Renewal - Dario Piparo

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Dario Piparo RENEWAL

Casini Editore


Š 2011 Valter Casini Edizioni www.casinieditore.com ISBN: 9788879051828


Dedicato a Liliana e Salvatore. Vi penso e sorrido.





Chamarel, Mauritius Lucas Sorondo, nonostante il suo metro e ottantacinque di muscoli, aveva una paura fottuta. La sentiva impadronirsi delle sue braccia tese e pronte a scattare. Anche la sua andatura, di solito sciolta e dinoccolata, questa volta era impacciata, irrigidita da una tensione acutissima; il sudore, freddo e acido, gli colava lento dalla fronte, come una goccia da una stalattite. Giunse dinanzi alla saracinesca del magazzino. Prima di bussare volse lo sguardo alla luna. Nel buio assoluto della notte si sentì più sicuro. Sarebbe stato peggio alla luce del sole, avrebbe potuto vedere più nitidamente i contorni del suo tradimento. Non voleva vedere, voleva solo procedere e sparire. Alzò il bavero della giacca nera, diede una sistemata al codino dietro la nuca e bussò con due colpi insicuri e frettolosi. I tonfi sordi sulla saracinesca gli rimbombarono nel petto. Si guardò intorno controllando se ci fosse qualcuno nei paraggi, ma in quelle tenebre c’era poco da vedere. — Si identifichi — udì chiedere dall’interno.


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— Lucas Sorondo, agente speciale della Diego Garcia Intelligence. — Parola in codice. — La chiave apre le porte di casa — rispose senza esitazioni. La saracinesca si alzò quel tanto che bastava per lasciarlo entrare. Nella stanza c’erano cinque uomini neri. Tre erano sulla trentina, alti e rasati, praticamente identici, delle gocce d’acqua. Il quarto portava i capelli lunghi fino alle spalle, sembrava di una decina d’anni più grande. L’ultimo era decisamente il più anziano, barba bianca e cappello di paglia in testa. Sembravano malridotti, forse anche denutriti. Puzzavano come cani morti, probabilmente erano chiusi lì dentro da giorni, se non addirittura da settimane. Tutti però avevano lo stesso inquietante gelo negli occhi. Parevano prosciugati di qualsiasi linfa vitale. — Facciamo in fretta, non ho voglia di perdere tempo. — Con calma, agente Sorondo. Il più anziano si avvicinò a lui, e ordinò: — Mi mostri quello che ci ha portato. Il suo tono di voce era esangue come il suo sguardo. Sorondo gli porse la sacca e il vecchio aprì la cerniera. — Non si preoccupi, c’è tutto quello che mi avete chiesto. — Lo so. — Se mi beccano sono morto. Il vecchio lo fissò. — Quello che le daremo le servirà proprio a questo. Sorondo inghiottì amaro, mentre il sudore continuava a bagnargli la faccia. — Cosa avete intenzione di fare con questi? Siete in grado di usarli? — chiese. — No. Queste stronzate americane le lasciamo a voi. — Io proprio non vi capisco. Vi troveranno e vi faranno secchi!


Prologo—1

Il vecchio sorrise e lo scrutò più a fondo: — Noi abbiamo già un piede nella fossa. Lucas Sorondo rabbrividì incontrando gli sguardi incoscienti dei cinque. Forse, dopo tutto quello che avevano subito, avevano imparato ad allontanare la paura a calci in culo. Erano occhi colmi di livore, di pazzia, di sofferenza. Ma, per un attimo, a Sorondo parve di scorgervi anche speranza. Scosse la testa e tornò all’affare della sua vita: — Adesso quello che mi spetta, Guardiano. — Era questo il nome con cui era conosciuto il vecchio. Questi tese una mano alla propria destra, rimanendogli incollato con lo sguardo. Uno dei gemelli gli porse una boccetta con un liquido rosso acceso, che la riempiva quasi tutta. La diede a Sorondo. — Siamo sicuri che funzioni? — La dimostrazione della scorsa volta non le è bastata? — Chi mi assicura che è la stessa sostanza e che non sia solo succo d’arancia? Il Guardiano sfilò un coltello dalla tasca, strinse la lama nel palmo, e poi la tirò via con un colpo secco. Sorondo vide il sangue sgorgare dalla mano del vecchio come in un’eruzione vulcanica. Lo guardò in preda all’agitazione, mentre il Guardiano restava impassibile, lo sguardo fisso su di lui. — Posso? Stappò la boccetta e bevve un piccolo sorso. Un bagliore dorato illuminò l’antro. Quando il bagliore svanì, il Guardiano teneva il palmo, perfettamente intatto, bene in vista. — Adesso è convinto? — Merda... — Pare di sì. Sorondo prese la boccetta, fissandola con la bava alla bocca. La sollevò dinanzi a lui come se fosse il calice dell’ultima cena.


