Breathers - L'anonima Zombie - S.G. Browne

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Scott G. Browne Breathers L’Anonima zombie

traduzione di silvia scognamiglio

Casini Editore


Titolo originale dell’opera: Breathers: a zombie’s lament Copyright © 2009 by Scott G. Browne. Originally published by Broadway Books, an imprint of The Doubleday Publishing Group, a division of Random House, Inc., New York. www.broadwaybooks.com © 2010 Valter Casini Edizioni www.casinieditore.com ISBN: 978-88-7905-167-5


A Shaka, grazie per avermi regalato l’opportunità di scoprire quello che volevo fare.


Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, vicende, organizzazioni, luoghi, eventi e incidenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore oppure sono stati rielaborati attraverso la fantasia. Qualsiasi analogia con persone vere, vive o morte, eventi o località è del tutto casuale.


Capitolo 1

Mi sveglio sul pavimento, avvolto dall’oscurità. Una debole luce artificiale filtra attraverso una finestra. Un momento, qualcosa non va. Non ci sono finestre in cantina. Comunque, prima di poter affrontare questo dilemma devo capire perché sono steso in una pozza di liquido che mi sta inzuppando i vestiti. E perché sento Sammy Davis Jr cantare Jingle Bells. Mi siedo e qualcosa rotola lungo il mio corpo, per poi finire sulle piastrelle del pavimento con un duro e sordo thud. È una bottiglia. Nella debole luce che giunge dalla finestra, la guardo rotolare sul pavimento fino a quando non si ferma contro il muro con un clang. È una bottiglia di vino vuota. E il muro è in realtà la base del forno Whirlpool. Sono in cucina. L’orario nel display digitale a Led in cima al forno cambia da 00:47 a 00:48. Ho un martello pneumatico nella testa. Non so quante bottiglie di vino mi sono scolato, so soltanto che ho cominciato prima di pranzo. La mia sfrenata smania per il vino mi è chiara come i numeri digitali che vedo sull’orologio del forno, ma non ho la minima idea di cosa sia successo nelle ultime dodici ore.


Scott G. Browne

O di come sia finito in cucina. O su cosa sia seduto. Una parte di me non vuole saperlo. Vorrei soltanto credere che non sia altro che uva fermentata e che, in qualche modo, io sia riuscito a venire fuori dalla cantina e a raggiungere la cucina, dove sono poi svenuto spargendo il contenuto della bottiglia di vino sul pavimento. Eppure non ho i vestiti bagnati sul davanti, soltanto lungo la schiena. Poiché avevo la bottiglia sul petto quando mi sono svegliato, non posso aver rovesciato del vino per terra senza inzupparmi anche la camicia. Metto una mano nella pozzanghera, che scopro essere fredda e appiccicosa, poi me la porto al naso. Ha un odore dolce. Inizialmente penso sia yogurt o marmellata di fragole, poi mi metto un dito in bocca. È gelato Baskin Robbins crema e fragola. Il preferito di mio padre. Il freezer ne è sempre pieno almeno per metà. Ciò che non capisco è cosa ci faccia sul pavimento della cucina. Poi mi guardo intorno barcollando e trovo una risposta alle mie domande. Quasi tutti i barattolini di Baskin Robbins sono rovesciati sul pavimento e, aprendosi, il loro contenuto liquefatto è colato ovunque. Scatole di verdure e confezioni di carne congelata, contenitori di succo di frutta concentrato e una mezza dozzina di vaschette per il ghiaccio li circondano, mentre tutto ciò che contenevano si è sciolto e si è mescolato con il gelato, formando una pozzanghera di prodotti surgelati scongelati. “Oh merda” penso. “Cosa diavolo ho combinato?” Non che abbia davvero importanza. I miei genitori mi spediranno in uno zoo quando torneranno da Palm Springs. Sempre che, quando si sveglieranno domani mattina, mio padre non sia talmente arrabbiato per ciò che ho fatto da annullare la loro vacanza e trascinarmi seduta stante in qualche struttura di ricerca.


