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Todd Ritter Non si rassegnano mai a morire
traduzione di pia ferrara
Casini Editore
Titolo originale dell’opera: Death Notice Copyright © 2010 by Todd Ritter St. Martin’s Press, LLC as the original publisher of the work © 2011 Valter Casini Edizioni www.casinieditore.com ISBN: 978-88-7905-191-0
Prologo
Il dolore gli fece riprendere bruscamente i sensi. Una fitta netta e costante che iniziava dalla bocca e scendeva tra mandibola e collo. Cercò di emettere un gemito — era il genere di dolore che fa gemere un uomo — ma non ci riuscì. L’intensità del dolore si faceva così forte dopo ogni tentativo che smise di provarci. Restò in silenzio, ascoltando l’irregolare fluire dell’aria attraverso le sue narici. Quando aprì gli occhi, non vide che buio. Qualcosa premeva contro le sue ciglia. Stoffa. Pesante e ruvida. Era bendato. Il suo volto sembrava bagnato. Non ne era sicuro, ma pensò si trattasse di sangue. Gli imbrattava il mento. Un rivolo sottile gli scivolava lungo la guancia. Il liquido era anche dentro la bocca. Sulla lingua. Si addensava nelle fessure tra i denti. Sangue. Ne era certo, ora. Ne sentiva il sapore. Giaceva sulla schiena, il corpo teso, le braccia lungo i fianchi. Quando cercò di muoverle, non ci riuscì. Una corda gli avvolgeva braccia, gambe, torso e testa. La pressione lo schiacciava, raddrizzandogli le spalle curve, frutto di cinquanta anni di lavoro in fattoria.
Non si rassegnano mai a morire
Il panico lo assalì. Iniziò a respirare più velocemente attraverso le narici, come una locomotiva che acquista velocità. Cercò di lanciare un urlo per chiedere aiuto, dischiudendo le labbra. Ma la bocca rimase serrata. Le labbra rifiutavano di aprirsi e il dolore diventava sempre più forte. Ci provò altre due volte, ma gli fece così male che nella gola gli si formarono profondi singhiozzi. I singhiozzi, però, non trovarono una via d’uscita, e fu costretto a ricacciarli indietro. Durante il suo ultimo tentativo di urlare, ebbe la percezione di ciò che era successo. Il dolore fece chiarezza e rese la sua mente più acuta, facendogli comprendere appieno la situazione. Qualcuno gli aveva cucito la bocca. Tentò di gridare ancora una volta, sperando di superare con la sola forza della voce la barriera costituita dalle sue labbra serrate. Il verso che ne scaturì gli era familiare. Lo sentiva continuamente alla fattoria — il verso acuto che si sente un attimo prima della macellazione. Solo che, stavolta, proveniva da lui. Udì un altro rumore, appena percepibile sotto i suoi gemiti disperati. Passi. C’era qualcun altro lì. — Se rimarrai fermo, non farà così male — disse una voce nel buio. Il proprietario della voce era proprio dietro la sua testa. Sentiva un respiro caldo sull’orecchio. Delle dita risalirono lungo il mento, bloccandogli poi la testa. Un oggetto sfiorò il suo collo. Freddo. Appuntito. Una leggera pressione, poi l’attesa… inquietante. L’oggetto freddo e appuntito si fece strada attraverso la sua pelle, penetrando nel suo corpo, dividendo la carne dalla carne. Il sangue schizzò fuori colandogli sulle spalle, bagnandogli i capelli. Mentre il sangue scorreva, lui giaceva inerme, sentendo-
Prologo
si un animale appena sgozzato. A ogni battito del suo cuore, una nuova ondata fuoriusciva dal suo corpo. Questa volta il dolore era insopportabile. Non più solamente alla bocca. Era dentro di lui. Era ovunque. Iniziò a urlare. Non ad alta voce, ma nella mente. Un suono disperato gli riecheggiava all’interno del cranio come la sirena di un allarme. L’oggetto freddo e appuntito si rigirava ancora nel suo collo. Il dolore era a tal punto opprimente che gli cancellava i pensieri, le urla silenziose. Cancellava e cancellava finché nella sua mente non rimase che dolore. E paura. E, alla fine, buio.
Marzo
1.