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— Ancora una cosa, agente. Mi raccomando, ne faccia buon uso. Per una ferita mortale non basterà un sorso. Sorondo uscì in fretta dal magazzino. Accese la macchina e partì lasciando dietro di sé una nuvola di polvere. Rientrò nella stanza del motel in cui aveva deciso di passare la notte. Dormire sarebbe stato troppo. Continuava a fissare la boccetta come si fa con una figlia; la maneggiava con cura, sentiva un’enorme responsabilità nei suoi confronti. Quella era la chiave della felicità, della definitiva sconfitta della paura, della baldanza nei confronti della morte. Si sentì un Dio, superiore a qualsiasi cosa. Perlomeno avrebbe fatto i conti con la fine solo dopo un centinaio d’anni, quando avrebbe spremuto quella boccetta fino all’ultima goccia. Aprì il cassetto del comodino e ci infilò il biglietto aereo di sola andata per Santo Domingo, dove sarebbe scappato lontano da tutto e da tutti. “Forse, mai troppo lontano” pensò. Sentì bussare alla porta. Strano, in un motel sperduto alle quattro di notte. Preoccupante, se in camera si custodisce un elisir miracoloso. Sorondo sfilò la pistola dalla fondina appoggiata ai piedi del letto e corse alla porta. Dallo spioncino non riuscì a distinguere nulla. Era tutto nero. — Chi è? Non rispose nessuno. Altri due tonfi lo fecero sobbalzare. Si spazientì ancora di più. — Chi cazzo sei? I colpi arrivarono più violenti. — Ok, figlio di puttana! Se non porti via il culo da qui giuro che ti faccio saltare le cervella! Per un paio di minuti non udì più nulla. Né colpi alla porta o movimenti, nulla di nulla. Tornò a controllare dallo spioncino, ma non scorse niente. Allora decise di aprire la porta e mettere


Prologo—1

il naso fuori. Non ne ebbe il tempo. Appena fece scattare la serratura sentì una forza d’urto terribile respingerlo verso l’interno. Qualcuno lo colpì ripetutamente al torace e la pistola gli fu strappata di mano. Li riconobbe. Gli agenti Polan e Sullivan lo sollevarono di peso e lo misero di fronte a Jeremy Bale, che lo guardò disgustato e gli sputò in faccia. — Traditore figlio di puttana. — Vaffanculo, Bale. Lo colpì con un fendente in pieno viso. — Dove sono quei selvaggi del cazzo? — Quale parte del vaffanculo ti è sfuggita? Gli puntò la pistola alla tempia. — Ascoltami, giuda di merda. Se non dici all’istante dove sono nascosti quei dannati selvaggi, giuro che ti faccio secco. E ti assicuro che ne ho una voglia matta. Sorondo guardò l’elisir con la coda dell’occhio. Sarebbe stato un vero peccato morire con così scarso tempismo. — In un magazzino a trenta miglia a sud–ovest di Chamarel. Fingiti me e di’ loro la parola d’ordine: la chiave apre le porte di casa. Apriranno la saracinesca e potrete fare irruzione. Vogliono ricattarvi, e con quello che hanno ricevuto da me possono farlo benissimo. — Una cosa mi sfugge, Sorondo, la più importante. Perché lo hai fatto? Sorondo sorrise pensando all’elisir. — Denaro. — Stronzate. Non hanno un cazzo di niente. — Qualcosa hanno. L’agente Sullivan, un vero e proprio colosso, aveva il viso segnato da una lunga cicatrice che scendeva dall’occhio sinistro fino all’estremità della bocca. Si guardò intorno e vide la


