonio deceduto a causa di un improvviso arresto cardiocircolatorio.» In quelle stesse pagine Rossella fece notare all’amico la presenza di un altro articolo esposto sulle colonne laterali della pagina. Il trafiletto riportava la notizia di un decesso avvenuto sull’isola di Ischia, dove un sacerdote della chiesa di San Michele Arcangelo aveva battuto la testa con violenza sopra lo spigolo di una panca in legno, a causa di una caduta dalla scala, mentre era dedito a controllare un dipinto. Anche in questo caso le indagini avevano condotto verso la pista della fatalità, poiché nessun elemento faceva supporre altre possibili conclusioni. Accanto agli articoli vi erano le foto delle vittime sul luogo dei presunti incidenti. Rossella le ritagliò, mettendo da parte il resto del quotidiano. Arcos si alzò dalla sedia, dove aveva preso posto per ascoltare le intuizioni dell’oratrice e girò intorno alla scrivania per affiancarsi alla psicologa. Nel frattempo lei aveva preso i due ritagli e li aveva passati allo scanner in dotazione 15


dell’università, che per quell’operazione aveva collegato al suo portatile. «Sai che hai ragione, nulla in questa storia mi convince.» «A chi lo dici! Ecco perché ti ho chiamato con tanta urgenza, sapevo che saresti stato l’unico a viaggiare sulla mia stessa lunghezza d’onda.» «L’ultima volta non mi sembrava di aver udito le stesse parole.» «L’ultima volta era diverso, si trattava di noi. E poi non ho mai detto che non fossimo in sintonia, ma solo che in quel momento avremmo emesso note stonate.» «E ora la musica è cambiata?» «Smettila, ne abbiamo già discusso al telefono, pensiamo alle cose serie.» Attesero pochi secondi, il tempo necessario al programma per assimilare le immagini. Non appena ne ebbero la possibilità, aprirono entrambi i file con l’ausilio di un programma di fotoritocco. Le confrontarono, ingrandendole, analizzandole per intero e per sezioni. I corpi erano coperti dal classico lenzuolo bianco. Ingrandendo la sezione e ricavandone una sagoma virtuale, fu possibile, per Arcos e Rossella, ricostruire la posizione dei corpi delle vittime e analizzare i particolari. I due cominciarono a osservare le sezioni delle fotografie e sebbene fossero una accanto all’altro, analizzarono i reperti senza proferire parola. Ognuno restava per conto suo, annotando su un foglio osservazioni e intuizioni. L’intento era quello di confrontare i

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risultati alla fine dell’ispezione, con lo scopo di non influenzarsi attraverso osservazioni o punti di vista. I mezzi impiegati dai neo investigatori si presentavano estremamente artigianali, ma istinto e ragionamento logico, accompagnati da uno spiccato acume d’osservazione, sopperivano egregiamente a ogni carenza tecnologica. Gli elementi utili a ricondurre le due morti ad altrettanti omicidi e non a cause naturali emersero chiari agli occhi degli osservatori. Le vittime avevano assunto una posizione che fu possibile considerare simile: padre Antonio che era stato trovato disteso sul ventre, aveva il braccio destro proteso in avanti, mentre quello del sacerdote di Ischia, che era stato ritrovato riverso in posizione supina, era proteso all’indietro. Per entrambi quel gesto sembrava esprimere la volontà di afferrare qualcosa o qualcuno. Il braccio sinistro, al contrario, appariva chiuso sul petto, come a proteggere qualcosa sul corpo della vittima ischitana, viceversa, scompariva sotto la sagoma riversa a pancia in giù nel caso di padre Antonio, ma sempre nella posizione che forma il classico angolo ottuso tra braccio e avambraccio, tipico di chi porta la mano al petto o al collo. Rossella, che aveva terminato il suo confronto, attendeva con impazienza una reazione dell’amico. Arcos restò per un istante in silenzio, abbassò lo sguardo, con l’indice e il pollice della mano destra si sfiorò un paio di volte il naso, poi chiuse la mano e strofinò il dorso del dito indice sulle labbra ancora un paio di volte. Il rito di concentrazione per convogliare il flusso di pensieri in azioni era terminato: «Scarica i file su una pennetta USB, andiamo nel laborato17


