CAROLA HELIOS
ASPETTANDO LE STELLE
Romanzo
“Aspettando le stelle” di Carola Helios Copyright © 2018 Caravaggio Editore Vasto (CH) - Italy www.caravaggioeditore.it informazioni@caravaggioeditore.it Tutti i diritti di riproduzione, traduzione e adattamento sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere usata, riprodotta o diffusa senza autorizzazione scritta da parte dell’editore. Collana Editoriale Narrativa Prima Edizione Dicembre 2018
ISBN 978-88-95437-83-5 In copertina: libera combinazione e adattamento di “Shepherd in the evening”, di Ernst Ludwig Kirchner, e “Star of the Hero”, di Nicholas Roerich. Progetto grafico a cura di AgenziaLetteraria.Net
Ai miei figli, Roberta e Attilio
PROLOGO: 2008
Un tuono cupo rumoreggia lontano sembra un barroccio «No vuoi una tasa de te, Beatriz?» Nuvole minacciose sospinte dal vento si ammassano in un cielo grigio che preannuncia un imminente temporale. Alvarez è premuroso, c’è tanto amore nei piccoli gesti con cui invita Beatrice a rientrare in casa. Sa, dai suoi racconti, che tuoni e fulmini le hanno sempre fatto paura e che a Beatrice quando arriva la pioggia piace cercare riparo nei ricordi. «È nonno in carrozza» ripeteva ogni volta mamma Corinna per rassicurarla; e mentre attendeva che il temporale si placasse sedeva con lei sulla sedia a dondolo, davanti al caminetto. «Vorrei tanto vederti con due braccine un po’ più cicciottelle» le diceva, vedendola tanto esile e inappetente. Poi cominciava i soliti sforzi per farle mandar giù le cucchiaiate di minestra: «Fai contenta la madonnina… Questo è per la madonnina di Pompei… E questo per la madonnina di Loreto…».
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E via così fino al decimo tentativo! Fino a quando Beatrice si stancava di dover ingoiare a forza la minestra e di dover imparare a memoria l’elenco infinito delle mamme di Gesù. «Quante madonnine ci sono in cielo, mamma?» «Tante quante le stelle, cara. E per ogni cucchiaiata che mangi vedrai che ce n’è una nuova.» «Ma devi proprio rimpinzarla di cibo in questo modo?» protestava bonariamente allora Giovanni, il papà di Beatrice – un uomo benevolo, pieno di spirito, contento della sua piccola vita da impiegato statale. «Corinna, se continui a farla mangiare a forza, più che una stella presto la bambina diventerà un pianeta!»
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CAPITOLO 1: 1956
Appare all’alba tramonta a sera il sole palla di fuoco Nell’estate del 1956 Beatrice era una bimbetta di nove anni dai capelli biondissimi, raccolti in morbide treccine, e dagli occhioni di un azzurro intenso che riflettevano l’azzurro del cielo, sempre pronti a scrutare quel che le accadeva intorno. Beatrice cominciava a crescere e a lasciarsi alle spalle l’ingenuità dell’infanzia, ma non aveva ancora perso la curiosità dei bambini più piccoli: le piaceva vedere, toccare, ascoltare, provare a darsi da sola le risposte ai suoi mille “perché?”. E più di tutto la incuriosiva il sole, con quel suo percorso ripetitivo e misterioso. Sorgeva di primo mattino, splendeva alto nel cielo e dopo aver concluso il suo lavoro quotidiano scendeva lentamente, e come per magia scompariva dietro i monti. Cosa farà poi lì dietro, si poserà a terra?, finiva per chiedersi ogni volta Beatrice. In quell’anno, a ridosso dell’estate, la mamma l’aveva convinta a lasciare Colleferro e a passare un mesetto insieme agli zii e al nonno materno Augusto, i quali avevano casa a San Giorgio a Liri, un paesotto 9
di duemila anime nella parte più meridionale del Frusinate. Beatrice all’inizio protestò a modo suo: «Voglio stare qua, perché devo andare così lontano? E poi non la conosco nemmeno la casa del nonno!». «Non ti piacerebbe fare il bagno nel fiume, Liri?» Ma la piccola non voleva sentire ragioni. «Il fiume c’è anche qui a Colleferro, mamma!» protestava candidamente. «Sì, ma da nonno il paesaggio è più bello, cara… Tutto intorno al paese ci sono i monti Aurunci e tante collinette che sembrano fatte apposta per fare lunghe camminate al fresco… Lì l’aria non è mica afosa come da noi!» insistette la mamma e a queste parole nei pensieri di Beatrice si materializzò l’immagine di un bosco in tutto e per tutto simile a quello di Hansel e Gretel – la fiaba che la madre le raccontava quando lei era più piccina, e che però le faceva un po’ paura. «E poi c’è una bella sorgente…» continuò la mamma. «Che cos’è una sorgente?» Beatrice non pensò più alla paura di perdersi come Hansel e Gretel e iniziò davvero a incuriosirsi. «Vuol dire che l’acqua sgorga spontanea da sotto terra e forma una specie di laghetto, e le acque del lago poi vanno nel parco della Forma. Pensa che l’acqua è così fredda che la gente del posto ci immerge le bevande e i cocomeri per farli rinfrescare e poi si fanno certe mangiate seduti sui prati…» Mentre la madre descriveva le bellezze del posto, la mente di Beatrice assorbiva le immagini e le faceva proprie. 10
