A Elizabeth e Christina
Avi Le avventure di Charlotte Doyle Š 2015 Editrice Il Castoro Srl viale Abruzzi 72, 20131 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Traduzione di Giuseppe Iacobaci Titolo originale: The True Confessions of Charlotte Doyle Copyright Š 1990 Avi Published by arrangement with the Author. All Rights Reserved ISBN 978-88-8033-904-5
Avi
le avventure di
Charlotte Doyle Avi
le avventure di Traduzione di Giuseppe Iacobaci
Una premessa importante Non a tutte le ragazzine di tredici anni accade di essere accusate di omicidio, subire un processo e vedersi riconosciute colpevoli. Ma accadde a me, e la mia storia, benché avvenuta tanti anni fa, merita di essere raccontata. Siate avvisati, però: quella che vi attende non è una parabola edificante per giovinette e anime candide. Se le idee forti e l’azione vi turbano, abbandonate adesso la lettura e trovate un’altra compagnia per il vostro tempo libero. Per parte mia, intendo raccontare la verità esattamente così come io la vissi. Prima di cominciare, tuttavia, bisogna che sappiate qualcosa su di me, su chi ero nel 1832, l’anno in cui occorsero quegli eventi. All’epoca io mi chiamavo Charlotte Doyle. E benché io porti ancora quel nome, oggi non sono più, per motivi che presto scoprirete, la stessa Charlotte Doyle. Come descrivere la persona che ero? All’età di tredici anni ero a tutti gli effetti una ragazzina, non avendo ancora cominciato a prendere le fattezze, men che meno l’animo, di una donna. Ciononostante la mia famiglia mi abbigliava da giovane signora, i miei bellissimi capelli coperti da un cappellino, gonna ampia, stivaletti alti, irrinunciabili guanti bian–1–
chi. Ambivo con tutta me stessa a diventare una lady. Non era soltanto la mia aspirazione: era il mio destino. Un destino che avevo abbracciato con entusiasmo, senza riserve o tentennamenti di sorta. In altre parole, all’epoca di questi eventi non ero niente di più e niente di meno di quel che apparivo: una ragazzina perbene come tante, figlia di genitori facoltosi. Benché americana di nascita, vivevo in Inghilterra dall’età di sei anni. Mio padre era stato inviato lì per conto di un’azienda tessile americana. Ma all’inizio della primavera del 1832 aveva ricevuto una promozione ed era stato richiamato in patria. Fervente sostenitore della norma e dell’ordine, mio padre aveva deciso che avrei comunque portato a termine il mio anno scolastico anziché interromperlo a metà. Mia madre – che non avevo mai visto dissentire da lui – aveva appoggiato la decisione. Avrei raggiunto successivamente i miei genitori, e mio fratello e mia sorella minori, nella nostra dimora di Providence, nel Rhode Island. Perché non giudichiate avventata la scelta dei miei di farmi viaggiare senza di loro, vi mostrerò quanto invece avveduta, logica addirittura, fosse la loro decisione. In primo luogo, avevano considerato che restando a convitto alla Barrington School – distinto collegio per giovinette diretto dall’esimia, stimatissima preside Miss Weed – non avrei perso l’anno scolastico. In secondo luogo, avrei attraversato l’Atlantico – un viaggio che poteva durare da uno a due mesi – in estate, durante la pausa dalle lezioni. –2–
Terzo, la mia traversata si sarebbe svolta su una nave posseduta e gestita dall’azienda di mio padre. Quarto, il capitano di questa nave era ben noto – così mi aveva riferito mio padre – per la rapidità e l’efficienza delle sue traversate atlantiche. E ancora, due famiglie di conoscenti dei miei genitori avevano prenotato anche loro la traversata. Gli adulti avevano promesso di vegliare su di me. Mi era stato detto che queste famiglie comprendevano anche dei bambini (tre femminine e un maschio, tutti adorabili) e non vedevo l’ora di conoscerli. Così, se considerate che avevo ricordi ben vaghi della mia prima traversata verso l’Inghilterra all’età di sei anni, comprenderete che mi aspettavo un viaggio appassionante. Una grande e splendida nave! Allegri marinai! Niente scuola né doveri! Compagni della mia età! Un’ultima cosa. Avevo ricevuto da mio padre un quaderno rilegato, con il compito di tenere un diario giornaliero del mio viaggio per l’oceano, così che il resoconto fosse prova del valore educativo di quella mia esperienza. C’era da aspettarselo, da lui! Mi aveva informato che non solo avrebbe letto e commentato il mio diario, ma avrebbe anche posto particolare attenzione all’ortografia, non proprio il mio punto di forza. È grazie a quel diario che posso oggi riferire con perfetto dettaglio tutto quel che accadde nel corso di quella fatidica traversata dell’Atlantico che compii nell’estate del 1832.
