3 - Arianna Formentin

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Little Dreamers


Š 2009 Valter Casini Edizioni www.casinieditore.com ISBN 978-88-7905-140-8


Arianna Formentin 3

Casini Editore


Non c,erano gatti sul tetto di Lavinia

La casa sporgeva i suoi artigli sul fiume. Lunghe alghe si lasciavano pettinare dal flusso di ossidiana. Il cielo rifletteva il loro buio privato, senza osare mostrare nessuna delle sue stelle. Piccole finestre si arrampicavano lungo la parete, portando luce nel labirinto di spazi custodito all’interno. Di solito almeno. Ora non c’era luce da portare. Più in alto, poco sotto il tetto grigio, un singolo raggio compiva il percorso inverso, dalla stanza alla notte di fuori. Non illuminava lontano comunque. Nemmeno un faro avrebbe avuto molto successo quella notte, e quello era solo un lumino per bambini. Lavinia stringeva il cuscino, seduta sul letto. Accanto, una vecchia parlava. Raccontava antiche leggende del suo popolo, e le sue parole sembravano lottare per uscire da quella stanza, oppresse dalle pareti, dal tetto, dall’esistenza stessa di un confine di pietra chiamato casa. – E così, Lu mia bella, il piccolo berrà l’ultima acqua del mondo. Un bambino venuto dalle terre del sole. Verrà con il vento e spazzerà via le nuvole, e non cadrà più pioggia». – Mai più? – chiedeva Lavinia. – Finché l’ultima lacrima non si sarà asciugata. – E perché? A quel punto la vecchia sospirava. – Non lo so – diceva – non lo so davvero. Forse


perché è triste. – Non mi piace questa storia nonna. – Neanche a me. – E perché me la racconti sempre? La vecchia non rispondeva a questa domanda. – Raccontami della splendente. Raccontami della bimba d’oro. – Va bene Lu. Però poi dormi. Fuori gli alberi strusciavano e strepitavano, come un pubblico educato ed entusiasta. Un uccello lanciava il suo richiamo. Pareva allarmato. Nella stanza Lavinia non dormiva ancora. Guardava il suo piccolo sassofono nuovo brillare nella penombra. Era così bello.


Tre dei piu diversi

Camminava nella nebbia concentrandosi sulle sensazioni che provenivano da ogni angolo del suo corpo. Riceveva messaggi sicuri e ottimisti. Non una singola cellula si lamentava, tutto era perfetto, pronto, quasi come se il corpo avesse dovuto adattarsi a entrare in una delle fantasie romanzesche partorite dalla sua mente annoiata. Sentirsi così era una cosa buona, certo, ma anche frustrante, perché non sarebbe successo niente, né quel giorno né mai. Nella nebbia fitta, Gaia si chiese quanto sarebbe stato stupido fantasticare di draghi, cavalieri, sirene, ragazzi perfetti e ragazzi perfetti single, di altri mondi in cui sentirsi a casa. Decise che non gliene fregava niente di quanto fosse stupido. Prelevò un film a caso dal suo archivio mentale e cominciò a rielaborarlo, seguendone le regole o sovvertendole a seconda della se stessa che andava costruendo. La regola di base era un sottoprodotto della coerenza: in qualche modo le cose avrebbero dovuto finire per confermarsi a vicenda, come in una catena di segni, una via mistica per il realismo. C’erano storie che vivevano pochi minuti o pochi giorni, ma un paio sopravvivevano da anni, vite parallele al rallentatore. Il tempo reale non bastava: né per elaborare gli eventi esterni né per ricostruire i processi mentali dei personaggi intorno.