— Commissario Campbell! Il nome di Kat risuonò lungo Main Street nel momento in cui sfiorò il marciapiede. Era appena uscita da «Big Joe’s», un aspirante «Starbucks», con tra le mani un caffè formato maxi per il quale aveva pagato una cifra degna di «Starbucks». In condizioni normali, le avrebbe dato fastidio pensare a un caffè da quattro dollari. Ma era una mattina fredda e grigia, e aveva bisogno del calore e della lucidità che il caffè sapeva fornire. Sfortunatamente il suono del suo nome, che ora qualcuno stava gridando per la seconda volta, le impedì di bere il primo, prezioso sorso. — Ehi, Commissario! A gridare era stato Jasper Fox, proprietario di un negozio di fiori flagellato dal nome «Awesome Blossoms». Nonostante il freddo il suo volto luccicava di sudore, mentre guadagnava frettolosamente il marciapiede. Ansimando e sbuffando, aspettò di raggiungere Kat per terminare la frase. — Sono stato rapinato. Kat, il bicchiere di caffè sospeso all’altezza della bocca, strabuzzò gli occhi incredula. A Perry Hollow le rapine avevano la stessa frequenza delle eclissi solari. Le sue strade punteggiate di pini e le vetrine rétro fino alla nausea erano per lo più tranquille.
Non si rassegnano mai a morire
— Rapinato? Ne è sicuro? Jasper aveva un assurdo paio di baffi spioventi, simili a ghiaccioli sporchi. Ogni volta che Kat lo vedeva, le veniva in mente un tricheco. Quel giorno, i baffi erano più spioventi del solito. — Direi di sì — disse Jasper. La sua espressione avvilita le fece capire che si aspettava una reazione differente. Qualcosa di più attivo e deciso. Probabilmente Kat si sarebbe potuta dimostrare all’altezza delle sue aspettative se avesse avuto l’occasione di sorseggiare il suo caffè. Invece, non poté far altro che abbassare il bicchiere e fissare Jasper che a sua volta la fissava. Sapeva cosa stava pensando. Lo leggeva nei suoi occhi. Stava guardando una donna sul metro e cinquanta, con cinque chili di troppo e a cinque anni dalla mezza età. Una donna che aveva scurito i suoi capelli biondi per essere presa sul serio. Una donna che aveva le borse sotto gli occhi perché il riscaldamento aveva deciso di abbandonarla e suo figlio aveva trascorso metà della notte sveglio e con la tosse. Soprattutto, vedeva una donna con un distintivo appuntato sull’uniforme che oziava sul marciapiede invece di indagare sul primo furto che avveniva in città da oltre un anno. Intuendo i pensieri che si agitavano nella mente di Jasper, Kat chiese: — Cosa è stato rubato? — Le faccio vedere. Kat lo seguì lungo Main Street, che si stava risvegliando più velocemente di lei. Vide Lisa Gunzelman aprire la sua bottega di antiquariato e Adrienne Wellington sistemare un vestitino a fiori nella vetrina del suo negozio d’abbigliamento. Analoghe attività si svolgevano sul lato opposto della strada, mentre i proprietari dei negozi si preparavano a un altro giorno di affari a Perry Hollow, Pennsylvania. I loro sforzi erano vani. In città c’erano stati pochi visitatori dopo l’ondata natalizia, anche perché gennaio e febbraio erano troppo freddi per lo shopping.
