Matthew D’Ancona IL CODICE TABATHA
traduzione di claudia checcacci ed elena pedoto
Casini Editore
Titolo originale dell’opera: Tabatha’s Code © 2006 Matthew D’Ancona. Originally published by Alma Books Limited. www.almabooks.com © 2010 Valter Casini Edizioni www.casinieditore.com ISBN: 978-88-7905-161-3
A Zac
Ma persino al palo di partenza, tutta lucente e nuova io vidi in lei una natura selvaggia, e pensai che una visione del terrore che doveva attraversare le avesse infranto l’anima. – William Butler Yeats, Una testa di bronzo *** Avevamo tutto l’abbrivo noi; stavamo cavalcando un’onda altissima e meravigliosa… Ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare su una qualsiasi collina a Las Vegas e guardare verso ovest, e con gli occhi adatti potevi quasi vedere il segno dell’alta marea — quel punto in cui l’onda, alla fine, si è spezzata per tornare indietro. – Hunter S. Thomson, Paura e disgusto a Las Vegas
Prima Parte I sigilli sono aperti
1. Maniere violente
Non c’era nessuna fonte di luce visibile, ma le pareti erano di un biancore uniforme e abbacinante. Freddy riusciva a distinguere dei leggeri graffi sul pavimento sotto le gambe della sedia e alcune macchioline di cenere dall’altro lato del tavolo. Oltre a queste screziature, la bianchezza inquietante del luogo non mostrava alcuna compassione. Lo stava consumando da un numero indefinibile di ore. Dormire era impossibile. Dopo il primo attacco di panico, esploso appena ripreso conoscenza, il suo corpo aveva gradualmente raggiunto una tregua con il nuovo ambiente, una negoziazione promossa dall’istinto più che dal coraggio. Un intimo interruttore meccanico aveva posto fine alla sua lotta. Non che si sentisse calmo — ma l’astuzia dell’indole animale, celata sotto la logica umana, aveva indotto il suo organismo a ridurre le urla, i lamenti e le contorsioni fisiche finché non si fossero resi assolutamente necessari. Era certo che non avrebbe dovuto attendere molto. Ma quel candore alterava la percezione del tempo: la violenza visiva che esercitava in quella stanza sottraeva la possibilità di ogni altra sensazione percettiva. Non c’era alcun odore, rumore, ticchettio di orologio o rombo d’aereo sovrastante. Era impossibile dire quante ore fossero già trascorse, o quanti giorni. Era impossibile dire dove si trovasse, o in quale tempo. Munroe gli aveva detto che sarebbe potuto accadere, e lui non gli aveva creduto. — Concentrati su quello che sai — aveva detto Munroe, — non galleggiare in una pozza di vacuità, o t’intrappoleranno, come una sardina appesa all’amo. Concentrati su
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ciò che è reale, su quello che sai, su quello a cui puoi aggrapparti… — Più facile a dirsi che a farsi, quando hai i polsi legati dietro la schiena, le caviglie bloccate alle gambe di una sedia, e ti ritrovi immobilizzato nella stanza più bianca del mondo, mentre dentro di te noia e paura rivaleggiano in orrore. Qual era l’ultima cosa che ricordava? L’angolo tra Hartenstraat e Keizersgracht, i lampioni di fronte alla casa e l’anziana signora che pedalava lungo il canale verso Reestraat. La macchina che si accostava e lo sportello che si apriva, poi il buio. Neanche la percezione di chi, e come, fosse riuscito a prelevarlo in pieno giorno. E prima di allora? Ricordava di aver pranzato alla birreria su Nieuwezijds Voorburgwal, dove i dipendenti lo avevano riconosciuto e accolto come un fratello perduto. Aveva preso un toast e un caffè, osservato il piccolo viale esterno con le pareti decorate e il cancello di ferro. Il volo non sarebbe partito che l’indomani mattina, dunque c’era tempo per rilassarsi e curiosare nelle librerie sparse lungo la Western Canal Belt. E poi c’era stata Marianne. — Non giocare troppo, Freddy — aveva detto Munroe. — Solo quanto basta, Freddy. Quanto basta… Era stato uno sbaglio mettersi a parlare con quella ragazza. Ora lo capiva. A lavoro terminato, aveva fatto una lunga passeggiata oltre l’università, in direzione del Muziektheater, con i suoi mattoni squadrati, e poi aveva costeggiato il fiume. Passato per Rembrandtplein si era diretto verso una zona della città che amava molto, lo spazio dedicato all’arte di fronte al Rijksmuseum. Quel luogo rappresentava un’attrattiva molto forte per donne giovani e belle, fasciate nei loro abiti neri, con le fronti corrugate nella lettura, in attesa soltanto di essere sedotte da un attraente berlinese dall’abito nuovo di zecca. E anche se il caffè fosse stato vuoto, fatta eccezione per un paio di poeti barbuti intenti a discutere sulla povertà in Malawi, avrebbe potuto fumare e sentirsi in pace col mondo. A quanto pareva, la fortuna era dalla sua parte. Il caffè era gremito, l’odore di birra appena spillata permeava l’aria; c’era solo una sedia libera, accanto a una giovane donna che leggeva svogliatamente l’“Het Parool” e controllava l’ora con un’insolita frequenza. — È occupato? — Sorrise, facendo attenzione a non sembrare interessato.