Così Gaia camminava nella nebbia, tentando di perdersi nei suoi pensieri, implorando una qualsiasi entità di passaggio di mostrarle qualcosa per cui valesse la pena alzare la testa dal cuscino. Difficilmente l’Altro che si trovava in quella nebbia si sarebbe definito un’entità di passaggio, ma di fatto non era che quello. E comunque non era né il tempo né il posto giusto per motivare la propria esistenza. Tirò dritto. Il suo passaggio non influenzò la nebbia, l’aria umida o i pensieri di Gaia. – Tre dei più diversi, – pensava Gaia – tre persone legate da un vincolo perfetto erano la più infallibile forma di organizzazione. Tre era il primo numero per cui il sistema della maggioranza dava valore alle scelte, e questa era la sua forza e la sua rovina. Quale legame avrebbe potuto sopravvivere a un sistema in cui la differenza tra i tutti e l’unico era così irrimediabilmente minima? Forse era questa selezione naturale a determinare la perfezione del triangolo. Facevano eccezione i Beatles – Sempre che Ringo Starr si possa considerare come quarto. – Ma l’amore cambia tutto, no? – pensava l’Altro – Porta la felicità per due e la distrugge per uno. E non è questa una prova ben più dura della democrazia, piccola Gaia? – Questa volta la nebbia non poté ignorare il messaggio e si piegò a trasportarlo sulle sue gocce. Gaia fu assorbita da una grande zona di nebbia arancione. L’Altro stesso ci mise qualche secondo a riconoscere la sagoma indistinta di un autobus. Gaia trovò un posto in fondo, tra una signora con un cane e un vecchio con un vecchio cipollone. Non si chiese come avesse potuto riconoscere l’autobus linea 11


quando a stento si riconoscevano i contorni delle case: l’attrazione magnetica delle cose scontate era una guida più precisa di un cane per ciechi. Eppure, nel salire su quell’autobus, aveva avuto la sensazione di aver perso la sua occasione, per distrazione o per vergogna, proprio in quel momento che appariva così perfetto. Rinunciò a rimettersi a pensare e cercò di programmare la sua vita nel prossimo futuro. Questo esercizio la tenne impegnata per un paio di fermate di troppo, lasciandola sperduta in una nebbia ancora più fitta. Normalmente non le sarebbero serviti più di due minuti per raggiungere una qualunque casa conosciuta, a pochi metri da quella fermata, ma in quel momento avrebbe potuto trovarsi in mezzo a piazza Garibaldi, come in via Giotto, come in Canada, come nel centro di Londra: intorno c’era solo un indefinibile mare grigio che volgeva al nero rossiccio della nebbia notturna. La situazione aveva un che di onirico e vagamente avventuroso, ma non era affatto eccitante, era solo frustrante da far schifo. Senza contare che quello era un posto da maniaci – Sempre che siano maniaci con la vista a raggi X. Era incerta se mettersi a girare come una bussola sperando di capitare nella direzione giusta, o seguire una luce per raggiungere un lampione a cui aggrapparsi facendosi poi strada lungo il marciapiede, o ancora se restarsene lì ad aspettare. Scartò subito quest’ultima soluzione – vile, pericolosa e improduttiva, indegna dei personaggi che creava – vergognosamente attraente per la Gaia che ora poggiava i piedi sull’asfalto. Optò per la prima idea, anche se era un espediente infantile e irrazionale, con alte probabilità di finire sotto una macchina. Cercando di camminare in linea


retta, si avviò nella direzione che le sembrava la più giusta. Intanto si pentiva di non aver semplicemente aspettato di arrivare al capolinea e poi di nuovo alla civiltà, o almeno aver messo in carica il telefonino la sera prima. Nessuna deviazione – o almeno sperava – verso chissà cosa. Cercò di annullare la superficie rugosa della realtà, sorvolarne la precarietà; cercò di sentirsi in uno dei suoi sogni, assaporarne il gusto sottile, a mezza via tra le lacrime e la cioccolata. Ma ogni passo la portava più lontana da qualsiasi certezza, la sicurezza di prima le sembrava un’illusione. – Basta nebbia – pensava – sono una vigliacca, va bene? Pronta a rinunciare ai miei sogni in cambio della certezza di essere da qualche parte, così, impaurita per un po’ di stupido vapore acqueo in sospensione. Basta nebbia, basta, ho detto. La nebbia si aprì quasi per beffa, lasciandola davanti al cancello di casa, infuriata e depressa, con quel senso di occasione persa che faceva a pugni con una speranza irrazionale, un’illusione pronta a dissolversi.


