Hello Neighbor I pezzi mancanti

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Nicky Roth è sempre stato un ragazzino solitario. Ma la sua vita cambia completamente quando, insieme alla famiglia, si trasferisce a Raven Brooks e fa la conoscenza degli eccentrici vicini di casa, i Peterson. Accomunati dall’hobby di aggiustare vecchie cianfrusaglie fuori uso, Nicky e il figlio dei Peterson, Aaron, fanno amicizia. I due ragazzi diventano presto inseparabili e sfruttando i rispettivi talenti organizzano scherzi ai danni degli abitanti della cittadina.

I PEZZI MANCANTI

Ma c’è un lato di Aaron che preoccupa Nicky: le altre persone sembrano avere quasi paura di lui e della sua famiglia. Nicky mette insieme brandelli d’informazioni ricevuti dall’amico e altri raccolti nel corso di numerose indagini negli archivi cittadini, e scopre così che un oscuro passato perseguita i suoi vicini: un periodo di sventure che sembra non finire mai. Aaron è convinto che sia acqua passata, ma Nicky sospetta che, ad attendere i Peterson dietro l’angolo, ci sia ancora qualcosa di terribile… Le illustrazioni contenute in questo romanzo al cardiopalma, prequel del videogame di successo Hello Neighbor, aiuteranno il lettore a svelare il mistero che costituisce il cuore del gioco.

Copertina e illustrazioni di Tim Heitz

Carly Anne West

© tinyBuild, LLC. All Rights Reserved. © 2018 DYNAMIC PIXELS™ All Rights Reserved.


Hello Neighbor # 1 I pezzi mancanti di Carly Anne West illustrazioni di Tim Heitz Traduzione di Mattia Faes Belgrado Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Titolo originale: Hello Neighbor # 1 Missing Pieces © tinyBuild, LLC. All Rights Reserved. © 2018 DYNAMIC PIXELS™ Italian edition published by Editrice Il Castoro Srl by arrangement with Scholastic Inc., 557 Broadway, New York, NY 10012, USA. Book design di Cheung Tai Realizzazione editoriale: Studio Dispari, Milano ISBN 978-88-6966-386-4


Prologo

N

on stai sognando, diceva nonna. È la tua anima che si mette nei pasticci. Secondo i miei genitori da piccolo ero uno di quei bambini che sono agitati anche mentre dormono. La nonna, però, sapeva che le cose non stavano esattamente così. Era come se fosse stata lì con me nel momento in cui chiudevo gli occhi e mi addormentavo. E quando mi svegliavo mi faceva lavare le mani, proprio come lei, come primissima cosa tutte le mattine. Schioccava la lingua mentre me le strofinava fino a consumarle, poi scrollava via l’acqua e le grattugiava con un asciugamano. Tu sei il tipo che se ne va a zonzo, diceva di tanto in tanto. La tua anima spinge il tuo corpo a vagabondare, e ti perdi. Poi mi teneva d’occhio mentre correvo a vestirmi in camera mia. Riuscivo a udire i suoi rimproveri anche dopo aver chiuso la porta: Devi smetterla di andartene a zonzo, giovanotto! O, un bel giorno, non riuscirai a ritrovare la strada di casa! È stato allora che i miei sogni si sono trasformati in incubi. Quando morì, la nonna era quasi cieca, ma riusciva a vedermi con più chiarezza di quanto abbia mai fatto chiunque altro. Finché non ho incontrato Aaron.



CAPITOLO 1

«N

icholas, adesso significa adesso!», grida mamma dal fondo delle scale. E siccome la casa è vuota, la sua voce rimbalza verso di me come un palla, correndo lungo i muri fino alla mia testa dolorante. «Concedigli un altro minuto, Lu.» Il tono di voce di papà è più basso, ma il suono risulta comunque doloroso. Lo so che pensano che io sia rimasto sveglio tutta la notte, impegnato in una qualche attività che non mi è permessa, come giocare ai videogiochi e mangiare maionese direttamente dal vasetto, ma in realtà sono rimasto sveglio tutta la notte senza fare un bel niente. Ho continuato a fissare il muro, poi ho fissato il soffitto, poi la mosca rimasta appiccicata al nastro da imballaggio che si è scollato dallo scatolone che contiene i miei attrezzi e tre radio a frequenza CB mezze smontate. «Paghiamo l’impresa di traslochi all’ora, Jay. O scende adesso, oppure dovranno adottarlo i nuovi inquilini.» «È ora di andare, mostriciattolo», dice papà mentre mi trascino al piano di sotto, e sorrido perché anche lui ci prova. A modo suo, penso ci stia provando anche la mamma. «Ahi ahi», fa papà, dopo che mamma mi ha baciato la testa con troppa foga ed è uscita.