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— No. Prego. — La ragazza tornò alla pagina degli annunci. Freddy pensò che doveva avere all’incirca venticinque anni; era bionda e impaziente. Portava un abito nero e una quantità eccessiva di trucco. La testa reclinata e il mordicchiarsi delle unghie suggerivano una punta di stravaganza che a lui non dispiacque. Le offrì una Camel, che lei accettò, e si presentò. Il nome della ragazza era Marianne, lavorava come assistente editoriale e viveva con degli amici nel quartiere Pijp. Lui le disse solo che si trovava in città per lavoro, il che era vero, e al preciso scopo di intrigarla si atteggiò a ricco bohémien. Le offrì un bicchiere di vino e si fece istruire sui migliori spettacoli e concerti da vedere ad Amsterdam. Gradì il ritmo di quella conversazione, il senso di rilassata fatalità alla quale si erano arresi entrambi, in apparenza. E — perché comportarsi altrimenti? — soddisfatto di aver portato a termine il suo compito nel corso della giornata si era sentito autorizzato a ricompensarsi. Sapeva che se Munroe fosse venuto a conoscenza dei suoi comportamenti, sarebbe di sicuro inorridito. Ora, immobilizzato e umiliato dall’urina che impregnava i pantaloni, finalmente comprese perché Munroe e la sua stretta cerchia reputassero quel modo di pensare decadente e pericoloso. Non perché fossero ascetici per principio: piuttosto, avevano paura di abbassare la guardia anche solo per un momento. Freddy era incapace di attenersi a quel rigore — il rigore che i suoi compagni avevano messo a punto nei durissimi campi di addestramento nel deserto. Il suo impegno era concreto, sentito, ma di qualità inferiore. Non poteva allontanarsi dall’abituale corso della vita umana in maniera così assoluta. Si chiese se in quegli attimi cruciali i suoi riflessi sarebbero stati più rapidi, la pulsazione salvifica più veloce, se solo non avesse trascorso la notte con Marianne. Era stata un’amante gentile e premurosa, forse un tantino troppo loquace dopo, quando avevano fumato e ascoltato il pulsare della città alle tre del mattino. E ora lei dov’era? E soprattutto, dove diamine si trovava lui? — Freddy. Le due sillabe non possedevano alcuna sfumatura di richiesta o dovere. Semmai facevano pensare al disappunto genitoriale, alla malinconia di un padre stanco chiamato nel cuore della notte
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per tirare fuori dai guai il figlio vagabondo. La voce era calda e armoniosa, un timbro baritonale che riempiva la stanza senza alcuno sforzo. Proveniva dalle sue spalle. Freddy si dimenò con tutte le forze per vedere chi lo avesse raggiunto. L’uomo che camminando attorno al tavolo era andato a sedersi di fronte a lui aveva davvero un aspetto paterno. Alto e robusto, si mosse lentamente e con calma aristocratica, facendo tutto secondo un proprio ritmo, con l’aria di uno abituato a fare così. Si lisciò le pieghe dei pantaloni e si passò le dita fra i capelli grigi, ancora folti. C’era un’insolita morbidezza nei suoi lineamenti e Freddy immaginò che si fosse rasato da poco. Gli occhi che incrociò sopra quel tavolo erano di un blu penetrante. Passò un istante prima che l’uomo parlasse di nuovo. — Sai dove ti trovi? Freddy scrollò le spalle. Avrebbe voluto piangere. — No. Non so dove mi trovo. Come potrei? — Sentiva l’odore del proprio piscio e se ne vergognava. — Tu chi sei? L’uomo posò un pacchetto di sigarette sul tavolo e inarcò un sopracciglio come se quella domanda gli suonasse un tantino sorprendente. — Io? Oh, il mio nome è Diether. Hai cercato di farmela, Freddy. Pensavo di averti perso a un certo punto. — Quando? — La tua agilità nel tragitto tra Schiphol e la Centraal Station ci ha sorpresi. Hai fatto finta di dover scendere a Sloterdijk, e questo ha disorientato i miei uomini. C’era una folla di bambini… beh, tu sai com’è andata. Te la sei giocata bene. Freddy si sentì salire un nodo alla gola mentre realizzava per quanto tempo la polizia gli fosse stata alle calcagna. Sin dal principio. Lo avevano visto arrivare in aeroporto, salire sul treno, e probabilmente lo avevano anche visto portare a termine il lavoro qualche ora dopo. E poi? A quel punto avevano lasciato che si rilassasse con Marianne per prelevarlo non appena si fosse presentato il momento opportuno. Oh sì, Munroe avrebbe adorato tutto questo. — Ti dispiace se fumo? — disse Diether. — Mi aiuta a riflettere. — Fa’ pure. — Grazie. — L’uomo si accese la sigaretta senza offrirne una al prigioniero. — Dunque, credo che dovremmo parlare.