La fontana dell,amore odio

– Le cose succedono mentre si cammina dall’autobus ai luoghi, e dai luoghi all’autobus – pensava Gaia, camminando nel grigio ostinato di un inutile pomeriggio invernale. Il muro di fianco al marciapiede era grigio, indistinguibile dal cielo, dai piccioni, dall’asfalto. Era ruvido, con un’aria collosa di inquinamento e realtà fallimentari. Le poche scritte a bomboletta non facevano niente per tentare di ravvivarlo, niente più che firme, scarabocchi politici e amorosi sbiaditi e svogliati. I piedi di Gaia scandivano il tempo sulla pietra del marciapiede, con il suo disegno monotono di linee e spazi, piede sulla piastrella, piede sull’altra, uno, due, uno... disappunto, piede sulla linea... Un semaforo tentava con poca convinzione di fermare le macchine, che andavano per conto loro, ingrigite e spigolose, i colori splendenti divorati dalla città appiccicosa, dal fumo e dalla noia. Il verde di un albero dall’altra parte non si distingueva dal marrone del tronco, che a sua volta si perdeva nell’asfalto. Ai piedi dell’albero, due figure; il blu acceso della giacca di lei evidenziava la luminosità del beige caldo del giaccone del suo compagno. Diana e Tom si baciavano nel mezzo dell’inverno, con quel loro modo di farlo, non invadente, quasi decorativo, naturale, profondamente romantico.


Il semaforo si arrese e concesse qualche secondo di verde. Gaia attraversò la strada, verso di loro, chiedendosi come sempre quale prezioso gioiello avrebbe spezzato, con la sua sola presenza. – Ciao Gaia... come va? – chiese Diana, radiosa e serena come sempre. La piccola Diana era quanto di più vivo e puro Gaia avesse mai incontrato. Solo un anno meno di lei, e ancora tutta quella vivacità, quell’inconsapevolezza del corpo e della fatica che rendeva così affascinanti i ragazzi del primo anno, e suscitava in lei invidia e nostalgia. E poi Diana aveva speranza, ne aveva da vendere. Una volta Gaia si era svegliata nella notte, persa nel buio, tra due sogni troppo diversi per essere conciliati. Sentiva il bisogno di ricostruire le regole di un mondo accogliente. Aveva pensato che se c’era qualcuno in grado di crearle, quella era Diana. E Tom. Gaia li aveva amati entrambi. Prima. Due vite intorno a cui gravitare, due altri da sé, perfetti. I perfetti tre dei bambini e dei sognatori. Ma l’amore cambiava tutto. – Come al solito. E a voi? – Bene, sì... vieni alla fermata? – Sì, va bene... cosa fate? (È chiaro cosa faranno e in ogni caso non con te in mezzo. Togliti dalle scatole e lasciali in pace). Nessuna risposta. Intorno, il parco pubblico era illuminato dal calore della coppia. Gaia stessa navigava in quella luce, ma sentiva di esserne estranea, una macchia d’ombra sudicia, che catturava quella forza e la dilapidava, la distruggeva, incapace anche di nutrirsene. Se solo