rio della Sezione di Culture digitali, là ci sono i ragazzi che stanno svolgendo un lavoro per Antropologia visuale. Abbiamo bisogno di rielaborare queste foto per analizzare quelle che oramai possiamo considerare le scene di due crimini. Ci sono molti elementi che non mi convincono.» Voltò le spalle, facendo cenno all’amica di seguirlo. Il laboratorio era ubicato proprio all’interno dell’edificio universitario, un piano sottostante a quello dove si trovavano i due neo investigatori. Rossella raccolse i ritagli ancora nello scanner e seguì l’amico verso la Sezione di Culture digitali. In breve tempo giunsero al laboratorio. I ragazzi che lavoravano in quella divisione li informarono che avrebbero dovuto aspettare un po’ prima che l’attrezzatura fosse disponibile, poiché stavano portando a termine un compito assegnato dal professore in precedenza. Il dinamico Mele non si perse d’animo: «Rossy non sprechiamo tempo, andiamo in palestra. Lo sai che dopo un buon allenamento ragiono molto meglio, magari pensiamo a trovare qualcosa che in questo momento ci sfugge.» La psicologa restò alquanto perplessa: «Secondo te questo è il momento di andare ad allenarsi? Non puoi infilare l’allenamento sempre, in ogni cosa.» «Non ti capisco. Sei cambiata. È evidente che stare lontano da me ti ha fatto male.» La replica giunse fulminea: «Non ricominciare, non è proprio il momento. Dobbiamo pensare solo a questo caso.» Arcos non riuscì proprio a tacere: «Non meravigliarmi con queste puntualizzazioni». 18


Subito sottolineò: «D’un tratto, proprio tu non riesci a comprendere quanto una mente non affaticata sia più produttiva di un cervello stressato? Dici sempre che il corpo non è un qualcosa di estraneo alla mente.» Rossella modulò la voce per tornare in sintonia con l’amico: «Sì, hai ragione, è come abbiamo sempre sostenuto. L’essere umano è il suo corpo ma anche la mente, uniti devono lavorare all’unisono in piena efficienza. Corpo e mente devono lavorare insieme.» Arcos non si fece scappare l’occasione: «Cosa che non mi sembra tu abbia fatto, e non faccia, quando si parla di noi due.» «Va bene hai ragione, ma solo per quanto riguarda l’allenamento», sottolineò Rossella lanciando un’occhiata d’intesa. I due, sopra le righe della consuetudine, non si sentivano di certo affini con la figura degli investigatori mostrati in televisione: individui che non dormivano mai, che si nutrivano a malapena e che lavoravano ventiquattrore su ventiquattro, fagocitando ettolitri di caffè. Salutati i ragazzi ancora impegnati nel lavoro, risalirono nell’ufficio di Rossella al fine di prendere i rispettivi zaini, continuando a confrontarsi riguardo quello che avevano riscontrato analizzando i ritagli di giornale. Giunsero, senza nemmeno accorgersene, all’ingresso di una palestra che Arcos sapeva essere nelle vicinanze dell’edificio universitario. Non appena scorse l’insegna, il socio-antropologo espresse il suo pensiero come se stesse proseguendo il precedente discorso: «E poi è lapalissiano che per rincorrere e acciuffa19


re un criminale bisogna essere al centouno per cento della forma psicofisica, senza dimenticare che il cervello può lavorare ovunque e in qualsiasi momento.» Entrarono, sbrigarono le pratiche amministrative per l’ingresso e il reperimento dell’abbigliamento sportivo e senza indugiare raggiunsero i rispettivi spogliatoi, si cambiarono ed entrarono nella sala adibita agli allenamenti. Non appena cominciarono gli esercizi di riscaldamento il silenzio ritornò a imperare, come se fossero nuovamente assorti nell’analisi soggettiva di una prova. Quel silenzio venne interrotto da Arcos solo sporadicamente, con l’obiettivo di porre alcune domande, atte a migliorare le sue conoscenze sul caso e fugare eventuali dubbi. Il socioantropologo era alla ricerca di un legame che ponesse un collegamento concreto tra i due incidenti, avvalorando i sospetti dell’amica. Dopo circa un paio d’ore il telefono cellulare di Arcos cominciò a squillare, lo aveva lasciato acceso affinché i ragazzi del Centro di Antropologia visuale potessero contattarlo. La telefonata giungeva proprio dalla sede universitaria in questione. Il materiale che aspettavano era pronto. Non persero tempo, uscirono dalla palestra per dirigersi all’università. Sul posto gli abili studenti avevano già rielaborato le foto, dividendo ognuna di esse in settori e compiendo un ingrandimento dei singoli quadranti. Arcos ringraziò i ragazzi, prese le stampe delle foto ed esortò Rossella a non tardare, dovevano prepararsi per raggiungere il porto e prendere l’ultimo aliscafo del giorno in partenza per Procida. Prima di correre al molo era necessario attrezzare gli 20


zaini con quanto potesse essere loro utile durante la ricerca. La sacca di un socio-antropologo è molto simile alla valigetta di un investigatore della scientifica, ricco di oggetti utilissimi per i quali non si riesce spesso a ipotizzare in anteprima un utile impiego.