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Parte prima
1 Nel tardo pomeriggio del 16 giugno 1832, poco prima del crepuscolo, mi ritrovai a camminare per l’affollata zona portuale di Liverpool, in Inghilterra, al seguito di un uomo chiamato Grummage. Mr Grummage era un socio in affari di mio padre, e come mio padre un vero gentleman. Era lui la persona incaricata dai miei genitori a definire gli ultimi accordi per la mia traversata verso l’America. Il suo compito era quello di venire a prendermi al mio arrivo con la diligenza che arrivava dal collegio, e poi imbarcarmi sana e salva sulla nave che mio padre aveva già scelto. Mr Grummage indossava una redingote nera e un lungo cappello a cilindro che aggiungeva ulteriori centimetri alla sua già considerevole statura. Il suo volto olivastro, tetro, non lasciava trapelare alcuna emozione. Lo sguardo era da pesce morto. «Signorina Doyle?», chiamò mentre scendevo dalla diligenza a Liverpool. «Sì, signore. Mr Grummage?» «Sono io.» «Lieta di conoscervi», dissi, con un inchino. –7–
«Altrettanto», mi rispose. «Ora, signorina Doyle, se vorrete essere tanto cortese da indicare quale sia il vostro baule, ho con me un facchino che si occuperà di trasportarlo. Vorrete poi usarmi la cortesia di seguirmi, e tutto andrà nel modo atteso.» «Posso dire addio al mio chaperon?» «È indispensabile?» «È stata molto gentile.» «Affrettatevi dunque.» Mi affannai a individuare il mio baule, corsi ad abbracciare Miss Emerson, la mia deliziosa compagna di viaggio, e le diedi l’addio fra le lacrime. Poi mi affrettai a raggiungere Mr Grummage, che già si era messo in marcia. Un facchino dall’aria rozza arrancava dietro di noi con il mio baule sulla schiena. Il nostro piccolo corteo raggiunse il molo in buon ordine. La vista di quella massa di navi che si stendevano dinanzi a noi – un intrico di alberi e pennoni fitto come le setole di una spazzola – mi colmò subito di entusiasmo. Ovunque mi voltassi vedevo altissime cataste di merci rare e preziose. Balle di seta e tabacco! Casse di tè! Un pappagallo! Una scimmia! Oh, sì, l’effluvio del mare era inebriante per chi come me non conosceva molto più del profumo dell’erba tagliata e dei prati della Barrington School. E poi, le torme di lavoratori, marinai, mercanti – uomini rozzi, nerboruti – che davano vita a un’esotica baraonda tardopomeridiana... Nell’insieme era un caos straordinario, e, pur se un po’ minaccioso, proprio per questo esaltante. –8–
Avevo come la sensazione che fosse uno spettacolo allestito lì soltanto per me. «Mr Grummage, signore», gli dissi a voce alta per farmi udire in mezzo al baccano. «Qual è il nome della nave sulla quale dovrò viaggiare?» Mr Grummage si fermò un istante a guardarmi come stupito del fatto che mi trovassi lì, figurarsi che gli porgessi una domanda. Poi da una delle tasche cavò un foglio. Lo guardò stringendo gli occhi, e disse: «La Seahawk». «Batte bandiera britannica o americana?» «Americana.» «Un mercantile?» «Certamente.» «Quanti alberi?» «Non saprei.» «Le altre famiglie saranno già a bordo?» «Così credo», fece lui, con tono esasperato. «Per vostra informazione, signorina Doyle, avevo ricevuto notizia che la partenza sarebbe stata rinviata, ma dietro mia specifica richiesta di chiarimenti il capitano mi ha fatto riferire che doveva esserci stato qualche fraintendimento. La partenza della nave è prevista alla prima marea domattina. Dunque non può esserci alcun ritardo.» A conferma di quanto diceva si voltò e riprese a camminare. Ma io, incapace di frenare la curiosità e l’entusiasmo, ebbi il coraggio di aggiungere un’ulteriore domanda. «Mr Grummage, signore, come si chiama il capitano?» Mr Grummage si fermò di nuovo, mi rivolse uno sguar–9–