Marzo
Era giunto l’inizio di marzo, e sebbene le vetrine mettessero in mostra pantaloncini, occhiali da sole e canottiere, lo scenario cittadino era tutto fuorché primaverile. Solo un paio di giorni prima, una tempesta aveva scaricato sei centimetri di neve sulle strade. Era stata seguita da un freddo artico che aveva congelato la neve in piccoli iceberg ammucchiati sui marciapiedi. Kat ne aggirò uno mentre seguiva Jasper nel suo negozio, situato un paio di vetrine più giù del negozio di vestiti. Una volta all’interno di «Awesome Blossoms», Jasper si precipitò verso il retro e diede una spinta a una porta che conduceva sul cortile posteriore. Kat lo seguì attraverso la porta, trovandosi nel mezzo di un parcheggio vuoto, ricoperto da un sottile strato di ghiaccio. Solo allora iniziò a farsi un’idea della situazione. Il furgone delle consegne di Jasper — un onnipresente Ford bianco con il nome del negozio dipinto sulle fiancate — era stato portato via durante la notte. Capirlo fu come ricevere un colpo fastidioso. Finalmente, ecco qualcosa su cui investigare. — È sicuro di averlo parcheggiato qui la scorsa notte? — Certo. — Non mi prenda per pedante — disse Kat, — ma ho bisogno di chiederle queste cose, se vuole che le ritrovi il furgone. Jasper indicò uno spiazzo di ghiaia vuoto. — L’ho parcheggiato proprio lì. — È l’unico ad avere un mazzo di chiavi? — Conservo un mazzo di ricambio nel vano portaoggetti, in caso qualcun altro ne abbia bisogno per fare una consegna. — Mi faccia indovinare. Lascia anche il furgone aperto. Jasper non ebbe bisogno di parlare. I baffi lo fecero al posto suo. E quando si afflosciarono tristemente, Kat seppe che la risposta era sì. Per quanto il suo comportamento fosse stato avventato, Kat non se la sentì di prendersela con lui. Perry Hollow era il tipo
Non si rassegnano mai a morire
di città in cui si lasciava la macchina aperta e con le chiavi nel quadro, sapendola al sicuro. Fino a quel momento, ovviamente. — Non preoccuparti — disse. — Troveremo il furgone. Chiunque in città sa come è fatto. Potrebbero averlo preso dei ragazzini per farsi un giretto e lasciarlo poi dietro «Shop and Save». Kat sperava che quella congettura risollevasse Jasper almeno un pochino. Invece la faccia del fioraio si incupì, preoccupata. — C’era qualcos’altro in quel vano portaoggetti, Commissario. — Che cosa? Jasper esitò, solo per un momento. — Una pistola. Kat gemette. Non era la miglior cosa da fare davanti a Jasper, ma era comunque meglio del suo primo istinto, quello di strozzarlo. Come poteva essere stato così stupido da lasciare aperto il furgone con una pistola nel vano portaoggetti? E perché teneva una pistola lì, tanto per cominciare? — La tenevo per ragioni di sicurezza — disse Jasper, fiutando la domanda inespressa che si tendeva tra loro come una corda da bucato. — Avevo il permesso e tutto quanto. La tenevo in caso di rapina. A meno che non fosse solito effettuare consegne regolari a West Philadelphia, Jasper non aveva motivo di preoccuparsi di essere rapinato. — Era carica? — chiese Kat. Un triste cenno da parte del fioraio le confermò che la faccenda era più complicata di quanto avesse sospettato. Doveva trovare quel furgone. Subito, e la pistola sarebbe stata ancora lì, con un po’ di fortuna. In fretta, ripercorse il tragitto attraverso il negozio e lungo Main Street. Quando raggiunse il suo Crown Vic bianco e nero — ancora parcheggiato di fronte a «Big Joe’s», grazie a Dio — si accorse che il suo vice Carl Bauersox stava cercando di contattarla via radio.
Marzo
— Commissario — gracchiò la sua voce mentre Kat scivolava dietro al volante. — Sei lì? Carl, il suo unico sottoposto, faceva il turno di notte. Di solito a quell’ora Kat era in centrale a dargli il cambio. Ma era stata trattenuta dai problemi con il furgone di Jasper e ora probabilmente Carl si stava chiedendo quando sarebbe potuto tornare a casa. Kat afferrò la radio. — Sono per strada, Carl. — Abbiamo un bel problema, Commissario. Ne dubitava. Due crimini avvenuti lo stesso giorno sarebbero stati una sorta di record per Perry Hollow. Probabilmente si trattava di un gatto su un albero, che nel mondo di Carl era l’equivalente di un bel problema. — Che genere di problema? — Ha chiamato un camionista. Ha detto che c’è una cassa di legno abbandonata sul ciglio di Old Mill Road. Mentre Carl parlava, Kat si accorse di essersi dimenticata del suo intruglio di «Big Joe’s». Lo stava ancora sorreggendo. Avvicinò la tazza alle labbra e, un attimo prima di concedersi il primo, a lungo rimandato, sorso disse: — Perché non sei andato a spostarla? — Perché non è una semplice cassa. Kat si bloccò a metà sorso. Di nuovo. — In che senso non è una semplice cassa? — Beh, Commissario, il camionista giura che è una bara. Una bara. Sul ciglio della strada. Era un’idea così assurda che non poteva essere vera. Il camionista doveva essersi sbagliato. Era semplicemente una cassa. E adesso era compito suo rimuoverla prima che qualche guidatore distratto ci andasse a sbattere contro, rendendo necessaria una bara vera. — Vado a controllare — disse. — Nel frattempo, fammi un favore e allerta le unità di tutta la contea per il furgone delle consegne di Jasper Fox. È stato rubato la scorsa notte.