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PROCIDA Bruciarono le tappe, in un brevissimo intervallo furono alla biglietteria del molo Beverello, appena in tempo per staccare i biglietti utili al viaggio sull’aliscafo che stava partendo. Il battello era poco affollato, così gli affannati passeggeri scelsero due posti vicini verso la poppa dello scafo. Si accomodarono, questo bastò a farli sentire riposati. Arcos aprì lo zaino e tirò fuori dal suo “sacco marsupiale” una lente d’ingrandimento accompagnata da un evidenziatore. Prima di immergersi nel lavoro di analisi l’uomo cercò una divagazione: «Ora nessuno può sentire le note che emettiamo, potremmo riprendere il discorso interrotto qualche tempo fa e…» Rossella lo interruppe prima che potesse addentrarsi in un discorso dal quale sarebbe stato difficile uscirne ancora una volta: «Non ricominciare, ti ho chiamato solo per le tue capacità nel lavoro, nulla di personale», fece un attimo di pausa «la mia situazione personale non è cambiata.» A quelle parole Arcos sembrò come aver spento un interruttore: «Se vogliamo ottenere buoni risultati in questa che oramai possiamo considerare una ricerca investigativa, dobbiamo partire dalla vittima.» «Sono d’accordo, è l’analisi della scena del crimine e soprattutto della vittima, in ogni suo aspetto, a condurre verso la verità», intervenne Rossella, sollevata da quel fulmineo ritorno al caso. 23


Era loro ferma convinzione quanto divenga fondamentale esaminare il soggetto colpito, sia nel suo stato di vittima, sia in quello antecedente, poiché sarà proprio attraverso le sue azioni, i suoi comportamenti, le parole dette e quelle non dette, che chi investiga verrà condotto verso il colpevole, scoprendo anche parte delle cause dell’azione criminale. Le vittime dialogano, attraverso le azioni compiute in vita, con chi investiga, anche dopo la morte. Per questi motivi era assolutamente necessario cercare di scoprire il più possibile sui due sacerdoti. Con il più possibile intendevano portare alla luce anche il più insignificante episodio che avesse coinvolto i sacerdoti, soprattutto se altre persone li avevano trascinati in discussioni o diverbi, anche pacati. I due si immersero in un’attenta esplorazione delle fotografie, che li condusse alla scoperta di elementi interessanti. Arcos attirò l’attenzione della compagna di viaggio: «Ascoltami e seguimi nel ragionamento.» Cominciò a paragonare i primi piani delle vittime. Mostrò in quale modo fosse logico presumere che le braccia ripiegate sul petto si legassero a un gesto voluto da entrambe le vittime, come se volessero stringere tra le mani qualcosa, ad esempio il crocifisso che portavano al collo. Nonostante i corpi fossero coperti da un lenzuolo era ben evidente, soprattutto nella foto del sacerdote di Ischia, la sagoma del braccio. Si scorgeva dal rigonfiamento del lenzuolo e aveva tutte le caratteristiche di un arto che stringeva qualcosa con forza, come se si stesse aggrappando.