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Freddy si agitò sulla sedia, i polsi che sfregavano contro la corda. — Non so quello che vuoi. Non so nemmeno chi sei. — Tu non sei che un piccolo tassello nel disegno globale, Freddy. Francamente non credo che tu sappia in cosa ti sei invischiato. — Ascolta, davvero non so che cazzo di storia è questa, ma voglio un avvocato. Sono un cittadino tedesco. — Lo sono anch’io — rispose Diether. — Eppure stai parlando in inglese. Immagino che ci sia qualcuno ad ascoltarci. Beh, parla pure in qualsiasi lingua tu voglia. Tutto questo è una pazzia. Sono in viaggio d’affari da Berlino, avrei dovuto prendere il volo per tornare a casa poche ore dopo… che voi mi arrestaste. Cristo! Non potete legare le persone a una sedia e lasciarle in una stanza per ore come se niente fosse. Ci sono delle leggi, delle regole. Procurami un avvocato. Diether accavallò le gambe, intento a lisciarsi una piega del calzino. — Freddy. Non è il caso di perdere le staffe. Un avvocato sarebbe del tutto inutile nella tua situazione. Devo sapere quello che sai. Solo allora potrai uscire da qui e darti una rinfrescata. — Voglio andare in bagno, ora. Diether lo ignorò e soffiò un anello di fumo che rimase sospeso a mezz’aria, minaccioso. — Dimmi cosa c’era nella valigia. La valigia. Ma certo, se solo l’avesse saputo. Munroe gli aveva detto di prelevarla a Francoforte. Il luogo della consegna gli era stato comunicato solo una volta giunto ad Amsterdam. C’era ad attenderlo un messaggio all’Hotel Camus, che diceva di chiamare “Jacques” a un numero locale alle dieci di sera. Lo aveva fatto e una voce femminile gli aveva semplicemente risposto “Nove”. Aveva aggiunto a quel numero un’unità, come da disposizioni, e alle dieci dell’indomani mattina si era appostato vicino alla grottesca struttura fallica del Nationaal Monument di Dam Square. Stava piovendo a dirotto e i turisti erano accalcati sotto i tendoni dei caffè che fasciavano la grande piazza cittadina. Freddy dovette attendere sotto il suo ombrello per cinque minuti prima che una donna si accostasse per dirgli: — Conosce la strada per la Oude Kerk? Voglio vedere il battistero. Tra un’ora. Arrivò prima del tempo. A quel punto decise che era meglio entrare e fare un giro nell’edificio: voleva continuare a muoversi
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anche se la valigia iniziava a pesargli sempre di più. Quando alla biglietteria gli sfilò davanti una famiglia vociante, gli venne un attacco di panico al pensiero che il luogo della consegna fosse troppo pubblico, troppo vistoso. Ma fu proprio quello che gli permise di passare inosservato, di mescolarsi alla folla. Era più facile, diceva sempre Munroe, perdersi in un luogo pubblico. Era nelle strade poco bazzicate che si rischiava di dare nell’occhio. Era passato un po’ di tempo dall’ultima volta in cui aveva visitato quella chiesa medievale, con tutte le aggiunte degli ultimi sette secoli abbarbicate all’antica struttura come molluschi. Gli piacevano i banchi del coro con le misericordie, monito contro l’accidia e l’ubriachezza, e con la grande dichiarazione del XVI secolo, secondo cui «le false pratiche introdotte nella chiesa di Dio» sarebbero state infine debellate. Gli piaceva inoltre la cripta, poco visibile, con l’affresco del Giudizio Universale, Cristo con una spada e un giglio. Forse, più di tutto, gli piacevano i bizzarri, impenetrabili segni e simboli incisi sul pavimento, testimonianza di un’antica massoneria e del suo linguaggio segreto, di congiure e caucus che avevano lasciato una traccia indelebile. Ma stavolta la sua mente non era intenta a decifrare il significato di quelle incisioni. Controllando l’ora, entrò nel battistero e aspettò. Era un luogo claustrofobico, sensazione mitigata solo dalla sua maestosa altezza. Si voltò e contemplò, attraverso la griglia, le vetrate colorate situate all’altra estremità della chiesa. Un bambino piangeva nel passeggino, mentre i genitori si dirigevano verso la cappella dedicata a Maria. Una coppia di mezz’età, vestita con sgargianti impermeabili, si affacciò alla porta per curiosare all’interno del battistero ritirandosi poi senza commentare. — È la prima volta che viene qui? — L’uomo era alle sue spalle, intento a esaminare un’iscrizione attraverso le lenti degli occhiali. Si tolse il berretto, aggiustò la visiera e se lo ripose in testa. — Oh, sì — disse Freddy, posando delicatamente la valigia a terra. — Si diverta — disse l’altro, afferrandola. — Certo — disse Freddy. — Lo farò. — Si voltò e lasciò la chiesa, rammentandosi di non camminare troppo in fretta e di evitare lo sguardo della gente. Quando fu avvolto dalla fredda