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Non menzionò la pistola. Non sarebbe stata una buona idea con Carl, che era più veloce a diffondere le voci di un colibrì a battere le ali. Se avesse saputo della pistola, la notizia si sarebbe sparsa per tutta Perry Hollow nel giro di un’ora. Carl chiuse la comunicazione con uno strascicato «Oook, Commissario» mentre Kat metteva giù il caffè con riluttanza, accendeva il Crown Vic e si preparava ad affrontare qualsiasi cosa la stesse attendendo in Old Mill Road. Quando trovò la cassa, era effettivamente abbandonata sul ciglio della strada, poggiata su una lastra di neve congelata. Sebbene il camionista che l’aveva notata l’avesse definita una bara, Kat, da vero poliziotto, rifiutò di porsi domande inutili sulla questione. Strizzando gli occhi a causa del riflesso del sole sulla neve, scrutò attraverso il parabrezza la cassa adagiata a pochi metri. Di forma rettangolare, sembrava fatta di legno grezzo. Probabilmente pino, se Kat avesse avuto voglia di tirare a indovinare. Ma non ne aveva. Scese dalla macchina e il respiro formò un sottile sbuffo di vapore, che fluttuò via nella gelida brezza. Faceva un dannatissimo freddo per essere marzo, cosa che a Kat non piaceva per un sacco di motivi. Innanzitutto il prolungarsi dell’inverno la deprimeva. Seconda cosa, il freddo aveva tenuto lontani i turisti per troppo tempo. E i guadagni di molti abitanti di Perry Hollow dipendevano da loro. Infine, il freddo dava a Kat una strisciante sensazione di pericolo incombente. Era troppo marcato, troppo innaturale. Quando, alla fine, riuscì a bere il primo sorso di caffè, non fu che un vano tentativo di proteggersi dal gelo. Si era raffreddato, e non le fu di sollievo neanche un po’. Dovette affidarsi piuttosto al proprio cappotto, chiudendo la cerniera fin sotto il mento. Quando raggiunse la cassa, capì come mai una persona di passaggio avesse potuto scambiarla per una bara. Somigliava
Marzo
davvero a una cassa da morto. Lunga più di un metro e ottanta, larga quasi un metro e profonda una sessantina di centimetri, era sicuramente abbastanza grande da contenere un corpo. Inginocchiatasi vicino alla cassa, la ispezionò in cerca di indizi sulla sua provenienza e, incrociando le dita, sulla sua destinazione. Cercava una fattura attaccata su un fianco o il logo di una compagnia impresso nel legno. Non trovò nessuno dei due. Facendo scorrere una mano sulla parte superiore e sui fianchi, si graffiò con il legno ruvido. A prescindere dall’uso per cui era stata progettata, la cassa era sicuramente fatta a mano, probabilmente da un dilettante. Ogni artigiano degno del suo nome avrebbe sottoposto il legno a una qualche forma di levigazione, per lo meno. Avvicinandosi ancora di più, Kat annusò profondamente, cogliendo una lieve traccia di pece. Pino. Proprio come aveva sospettato. Per quanto desiderasse credere che la cassa fosse semplicemente atterrata lì dopo essere caduta da un camion, l’istinto le diceva che non era così. Era in perfette condizioni. Niente graffi o segni di trascinamento. Nessuna traccia dell’impatto con la strada. Anche il modo in cui era adagiata — sul dorso, aderendo all’ampiezza del fosso — era strano. Nessuna scatola ruzzolata giù da un camion sarebbe potuta atterrare in maniera così perfetta senza un piccolo aiuto. La sua posizione non era casuale. Qualcuno l’aveva messa lì. Qualcuno voleva che fosse trovata. Terminata l’ispezione, Kat non aveva più motivo di rimandare l’inevitabile. Bara o no, la cassa doveva essere aperta. Dando uno strattone al coperchio, notò dei chiodi negli angoli e in due punti lungo ogni lato. Si diresse in fretta verso la sua auto ed estrasse un piede di porco dal portabagagli, prima di ritornare alla cassa. Con l’aiuto del piede di porco, i chiodi resistettero a malapena quando fece leva e aprì il coperchio, tirandolo via di colpo.