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Nella vittima di Procida non era possibile scorgere con nitidezza la stessa posizione, poiché il corpo era disteso sul ventre, ma il fatto che il braccio sinistro fosse nascosto sotto il corpo, con il gomito leggermente distaccato dal fianco, lasciava logicamente presumere che anch’egli avesse compiuto lo stesso gesto della vittima ritrovata a Ischia. Il neo investigatore Mele concentrò la sua attenzione su un altro particolare, considerato rilevante: la posizione del braccio destro. Il modo in cui l’arto era posizionato non sembrava una sistemazione casuale, come quella di un corpo accasciatosi al suolo a causa di un malore o di un incidente, ma mostrava i segni di un atto voluto dalle vittime prima di morire. Le braccia, in entrambi i casi, presentavano una distensione articolare eccessiva per una morte sopraggiunta inaspettata, le dita delle mani erano distese e distanziate tra loro, protese in avanti come per cercare di raggiungere un oggetto vicino, oppure con l’intenzione di indicare una direzione o qualcosa di comune generalmente usato o alcunché che potesse trovarsi sulla linea retta, idealmente tracciata dal braccio. Rossella aveva seguito il ragionamento con attenzione: «Queste posizioni non fanno venire in mente anche a te una delle confidenze fattemi da padre Antonio, di cui ti ho già parlato?» «Ora che mi ci fai pensare c’era la questione dei segnali», rammentò Arcos. Il religioso le aveva confessato uno stratagemma adottato dal gruppo anti sette cui apparteneva. Avevano deciso di utilizzare dei gesti convenzionali, che ognuno di loro 25


avrebbe dovuto compiere qualora gli fosse accaduto qualche incidente per mano di membri appartenenti a una setta. La ricercatrice volle precisare: «Il sacerdote non ha chiarito quali fossero questi segnali particolari, forse poteva riferirsi a posizioni del corpo facili da assumere anche per delle vittime in una situazione legata a una morte violenta e improvvisa.» «Rossy la tua espressione mi dice che sei d’accordo con me sul fatto che le posizioni assunte dai due sacerdoti potrebbero essere messaggi da decifrare.» Era ovvio, a questo punto, ritenere le morti degli omicidi e non semplici incidenti, anche se attraverso le dichiarazioni, apparse sui quotidiani, gli investigatori avevano assicurato di non aver trovato alcun elemento che potesse far pensare a qualcosa di diverso da un incidente. C’era da considerare che gli avvenimenti di cui si stavano occupando erano avvenuti nella realtà, per di più in Italia, e non nella fantascientifica finzione di un serial statunitense, dove cyborg-investigatori, colti da un’illuminazione in dotazione solo a menti eccelse, avrebbero impiegato uomini e mezzi straordinari per risolvere il caso, assicurando il colpevole alla giustizia. La realtà di un paese come l’Italia li metteva di fronte a una situazione d’investigazione e di giudizio difficile da accettare. Si sarebbero dovuti scontrare con il quadro italiano, nel quale troppo spesso gli investigatori abili sono costretti a vedere sforzi e sacrifici vanificati da multiformi alchimie, e una parte troppo ampia della magistratura non segue e applica ciò per cui esiste, tronfia del valore attribuitole solo da 26


una continua autocelebrazione, profusa in un circolo vizioso di elementi sempre troppo attratti da procedure inutilmente complesse e dagli squallidi magheggi della politica. Rossella e Arcos sapevano che avrebbero dovuto imbattersi in uno di quei pochi operatori delle forze dell’ordine capaci e onesti, che compiono con coscienza, professionalità e abnegazione il proprio lavoro, rischiando continuamente l’incolumità personale per un misero stipendio, con il quale cercano di offrire una vita decorosa alle proprie famiglie. Di certo avrebbero cercato di evitare quella fetta troppo grande che sembra composta da coloro che impongono le ragioni della legge solo con chi non presenta una reale minaccia criminale. Per questo, restava chiaro che nessuno avrebbe impiegato mezzi e uomini per analizzare con cura la scena del crimine di quei due decessi avvenuti nelle isole partenopee. Questo fare tristemente reale non sfuggiva a Spargo e Mele. A questo punto, se le deduzioni fossero state esatte, gli omicidi dovevano certamente essere legati alle attività segrete dei due sacerdoti. Inoltre, se gli omicidi erano stati commessi dai componenti di una qualche setta, sul luogo ci sarebbero dovute essere le “firme”, anche impercettibili, dei colpevoli. In genere gli adepti delle sette, soprattutto delle sette sataniste di stampo violento, lasciano sempre un segno distintivo, nelle loro azioni, in particolare se vengono perpetrate contro organi religiosi. Era tempo, per i due investigatori di accelerare l’indagine con analisi e deduzioni, accompagnate da intui27