do torvo e irritato, ma prese il foglietto e lo consultò. «Capitano Jaggery», annunciò, e ancora una volta si voltò per riprendere a camminare. «Ehi!», esclamò il facchino nel frattempo. Seguendoci da presso aveva sentito la nostra discussione. Sia io che Mr Grummage ci voltammo. «Avete detto capitano Jaggery?», domandò il facchino. «Lei sta rivolgendosi a me?», chiese Mr Grummage, lasciando intendere in maniera chiarissima che, se così fosse stato, il facchino stava commettendo una gravissima insubordinazione. «Sissignore», disse l’uomo, parlandogli sopra la mia testa. «Ho chiesto se avevo sentito bene e se avete detto che stavamo andando su una nave comandata da un certo capitano Jaggery.» Pronunciò il nome Jaggery come se si fosse trattato di qualcosa di ripugnante. «Non stavo parlando con lei», Mr Grummage informò l’uomo. «Però l’ho sentito lo stesso», insisté il facchino, e così dicendo lasciò cadere il mio baule sul molo con uno schianto così forte che temetti si spaccasse in due. «Non ho intenzione di fare un altro passo verso qualcosa che abbia a che fare con questo signor Jaggery. Neppure per il doppio del denaro. Non un altro passo.» Mr Grummage urlò indignato. «Lei si è assunto un...» «Non m’importa cosa mi sono assunto», replicò l’uomo. «Evitare quel tizio m’interessa più del vostro denaro.» E senza un’altra parola filò via. – 10 –
«Fermo! Ho detto fermo!», gridò Mr Grummage. Invano. Il facchino era sparito, correndo addirittura. Io e Mr Grummage ci guardammo. Non avevo idea di cosa fare. Né, era evidente, ce l’aveva lui. E fece allora quel che doveva: domandò in giro in cerca di un rimpiazzo. «Ehi! Lei signore!», gridò al primo che passava, un operaio nerboruto con un grembiule. «Le offro uno scellino se riesce a portare il baule della signorina!» L’uomo si bloccò, guardò Mr Grummage, poi me, poi il baule. «Quello?» «Sarò lieta di aggiungere un secondo scellino», proposi spontaneamente, pensando che il problema fosse l’offerta troppo bassa. «Signorina Doyle», sbottò Mr Grummage. «Lasci gestire a me la cosa.» «Due scellini», si affrettò a dire l’operaio. «Uno», ribadì Mr Grummage. «Due», ripeté l’operaio e protese la mano verso Mr Grummage, che gli diede una moneta. Poi l’uomo si voltò e porse la mano a me. Subito, mi affrettai a trarre una moneta dalla mia borsetta a rete. «Signorina Doyle!», obiettò Mr Grummage. «Avevo promesso», sospirai, e posi la moneta sul palmo proteso dell’operaio. «Così si fa, signorina», disse l’operaio alzando il cappello. «Magari tutto il mondo facesse come voi.» Quell’elogio ai miei principi di correttezza mi lusingò, e – 11 –
arrossii mio malgrado. Mr Grummage si schiarì la voce, in segno di disapprovazione. «Allora», fece il facchino, «la signorina dove lo vuole portato?». «Che importa dove! Ci segua. Le diremo noi quando saremo arrivati.» Intascato il denaro, l’uomo si avvicinò deciso al mio baule, se lo caricò sulla spalla con una facilità sbalorditiva, considerato il peso e le dimensioni del baule, e disse: «Fate strada». Mr Grummage, senza altri indugi, forse timoroso delle conseguenze di ulteriori discussioni, ripartì. Dopo averci guidato per un dedalo di moli e banchine, si arrestò. Si girò verso di me, disse: «Eccola», e indicò una nave ormeggiata dinanzi a noi. Non avevo neanche avuto il tempo di guardare dove indicava, che udii un tonfo alle mie spalle. Spaventata, mi voltai e vidi che il facchino – quello che avevamo ingaggiato pochi istanti prima – appena rivolto uno sguardo alla Seahawk aveva deposto in fretta e furia il mio baule e, come il precedente, era fuggito a gambe levate senza dare alcuna spiegazione. Mr Grummage quasi non gli badò. Esasperato, disse: «Signorina Doyle, vi prego di attendermi qui». E a passi rapidi percorse la passerella e salì sulla Seahawk, dove sparì dalla mia vista. Rimasi ferma lì, desiderosa più che mai di salire a bordo e conoscere le care ragazze e il ragazzino che avrei avuto – 12 –