avessero cercato di allontanarla apertamente, avrebbe potuto arrabbiarsi, opporsi, assorbire a forza quella felicità, anche a costo di rovinarla. Ma non era così, e solo il suo senso di ciò che era giusto o sbagliato la obbligava a non lasciarsi toccare da quella luce. Era sbagliato: non era un giusto e ammirevole essere felice per loro, ma qualcosa di molto simile al furto, o al cannibalismo. Gaia si sentiva marcia e cattiva nel profondo, ma nello stesso tempo credeva di avere ragione. Avrebbe voluto essere in grado di sentirsi un insetto di fronte a un tempio maestoso, poter guardare al loro amore con reverenza, ma questo non pensava che sarebbe mai stato possibile. La fontana dei Giardini dell’Arena non era maestosa, né antica, solo un blocco di cemento, sormontato da una sfera dello stesso materiale, di dubbio gusto artistico. Eppure, con i suoi scarabocchi a pennarello, che resistevano da anni agli schizzi d’acqua, aveva per l’Altro un significato speciale, che neanche gli antichi resti intorno potevano eguagliare. Il parco era la massima espressione del perbenismo civico del quartiere centrale: un viale largo per i pedoni; due piccoli sentieri ciclabili laterali, a senso unico; cestini ovunque, indicati da cartelli; cespugli da fiore ordinati, potati uniformemente ai lati dei viottoli; grandi alberi a intervalli regolari; prati all’inglese; una grande vasca con una quantità di pesci rossi matematicamente studiata. D’altro canto, si era cercato di costruire una scenografia fiabesca, con sentieri affiancati da staccionate di cemento, che simulavano con un discreto successo radici millenarie; grotte semisotterranee che parevano aver contenuto storie, statue di veneri, ma che ora


mostravano solo panchine di finta pietra; un fossato che tentava di dare l’illusione di portare la sua acqua limacciosa da qualche parte. A destra, la Cappella era soffocata dalla struttura d’ingresso, che la nascondeva, svolgendo la duplice funzione di regolare l’umidità, per non danneggiare i preziosi affreschi, e di dare al tutto un aspetto moderno, tecnologico, artisticamente corretto. Più in là, uno spazio per avvenimenti all’aperto, uno spiazzo di ghiaia bianca abbagliante, inutile nell’inverno di quella città morta. Intorno si vedevano, ma non si notavano, le grandi rovine di quella che era stata un’arena romana, dalla quale i giardini prendevano il nome. Tutto era fatto per essere notato, apprezzato. Eppure in tutto quello sforzo ornamentale, l’unica cosa che avesse un qualche senso era quel piccolo abbeveratoio, con tre spruzzi d’acqua che lottavano senza sosta contro la gravità. In estate, i ragazzini si divertivano a tappare con un dito uno o due dei fori, così che la pressione dell’acqua si concentrasse nel terzo getto, bagnando qualche malcapitato. Ma in inverno non era nemmeno un oggetto di riso, solo un brutto agglomerato di cemento. Solo per l’Altro era qualcosa di diverso. Per lui, e forse in parte anche per Gaia.


I tre dei sogni dei bambini

– Ho sete – disse Diana, dirigendosi all’improvviso verso la fontana, seguita da Tom e Gaia. – Guarda – esclamò Tom – tre spruzzi... è fatta apposta per noi... (non hai nemmeno idea...) – È... la fontana dell’amicizia eterna... (Tom non sai cosa...) – Sarà il nostro legame! O forse Tom sapeva cosa. Gaia non poteva esserne certa. Conosceva Tom da anni, e da anni lo guardava con un interesse che si faceva via via più profondo. C’era qualcosa in lui, una forza, una maturità che a Gaia mancava, e di cui sentiva di aver bisogno. Perché un giorno avrebbe toccato anche la sua vita. La vita di Tom, la sua storia. Gaia sapeva che veniva dal sud, che sua madre era pugliese… poco altro. Niente che spiegasse perché non ci fosse nulla al mondo in grado di metterlo in crisi, né perché non facesse altro che distribuire favori a tutti, continuamente. A volte Gaia aveva la sensazione di sfruttarlo, di imporsi, ma era difficile capire cosa lui stesse pensando, o anche solo la direzione generale dei suoi pensieri, il suo umore, i suoi desideri. Non era necessità di compiacere – o servilismo – questo era chiaro. Ma il modo in cui si comportava, aiutando chiunque, anche