zione e istinto. Trascorsero il resto del viaggio a esaminare quasi ogni pixel delle foto, utilizzando solo i rudimentali mezzi a loro disposizione. Il percorso che li separava dalle coste dell’isola di Procida si esaurì quando l’altoparlante esortò i passeggeri a raggiungere la passerella per scendere a terra. Arcos e Rossella destarono la loro attenzione con dispiacere, poiché attimo dopo attimo trovavano elementi nuovi per la loro indagine. Sbarcarono e senza indugiare chiesero a un passante quale fosse la strada per giungere alla chiesa di San Giuseppe. Il gentile procidano svelò che la zona dove si trovava il luogo sacro era proprio la sua meta, per questo si offrì di fare loro da cicerone. Procida, il posto nel quale secondo la linea temporale doveva trovarsi la prima scena del crimine, non è un’isola molto grande, per questo fu semplice e rapido, per gli ansiosi visitatori raggiungere il luogo desiderato, usufruendo della linea di trasporto pubblico. In pochi minuti giunsero in via Giovanni da Procida, a Marina Chiaiolella. Il conducente fermò il veicolo alla fermata obbligatoria, consentendo così ai passeggeri di scendere. La guida mostrò ai due presunti visitatori la piccola chiesa costruita nel XIX secolo, che in seguito aveva subito interventi di rifacimento attraverso i quali fu ampliata e restaurata. I primi a mostrarsi furono la cupola e il campanile, anch’essi risalenti al XIX secolo, che spiccavano tra l’abitato di Marina Chiaiolella, caratterizzato da costruzioni a misura d’uomo. Come due semplici turisti congedarono il loro accompagnatore e si diressero verso l’ingresso principale della cappella. Entrarono in religioso silenzio e scrutando intor28


no con lo sguardo scorsero una costruzione a croce latina con un’unica navata e piccole cappelle laterali. Voltarono lo sguardo verso l’altare maggiore e videro un’edicola in marmo. C’era la statua del santo protettore San Giuseppe, risalente al XVIII secolo. In cima era collocata una conchiglia con l’iscrizione Ite ad Joseph. Compirono una rotazione circolare con la testa per scoprire che alcune tele di particolare rilievo completavano il contorno. Rossella prese le foto dallo zaino e insieme gli diedero una rapida scorsa. Si accorsero che il locale dove si trovavano non corrispondeva con il luogo raffigurato nelle immagini dove era stato ritrovato il corpo. Non restava che recarsi nella sacrestia. La chiesa era vuota. In silenzio, senza affrettare il passo, la psicologa e il collega si avvicinarono alla porta della sacrestia, chiesero permesso e una voce di donna li invitò a entrare. I due si presentarono come ricercatori della Facoltà di Sociologia che stavano svolgendo una ricerca sulle chiese napoletane. La donna si mise a loro disposizione, informandoli che era lei a occuparsi di tutto nella piccola cappella, soprattutto in quel triste momento, testimone della scomparsa del loro parroco. La signora chiese di concederle solo qualche istante, il tempo necessario a ripiegare le vesti del defunto sacerdote. Erano gli abiti che indossava il giorno della scomparsa e che gli agenti delle forze dell’ordine le avevano da poco riconsegnato. Attraverso uno sguardo d’intesa i visitatori si divisero i compiti. La complicità, quanto la comprensione reciproca, li faceva assomigliare a una coppia rodata da anni di lavoro insieme. In verità la loro intesa nascondeva qualcosa di più articolato e profondo. 29


Rossella con garbo e gentilezza allontanò la donna dal tavolo dove era poggiato il saio, assieme agli abiti del prete e la condusse con naturalezza verso l’interno della chiesa, ponendole alcune domande sul luogo. La perpetua era la migliore fonte dalla quale i due avrebbero potuto ottenere informazioni, anche private, sulla vittima di Procida. Rossella, in compagnia dell’anziana signora, percorse con passo flemmatico il perimetro della chiesa mentre la donna continuava a parlare di ciò che era accaduto. La sua accompagnatrice espresse tutta l’arte di fine “sminuzzatore di menti”, conducendo la conversazione sulla persona di padre Antonio, oltre che sulla sua figura di sacerdote. La governante sembrava entusiasta di parlare dell’uomo tanto stimato, che in un certo qual modo le aveva salvato la vita. Le due si fermarono di fianco all’altare, la perpetua rivolse il viso a quello di Rossella. Non appena le fu possibile guardare la sua interlocutrice negli occhi, raccontò: «Padre Antonio veniva da una provincia napoletana, la sua vita sin da ragazzino è stata votata al sacerdozio. Una volta concluso il seminario ha preso i voti ed è stato assegnato a una parrocchia nel salernitano. Trascorsi alcuni mesi fece richiesta per partire come missionario. Spese alcuni anni fuori dall’Italia, prima in Africa, poi nelle zone povere dell’America Latina.» La custode dei segreti di padre Antonio confessò ancora, mentre Rossella la ascoltava con attenzione. La piccola chiesa di Procida si era rivelata come una sorte di esilio inflitto al parroco. Il missionario, durante gli anni trascorsi nelle missioni, non si era limitato al lavoro caritatevole e di elemosina, tanto caro all’Istituzione cattolica. Di continuo 30