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La prima cosa che vide fu un paio di scarpe da lavoro color grano. In seguito i pantaloni di una tuta sporchi di fango e una camicia rossa di flanella. Infine, incorniciato dal colletto della camicia, il volto di un uomo abbondantemente sopra la sessantina. L’immagine nella sua interezza fece arretrare Kat. A metà strada tra la cassa e la sua auto, si girò e si tappò la bocca con una mano per bloccare i conati. Si premette l’altra mano dove una fitta improvvisa si stava facendo strada tra le costole. Passato un minuto, si costrinse a guardare nuovamente nella bara. La seconda occhiata fu accompagnata dalla certezza — triste, pesante come un macigno — di sapere a chi apparteneva quel cadavere. Il suo nome era George Winnick e, fino a quella mattina, era stato un agricoltore che coltivava una cinquantina di acri nei dintorni di Perry Hollow. Kat non lo conosceva bene. Si erano a malapena rivolti la parola, fatta eccezione per i saluti scambiati da «Shop and Save» o per strada. Ma era abbastanza conosciuto in città perché lei sapesse che era un uomo perbene, rispettato e gran lavoratore. Sapeva anche che non c’era ragione per cui dovesse giacere morto in una cassa di pino in Old Mill Road. — George — sussurrò, mentre si avvicinava nuovamente al corpo con andatura incerta. — Che cosa ti è successo? Il suo cadavere era stato riposto nella cassa come una bambola in una scatola di scarpe. Le sue braccia erano incrociate sul petto, ogni palmo appoggiato alla spalla opposta. La sfumatura cinerea dei suoi capelli si accordava con la pallida carne delle sue mani, del collo e del viso. Due lucide monetine erano poggiate ognuna su un occhio, contornate da cespugliose sopracciglia orlate di grigio. Entrambe le monete erano sistemate a testa in su, con il profilo di Abe Lincoln che scintillava in direzione di Kat. L’effetto era inquietante, le monete sembravano occhi — morti e immobili. Una ferita gli deturpava il lato destro del collo, parzialmente nascosto dal colletto della camicia. Scostando il tessuto, Kat
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esaminò lo squarcio. Lungo poco più di sette centimetri, era stato ricucito con del filo nero. Goccioline di sangue si erano congelate sul filo come pioggia su una tela di ragno. Simili cristalli di ghiaccio si erano formati sulle labbra di George, coperte da macchie di uno sporco color ruggine. A quel punto Kat comprese che non era sporco, quello che vedeva. Era sangue essiccato. Un bel po’. Incrostato attorno ad altro filo nero che attraversava le labbra. La bocca di George Winnick era stata cucita. Kat boccheggiò di nuovo mentre il dolore al petto si intensificava. Era una sensazione opprimente — in parte nausea, in parte orrore. Però, riuscì a ritornare all’auto e a contattare Carl via radio. — Ho bisogno che mi ascolti attentamente — disse. — Chiama la Squadra Omicidi. Di’ loro di venire qui immediatamente. — C’è qualcuno nella cassa? — Sì. George Winnick. Carl reagì come Kat si aspettava: pregò. Attese mentre lui mormorava una breve preghiera per l’anima di George. Quando ebbe terminato, le chiese: — Come è morto? Kat gli spiegò che non lo sapeva. — Quel che so è che devi attaccarti alla cornetta e chiamare lo Sceriffo della contea. Digli di portare il medico legale. Abbiamo bisogno di una mano, perché questo… Si interruppe quando si rese conto di non avere idea di cosa si trattasse. Non aveva la più pallida idea di come gestire la situazione. Sapeva soltanto di non essersi sbagliata sul freddo. Era un pessimo presagio. Davvero pessimo.