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aria esterna, si rese conto che era in un bagno di sudore. Anche se, a essere onesti, il lavoro era stato piuttosto facile. — Te lo chiedo ancora una volta, Freddy. Cosa c’era nella valigia? — Diether si teneva la testa fra le mani, il mozzicone saldo tra le dita. — Il punto è questo: tu non mi permetti di incontrare un avvocato. E io non posso fare molto dal momento che sono legato a questa sedia. Non fai altro che farmi un sacco di domande del cavolo su roba di cui non so nulla. Cosa dovrei dire? Vuoi che m’inventi qualcosa? Okay, era piena di diamanti. Niente platino. Soddisfatto? Va bene, allora facciamo: documenti confidenziali. Meglio? — Che mi dici dei soldi? — Ma certo. Quello che vuoi. Diether sospirò. Tirò fuori un’agendina dalla tasca interna, appuntò qualcosa e la rimise a posto. Freddy notò che la sua fronte diventava ancora più autoritaria mentre scriveva. — Freddy, Freddy. Così non va bene. Non va bene per niente. Pensi che questo genere di assurdità ci porti davvero da qualche parte? So della valigia, so dove sei stato, e so della ragazza. Tutto. Quello che ho bisogno di sapere è cosa c’era in quella ventiquattrore, e chi ti ha mandato. Sapevano molte cose, era chiaro. Ma non c’era stato alcun accenno alla chiesa, all’incontro su Dam Square, o al messaggio che diceva di chiamare “Jacques”. Forse gli uomini di Diether avevano commesso più di un errore; forse la svista del treno non era che una delle tante commesse pedinandolo. Dov’era cominciato l’inseguimento? A Berlino? A Francoforte? Diether stava sicuramente bluffando su qualcosa. Cosa diceva sempre Munroe? — Ricorda: se vieni fermato e riesci a farla franca, diventi doppiamente utile. — Avrebbe mai avuto occasione di ridere con Munroe di tutto questo? Pensò al volto del suo mentore la prima notte in cui si erano sbronzati insieme, a Berlino. Avevano degli amici in comune, e Munroe sembrava aver preso Freddy subito in simpatia. — Mi ringrazierai un giorno, Fred — aveva detto. Ringraziarlo per cosa? Per averlo trascinato nelle trame di un terribile segreto, coinvolgendolo senza mai averlo davvero ammesso nella sua ristretta cerchia? Munroe non gli aveva mai
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concesso di incontrare la persona che più di tutte avrebbe voluto incontrare, la persona che teneva le redini del gioco. C’erano dei limiti nell’amicizia di Munroe, e di conseguenza anche nella gratitudine di Freddy. In questo momento non si sentiva molto grato. Nel silenzio, Diether si abbassò per estrarre un fascicolo da una valigetta. Era sottile e anonimo, a eccezione di un nastro blu che teneva insieme i fogli. Sembrò esitare un attimo prima di aprirlo. — Riconosci queste foto? La corda cominciava di nuovo a sfregare la pelle, e la vescica aveva il disperato bisogno di svuotarsi ancora. Si sforzò di protendersi verso il tavolo per guardare le fotografie in bianco e nero che Diether stava sparpagliando sul piano. — Sconvolgenti, non credi? — disse Diether. — In caso non fosse chiaro, sono foto di una persona. Il suo nome era Anna Schmidt. Era la moglie di Oskar Schmidt. Sì, quell’Oskar Schmidt. Lo stesso della Schmidt Corporation. Lo stesso che è tra gli uomini più ricchi d’Europa. Lo stesso dei vestiti che indossi, del materiale della tua automobile, forse anche della tua biancheria. Fin qui tutto chiaro? Freddy cercò di distogliere gli occhi dalle foto. Gli veniva da vomitare. Annuì flebilmente. — Schmidt si è sposato tardi. Aveva circa quarant’anni quando lei andò a lavorare nel suo ufficio. Un classico. Ebbero subito dei bambini, Florian che ha nove anni e Lisa che ha un paio d’anni di meno, mi sembra. Quindi… vissero felici e contenti? Certamente. Fino a una settimana fa. Freddy alzò lo sguardo e strizzò gli occhi. Vide delle chiazze rosse farsi blu. Non voleva guardare Diether negli occhi. La voce del suo rapitore aveva un’inflessione cantilenante che, per la prima volta, appariva davvero minacciosa. — Così, Oskar va in Sud America per lavoro, e il giorno dopo la signora Schmidt esce per la consueta seduta dalla sua analista. La macchina varca il cancello della tenuta e poi, sulla strada principale, si ritrova nel bel mezzo di un’imboscata. L’autista muore prima di poter afferrare il telefono, mentre lei viene trascinata fuori e portata via senza neanche realizzare cosa le stia accadendo.
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Freddy osservò le fotografie sul tavolo. Era appena tollerabile guardarle facendo finta che fossero “macchie di Rorschach”, immagini astratte di un abominevole attacco alla Natura. Diether si alzò in piedi. Tirò fuori una mela dalla tasca e gli diede un morso. Freddy sentì la bocca farsi terribilmente secca. Infine mugugnò: — Cos’è successo? — In effetti niente di che, nelle prime ore. Solo più tardi, verso l’ora di pranzo, un inserviente della tenuta ha provato a mettersi in contatto con lei, telefonando e telefonando: niente. All’incirca nello stesso momento, Oskar è stato svegliato nel suo albergo a Rio dallo squillo del cellulare. E una voce, ovviamente contraffatta, gli ha comunicato che sua moglie era stata rapita. A quel punto Schmidt è crollato. «Mi ascolti, farò qualsiasi cosa. Qualsiasi». E sai una cosa, Freddy? Diceva sul serio. Davvero. Perché questa è la sacrosanta verità. Il terrore è l’ultimo vero avamposto dell’uguaglianza. Ci rende tutti uguali. Nessuna quantità di denaro o potere può proteggerti in un momento simile. Schmidt? Avrebbe rinunciato all’intero impero, tutte le fabbriche e i negozi e i laboratori tessili e le schiere di lavoratori, tutto consegnato in un solo istante per riavere la sua amata Anna a casa, sana e salva. Diether si sedette, come colto da un’improvvisa stanchezza. Sembrava pensieroso. Dopo un po’, Freddy ruppe il silenzio: — Che cosa volevano? — Dopo esattamente dieci ore e tredici minuti e mezzo, ci fu una chiamata con le direttive per prelevare un pacco presso un deposito a circa quindici miglia di distanza. Dentro al pacco… Diether sollevò la prima foto. — Cristo. Cristo. — Dopo di che, ogni due ore arrivava una nuova foto, scattata in un posto diverso. Tutto molto ben organizzato. Avevamo uomini disseminati per tutta la città, a spremere i nostri informatori più preziosi. Nessuno sapeva nulla. — Non capisco. Non chiedevano nulla? — Ipotizzai che se fossi riuscito ad affidare subito la donna all’assistenza medica, e ciò sarebbe dovuto avvenire immediatamente, allora avrebbe avuto una remota possibilità di sopravvivere. Con la piena autorizzazione di Schmidt, promettevo eli-