accusava l’intenzionale negligenza dei governi e dei loro affiliati, senza risparmiare la chiesa terrena nelle operazioni di aiuto umanitario. Con l’ausilio di alcuni giornalisti aveva mostrato le prove tangibili della continua assenza delle nazioni più ricche nelle questioni veramente delicate e importanti. Rossella colse l’attimo di pausa per intervenire: «Nessuno ha accolto le sue denunce, prendendo la giusta posizione?» La donna rispose con tono di disprezzo: «Smascherava di continuo le pompose ma inutili azioni umanitarie tanto pubblicizzate, ma nessuno sembrava volerlo seguire, tantomeno proteggere.» L’ultimo documentario denuncia realizzato da padre Antonio pare avesse scatenato le ire delle alte sfere politiche e religiose, tanto da costargli il così detto “esilio di Procida”. In quel documentario il sacerdote portava testimonianze concrete circa numerosi interventi spacciati per grandi opere umanitarie compiute, ma che in realtà nulla avevano migliorato. In quello stesso servizio mostrò il gran lavoro di diverse associazioni, che tra mille difficoltà riuscivano concretamente nell’intento di aiutare i popoli in difficoltà a non avere più bisogno di aiuto. La goccia che fece traboccare il vaso fu quando mostrò con esempi concreti le vie attraverso le quali i governi e le amministrazioni dei paesi ricchi avrebbero potuto supportare l’opera di chi realmente sa come intervenire nelle zone in difficoltà, ma che volutamente ignorano, trincerandosi dietro insulsi ragionamenti, invece di dedicarsi a investire in attività di altro genere. In 31


fine la signora volle aggiungere una considerazione personale: «Padre Antonio, giunto da poco tempo sull’isola, mi ha raccolto dalla strada, poiché non avevo più nulla e nessuno a causa dell’alcol, donandomi la possibilità di continuare a vivere una vita dignitosa.» Con gli occhi lucidi la tenera perpetua concluse il suo racconto e fece cenno all’ospite di ritornare nella sacrestia. Nel frattempo Arcos si era avvicinato agli abiti incustoditi, aveva cominciato a esaminarli alla ricerca di una qualsiasi prova che avvalorasse la loro tesi. Indossò i guanti in lattice, parte del materiale che gli investigatori avevano acquistato prima di partire e cominciò con delicatezza a scrutare tra i tessuti. Quegli abiti talari non sembravano contenere nulla d’interessante, forse erano già stati esaminati dalle forze dell’ordine. Perché qualcuno si sarebbe preso la briga di farlo?, s’interrogò Arcos Mele. Il tempo scarseggiava, ma prima di lasciare quelle vesti si accorse, dal rigonfiamento dell’ampia tasca del saio, della presenza di un libro di preghiere che pensò bene di fare suo. Cominciò a controllare la stanza alla ricerca degli appunti del sacerdote, ma si rese conto che la camera sembrava non avere nascondigli, non contenere mobili, cassetti o ante chiuse a chiave, nessuno spiraglio pareva illuminare la ricerca. I passi di Rossella e della signora, di ritorno dalla visita alla cappella, interruppero l’affannosa operazione. Non appena le due furono nella sacrestia, Rossella fece cenno all’amico di salutare e andar via.