«Che c’è?» «Con quel sorriso non imbrogli nessuno. È inquietante», mi spiega. Mi arrendo, e ora possiamo rilassarci entrambi. «Lo so, è una brutta situazione», prosegue, mentre si massaggia la nuca. «Una situazione orribile.» «È solo qualche Stato più in là», ribatto, ribadendo quello che non ha fatto altro che ripetere la mamma tutti i santi giorni degli ultimi tre mesi. «A distanza di anni luce», replica papà, e ringrazio i Signori degli Alieni Giganti dello Spazio che qualcuno stia finalmente dicendo le cose come stanno. «Già, i miei numerosissimi amici mi hanno supplicato di non partire. E mi hanno fatto promettere che gli avrei scritto», dico, e il sorriso scivola via dal volto di papà perché sa che ho ripreso a mentire. «È solo che questa città non faceva per te», risponde. «Raven Brooks, invece, Raven Brooks sì che sarà la tua città.» Chiude la porta di una casa che non ho mai sentito davvero mia, proprio come quella precedente e quella prima ancora. «Addio, Casa Rossa», saluta mamma buttando un’occhiata nello specchietto retrovisore, mentre segue un po’ troppo da vicino il camion dei traslochi giù per il lungo vialetto. I suoi occhi si inumidiscono, e papà le stringe con dolcezza la mano sulla spalla. «Raven Brooks sì che sarà la nostra città», dice ancora papà, questa volta in modo che la mamma possa sentirlo, e lei sembra convinta tanto quanto lo sono io. Procediamo in silenzio quasi assoluto per mille chilometri, nel tentativo di digerire la bugia che Raven Brooks non sia poi così distante da Charleston, proprio come abbiamo mandato giù la bugia

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che quella casa blu in Ontario fosse in qualche modo diversa dalla casa marrone a Oakland o dalla casa gialla di Redding o dalla casa beige a Coeur d’Alene. Le bugie diventano un po’ più grandi a ogni trasloco, insieme alla consapevolezza che le città non hanno bisogno di caporedattori di giornale, se non hanno più giornali da redigere, ma nonostante questo i proprietari di casa hanno comunque bisogno dei soldi dell’affitto. Perciò che cos’erano mai, in fondo, un altro trasloco, un’altra cittadina, un’altra nuova scuola e una nuova casa che non sarebbe stata mai davvero casa nostra? Dovevo solo abituarmici per qualche tempo. E questa volta, forse, non avrei nemmeno disfatto gli scatoloni.

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CAPITOLO 2

L

a casa nuova è color turchese. «Io direi più… verde acqua», precisa mamma, mentre inclina la testa come se questo potesse cambiarne il colore. «Foglia di tè», suggerisce papà. «Una volta era un colore molto di moda per gli esterni.» Papà non se ne intende per niente di esterni, o di colori, se è per questo. È tipico dei redattori di giornale, però. Riescono a passare per esperti di qualunque cosa, o quasi. «Ma nelle foto non era bianca?», chiede mamma. Il camion dei traslochi si avvicina con un brontolio lungo la via altrimenti silenziosa che si chiama, lo giuro sugli Alieni, Via degli Amici, poi l’autista si sporge dal finestrino. «È questa la vostra? Quella turchese?» Mamma abbassa il capo. «Mi arrendo.» Il camion fa inversione e risale il vialetto in retromarcia, e così diventiamo Jay, Luanne e Nicky Roth del 909 di Via degli Amici, Raven Brooks. Quest’autunno frequenterò la terza alla scuola media di Raven Brooks, dove otterrò eccellenti risultati in inglese e in scienze e arrancherò in matematica e spagnolo. Sarò quel ragazzino basso con la maglietta dei


Beatles, che tutti per errore chiameranno “Nate”, con i capelli castani che restano per aria sul lato sinistro della testa, non importa quanta acqua io usi per appiattirli. Mangerò vasetti di budino tutti i giorni e sparecchierò la tavola da pranzo perché non c’è ragione per cui non dovrei farlo, e passerò il resto dell’intervallo a smontare e rimontare oggetti. «Carina la strada», è il commento di papà sui praticelli in condizioni pressoché perfette e sulle finestre chiuse con cura dalle imposte. La vernice è un tantino sbiadita, le automobili sono un po’ vecchie, ma abbiamo abitato isolati peggiori, e riesco persino a prendere nota di uno o due gatti accoccolati nelle aiuole sull’altro lato della strada. I gatti mi sembrano un buon segno. «È tranquilla», fa notare mamma, e non è facile capire se la sua voce tradisca sollievo o preoccupazione. «C’è un allevamento di lama», aggiungo, e i miei genitori si voltano a guardarmi. «Ho visto un cartello», spiego, e poi restiamo di nuovo in silenzio. «Be’», esordisce papà dopo qualche minuto, «credo che ci siamo meritati un cremino». La mamma si lamenta sempre del fatto che papà non abbia mai perso la golosità infantile, ma lui applica un metodo da adulti alla sua pazzia zuccherina. Una volta intuito lo schema, capire di che umore sia papà risulta piuttosto semplice. Il cremino significa che è esausto. Le tortine al cioccolato sono il suo dolce preferito quand’è felice. Ingurgita fette al latte? È il momento di festeggiare! Ma le vere paste rivelatrici sono quelle gialle. Le tortine paradiso significano una cosa sola: papà è triste. Mentre le merendine