chi non se lo sarebbe mai aspettato, era sconcertante. In un certo senso, secondo Gaia, questa generosità gli dava un grande potere sugli altri; era un sostegno importante per molti e un pilastro indispensabile per alcuni. Non era possibile capire se lui se ne rendesse conto. Né se si rendesse conto di cosa Gaia provava per lui. E adesso lui era lì, a legarsi a lei e a un altra, per gioco. Per scherzo. Uno scherzo... un gioco di tre ragazzini, in un’epoca sterile... il giuramento di un defunto ordine medievale... solo un agglomerato di cemento, certo, di dubbio gusto artistico... un anacronistico centro vitale. L’Altro guardò in silenzio. Non contava, per lui, che quello fosse solo un gioco. Gaia in qualche modo sapeva, ed era stupita, ma era assurdo sperare in un cambiamento, in quel pomeriggio grigio... era assurdo sperare che fosse venuto il momento. – Siamo davvero in tre? – si chiedeva, fuggendo da sola verso casa – I tre dei sogni dei bambini? E se anche fosse così, ora cosa succederà? Che ne sarà del mondo, della mia vita, delle nostre vite? Sentiva che se ora non fosse cambiato niente, non sarebbe sopravvissuta, avrebbe perso per sempre la chiave dei sogni e il contatto con la realtà. Ma una parte di sé le diceva con certezza che non era successo niente, e che sarebbe andata avanti comunque, perché era così che funzionava e basta. Diana e Tom rimasero per un attimo a guardare Gaia che si allontanava da sola, poi si avvicinarono per scambiarsi un bacio, ma questo non ci fu, e le loro labbra si fermarono a pochi centimetri di distanza, incerte e quasi imbarazzate. Il vento si era fatto im-


provvisamente gelido, e i due si sentivano osservati. Minacciati. Gaia era già lontana, nelle vie del centro, tra le vetrine luminose che non avevano niente da dirle. Era da sola, come prima, non era cambiato niente. Solo quello stupido vento petulante, che si infiltrava nei vestiti e nei pensieri, minaccioso come un dovere dimenticato che lotta per riaffiorare, una macchia non ancora scoperta in un dipinto che ha divorato mesi, una crepa in un muro perfetto. Abbandonò la sua strada, entrò in un multisala, pagò il biglietto del primo film disponibile, comprò un pacco gigantesco di popcorn e scelse una sedia. Non l’aveva mai fatto prima, il cinema era sempre stato un rito complesso, un fatto di famiglia progettato a lungo. Il film era stupido, certo, una storia d’amore americana come ce n’erano tante... ma almeno era una storia, con una sua trama, un inizio, una fine, dei dialoghi sensati e una morale chiara e semplice, la solita: l’amore vince su tutto, la coppia perfetta si riunirà sempre, tutto porta al lieto fine, vogliamoci bene. – Peccato solo che questo sia valido per qualcun altro... sono sempre le altre coppie ad avere la felicità... Tornò all’ingresso, prese un biglietto per un altro film, un altro bidone di popcorn, una coca cola e due pacchetti di noccioline per buona misura. Salì le scale verso l’altra sala, si sedette nel posto migliore che riuscì a trovare e attaccò i popcorn. Erano appena cominciati i trailer, dopo la pubblicità, quando la pellicola prese fuoco. Gaia aveva visto quell’effetto raccapricciante una volta, guardando Nuovo Cinema Paradiso. Allora era la faccia di Totò, proiettata sul muro di una chiesa, che veniva sciolta e corrosa dal centro ai bordi.