2.
Annuncio di morte: quell’unica frase che in un necrologio spiega chi è morto, come e quando. Henry Goll, che ne redigeva quotidianamente, trovava divertente quel nomignolo. Gli piaceva quell’accostamento di parole, il suo pungente sarcasmo. Adorava il fatto che quel nome lasciasse intendere la presenza di una verità più profonda e oscura dietro la facciata: nel momento in cui nasciamo, si annuncia la nostra morte. Parte del lavoro di Henry consisteva nell’assicurarsi che ogni necrologio pubblicato sulla “Perry Hollow Gazette” contenesse un annuncio di morte. Nella maggior parte dei casi era un lavoro facile. La famiglia in lutto forniva tutte le informazioni all’unica impresa di pompe funebri della contea, che poi provvedeva a inviarle via fax a Henry. Usandole come se fossero una guida, sedeva nel suo ufficio grande quanto un ripostiglio e redigeva un rispettoso affresco della vita del defunto. L’annuncio di morte veniva sempre al primo posto. Era il piatto forte del necrologio, l’unica cosa che il lettore volesse davvero sapere. Il resto — famiglia, lavoro, riconoscimenti — erano solo pietanze di contorno da consumarsi in seguito. Henry sapeva che il necrologio di George Winnick era un falso perché non c’era alcun annuncio di morte. Oltre al nome, conteneva a stento altre informazioni.
Marzo
George Winnick, 67 anni, di Perry Hollow, Pa., è morto alle 22.45 dell’8 marzo. Cinque anni come redattore di necrologi alla “Gazette” avevano reso Henry abile a scovare i falsi, che giungevano con frequenza allarmante. Non aveva idea di come qualcuno potesse trovare divertente uno scherzo del genere, ma per molti lo era. In parecchi casi i colpevoli erano adolescenti che inviavano spesso falsi annunci della morte degli insegnanti più vituperati. Altri erano inviati dai presunti amici dei presunti cadaveri, solitamente in occasione dei compleanni più significativi. Grazie all’occhio vigile di Henry, nessuno di questi annunci riusciva a finire sul giornale. Quando si imbatteva in un necrologio che affermava che qualcuno era morto il giorno del suo cinquantesimo compleanno, lo gettava via automaticamente. Stava per fare altrettanto con quello di George Winnick che giaceva nel fax quando aveva messo piede in ufficio, quella mattina. Ma visto che non c’era niente di sospetto nell’età e nella data indicate, immaginò fosse meglio avere conferma che si trattasse di un falso, prima di consegnarlo al bidone della spazzatura. La prima e ultima telefonata di Henry fu alle pompe funebri McNeil. Nascosta nell’angolo più periferico di Oak Street, la McNeil era un’impresa familiare che deteneva il monopolio sui morti di Perry Hollow. Se qualcuno in città era passato a miglior vita, da McNeil l’avrebbero saputo. Deana Swan, la segretaria dell’impresa, rispose dopo un solo squillo. — Pompe funebri McNeil — disse, con voce annoiata. — Sono Deana. Posso esserle utile? Henry si schiarì la voce prima di parlare. — Sono Henry Goll, della “Perry Hollow Gazette”. Deana lo interruppe impertinente: — Hey, Henry. — Ho un dubbio su un fax che ho ricevuto. — E neppure “ciao” mi dici?