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Non so quale fosse il mio obiettivo quando ho scaraventato l’intero contenuto del freezer sul pavimento della cucina, ma penso che probabilmente sarebbe una buona idea cercare di salvare il salvabile e pulire prima che i miei si sveglino. Ma quando apro il freezer, scopro che non c’è posto. I miei genitori sono nel congelatore. Posso vedere le mani, le gambe, i piedi e la faccia di mio padre che mi fissa dal secondo scaffale. La sua testa è in una grossa busta per alimenti della Ziploc, così come il resto dei loro corpi. O almeno la maggior parte. Apro il frigorifero e trovo i miei genitori anche lì. Tutto il vino che ho bevuto cerca improvvisamente di tornare indietro verso la bottiglia e riesco ad arrivare a stento al lavandino prima di vomitare. In realtà è come fare una bevuta al contrario. Soltanto vino e qualche succo gastrico. Nessun pezzo di mamma o papà. Il nostro rapporto non è stato sempre così. Certo, ci sono stati i normali problemi legati alla crescita e le divergenze di opinione che incontrano tutti i genitori con i propri figli. Ormoni. Indipendenza. Complessi d’Edipo latenti. Ma quando il tuo unico figlio si rianima dalla morte, viene a crearsi una dinamica del tutto nuova che i genitori comuni non sono preparati ad affrontare. Dopotutto, non vi è alcun libretto delle istruzioni che spieghi come comportarsi con la resurrezione spontanea. È questo il termine tecnico che gli esperti nei talk show e nei telegiornali usano per definire gli zombie, come se sapessero quello che si prova a essere un cadavere rianimato. Non hanno idea di cosa significhi convivere con gli sbalzi d’umore provocati da un pancreas dalla rapida attività digestiva. O quanto sia difficile evitare la liquefazione dei tuoi tessuti.


Scott G. Browne

Mio padre era un esperto de facto. E quando dico “de facto” intendo dire che era l’unico che considerasse sé stesso un esperto in tutto. Idraulica. Politica. Igiene personale. — Sai, Andrew, puoi sbarazzarti di quei punti neri usando olio di oliva e aceto. Ci credeva sul serio. Per fortuna lasciava che fosse mamma a cucinare. Altrimenti sarei stato l’unico bambino della scuola a mangiare insalata di rucola con fettine di pere, Asiago e una spruzzata di perossido di benzoile. Non fraintendetemi. Mio padre non era un idiota. Pensava solo di avere ragione anche quando non aveva la minima idea di cosa stesse dicendo. Sarebbe stato un grande politico. Comunque, devo dire che mio padre in fatto di frigoriferi se ne intendeva. Mia madre voleva uno di quei modelli della Whirlpool side–by–side, con due ante, ma mio padre aveva insistito per comprare uno dei modelli Amana, che hanno il freezer in basso, sotto il frigorifero. Diceva che dal punto di vista energetico erano più efficienti, poiché portavano l’aria fredda in basso invece che in alto. Sosteneva anche che permettevano un miglior utilizzo dello spazio nei ripiani. Mentre le teste e la maggior parte dei loro arti sono conservati nel freezer, i loro corpi dall’anca alle spalle sono stipati nel frigorifero. Se fosse stato un modello side–by–side non sarei mai riuscito a far entrare i loro tronchi nei ripiani. Grazie papà. Nel lettore cd in salotto Dean Martin sta cantando Auld Lang Syne. Mentre fisso i miei genitori stipati nel freezer dell’Amana, i loro arti ammassati tra la maionese e gli avanzi del tacchino del Ringraziamento, le teste conservate in buste per alimenti Ziploc, mi travolge una surreale sensazione d’incredulità. Dall’espres-


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sione dipinta sul volto di mio padre, sembra che sia sorpreso proprio quanto me. Forse non sarebbe accaduto niente di tutto questo se mio padre, invece di trattarmi come un emarginato, avesse impiegato il suo tempo provando a capire quello che stavo attraversando. O forse mi sto soltanto prendendo in giro. Forse tutto ciò che è accaduto dall’incidente sino a oggi era inevitabile.