Ora che accadeva lì, sul grande schermo, anche il cinema sembrava divorato da quelle stesse fiamme. Le file di sedie scomparivano dai bordi, nella sala deserta. L’aria stessa era lucida e ribolliva, sciogliendosi in riflessi bruni di plastica torrefatta. Il vento che prima l’aveva assillata si fece strada nei fori lasciati dalle bolle di celluloide, ravvivando quella gelida fiamma invisibile. Eccoti – sibilava – sei qui e ti vedo, le pareti non contano, io sono qui. Ora le toccava la pelle, la accarezzava in volute di fumo freddo, acido, carbonizzato. Poi l’impressione passò, e sullo schermo presero a scorrere tranquille immagini in bianco e nero, un trailer. La normalità era tornata. Si sentiva un piacevole ticchettio, quello di un vecchio proiettore, mentre a scatti la cinepresa si muoveva attraverso un giardino all’antica, il parco di una villa dei primi del Novecento. Quel giorno lontano c’era stato il sole. Le foglie erano lucide, brulicanti di riflessi. Forse aveva piovuto da poco. Con un po’ di fantasia Gaia avrebbe potuto immaginare il fischio degli uccelli. Le immagini erano familiari, tranquille. Eppure erano troppo familiari, erano completamente familiari, più di come avrebbe potuto esserlo un ricordo proprio. Gaia era impietrita, perché aveva la sensazione di sapere dove stava andando il cineoperatore, eppure non riusciva a ricordare la sua destinazione. E ora la vedeva, in lontananza, una fontana rotonda. Seduta sul bordo c’era una donna, di spalle. Nuda. I capelli scuri e lunghissimi che le scendevano lungo la schiena erano bagnati e aggrovigliati. Sedeva sul bor-


do di quella fontana, ed era perfettamente logico che si trovasse lì, perché... I popcorn erano sparsi per terra, il contenitore era rotolato chissà dove. La coca cola aveva inzuppato la sedia di fianco, la lattina mezza vuota si era incastrata chissà come tra lo schienale e la seduta ripiegata, schiacciandosi parzialmente. Lo schermo rifletteva la sua luce come qualsiasi schermo in qualsiasi cinema, ma Gaia non osò guardarlo. Sgattaiolò fuori, bevendo le ultime gocce rimaste di coca cola. Si rannicchiò nell’eskimo, il viso avvolto per metà nella kefiah, e infilò la porta. Il vento non tentò neppure di toccarla, aveva già eroso le sue mura, e ora che era nuda e indifesa, non si interessava più a lei.


INDICE

Non c,erano gatti sul tetto di Lavinia Tre dei piu diversi La fontana dell,amore odio I tre dei sogni dei bambini Chiudere gli occhi al vento Lacrime di un bambino, luce solare Barche a vela su libri di storia Ampi binari rettilinei Liberta d,azione Era come essere cresciuti Summer rain doesn,t fall here Inaspettata la luce Quello che siete, cio che non siamo Ero piccola e ascoltavo parlare


Non voglio essere testimone Erano solo linee di troppo Buona fortuna carnefice Vane parole anni sessanta La ballata di un soldato tedesco Si allunga tra le rive Caldo come un inizio, e la cioccolata Pure ho paura in tempo di pace Vorticose geometrie concentriche Friabili impronte accartocciate Bora nera Cattedrale nel deserto Ci facemmo strada Non permetterti di fallire Bianca Madonna dei dispersi Going too back Scivola lungo i miei giorni


Nuova strada sotto i piedi Sono strani sono contenti E chiaro lo sguardo del gatto di strada Altri da noi Nella casa dei figli di ieri Nuovi passi sugli ampi binari Scivolavamo ignari verso casa La prima notte ricordo era buio Salgo passo passo verso casa Il punto dei fiori gialli Ancora noi a casa La mia ultima notte d,estate Verso la fonte L,ultimo sorso di sete Guarda l,amore ritrovato


Casini Editore via del Porto Fluviale, 9/a – 00154 Roma www.casinieditore.com info@casinieditore.com Progetto grafico www.morriscasini.com Finito di stampare nel mese di ottobre 2009 Stampato per Casini Editore da Eurolit Srl – Roma


« Tre dei più diversi, – pensava Gaia – tre persone legate da un vincolo perfetto erano la più infallibile forma di organizzazione. Tre era il primo numero per cui il sistema della maggioranza dava valore alle scelte, e questa era la sua forza e la sua rovina. Quale legame avrebbe potuto sopravvivere a un sistema in cui la differenza tra i tutti e l’unico era così irrimediabilmente minima? Forse era questa selezione naturale a determinare la perfezione del triangolo. Facevano eccezione i Beatles – Sempre che Ringo Starr si possa considerare come quarto. »

16,90 euro ISBN 978-88-7905-140-8

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788879 051408

Casini Editore www.casinieditore.com info@casinieditore.com


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