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cotteri, somme di denaro indicibili, qualsiasi cosa. A loro non interessava. Il telefono rimase sempre muto. Avevano uno degli uomini più ricchi del mondo pronto a rinunciare alla sua fortuna, e non si sono neanche voluti sedere al tavolo delle trattative. Non c’è stata alcuna negoziazione. — E poi? — chiese Freddy. — Poi cos’è successo? — A quel punto abbiamo ricevuto una mappa dettagliata, che ci indicava dove prelevare il corpo, o quello che ne restava. Diether si voltò dando le spalle a Freddy. Sembrava che il racconto di quella storia l’avesse rimpicciolito fisicamente, come se quel finale feroce e impietoso avesse banchettato nel profondo del suo cuore. Freddy si chiese quanto tempo gli rimanesse. — Se sapessi qualcosa te lo direi. Qualsiasi cosa. Ma non so nulla. Non so nulla di tutto questo. Diether tornò a voltarsi, e Freddy capì dall’espressione adirata e dalle labbra serrate che il suo interrogatore era sul punto di infuriarsi. Il momento passò — che razza di autocontrollo aveva quell’uomo? — ma quello fu un tetro avvertimento. Freddy percepì il suo corpo tremare, fasciato in quei pantaloni freddi, zuppi di piscio. Diether si allungò ancora una volta verso la valigetta e ne trasse un secondo fascicolo, più pesante e disordinato del primo, gli angoli delle fotocopie con le orecchie e vecchi moduli che spuntavano alla rinfusa tra le altre carte. Questa volta non si sedette, ma rimase in piedi sovrastando il prigioniero con aria inquisitoria. — Vediamo un po’ cosa abbiamo qui. Frederick Christian Hengel, nato… cosa? Solo poco più di trent’anni fa, scuole a Berlino, un buon ginnasio, quindi l’università nella città natia, alcuni corsi di specializzazione a Parigi, e così via… Attualmente proprietario di una società dotcom, la Hengel Enterprises, un po’ in difficoltà a quanto pare. Non sposato. Finanziariamente ok, un bell’appartamento. — Beh, allora. Non c’è granché da sapere, no? — Oh, solo il modulo rosa in alto. Ancora non sono arrivato alla parte interessante. Ah, ecco qui. «Hengel: attività politiche». Questo sembra più interessante. Ah! Niente di che a Berlino. Ma a Parigi, lì tutta un’altra storia. Implicato nelle attività della World Alliance fin quasi dall’inizio. Impegnato nella raccolta di
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fondi, nella gestione dell’ufficio e delle conferenze dei comitati, nelle manifestazioni. Ah, questo è di qualche tempo dopo. Il suo nome presente sull’opuscolo “Fermate la Guerra”, questo di nuovo a Berlino, viaggi a Londra per stringere alleanze con gruppi locali. Altri viaggi a Parigi? E questo chi è? Diether sollevò una foto sgranata in bianco e nero di Freddy, che lui immaginò essere di un anno prima per via dei capelli lunghi e dei jeans. Si trovava in piedi accanto a una vecchia Citroën e parlava con un uomo più basso, i cui occhi scuri e i ricci neri colpivano perfino attraverso quello scatto rubato di bassa qualità. Era un uomo che s’imponeva all’attenzione. — Quello è un mio amico. — Il suo nome? — Piantala con le stronzate. Sai benissimo il suo nome. Munroe Stacy. — Mmmm. — Diether si sedette. — Munroe Stacy? Sì, il signor Stacy. Potremmo dire molte cose di lui. — Scusa, ma di cosa mi si accusa esattamente? Di oppormi alla guerra? Di aver aderito alla World Alliance? Hai un’idea di quanti membri ha la WA adesso? Milioni. E molti di questi sono professionisti del ceto medio. Dimmi, ti sembro per caso uno di quegli sciatti anarchici che se ne va in giro a lanciare bombe molotov? — Per niente — rispose Diether, sorridendo. — Sto semplicemente studiando l’odissea politica che ti ha portato al “dubbio” piacere di accompagnarti al signor Stacy. Freddy deglutì. Non sarebbe servito a nulla negare, dal momento che c’erano le prove fotografiche. — Certo, Munroe è un mio vecchio amico. Mi sono imbattuto in lui… Era piuttosto importante all’interno della WA quando frequentavo la Sorbonne. Abbiamo passato più tempo a bere che a parlare di politica. — Questa è stata l’ultima volta che l’hai visto? “Cosa ne sa?” pensò Freddy. Quell’ultimo incontro, subito prima che Munroe se ne andasse… Munroe era apparso distratto, irrequieto, irascibile. Freddy aveva ascoltato i suoi ordini e gli aveva chiesto dove sarebbe andato. Ma lui non glielo aveva detto. E tutti gli altri — e lei? Silenzio. Munroe aveva sorseggiato il suo Pernod e detto a Freddy di fare il lavoro e poi at-