Capitolo 2

Due mesi prima di trovare i miei genitori nel freezer dell’Amana, sono al Soquel Community Center, seduto in un semicerchio di sedie che si aprono attorno a una minuta donna di cinquantadue anni, molto somigliante alla mia maestra delle elementari. Tranne che la mia maestra delle elementari non si è mai ritrovata dal lato sbagliato di un fucile a pompa calibro dodici della Mossberg. Sulla lavagna a cavalletto dietro di lei, scritta in lettere maiuscole, c’è la seguente dichiarazione: NON SEI SOLO. Probabilmente dei caratteri minuscoli avrebbero addolcito il messaggio, ma la moderatrice del nostro gruppo, questa piccola donna di nome Helen, vittima di un colpo d’arma da fuoco, sta solo cercando di farci sentire meglio. — Rita, vuoi cominciare tu stasera? — chiede Helen. Il volto di Rita è una pallida luna sospesa nel cappuccio nero della sua felpa. Indossa un maglione dolcevita nero e dei pantaloni neri. Il solo colore che ha indosso è quello sulle labbra, un intenso Rosso Eterno. Il giorno del suo ventitreesimo compleanno, Rita si è tagliata prima le vene dei polsi e poi la gola. È stato meno di un mese fa. Di solito usa guanti e maglioni a collo alto


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per nascondere i punti. A volte indossa felpe con il cappuccio, altre volte sciarpe. Se è una giornata no, mette tutto insieme. Stasera ha lasciato la sciarpa a casa, quindi perlomeno non è irascibile. Rita si lecca le labbra, o meglio le succhia, portando via quasi tutto il rossetto. Tira fuori un cilindro nero dalla tasca e ne applica un altro strato, schioccando le labbra. O ha qualche perversione orale, o ha bisogno di una dose. — Mi sento ancora sola, la maggior parte del tempo — dice Rita. — Ogni tanto riesco quasi a immaginare che nulla di tutto questo sia mai accaduto. Poi mi guardo allo specchio e quella sensazione di essere senza speranza torna a sommergermi. Cinque teste annuiscono comprensive. Carl è il solo a dissentire. — Non sei d’accordo, Carl? — chiede Helen. Carl è stato accoltellato sette volte, un paio in pieno volto, da due adolescenti che gli hanno rubato il portafoglio e usato le sue carte di credito per comprare l’equivalente di settecento dollari in pornografia online. — No, al contrario — dice Carl, — sono perfettamente d’accordo. Lei è senza speranza. — Carino da parte tua — dice Naomi, accendendosi una sigaretta. Per metà afroamericana e per metà cinese, Naomi potrebbe passare ancora per una modella se non fosse per l’orbita dell’occhio svuotata e per il modo in cui il lato destro della sua faccia è afflosciato. — Perché non le strappi anche i punti, già che ci sei? — Questo lo lascio fare a tuo marito — replica Carl. Il marito di Naomi, tornato a casa dopo una giornata storta sul campo da golf, ha sfogato le sue frustrazioni sulla moglie, usando un ferro quattro della Titleist. — Non è più mio marito — ribatte Naomi. — Tecnicamente no — dice Carl. — Ma, sempre tecnicamente, nessuno di noi dovrebbe essere qui.


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— Eppure ci siamo — li interrompe Helen, — quindi perché non cerchiamo di concentrarci su questo? Oltre a Helen, Rita, Naomi e Carl, tra gli altri membri del gruppo c’è Tom, un addestratore di cani di trentotto anni che, oltre alla parte sinistra del volto, ha quasi completamente perso anche il braccio destro grazie a un paio di bestioni come i Presa Canarios, e Jerry, un ragazzo di ventuno anni vittima di un incidente d’auto. Come me. Avendo avuto esperienze simili, Jerry sente tra noi una sorta di legame che lo spinge a sedersi accanto a me a ogni incontro. Io mi sento fuori posto e non riesco a provare nient’altro che smarrimento, perciò Jerry, che ascolta musica rap e indossa ancora i pantaloni calati a scoprire metà fondoschiena, mi infastidisce. Per questo stasera ho fatto di tutto per sedermi accanto a Naomi, sul lato esterno del semicerchio. — Siamo tutti dei sopravvissuti — dice Helen, poi si alza e va verso la lavagna. — Voglio che tutti voi lo ricordiate, sempre. So che è difficile convivere con le minacce, gli insulti e il cibo marcio che vi viene gettato addosso, ma voi siete sopravvissuti per un motivo. A volte Helen mi ricorda Mary Poppins, sempre di buon umore e prodiga di consigli che andrebbero bene per i personaggi che vivono nei film, nelle fiabe o nella villa di Playboy. Però devo ammetterlo, senza il gruppo di sostegno probabilmente non avrei mai abbandonato la cantina dei miei genitori. Eppure continuo a pensare che dovremmo sceglierci un nome diverso da Anonima zombie. Dopotutto, se sei un morto vivente, sei anonimo pressappoco quanto un travestito con la ricrescita della barba in bella vista. Almeno nel nostro gruppo di supporto non abbiamo nessun impostore, di quelli che si autoinvitano agli incontri cercando di rimorchiare le donne più vulnerabili. Sarebbe disgustoso. Interessante, ma disgustoso.