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boccetta appoggiata sul letto. Si avvicinò e la prese tra le mani esaminandola incuriosito. — Giù le mani dalla mia roba! Provò a divincolarsi dalla morsa di Polan, che lo strinse talmente forte da dargli la sensazione di poterlo spezzare da un momento all’altro, come un grissino. Sullivan svitò il tappo dell’elisir e lo mandò giù in un solo sorso. Sorondo sentì il cuore cedere, il volto bruciare come avvolto dalle fiamme. Il sogno di vivere come un Dio era svanito. Cominciò a scalciare e a dimenarsi disperato, sotto gli occhi increduli degli altri tre. Un lampo divampò attorno a Sullivan. Terminato il bagliore il suo volto apparve pulito, con al posto della cicatrice pelle liscia e integra. Gli altri due lo guardarono a bocca spalancata, mentre Sorondo si lasciò cadere per terra in stato semicatatonico. — Sullivan, la tua faccia. L’agente Bob Sullivan, sfigurato da un incidente d’auto dall’età di cinque anni, vide il suo viso immacolato riflesso allo specchio. Sentì un’energia fuori dal comune. Circolava dentro di lui, forte e selvaggia. Non aveva mai provato una sensazione migliore. — Ecco per cosa ti sei venduto. Questa roba è miracolosa. Jeremy Bale fissò incredulo la boccetta vuota, mentre Sullivan continuava ad accarezzarsi la guancia intatta. — È ora di andare. Bale si rivolse un’ultima volta a Sorondo, accasciato in stato di shock ai piedi del letto, mormorandogli: — Avevi ragione tu. In effetti quei selvaggi qualcosa da offrire ce l’hanno. Uno sparo seguì la sua frase. Uscirono in fretta, mentre gli occhi esanimi di Sorondo rimasero a fissare il soffito. Sul lenzuolo una macchia di sangue si spargeva velocemente.


Prologo—1

Negli ultimi istanti di vita Sorondo pensò che era stato a un passo dallo sconfiggere la morte. Ma alla fine, aveva vinto lei. La morte vinceva sempre.


Camp Justice, Diego Garcia Due settimane dopo Gustave era accovacciato al centro della cella buia. Era nudo, il corpo tumefatto e dolorante. La stanza era fetida, puzzava della sua stessa merda. Il suo naso, però, ormai insensibile, riconosceva soltanto l’odore acre del sangue. Provò a ricordare il profumo dei gelsomini, ma fu tutto inutile, non potè sfuggire a quell’odore. Ripensò al mare cristallino di Diego Garcia, ma non vide altro che nero. Eppure Gustave, trattato come un animale e chiamato selvaggio, ricordò di essere stato un uomo. E per quanto potesse risultare assurdo, gli parve, addirittura, di avere anche sperimentato la felicità. Sì, adesso qualcosa gli stava tornando in mente. Le mani nere che coglievano i cocchi, il profumo fragrante del pane appena sfornato, le dita dei piedi affondate nella sabbia, il contatto della pelle con l’acqua fresca nelle giornate torride di Diego Garcia. Tra il setto nasale fracassato e le labbra gonfie parve emergere un sorriso.


Prologo—2

Ripensò ai suoi due fratelli gemelli, identici a lui, come plasmati da un’identica forza creatrice. Sospirò amaramente. Pensò anche a Leon, il quarto fratello, il più grande. Era sempre stato il loro punto di riferimento, saggio e forte, considerato speciale da tutta la sua gente. Sapeva che Leon non li avrebbe delusi, che non avrebbe fallito. Jeremy Bale entrò nello stanzino con altri tre uomini. — Selvaggio, sei tornato a casa, finalmente. Gustave non rispose e si accartocciò ulteriormente su sé stesso. Si consolò pensando che da lì a poco sarebbe tutto finito. I tre uomini gli servirono la dose giornaliera di bastonate. Sempre puntuale. — Se credi di essere un eroe ti sbagli di grosso. I tuoi fratelli si sono dimostrati più ragionevoli. — I miei fratelli sono morti. L’agente esitò un istante. Schiarì la voce e si ricompose: — Niente affatto. Ma moriranno presto se non mi darai i codici. — Sono morti. Bale gli assestò un calcio nello stomaco. Una goccia d’acqua in un oceano di sofferenze. — Dammi. Questi. Maledetti. Codici! — Morirò perché tu non li sappia. — Figlio di puttana. Estrasse una lama dal taschino e, lentamente, gli inferse un taglio lungo l’addome. — Dov’è Leon, dannato selvaggio? Gustave, agonizzante, iniziò a ridere, continuando poi sempre più forte. Ogni respiro doleva come cento aghi conficcati nei polmoni. — Il mio spirito è più forte del mio fisico. Potete farmi quello che volete, non otterrete mai nulla. Bale fu tentato di ucciderlo, ma gli altri due gemelli erano ormai morti e lui gli serviva vivo.