«Oh be’, se è per poco ci posso pure andare.» «Ci accompagnerà papà con la macchina, cara. Non devi pensare a nulla, se durante il viaggio hai paura di annoiarti potrai portare anche Fiocco.» Fiocco era il barboncino di pezza che Beatrice stringeva tra le braccia sin da quando aveva pochi anni: quando la notte Beatrice aveva paura del buio c’era lui a proteggerla, e adesso stava diventando come un filo di Arianna, pronto a difenderla dalla nostalgia di casa. Appena giunta a San Giorgio Beatrice ebbe l’impressione che il sole fosse vicinissimo, che tra tutti i posti del mondo avesse scelto proprio i monti Aurunci per cominciare a tramontare. E in quell’inizio d’estate, ogni singolo giorno vedeva ripetersi alla stessa ora quella sensazione e quell’immagine stupefacente: a metà della montagna un raggio di sole penetrava attraverso la vegetazione e illuminava un bianco casolare che dall’alto dominava le collinette sottostanti. Beati quelli che possono vedere il sole da vicino, pensava allora Beatrice, poi tendeva l’esile manina e indicava la cima del monte a zio Michele, che pareva capace di leggere nei suoi pensieri e rispondere a ogni sua domanda prima ancora di averla sentita dalla bocca della nipote. E la richiesta di Beatrice allo zio era ogni giorno la stessa: «Vorrei tanto salire fin lassù e vedere il sole che si posa a terra dietro la montagna…». Quel giocherellone dello zio, che si era fatto carico di condurre Beatrice a fare qualche passeggiata, 11
anche per stimolarle un po’ l’appetito, accoglieva sempre con divertimento il desiderio della piccola: «Quando vuoi, Beatrice, basta dirlo… tanto non ci vuole niente ad arrivare lassù, ormai lo sai». A queste parole, Beatrice liberava la fantasia e scrutando il cielo immaginava chissà quali scenari, infiniti e indescrivibili. E tutti per sé, come se nessun altro potesse vederli, nemmeno lo zio.
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CAPITOLO 2: 1956
Le rondinelle intrecciano nell’aria voli a sghembo Si faceva notte. Uccelli disposti in formazione si dirigevano verso la loro dimora, mentre un falco pellegrino, ancora alto nel cielo, si soffermava a disegnare ampi cerchi. Beatrice era seduta sul suo lettino e stava con gli occhi fissi al soffitto, fiocamente illuminato da un lume a petrolio. Rammentava la promessa fatta dallo zio e fantasticava. Sognava il sole come una grande palla che si nascondeva dietro la montagna, ma lei lo chiamava, lo rincorreva, lo stanava e lo costringeva a risalire nel cielo, e l’eco della sua voce da bambina rimbombava in ogni dove‌ e come per magia il sole le obbediva e ritornava al suo posto. Tutti sono obbligati a fare qualcosa, diceva nel sogno Beatrice. La zia, lo zio, il nonno, gli uccelli nel cielo, e anche tu, caro il mio sole! Forse la piccolina aveva già intuito cosa fosse il dovere. A Beatrice piaceva alzarsi presto al mattino, anche in estate, quando era libera dagli impegni scolastici. E 13
in una mattina di quei primi giorni di vacanza, non avendo più sonno, si alzò e andò alla finestra: da lì vide nonno Augusto che si recava nella stalla, a ridosso della casa, per prendersi cura delle sue mucche da latte e assicurare la colazione alla sua famiglia. Beatrice si lavò svelta la faccia e scese subito al piano di sotto, sperando di incrociare il nonno. Sedette in cucina con le gambe a penzoloni sulla panca a forma di elle, davanti al lungo tavolo rettangolare. Incrociò le braccia e appoggiò la testolina sul tavolo: così la trovò Augusto quando entrava in cucina per riscaldare il latte. «Già in piedi, Beatrice? Come mai? Ti hanno buttata giù dal letto questa mattina?» chiese il nonno mentre le porgeva la tazza. «Sto aspettando zio Michele, dobbiamo andare in montagna.» Beatrice, ancora mezza assonnata, spalancò la bocca e sfoggiò un lungo sbadiglio irriverente. «Dobbiamo andare a vedere com’è che fa a salire su il sole.» «Allora, mentre guardate la bellezza del sole, passate dalle Cesarelle» disse il nonno, impassibile. Le Cesarelle erano un appezzamento di sua proprietà, coltivato a frutta, e spesso il nonno chiedeva a Michele di deviare di lì per raccogliere un po’ di frutta. Beatrice trovava il nonno serioso e alto, ma un poco ricurvo, proteso in avanti oltre che gravato dalla fatica di dover crescere da solo otto figli, quattro maschi e quattro femmine. La sua amata Sara lo aveva lasciato nel mezzo del cammin di nostra vita, per colpa di una malattia 14