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Helen finisce di scrivere un altro dei suoi messaggi sulla lavagna e si gira verso di noi. Sotto NON SEI SOLO, ha scritto le parole: IO SONO UN SOPRAVVISSUTO. — Ogni volta che vi sentite persi o senza speranza, voglio che ognuno di voi dica ad alta voce: Io sono un sopravvissuto. Ora ripetetelo con me. Quando la riunione finisce, fuori regna l’oscurità. Mancano più di due settimane alla fine di ottobre, l’autunno è arrivato da meno di un mese e fuori, prima dell’inizio di Jeopardy alle 19, è già completamente buio. Non mi è mai piaciuto l’autunno. Anche prima dell’incidente odiavo il clima che man mano diventa sempre più freddo e le foglie che cambiano di colore. Ora è un continuo promemoria visivo di come la mia stessa vita sia diventata sempre più fredda. Ultimamente sto cominciando a pensare che esista soltanto un autunno infinito che incombe su un inverno eterno. Sto diventando di nuovo malinconico. Helen ci esorta ad andare via assieme alla fine degli incontri, ma Carl dice di non aver bisogno di nessuno che gli tenga la mano e si dirige da solo verso casa. Io, Jerry, Helen e Rita abitiamo nella stessa zona, quindi c’incamminiamo nella stessa direzione, mentre Naomi e Tom ne prendono un’altra. La maggior parte delle sere, Jerry socializza con me e parla incessantemente del suo incidente, di come abbia bisogno di scopare e di come passi il tempo a chiedersi come sarebbe essere morti. Me lo domando anch’io. Soprattutto quando devo tornare a casa accompagnato da Jerry. — Amico, quella macchina era fantastica — dice Jerry. — Rosso ciliegia, con una belva al posto del motore e con un impianto stereo da brividi. Avresti dovuto vederla. Conosco la storia a memoria. Una bottiglia di Jack Daniels, qualche tiro da un bong, nessuna cintura di sicurezza, un palo


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della luce e una buona dose di decisioni sbagliate nel prendere uno svincolo sulla destra fecero volare Jerry fuori dal parabrezza della sua Charger rosso ciliegia del 1974 per poi sfracellarsi con la faccia a terra lungo River Street. Ho sentito questa storia così tante volte che posso quasi credere che sia accaduta a me. Solo che il mio incidente è stato peggio. Jerry era solo in macchina. Mia moglie era addormentata nel sedile del passeggero e, a differenza di me, non si è mai svegliata. Per i primi due mesi dopo l’incidente tutto ciò cui riuscivo a pensare era Rachel: l’odore dei suoi capelli, il sapore delle sue labbra, il calore del suo corpo accanto al mio la notte. Mi crogiolavo nella mia sofferenza, consumato dall’angoscia e dall’autocommiserazione. Inoltre dovevo fare i conti con il tanfo del mio scalpo in decomposizione, con il retrogusto della formaldeide in gola e con il mio freddo corpo in disfacimento. Abbastanza da farmi desiderare di ricoprirmi di benzina e darmi fuoco. Se non vi siete mai svegliati da un incidente d’auto per scoprire che vostra moglie è morta e che voi siete dei cadaveri rianimati in putrefazione, probabilmente non potete capire. Helen dice che anche se abbiamo perso tutto quello che avevamo, dobbiamo mantenere la fede e continuare a credere nel percorso che si apre innanzi a noi. Dice che dobbiamo lasciar andare il passato prima di poter abbracciare il futuro. Ci sto ancora lavorando. In questo momento il passato è tutto ciò che ho e il futuro sembra promettente quanto la nuova programmazione autunnale della CBS. Continuavo a sperare che Rachel si rianimasse come me, così non avrei dovuto affrontare tutto questo da solo. Poi ho capito che per lei era molto meglio essere morta. Dovrei ringraziare Dio per i piccoli doni che mi concede, ma dubitavo della sua esistenza già prima che tutto questo accadesse e non è che ora abbia proprio cambiato idea. Perdere la propria moglie in un in-