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Si calmò e insieme agli altri tre lasciò la cella. Gustave rimase finalmente solo, supino, a fissare il soffitto. Provò a guardare oltre, immaginando il bel firmamento della sua Diego Garcia, spruzzato da qualche buffa nuvola qua e là. Pianse al pensiero che quel cielo, simbolo di pace e bellezza, adesso era attraversato dai bombardieri strategici statunitensi. Si sforzò di immaginare gabbiani al posto dei Boeing B–52. Finse anche di trovarsi nella sua casetta sul mare e non in una cella della prigione della base militare. Poi vide un susseguirsi di immagini, sfuggite al suo controllo. Credette di essere morto. Si risvegliò, catapultato di nuovo al centro di quella cella. Capì, e rise di gioia. — Tumaini! — urlò con gli ultimi residui di forza. — Tumaini! Indossava un ciondolo, un piccolo corno che gli carezzava il petto. Lo strappò dal laccio e tolse il piccolo tappo posto all’estremità. Scorse la goccia di veleno verdastra all’interno del corno e, senza pensarci, la poggiò sulla lingua. Sibilò le ultime parole, con un flebile alito di forza: — La chiave apre le porte di casa. Morì dopo qualche istante, fiducioso e felice. Da quel giorno trascorsero sette anni.




Florida, Usa Simon Cougar e Antonia Palmer camminavano sul ciglio dell’autostrada deserta. Sotto il sole cocente, l’automobile guasta diventava sempre più piccola alle loro spalle, mentre si dirigevano verso la stazione di rifornimento più vicina. A tredici miglia, secondo uno sgargiante cartellone. Avevano visto passare l’ultima auto una quarantina di minuti prima ma, nonostante si fossero sbracciati urlando come forsennati, il conducente aveva finto di non vederli. Antonia sentì il sudore inzupparle la maglietta, mentre l’aria sembrava priva da qualsiasi residuo di ossigeno; l’asfalto ondulava convulsamente davanti ai loro occhi, le scarpe parevano attaccarsi al suolo e ogni passo pesava mezza tonnellata. Aprì un altro bottone dalla camicetta, dando respiro alla cute ricoperta di chiazze rosse. Anche la zazzera corta che aveva adottato da un po’ non le sembrò abbastanza. Avrebbe voluto staccarsi i capelli a forza. “In fondo a cosa servono i capelli? Ricresceranno, no?”. Storse il naso ascoltando i suoi stessi pensieri, convinta, quasi, di stare per impazzire.


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— Hai una macchinetta per capelli? — Cosa? — Lascia stare. Simon seguì il suo consiglio e cambiando espressione disse: — Abbiamo sempre la solita sfiga. Non sappiamo neanche se e come riusciremo a raggiungere l’aeroporto e, come se non bastasse, abbiamo guastato l’auto a noleggio. Secondo te vorranno un risarcimento? Perché insomma, se l’auto fosse stata più affidabile noi non ci troveremmo in questa situazione. La colpa non è sicuramente nostra! Piuttosto siamo noi a dover chiedere i danni! Antonia ascoltò attentamente le parole di Simon, e per un attimo l’idea di rasare i capelli non le parve più tanto assurda. Si sentiva la testa in preda alle fiamme, come la portata principale di un barbecue primaverile. Ma forse in quella giornata persino uno gnu dell’Africa settentrionale si sarebbe lagnato per tutto il tempo. Antonia si coprì le guance con le mani, tozze e bianche a confronto del viso rosso fuoco, procedendo sempre più lentamente, fino a crollare sul ciglio della strada. Simon non se ne accorse, e continuò imperterrito nel suo cammino. Dopo qualche metro si voltò e vide Antonia con la punta delle dita di una mano contro il palmo aperto dell’altra. — Break! — urlò, mentre poggiava le mani sui fianchi, evidentemente affaticata. — E tu saresti una giocatrice di pallacanestro? Gettò per terra lo zaino e si sedette lì accanto. Antonia lo guardò minacciosa, e provò ad abbozzare una risposta puntandogli contro un dito accusatore. — Ehi! — fu però l’unica cosa che riuscì a dire. Finì la frase nella sua testa: “Sarò anche stordita, ma non puoi prendermi in giro”. — Te la prendi subito, come al solito. Sei permalosa.