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tendere ulteriori direttive. Loro l’avrebbero raggiunto, a tempo debito. Freddy decise di rischiare. — Oh, sì. Ci incontrammo a Parigi… quand’è stato? La scorsa primavera. Ci siamo fatti qualche drink, e abbiamo trascorso una piacevole serata. Lui doveva fare un discorso a un seminario universitario e poi sarebbe andato a Londra. — Freddy si chiese quanto potesse sembrare convincente. Aveva un disperato bisogno di fumare. — Lascia che ti chiarisca le idee in merito alle attività del signor Stacy. Come te è membro da vecchia data della World Alliance e, come sostieni tu, non c’è niente di male in questo. Al giorno d’oggi ne fanno parte anche molti politici in Europa, credo. Munroe ha lavorato al Central Committee per due anni, come Head of Campaigns, ma non ne è mai stato il portavoce ufficiale; è uno che ha operato perlopiù dietro le quinte. Tutto perfettamente legale, tutto piuttosto legittimo. Un sacco di intelletti schierati contro lo sviluppo commerciale globale, la guerra, l’America, il degrado ecologico. Sì, fa parte di molti gruppi. Viaggia molto. Una di queste organizzazioni, Students Against Globalization, o STAG, ha tenuto la sua terza convention annuale a Copenhagen lo scorso anno, non ti preoccupare, so che non c’eri. È un peccato che tu l’abbia persa. Già al secondo giorno, l’intero gruppo era in pieno tumulto: risse, il tipico caos studentesco, almeno così pare. Ma tutta questa baraonda ha portato a qualcosa. Un caucus di radicali, i cosiddetti New Weathermen, ha assunto il controllo dell’intera organizzazione studentesca. L’unica persona sopravvissuta a questo piccolo colpo è il signor Stacy. Il che è… quantomeno intrigante. Non si è comportato come uno eccessivamente sorpreso da quanto accaduto. — Beh, io non so niente di tutto questo. — E poi, circa sei mesi dopo, è stato rilasciato questo comunicato: «Questa è la prima comunicazione del New Weather Underground. Tutti i tentativi per un processo di negoziazione sono falliti, il nostro comitato centrale ha concordato di procedere tempestivamente con la nuova fase della lotta contro l’ingiustizia e l’oppressione. Oggi annunciamo che daremo vita a una serie di azioni per attirare l’attenzione del mondo sulla catastrofe globale di imperialismo, corporativismo e capitalismo militarizzato. Viviamo nella società più violenta che il mondo abbia mai
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visto. In questo contesto, l’impegno dei nostri predecessori per la non–violenza non è solo inefficace ma anche pericoloso. Una rivoluzione non è uno spettacolo». Eccetera, eccetera. Ho reso l’idea, spero. Per andare al sodo, questa gente è davvero incazzata e minaccia di fare seriamente qualcosa. Freddy si mordicchiò nervosamente il labbro. Forse, pensò, valeva la pena di lanciare a Diether qualche brandello di verità, nella speranza che mollasse un po’ la presa. — Tu conosci i Weathermen? — Non molto. Raccontami, Freddy. — Non che ne sappia granché neanche io. Solo quello che ho letto. Era un gruppo di americani attivo tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta che, divenuto clandestino, fece saltare in aria alcuni edifici federali. Credo anche che abbia aiutato Timothy Leary a evadere di prigione. Erano piuttosto estremi, hanno fatto rapine a mano armata, e hanno dato all’FBI non poco filo da torcere. Erano molto legati ai Black Panthers e a George Jackson, quando morì in prigione. Penso che fu il Vietnam il primo motivo che li spinse a costituire il gruppo, e quando la guerra si concluse si rivoltarono l’uno contro l’altro. Alcuni finirono in carcere, suppongo. — Un nome buffo, i Weathermen, intendo. — Sì. Viene da Bob Dylan: «You don’t need a weatherman to know which way the wind blows1». — Davvero poetico. E così poi sono arrivati i New Weathermen. Mi viene da pensare che anche questi nuovi amici si siano riuniti per via della guerra. Ma quella in Medio Oriente stavolta, invece che nel Sud–Est asiatico. E ovviamente erano pieni di soldi. E in questo c’era qualcosa di poco chiaro, sembrava qualcosa di più della solita crociata di ragazzini impazziti. Aveva più il sapore di un gruppo seriamente intenzionato a darsi alla clandestinità. Lavorare in maniera clandestina vuol dire avere il controllo delle informazioni, vivere in un universo parallelo. Non puoi avere lo stesso numero di telefono per troppo tempo, devi utilizzare i computer con molta discrezione. Lo stesso vale per le carte di credito. Hai bisogno di una struttura cellulare in modo che qualora salti per aria un nucleo non crolli l’intero siTesto tratto dalla canzone Subterranean Homesick Blues di Bob Dylan, 1965: «Non serve un meteorologo per capire da che parte tira il vento» [N.d.T.]. 1
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stema. I più inveterati attivisti di Gaza o dei confini pakistani non sono in grado di attenersi a questo rigore, figuriamoci un manipolo di ragazzini con un’immaginazione iperattiva. Ma in teoria è possibile. Una volta che un gruppo è diventato a tutti gli effetti clandestino, prenderlo è molto difficile. Ci vuole un informatore serio — Diether guardò Freddy dritto negli occhi — opportunamente interrogato. Freddy si guardò in grembo. Per la prima volta dall’arrivo di Diether, si accorse che la maglietta era cosparsa di strambe macchie di sangue rappreso, schizzato con violenza. La chiazza intorno al cavallo dei pantaloni si era schiusa come un fiore, corrugando il tessuto. Si chiese quali fossero le sue possibilità. Diether sapeva cosa c’era nella valigia? E quanto era prezioso per loro Munroe? — Potrei avere dell’acqua? — chiese Freddy. — Certo — disse Diether, e premette qualcosa sotto al tavolo. Una donna, vestita misteriosamente da infermiera, portò un vassoio con una brocca d’acqua e due bicchieri. Aveva i capelli legati severamente, e portava un paio di pantofole da impiegato ospedaliero. Fece un cenno di assenso quasi impercettibile a Diether e passò accanto a Freddy ignorando la sua presenza. Diether versò l’acqua e si avvicinò a Freddy. Gli sostenne la testa con sorprendente garbo e lo guidò verso il