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Non appena furono lontani dalla signora: «Rossy perché sei tanto frettolosa, non abbiamo ancora trovato ciò che cercavamo.» Rossella replicò: «Non ti preoccupare San Giuseppe ci ha fatto un bel regalo.» Raggiunsero l’uscita e decisero di cercare una pensione per la notte perché si era fatto tardi e avevano bisogno di un luogo dove poter confrontare gli indizi che avevano raccolto nella chiesa. La strada appariva deserta, per tornare al porto presero il piccolo autobus che fermava proprio a poche centinaia di metri dall’edificio. Il bus non tardò a passare, così in non più di dieci minuti giunsero al porto. Cercarono una pensione e presero una camera con due letti perché avevano bisogno di confrontarsi su quello che avevano saputo e trovato. Pertanto quella stanza la considerarono come un ufficio, anziché come camera d’albergo. Sistemarono con rapidità le poche cose possedute, al solo scopo di lasciare quanto più spazio possibile per esporre le prove. Il tavolo sistemato accanto alla parete dell’unica finestra e uno dei letti andavano benissimo per ciò che avevano in mente. Era giunto il momento dei confronti. Rossella cominciò a riportare quanto saputo dalla signora, ma sopra ogni cosa era ansiosa di mostrare all’amico ciò che era riuscita a trovare, facendolo suo con abile maestria. La psicologa rivelò: «La perpetua mi ha fatto molte rivelazioni sul sacerdote defunto». Decise di soffermarsi maggiormente su alcuni particolari che riteneva interessanti: «La signora mi ha confessato tutto il suo stupore per il malore sofferto dal prete, che non solo era giovane, ma alcuni 33


giorni prima aveva fatto la sua solita visita medica annuale. Il responso del medico mostrava nulla di anomalo.» «Istinto e deduzioni cominciano a trovare conferme», intervenne Arcos prima che le notizie rivelate dalla compagna d’avventura si moltiplicassero. «Sono riuscita a scorgere, in un angolo nascosto della statua del santo, un piccolo libricino e l’ho preso in un momento di distrazione della signora, mentre era concentrata nei ricordi.» Arcos, a quel punto, condivise la sua unica ma fondamentale scoperta. Negli abiti non aveva trovato niente di interessante, ma nel libricino delle preghiere, che il sacerdote teneva ben custodito nell’ampia tasca del saio, vi era una strana scritta, accompagnata da un simbolo: un esagono, all’interno del quale, a ogni lato corrispondevano due segni distaccati che sembravano formare il numero sei, mentre al centro un tratteggio poteva raffigurare una croce rovesciata. L’iscrizione era stampata, come se fosse stata impressa sul foglio da un timbro preconfezionato, di colore rosso, proprio nell’angolo in basso a destra della pagina. Quell’iscrizione recitava poche parole: La tua anima ci appartiene. Gli scarni vocaboli componevano una frase sconcertante, tuttavia confermava quanto era nei sospetti dei due investigatori. Con i nuovi elementi Arcos e Rossella passarono a esaminare gli appunti contenuti nel libretto. Era un libricino malandato, la copertina rigida era consumata da un’usura coerente con il logorio attribuibile al continuo uso che il prete ne faceva. C’erano date, cifre che sembravano 34


versamenti in denaro, con accanto nomi, cognomi e a fianco a ognuno di essi un punto interrogativo e orari di appuntamenti tutti in ore tarde della notte. A ogni appuntamento corrispondevano delle sigle come: MN; RS; SA; RSO. Nell’ultima pagina vi era raffigurato un simbolo simile al disegno ritrovato nel libretto delle preghiere e nella parte bassa della pagina sotto il simbolo si leggeva: Sugli abiti, sulle pareti, ovunque. D’improvviso, mentre i due amici erano assorti nelle analisi degli indizi e nella costruzione di deduzioni e linee temporali, dalla finestra del balcone, che affacciava sulla strada, provenne un rumore. Rossella e Arcos si voltarono verso la fonte del fracasso e videro un oggetto infrangere il vetro, terminando la sua corsa proprio accanto al tavolo dove erano seduti. Il socio-antropologo corse alla finestra, ma non vide nulla, unicamente i colori della notte. Si voltò nuovamente verso l’interno della stanza urlando un secco: «No!», rivolto alla compagna, che era sul punto di prendere l’oggetto. Di certo l’agitazione per l’accaduto le aveva fatto perdere per un istante la freddezza del ragionamento logico. «Non toccare nulla, ricorda che sei senza i guanti!» «Hai ragione, ma sapere di essere sempre più vicini alla verità, mentre qualcuno vede ogni nostra mossa mi stizzisce.» Dovevano indossare delle protezioni per effettuare i rilevamenti del caso. Era necessario creare della polvere che fosse in grado di fissare le eventuali impronte, come quella della grafite di una matita temperata o un altro tipo di pol35