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Preso alla sprovvista, Henry replicò con un confuso: — Scusa? — Chiami qui, diciamo, ogni giorno. E vai dritto al punto. Niente ciao. Niente chiacchiere. Come mai? Henry rimase a corto di parole. — Non saprei. Forse non sono un tipo così interessante. La risposta di Deana, «Non a quanto mi risulta», lo sorprese, soprattutto perché lei non la corredò di alcuna spiegazione. Henry non si riteneva minimamente interessante, quindi dubitava della misteriosa fonte delle informazioni di Deana. — Fidati di me — insistette. — Non lo sono. Henry non stava mentendo. Qualcuno avrebbe potuto trovarlo interessante, un tempo, ma gli ultimi cinque anni della sua vita erano un rigoroso susseguirsi di lavoro e solitudine. Ogni mattina raggiungeva il suo ufficio al terzo piano alle nove in punto. Lavorava fino alle sei, prendendosi un’ora di pausa per il pranzo che consumava alla scrivania. Quando la sua giornata era conclusa imboccava la scala antincendio, che gli permetteva di evitare gli sguardi indiscreti della redazione. A casa, Henry dedicava un’ora esatta agli esercizi ginnici. In seguito, si preparava la cena, guardava un vecchio film in TV e leggeva fino a che non si sentiva stanco. Il mattino seguente la sua routine si ripeteva. I suoi orari inflessibili, combinati con il fatto che raramente mostrava il suo volto pallido in redazione, gli avevano fatto guadagnare un soprannome tra i giornalisti: Henry Ghoul. Nessuno sospettava che fosse a conoscenza del suo nomignolo. Ma lo era. E, proprio come per gli annunci di morte, lo trovava spassosamente appropriato. Era l’essere demoniaco della redazione, lo strano individuo che scriveva di persone morte. A volte si comportava volutamente di conseguenza, svanendo dal retro come un fantasma dopo essersi assicurato che dal suo ufficio, attraverso le grondaie, si propagasse una musica suggestiva.
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All’altra e più crudele ragione per cui lo chiamavano Ghoul, Henry cercava di non pensare. Non poteva modificare il suo aspetto esteriore. Non a tal punto, in ogni caso. — Bene, interessante o no, dovresti venire a farmi visita, una volta o l’altra — disse Deana. — Potremmo pranzare insieme. Il suo suggerimento era una grossa novità nelle loro conversazioni. — Non credo sia una buona idea — disse Henry. — Perché? Non so neppure come sei fatto. Henry si accarezzò il viso. Le dita si mossero lungo la cicatrice che partiva dal suo orecchio sinistro, sfregiava gli angoli di entrambe le labbra e si interrompeva sul mento. Spostandosi verso l’alto, la sua mano scivolò sulla chiazza sotto l’occhio sinistro. Anche se non poteva vederla, sapeva che una grossa ustione creava un cupo rossore contro il bianco della sua carnagione. Accadeva di frequente al mattino, e scompariva solo con il trascorrere della giornata. — Dovremmo ritornare al fax — disse. Deana non si curò di nascondere la delusione nella sua voce. — Naturalmente. Qual è il nome? — George Winnick. Non saprei dire se è autentico o no. Henry sentì il fruscio di fogli sulla scrivania di Deana, seguito da alcuni colpetti su una tastiera. — Non c’è traccia di lui nella nostra documentazione — disse infine. — Il fax risulta inviato da noi? Henry le spiegò che il fax non sembrava provenire da alcuna impresa di pompe funebri — indizio ulteriore della sua malafede. Non avendo altro da aggiungere, ringraziò Deana per il suo aiuto, e riagganciò prima che lei avesse un’altra occasione per invitarlo a pranzo. In seguito afferrò il necrologio di George Winnick, lo accartocciò in una stretta pallina e lo gettò nel bidone.