incurabile. Augusto era sempre intento a fare qualcosa, ma aveva la sensazione che il tempo gli sfuggisse di mano. Era un sentimento che Beatrice non poteva ancora afferrare in pieno, ma che in qualche modo forse già intuiva. La piccola osservò il nonno, che si apprestava a preparare dei formaggini dalla forma cilindrica. «Cosa sono, nonno?» chiese Beatrice incuriosita e decisa a capire come il latte potesse trasformarsi in formaggio. «Sono i marzolini, si fanno col latte di pecora.» «Li posso assaggiare?» «Non ora, cara, non sono ancora pronti. Ci ho appena messo il caglio, e la cagliata non sa di niente» rispose il nonno, quindi le mostrò una bottiglietta. «Vedi, il caglio è una sostanza acida che si estrae dallo stomaco degli agnellini o dei vitellini. La verso nel latte per farlo rapprendere. Il formaggio si fa così, ma come per tutte le cose ci vuole un po’ di tempo.» Beatrice decise che quella descrizione le aveva fatto passare la voglia di assaggiare la cagliata, ma non voleva interrompere il lavoro del nonno, ancora intento a rimestare e a raccogliere i primi fiocchi rappresi, a mano a mano che affioravano. «Vedi questi recipienti, Beatrice? Il fondo è fatto di cannucce intrecciate, così si può scolare il siero. Poi metto tutto a lavare con l’acqua di cottura della pasta e lascio che si asciughino. I miei formaggini sono ottimi a colazione, ma anche a merenda, con un buon bicchiere di vino rosso.» «Ma l’acqua della pasta è sporca!» protestò candidamente Beatrice. 15
«È talmente sporca che tu ti mangi la pasta preparata lì dentro» replicò il nonno, cercando senza successo di lasciarsi andare a un sorriso. Beatrice osservava i gesti meccanici e ripetitivi di Augusto e non poté fare a meno di chiedersi, con ingenua malinconia, se il nonno si fosse mai fatto una risata in vita sua.
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CAPITOLO 3: 1956
L’arida terra mostra profonde crepe gole assetate «Attenta a non scivolare» si raccomandò zio Michele, mentre Beatrice cercava come poteva di non mettere i piedi sui grandi ciottoli rotondi che minacciavano di farla ruzzolare. Presto a loro si unì il pastore Osvaldo, amico e compagno di avventure dello zio. «Dove vai così presto?» gli chiese e Michele, che non voleva farsi prendere per il naso raccontando la storia della bambina e del sole, si limitò a un generico: «Faccio una passeggiata con mia nipote». Beatrice avrebbe voluto intervenire per raccontare esattamente dove stavano andando, ma gli adulti non le lasciavano spazio: parlavano di ragazze, facevano commenti ironici su tutto e già progettavano di incontrarsi in serata. Poco distante comparve una giovane donna che portava in equilibrio sulla testa una cannata: così da quelle parti chiamavano i recipienti per l’acqua, fatti di terracotta e dotati di due manici laterali e di un particolare beccuccio. 17
Beatrice si sentì subito attratta da quella strana immagine. «Guarda la signora, zio, guarda come porta quella cosa in testa! Ma non le cade?» chiese ridendo, poi si immaginò la cannata che rotolava rovinosamente a terra: ma niente, il recipiente restava sempre lì in equilibrio sul capo, protetto da un panno ritorto a forma di ciambella. E la donna proseguiva per la sua strada come una equilibrista, si muoveva ancheggiando come una gazzella, mentre i due ragazzi si scambiavano altre occhiatine d’intesa. Poi venne il momento di separarsi. Osvaldo richiamò con un fischio le sue pecore e le indirizzò in un vicino vallone. Il sentiero che rimaneva da percorrere in salita si stava facendo più ristretto, ma meno pietroso di prima. Lo zio si intratteneva volentieri a parlare con altri montanari, intenti a ripulire il sottobosco e a raccogliere legname. Lo ammucchiavano e ne facevano piccoli fasci, in attesa di portarlo a valle con l’aiuto dei muli. Beatrice sbuffava, aveva fretta. «E dai, zio, ti fermi sempre! Se non ti sbrighi quando arriviamo?» «Tu cammina, che io faccio presto a raggiungerti» replicò lo zio, che era rimasto indietro non solo per la sua vena chiacchierona, ma anche perché ogni tre per due si fermava a raccogliere delle ghiande, con le quali colpiva le rocce come fossero bersagli. Beatrice alla fine si stancò di aspettare lo zio, e senza più aspettarlo proseguì spedita per la salita. Osservava il sole, che pareva non voler rallentare il proprio percorso. Ma l’ambita cima era ancora molto lontana. 18