bicchiere, che inclinò con cura per placare la sete di Freddy. Tracannò il primo bicchiere. — Ancora — disse con voce stridula. Diether lo assecondò. La sua indulgenza, per quanto forzata, era disarmante. Freddy si sentiva umiliato e debole. Quella misericordia era per lui una forma di tormento. — Da quanto sono qui? — Un po’. Torniamo ai nostri amici clandestini e al signor Stacy. Freddy sbatté le palpebre e cercò di concentrarsi. Sentiva le vertigini. — Ti dirò tutto quello che so ma rimarrai deluso. Munroe è un radicale, è vero. E lo sono anch’io probabilmente, stando a quello che dici. Oh certo, poi ci sono gli anarchici, li chiamiamo Black Bloc, che saltano fuori durante i negoziati mondiali sul commercio, o in occasione del Primo Maggio, e scatenano delle specie di rivolte. Ma non sono che teppistelli in cerca di guai. Quando lavoravo per la WA a Parigi, di solito
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riferivamo alla polizia ciò che sapevamo a proposito di folle intenzionate a invadere un qualche raduno per fare una strage. Il motivo per cui molte persone hanno aderito alla nostra attività e molte famiglie partecipano alle nostre manifestazioni (bambini con le nostre magliette, mamme con le carrozzine: è fantastico) è proprio il fatto che non abbiamo al nostro interno una frangia rivoluzionaria. Tutte quelle “menate” di gruppi come la Angry Brigade, il Baader–Meinhof, i Weathermen. Sono talmente démodé. E non hanno portato a nulla. La mia generazione è molto diversa. Munroe è di sicuro un idealista, e ogni tanto anche una testa calda, ma è davvero troppo votato alla legittimità delle istituzioni per pregiudicarla. E non dimenticare: io sono un uomo d’affari, non un sovversivo. Non voglio vedere il tracollo della società, o i terroristi creare scompiglio. Le cose si sono molto evolute. Diether fece un gran sorriso. — Sei un buon oratore, Freddy. Ora capisco perché il signor Stacy si serve di te, di tanto in tanto. Sei un rappresentante perfetto. Ti presenti bene ma non sei troppo appariscente. Scommetto che non sei mai stato fermato da un doganiere in vita tua. — Cerco di non cacciarmi nei guai. Senti, è inutile che cerchi in ogni modo di trovare il filo conduttore, non funzionerà. Sì, faccio parte della WA. Ma trascorro gran parte del mio tempo a cercare di mantenere a galla la mia impresa, il che per me è uno sforzo non indifferente. Mi spiace per la signora Schmidt, ma non sapevo neanche della sua esistenza finché non me ne hai parlato tu. Era vero. E questo, realizzò, era anche il suo più grande problema. Diether non gli credeva. — Ah, sì, la signora Schmidt. Hai ragione. Non dobbiamo scordarcene. Si trattava di un comune rapimento. Chiunque l’avesse organizzato sarebbe potuto diventare tremendamente ricco in un giorno. C’erano soldi a sufficienza per soddisfare più di una vita, la totale libertà. E loro hanno detto “no, grazie”. Parliamo di una struttura abbastanza organizzata da mettere a segno un colpo del genere, e abbastanza forte da rifiutare la potenziale ricompensa. Riesci a crederci? C’è stato un doppio messaggio. Primo, vi abbiamo in pugno. Secondo, non ci potete comprare. Capisci? Si è trattato di una punizione piuttosto che
Il codice Tabatha
di una minaccia. Il risarcimento di un torto subito. È impossibile negoziare con gente mossa da tali principi. E questo non è che l’inizio, suppongo. — Giocherellò con il pacchetto di sigarette, i cui bordi erano consumati e tormentati dalle sue dita inquiete. — Penso che tu possa aiutarmi… Anche in quel soffocante cubicolo bianco, Freddy sentì un brivido insinuarsi nella stanza. Il tono di Diether si stava alterando, in maniera lieve ma significativa. Aveva più l’aria di uno che si apprestava a concludere le proprie osservazioni piuttosto che quella dell’inquirente al principio di una lunga udienza. — Ma cosa posso dirti? — replicò implorante Freddy. — Tutte le persone che conosco alla WA sono come me: sognatori con carte di credito. Diether si alzò in piedi molto bruscamente e Freddy capì che era l’ultima volta che il suo interlocutore faceva il suo rilassato giro della stanza. Camminò verso il muro, si fermò a fissare una piccola macchia, la sfregò e tornò sui propri passi, le mani appena dietro di sé in una postura quasi militare. — Freddy, sappiamo cosa c’era nella valigia. Ovviamente lo sappiamo. Cinque milioni di dollari. Banconote di taglio grande, non sequenziali. Non c’è da stupirsi che tu sembri così stanco. Doveva essere pesante. Freddy. Ti prego. Cinque milioni di dollari? Non sono certo per i manifesti, i badge o le riviste. Per chi erano quei soldi? — Non so di cosa parli. Ho portato con me ad Amsterdam una sacca da viaggio in pelle che si trova all’Hotel Camus. Stanza 306. Diether sospirò. — Capisco che possa essere difficile per te crederci, Freddy. Ma in questo momento io per te sono il migliore amico al mondo. Dopo di me sarà tutto più complicato. Io sono un uomo paziente. Tuttavia, alcuni dei miei collaboratori non sono altrettanto pazienti. E ci stanno ascoltando. — Oh, per amor di Dio, non so nulla. Non so nulla dei vostri sequestratori folli. Non so nulla di Schmidt. Sono una vittima anch’io in questa storia. — Sentì che era sul punto di scoppiare in singhiozzi e si tirò indietro. — Non ho sofferto già abbastanza? Come pensi che sia starsene seduti in mezzo al proprio piscio e al proprio sangue? Pensi che non vuoterei il sacco pur di alzarmi da qui, da questa stramaledetta sedia?