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Trascorse il resto della mattinata a scrivere necrologi per persone che erano effettivamente morte. In totale c’erano quattro necrologi, due provenienti da imprese di pompe funebri al di fuori della contea, e due faxate da Deana Swan. Sul secondo fax, poco al di sotto dell’intestazione della società, lei aveva scarabocchiato «Scusa se ti ho messo a disagio». L’aveva fatto, soprattutto perché era stato momentaneamente deviato dalla solita routine. Lavorava esattamente come viveva: senza spontaneità. Tutto, nel suo ufficio organizzato in modo impeccabile, aveva un posto e uno scopo. La lampada sulla sua scrivania illuminava l’angusta stanza priva di finestre. Gli scaffali erano zeppi di materiale d’archivio. Il fax, lontano esattamente quanto il suo braccio, gli procurava la carne da mettere al fuoco. Mentre scriveva, ascoltava una delle opere tragiche che aveva scaricato sul computer. Quella mattina toccava al Tristano e Isotta di Wagner. La musica che aumentava d’intensità, le arie in crescendo e i racconti di amori tragici non erano una distrazione, anzi, erano piuttosto utili a Henry. Lo aiutavano a concentrarsi, permettendogli di calarsi nel cupo stato d’animo necessario per scrivere di coloro che si erano disfatti delle spoglie mortali. Nel momento in cui Isotta moriva di crepacuore, lui aveva finito il lavoro mattutino. L’ora del suo pasto era a mezzogiorno in punto. Henry mangiava lo stesso piatto ogni giorno — sandwich al tacchino, insalatina, bottiglia d’acqua. Portava tutto da casa a eccezione dell’acqua. Quella se la procurava al distributore automatico del piano di sotto. Nella sala ricreativa, un giornalista solitario stazionava di fronte alla macchinetta degli snack, rimuginando su cosa scegliere. Gli offrì un sorriso tirato, che Henry non ricambiò. Henry Ghoul non sorrideva. Il reporter si chiamava Martin Swan. Piuttosto carino, aveva l’aria di un’ex stella del football in procinto di inserirsi nel
Marzo
mondo del lavoro. La camicia bianca gli calzava a pennello, e la cravatta di seta scivolava su un ampio torace e un accenno di pancetta dovuta alla birra. Henry non sapeva nulla di lui, a eccezione del fatto che era il fratello di Deana. In una cittadina piccola come Perry Hollow, coincidenze del genere erano frequenti. A causa di questo blando legame, Martin si sentiva obbligato a parlare con Henry, sebbene di solito il suo tono risultasse a metà strada tra il sincero e l’indifferente. Quel giorno non fece eccezione. — Riceverai presto un necrologio da mia sorella — annunciò monotono. Henry si piazzò davanti al distributore successivo, frugandosi in tasca in cerca di monetine. — Cosa te lo fa pensare? La voce di Martin si animò improvvisamente. — Non hai sentito la grande notizia? — Sentito cosa? — C’è stato un omicidio questa mattina. Il Commissario Campbell lo ha trovato in una bara sul ciglio di Old Mill Road. Spaventoso come l’inferno. Povero George. Il nome gelò Henry. — George Winnick? Martin annuì. — Lo conoscevi? Un brivido percorse la schiena di Henry. Era sorpreso. E spaventato. La coincidenza era troppo grande per non suscitare un minimo di paura. — A che ora è stato trovato? — Penso le otto o giù di lì — disse Martin. — Hai sentito qualcosa in giro? Se è così dimmelo, sto lavorando al pezzo. Henry abbandonò la saletta senza aggiungere altro. Percorrendo due gradini alla volta le scale antincendio, irruppe nel suo ufficio, corse verso il cestino dei rifiuti e frugò nel contenuto finché non trovò il foglio appallottolato. Spianò il fax sulla scrivania, analizzando l’unica frase stampata sul foglio.
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George Winnick, 67 anni, di Perry Hollow, Pa., è morto alle 22.45 dell’8 marzo. Nell’angolo in alto a sinistra c’era una serie di piccoli numeri neri. L’orario in cui il fax era stato inviato. Henry lo lesse tre volte, sempre più incredulo. Un altro brivido involontario gli percorse la schiena. A differenza del primo, questo rimase lì, rifiutandosi di abbandonarlo anche quando raccolse il fax, afferrò il cappotto e schizzò fuori dalla porta.
I libri cambiano il mondo
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Casini Editore Via del Porto fluviale, 9/A – 00154 Roma www.casinieditore.com info@casinieditore.com Finito di stampare nel mese di giugno 2011 Stampato per Casini Editore dalla Arti Grafiche La Moderna — Roma
Un oggetto sfiorò il suo collo. Freddo. Appuntito. Una leggera pressione, poi l’attesa… inquietante. L’oggetto freddo e appuntito si fece strada attraverso la sua pelle, penetrando nel suo corpo, dividendo la carne dalla carne.
« Ritter ha ideato un thriller che vi resterà in mente anche parecchio tempo dopo aver finito il libro. Non leggetelo quando siete soli. »
Linda Castillo autrice di Costretta al silenzio
Perry Hollow come Twin Peaks. Atmosfere da incubo sulle tracce del più efferato dei serial killer: vi ritroverete con le mani alla gola intenti a controllare che giugulare e carotide siano ancora al loro posto.
www. Casini Editore .com