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cidente d’auto è sufficiente a sfidare la fede anche del più devoto credente. Ma quando già si è scettici, trovarsi nella condizione di sentire l’odore della propria carne in decomposizione tende a mettere fine a qualsiasi convincimento in un potere divino. Questo è uno dei maggiori problemi quando si torna indietro dalla morte. Il tanfo non va mai via del tutto. Mi sono rianimato nel giro delle quarantotto ore successive alla morte, prima della putrefazione e dopo essere stato imbalsamato. Con la rianimazione, il processo di decomposizione rallenta di circa la metà rispetto a quello della crescita naturale dei capelli. Ma per quelli di noi che sono stati così fortunati da essere imbalsamati, la formaldeide è l’elisir magico che rallenta la decomposizione a un livello davvero impercettibile, permettendo ai morti viventi di conservare una certa decenza. L’essere marchiato come zombie è già abbastanza deleterio, ma per coloro che si sono rianimati prima dell’imbalsamazione, è scoraggiante vedere i propri capelli, le unghie e i denti cominciare a staccarsi. È davvero imbarazzante camminare per strada e accorgersi improvvisamente che una delle principali cavità del proprio corpo si sta spalancando. Se si consuma abbastanza formaldeide si può dare un freno al processo di decomposizione del corpo e degli organi interni. Anche se non riuscite a procurarvi la sostanza industriale altamente concentrata, la formaldeide può essere trovata in rossetti, trucco, smalto per unghie, dentifricio, collutorio, deodorante, antitraspiranti, bagnoschiuma, oli da bagno, shampoo e bibite gasate. Rita usa soprattutto la formaldeide dei rossetti e degli smalti, mentre Jerry preferisce rifornirsi da una lattina di gassosa. Personalmente, cerco di stare lontano dalle bibite. Fanno male ai denti. Prendo la maggior parte delle mie dosi da shampoo e dentifricio. Di tanto in tanto però mi piace concedermi un po’ di balsamo Alberto VO5.


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— …e l’ultima cosa di cui sono certo è che sto letteralmente facendo del surf stradale utilizzando la mia faccia come tavola — dice Jerry. — Ho delle escoriazioni incredibili a provarlo. Jerry continua a blaterare del suo incidente per l’intero tragitto, mentre davanti a noi Rita e Helen camminano in un silenzio beato. È in questi momenti che vorrei aver perso entrambe le orecchie. — Amico — dice Jerry, — vuoi toccare il mio scalpo? L’ultima cosa che voglio fare è toccare lo scalpo di Jerry, ma è difficile scrivere con una mano sola No grazie su di una lavagnetta appesa attorno al collo mentre ci si trascina su una caviglia rotta. Quindi scuoto semplicemente la testa e spero che non cominci a parlare della sua erezione permanente. Il nostro gruppetto attraversa parcheggi vuoti, negozi d’antiquariato chiusi per la notte e case lontane dove calde luci risplendono dietro le tende delle finestre. Qualche casa ha già delle decorazioni: scheletri, fantasmi e streghe su manici di scopa, mentre sui gradini e nelle verande le zucche attendono di essere intagliate. Il freddo respiro dell’autunno sussurra attraverso gli alberi. Halloween si avvicina, e la cosa sembra molto più appropriata del solito. Dopotutto, non ho più bisogno di un costume.




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Casini Editore via del Porto Fluviale, 9/a – 00154 Roma www.casinieditore.com info@casinieditore.com Finito di stampare nel mese di settembre 2010 Stampato per Casini Editore dalla Arti Grafiche La Moderna – Roma



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