Maniere violente
— Hai fame? Io sì. Conosco un posto dove servono aringhe e dell’ottima birra. Scordiamoci di tutto questo. Tutti sanno che non si può dare la colpa a te. In realtà non credo che tu sappia della signora Schmidt. Voglio solo sapere chi ti ha chiesto di fare quella consegna, e a cosa servivano i soldi. Freddy… — Diether fece una pausa, s’inginocchiò e guardò Freddy negli occhi — Freddy, dimmi solo questo: cos’è Seconda Troia? Che cos’è? Chi la gestisce? Dimmi di Seconda Troia, Freddy. Seconda Troia. Freddy lo guardò con sottomissione penosa. Esitò, poi gli si rivolse con molta calma. — Vaffanculo. Diether scrollò le spalle con la rassegnazione di chi ha fatto del suo meglio e non potrà fare di più. Spinse il pulsante sotto al tavolo e tornò a sedersi. Cominciò a leggere un giornale che stava piegato nel cappotto. Dopo un paio di minuti la porta si aprì ed entrò un uomo più giovane, con una malconcia ventiquattrore della Samsonite. Indossava una giacca di lino bianca, una maglietta e dei mocassini; la pelle scurita da una recente abbronzatura. Lisciandosi la coda di cavallo, rivolse un sorriso caldo a Diether, che s’illuminò non appena lo vide. — Hey, Hans. Speravo fossi tu. È bello vederti. Come te la passi? L’uomo rise lievemente. — Tutto bene, grazie. E tu? — Oh, lo sai. Sempre indaffarato. Non distinguo il giorno dalla notte. — Dovresti andarci piano, Diether. Spassartela ogni tanto. Dobbiamo uscire di nuovo insieme. Sempre se ti sei ripreso dall’altra volta. Hans ridacchiò, ed estrasse un piano di lavoro nascosto ad arte nella parete. Mise giù la ventiquattrore facendo molta attenzione e la aprì. Freddy lo osservò mentre tirava fuori quello che sembrava un paio di vecchie cuffie e una scatoletta nera provvista di quadrante. C’erano diversi cavi e provette, ordinatamente disposti. Hans prese a occuparsi di una siringa, che riempì del liquido contenuto in una bottiglia con un’etichetta, gli occhi strizzati dalla concentrazione nell’eseguire quell’operazione. — Sai, devo ottenere il giusto dosaggio stavolta. È facilissimo eccedere di un millesimo, e a quel punto non andrebbe più bene.
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— È vero — disse Diether. — Bisogna essere assolutamente precisi. È una cosa che ho imparato da te. — Uh–huh. No, ecco, è il dosaggio esatto. Bene. Eccellente. — Sei qui da molto? — Da circa un’ora. — Hai ascoltato? — Oh, certo. — E cosa ne pensi? — Non dovrebbe volerci molto, suppongo — disse Hans. — Potrei sbagliarmi. Non si può mai dire con questo genere di cose. Ti ricordi a Stoccolma? Quella fu una lunga notte, e io ero sicuro che avremmo finito in un’ora! Fammi sistemare tutto, ti raggiungo in un attimo. Oh, quella è acqua? Sì, ne prenderei volentieri un bicchiere. Hans cominciò a tirare fuori altri oggetti contenuti nella valigetta, canticchiando a bassa voce. C’era anche un oggetto che assomigliava a un ciuccio per bambini. Freddy prese a dimenarsi sulla sedia. — È una follia, voi siete folli, tutti e due. Io sono solo una persona comune. Non so nulla di Schmidt o dei cinque milioni di dollari. Per piacere, vi supplico. Credete che non ve lo direi se sapessi qualcosa? Dio, ti prego. Non posso dirvi quello che non so. Posso? No… Intendo, dai… Questo è… Non sarà mica la storia del poliziotto buono e di quello cattivo? Hans rise di gusto, come se non avesse mai sentito una battuta più divertente in tutta la sua vita. Scosse la testa e proseguì con i preparativi. Si stava occupando di uno dei cavetti, che era rimasto impigliato. — Cosa ti fa pensare che siamo poliziotti? Diether si voltò per guardarlo. — Allora, Freddy. Dimmi. Dimmi di Seconda Troia.
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