per compagni di viaggio. Attesi sul molo per qualcosa come un’ora e mezza, e mentre me ne restavo lì immobile alla luce del giorno che si spegneva, non ebbi altro da fare che osservare la nave. Dire che fossi particolarmente timorosa mentre esaminavo la Seahawk sarebbe una sciocchezza. Non ebbi neanche il più remoto presentimento di ciò che mi attendeva. Nulla del genere. No, la Seahawk era un’imbarcazione non diversa dalle infinite altre che avevo visto prima o, del resto, da quelle che avrei visto in seguito. Oh, forse era più piccola e vecchia di quanto mi fossi aspettata, ma nient’altro. Ormeggiata alla banchina, ondeggiava elegante. Si stagliava dinanzi a me, il sartiame incatramato per proteggerlo dall’acqua salmastra, scalini scuri che si levavano verso un cielo sempre più nero, il pennone di controvelaccio che sembrava perdersi nella notte che calava*. Le vele ripiegate, o, per meglio dire, ammainate, sembravano strati di neve sui rami di un bosco. * Devo necessariamente ricorrere, nella mia narrazione, a certi termini che potrebbero non risultare immediatamente familiari, come sartiame, pennone di controvelaccio, ammainare. Non conoscevo questi termini quando salii per la prima volta a bordo della nave, li avrei appresi nel corso del mio viaggio. Poiché molti al giorno d’oggi non hanno tale conoscenza, ho accluso un disegno della Seahawk nell’appendice in coda al mio racconto, completo di didascalie. Potrete consultarlo ogni volta che vi occorrerà comprendere a cosa io mi riferisca. Il disegno mi risparmierà anche inutili spiegazioni che potrebbero rallentare il flusso del racconto. Anche in merito al tempo a bordo della nave si troveranno spiegazioni più ampie in appendice.
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In breve, la Seahawk era quello che chiamiamo un brigantino, un veliero a due alberi (con un senale dietro all’albero maestro), del peso di circa settecento tonnellate, lungo quasi quaranta metri da poppa a prua, quarantasette metri di altezza dal ponte alla cima dell’albero maestro. Doveva essere stata costruita tra la fine del diciottesimo secolo e l’inizio del diciannovesimo. Lo scafo era nero, le murate bianche, i colori tradizionali. I due alberi, leggermente inclinati all’indietro, erano muniti di vele quadre. Aveva anche un bompresso, che sporgeva dalla prua come il corno di un unicorno. L’unica particolarità era la polena intagliata a forma di falco pescatore – “Seahawk”, per l’appunto – posta sotto il bompresso, le ali all’indietro sulla prua, il capo proteso in avanti con il becco spalancato, la lingua rossa di fuori come in un grido. Alla penombra che ne deformava i lineamenti mi dava più l’idea di un angelo vendicatore che di un uccello. Il molo era deserto e si stava facendo sempre più buio. Avrei voluto salire per la passerella e andare a cercare Mr Grummage. Ma ahimè le mie buone maniere ebbero la meglio e restai lì dov’ero, come assorta in un sogno, perduta in chissà quali pensieri. A poco a poco, tuttavia – come un cannocchiale che si mette a fuoco – mi resi conto che vedevo qualcosa davanti a me, appeso a una delle gomene a poppa. Mi ricordava l’immagine che avevo visto una volta di un bradipo, un animale che sta appeso a testa in giù alle liane della giungla. Ma – 14 –