vere sottile. Bisognava anche adoperare dello scotch trasparente, alcuni veli di plastica, senza dimenticare le bustine per recuperare e preservare le impronte e i materiali ritrovati. Indossarono i guanti e cominciarono un minuzioso lavoro di analisi. Esaminarono con cura l’involucro dell’oggetto prima di aprirlo. Era un semplice foglio di comunissima carta, che purtroppo non poteva essere analizzato in modo “fantascientifico” per giungere a scoprire l’albero dal quale era nata, come alcune volte accade nelle appassionanti serie crime. Cominciarono lentamente ad aprire il fagotto. Un teschio, chiaramente animale, era avvolto al suo interno e una scritta campeggiava sul foglio, impressa con un colore rosso. Non era necessario seguire la metodologia d’investigazione scientifica portata all’esasperazione dal bisogno di sensazionale, i due investigatori partenopei avevano il bisogno di concentrarsi solo su ciò che avrebbe potuto condurre a tracce utili. Per questo Rossella e il suo collega si concentrarono sul pezzo di carta che conteneva le ossa. La scritta recitava: Andate e dimenticate, o le vostre anime ci apparterranno. Un avvertimento che suonava come una minaccia da non sottovalutare, soprattutto perché si legava agli avvenimenti accorsi durante quella movimentata giornata.

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La frase era stata scritta con una sostanza appiccicosa, densa, quasi certamente si trattava del sangue appartenuto all’animale cui era stata sottratta la testa. I ricercatori erano certi che far analizzare quel sangue non avrebbe condotto ad alcuna pista percorribile, ma avrebbe solo sottratto tempo all’indagine. Un’analisi maggiormente approfondita di sangue e fluidi resta opportuna per un quadro investigativo che necessita di piste e sbocchi alternativi. Era fondamentale, in questo caso, riuscire a percepire il messaggio latente contenuto nella completezza di quella sorta di missiva. Gli amici investigatori si fermarono a riflettere. Era giunta una minaccia a breve distanza dal loro primo sopraluogo, nonostante le loro ricerche fossero del tutto clandestine. Questo dimostrava che avevano imboccato la strada giusta. Era necessario proseguire in quella direzione per giungere a scoprire la verità su quella vicenda. Un secondo aspetto sembrava essere di grande importanza: la consistenza della minaccia che si mostrava concreta e pericolosa. Era necessario mettere a punto una serie di strategie al fine di preservare la propria incolumità. Non fu difficile per il socioantropologo trovare una linea d’azione difensiva. Possedeva numerosi anni d’esperienza nelle arti marziali, diverse partecipazioni al tirocinio di tecniche di guerriglia degli antichi guerrieri orientali, seguito durante un programma annuale di Antropologia applicata all’Investigazione e alla Criminologia. Prima di occuparsi di questo era però indispensabile terminare i rilevamenti. Rossella fotografò gli oggetti, li imbustò separatamente, li etichettò conservandoli nello zaino, 37


con la speranza di poterli mostrare a qualche investigatore delle forze dell’ordine capace di prenderli in seria considerazione. Dopo aver concluso quelle operazioni di rilevamento e prelievo, si rivolse all’amico: «Dobbiamo andare a riposare, non dimenticare che domani mattina dobbiamo partire presto per raggiungere l’isola di Ischia.» Gli avvenimenti accaduti stavano mostrando ai due amici di essere sulla strada giusta. Qualcuno lo aveva capito e voleva spaventarli. Restava da conoscere, però, fino a che punto si sarebbero spinti. La risposta al quesito era, forse, racchiusa nei tragici episodi che avevano visto come protagonisti i sacerdoti delle due isole partenopee. Arcos, nonostante tutto, non aveva accantonato il loro rapporto personale: «Rossy, dormiamo vicini, così posso farti da scudo in caso di nuovi lanci notturni.» «Mi sa che ti hanno già colpito. Dormi tranquillo al tuo posto, e ricordati che mi so difendere anche da te, me lo hai insegno tu.»

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INDICE

L’INCONTRO ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 5 SOSPETTI ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 7 PROCIDA ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 23 TRE ANNI PRIMA ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 39 ISCHIA ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 41 CAPRI ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 63 DUE ANNI E MEZZO PRIMA ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 79 LA DOTTORESSA OCCHIELLO ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 81 ADEPTI ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 89 IL GIP ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 101 DUE ANNI PRIMA ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 139 STRATAGEMMA ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 145 QUALCHE MESE PRIMA ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 171 L’EPILOGO ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐173 NEL PRESENTE ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ 191


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