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Simon mise le braccia attorno alle ginocchia e attese che Antonia riprendesse fiato. Dopo qualche secondo lei rispose: — E tu sei tirchio. Nessuno è perfetto. — Anziché criticare perché non risparmi il fiato e riprendiamo a camminare? Di questo passo la vacanza alle Maldive ce la scordiamo... — Dopo la giornata di oggi andrei più volentieri in Siberia. — Adesso basta, alzati! Non ne posso più di biblioteche e numeri. Ho bisogno delle Maldive! Non ho passato gli ultimi dodici mesi come te, tra tiri al canestro e passeggiate salutari. Le porse una mano aiutandola ad alzarsi. Antonia rispolverò il dito accusatore e ripropose il consueto «Ehi!». Ripresero a camminare. Lei ripensò alle parole di Simon. Forse l’idea di trasferirsi a centinaia di miglia di distanza per il suo stupido sogno era stata pessima, avrebbe fatto meglio a continuare gli studi o a trovare un lavoro serio, anziché continuare a prendersi in giro. Tanto nella WNBA non ci sarebbe mai arrivata. Lo sapeva bene. Aveva giocato dodici minuti nelle ultime dieci partite di una misera squadra di terza categoria di Miami. Era questa la sua aspirazione? Fare la riserva fissa in una squadra, diciamo così, di merda? Perlomeno la pagavano per campare... sì, in una topaia condivisa con due compagne di squadra. Forse avrebbe fatto meglio a restare a casa sua, a Lehanneside. — Lehanneside? — Glielo chiedevano spesso. — Piccola cittadina nei pressi di Boston — rispondeva. “Che distrugge i sogni e ti tiene con i piedi ben saldi per terra. Anzi, ti lascia sprofondare come le sabbie mobili, fino a inghiottirti” avrebbe voluto continuare. Ma lo teneva sempre per sé. Simon non aveva di questi problemi. Aveva finito gli studi laureandosi in Economia alla Florida State University di Miami, e il suo futuro pareva spianato.


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Scopavano, Antonia e Simon. Quando finivano, però, lei lo stringeva forte, come a imprigionarlo dentro di sé, lui invece le dava una pacca sulla spalla e poi si addormentava senza una parola, o si rivestiva in un lampo e sfrecciava via senza neanche guardarla negli occhi. Antonia lo amava in tutto e per tutto. Lo amava nonostante lui fosse un pessimista irrecuperabile, scontroso, burbero e apatico. Ma per Simon lei era solo una scopata. Un giorno avrebbe sposato una bella bambola tutta tette e vomito post–pasto da abbordare con una macchina nuova fiammante, e presentandosi con una mazzetta di denaro, profumata e rassicurante, anziché con un mazzo di fiori. Antonia lo amava, anche se lui non era in grado di apprezzare il suo sorriso dolce. Riusciva a vedere soltanto il fisico rotondo e possente, le tette flosce, il culo duro. Non che lui fosse mister universo: capelli castani a spazzola e naso adunco. Era alto e slanciato ma aveva un’andatura goffa. Ma quella mazzetta, lui ne era sicuro, un giorno lo avrebbe aiutato. In tutto. — Antonia? Lei si riscosse tornando alla realtà e rispose: — Dimmi. — È il caso di avvertire gli altri? Ci aspettano stasera da Justine e PJ. — È il caso. — D’accordo. Ehm, ho terminato il credito — disse scuotendo il cellulare. — Ecco, tieni. — Poi mentre gli porgeva il suo, Antonia pensò: “Tirchio di merda”. Lui compose il numero e, non appena ricevette risposta, disse: — Houston abbiamo un problema.


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Casini Editore Via del Porto fluviale, 9/A – 00154 Roma www.casinieditore.com info@casinieditore.com Immagini © 2011 iStockphoto LP Finito di stampare nel mese di febbraio 2011 Stampato per Casini Editore dalla Arti Grafiche La Moderna — Roma



Mettiamo caso che io ti stessi dicendo, in questo preciso istante, di conoscere la combinazione. Tu come la prenderesti?

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