quello, compresi pian piano, era un uomo. Si stava arrampicando sulla Seahawk. Giusto il tempo di comprendere ciò che mi si parava davanti e già quello era salito a bordo ed era scomparso. E mentre cercavo di farmi un’idea di quanto avevo appena visto, udii delle voci rabbiose. Voltandomi, vidi Mr Grummage da dietro il bordo di murata, impegnato in una discussione con qualcuno che non riuscivo a vedere. Il mio gentleman continuava a voltarsi a guardarmi e, così mi parve, gesticolava nella mia direzione come se fossi stata io l’oggetto dell’accesa discussione. Infine Mr Grummage tornò da me alla banchina. Mentre si avvicinava, vidi che era paonazzo in viso, e aveva un’espressione adirata che mi allarmò. «C’è qualcosa che non va?», domandai con un filo di voce. «Niente affatto!», sbottò. «Tutto va perfettamente secondo i piani. Vi aspettavano. Il carico della nave è già nella stiva. Il capitano è pronto a levare l’ancora. Soltanto...» S’interruppe a metà, si volse a guardare la nave, poi di nuovo verso di me. «Soltanto… Vedete, quelle due famiglie, quelle con cui avreste dovuto viaggiare, i vostri compagni... non sono arrivati.» «Ma verranno», dissi, cercando di controllarmi. «Piuttosto improbabile», ammise Mr Grummage. «Il secondo ufficiale m’informa che una famiglia ha comunicato che sarà impossibilitata a raggiungere Liverpool per tempo. L’altra famiglia ha un figlio gravemente ammalato. Non è – 15 –
consigliabile farlo viaggiare.» Di nuovo Mr Grummage si voltò indietro a guardare la Seahawk, quasi che, per chissà quale motivo, quegli eventi fossero stati colpa della nave. Volgendosi di nuovo verso di me, proseguì. «A quanto pare, il capitano Jaggery non accetterà alcun ritardo nell’orario di partenza. È corretto così. Ha ordini precisi cui sottostare.» «Ma Mr Grummage, signore», domandai costernata, «io cosa devo fare?». «Fare? Signorina Doyle, vostro padre ha dato ordine che voi partiate su questa nave, adesso. Ho ricevuto ordini quanto mai specifici, per iscritto, in tal senso. Non ha lasciato denaro per provvedere altrimenti. Quanto a me», disse, «devo partire stasera per la Scozia per affari urgenti». «Ma certamente», esclamai, frustrata tanto per il modo in cui Mr Grummage parlava, quanto per le notizie che comunicava, «certamente non potrò viaggiare da sola!». «Signorina Doyle», ribatté lui, «stare su una nave con tanto di capitano e equipaggio al completo non può certo dirsi viaggiare da soli». «Ma... si tratterebbe di soli uomini, Mr Grummage! E... e io sono una ragazza. Sarebbe disdicevole!», protestai, nell’assoluta certezza di dar voce al punto di vista dei miei amati genitori. «Signorina Doyle», disse risoluto, guardandomi dall’alto in basso «nel mio mondo i giudizi su cosa sia corretto o disdicevole spettano al nostro Creatore, non ai bambini. Adesso, siate ubbidiente e salite a bordo della Seahawk. Subito!». – 16 –
2 Con Mr Grummage che mi faceva strada salii infine, esitante, a bordo della Seahawk. Ad attenderci trovammo un ometto appena più alto di me – molti uomini di mare sono bassi – che indossava una giacchetta verde logora sopra a una maglietta bianca non molto pulita. Aveva la carnagione scura, il viso segnato dalle intemperie, un po’ di barbetta incolta sul mento, ed era tutt’altro che sorridente. Muoveva inquieto le dita e strusciava i piedi sul ponte. Gli occhi vacui e infossati su un volto da furetto, dava l’impressione di un uomo sempre sul chi vive, pronto a minacce possibili e imminenti da qualsiasi direzione. «Signorina Doyle», intonò Mr Grummage a mo’ di presentazione, «sia il capitano Jaggery che il primo ufficiale sono attualmente a terra. Permettetemi di presentarvi il secondo ufficiale, il signor Keetch». «Signorina Doyle», mi disse questo signor Keetch, parlando chissà perché a voce molto alta, «poiché il capitano Jaggery non si trova a bordo non posso esimermi dal fare le sue veci. Ed è mia ferma opinione, signorina, che dobbiate imbarcarvi su un’altra nave per la vostra traversata». – 17 –