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farcite alla crema sono per i momenti in cui soppesa le grandi domande della vita: domande da Signore-degli-Alieni-nel-Cielo. Mamma sospira. «Ne hai già mangiati tre, Jay.» «Cosa dici, cara? Non ti sento. È l’ora del cremino!» Comincio a seguirli dentro casa, ma poi decido di assaporare ancora per un momento il silenzio della strada. Magari se mi soffermo abbastanza a lungo uno dei gatti si avvicinerà. Mi siedo sul marciapiede di fronte alla nostra nuova casa turchese e strappo i lunghi fili d’erba che sporgono da una parte e dall’altra rispetto al punto in cui mi sono seduto. Mi perdo a pensare al mio ultimo progetto: un groviglio di lucchetti che ho trovato in un lotto di terreno senza costruzioni accanto alla casa rossa. Cinque lucchetti diversi, tutti chiusi uno sull’altro e senza chiavi. Sono riuscito a forzarne due, ma con gli altri tre ho qualche difficoltà. I lucchetti sono il mio nuovo progetto, e, nello specifico, scassinare i lucchetti. Mi dà l’idea di smontare qualcosa senza però scomporlo, come se ne stessi scoprendo il segreto alla rovescia. Una volta ho tentato di spiegarlo alla mamma, ma non credo abbia capito; si intende di più di roba che puoi osservare al microscopio, lei. «Penso che tu sia fantastico, Nicky», ha detto, poi mi ha sollevato il mento per farmi incontrare il suo sguardo severo. «Cerca solo di usare i tuoi talenti per una buona causa.» Che è poi l’avvertimento che appioppa più o meno a tutto ciò che faccio, una sorta di promemoria del fatto che anche le persone più intelligenti possono prendere decisioni stupide. Un movimento dall’altro lato della strada mi risveglia dal mio stato di trance, e all’inizio penso sia uno dei gatti, ma

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non li vedo più. Tutto ciò che riesco a vedere è una tenda che fluttua al secondo piano della casa sull’altro lato della strada. Guardo meglio, ma non riesco a scorgere chi l’abbia mossa. Vedo solo il riflesso di una quercia ritorta che si protende fin quasi a toccare la finestra. Qualcuno mi spiava, però. È solo una sensazione, come quando l’aria ha un odore diverso prima di un temporale. Resto a guardare la finestra vuota ancora per qualche istante, fin quando non mi stanco di aspettare. «Spiami pure quanto vuoi», le dico. «Tanto qui non c’è niente da vedere.» Mi alzo per entrare in casa, già pronto a ritrattare sulla mia decisione di non disfare gli scatoloni. Magari solo quello con i lucchetti, penso. Poi sento un debole miagolio alle mie spalle, proviene da uno di quei gatti tutti grigi con gli occhi blu. Pare che si sia rotolato tutta la notte in mezzo alle ceneri di un falò. Persino i baffi sembrano impolverati. Mi si attorciglia intorno alla gamba, e disegna una figura a otto per girare attorno all’altra caviglia. Sul fianco ha una striscia nera e unta, come se si fosse strusciato contro la gomma di una macchina incerata di recente. «Ciao, gatto», dico. Non sono mai stato bravo con i nomi. Risponde con un miagolio. «Vivi dall’altro lato della strada?» Altro miagolio. «Be’, di’ allo Strambo lassù che spiare non è educato.» Allungo la mano verso la sua testa per dargli una grattatina dietro le orecchie, ma poi il micio incontra il mio sguardo e qualcosa cambia. Rizza il pelo sulla coda e lungo la spina dorsale e abbassa le orecchie sulla testa. Gli occhi spalancati,

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tutt’a un tratto diventa un gatto diverso. Un breve soffio e un colpo di zampa, e il mio nuovo amico mi lascia un lungo graffio sottile sulla mano e sul polso. Dopo aver ritratto la mano sono sul punto di scacciarlo via, quando mi accorgo che il gatto fissa la finestra al secondo piano sull’altro lato della strada, e questa volta la tenda è scostata. Un volto – o almeno credo che si tratti di un volto – indugia vicino al telaio della finestra, senza restare esattamente nascosto ma senza neppure rimanere al centro del riquadro. Forse si tratta del riflesso del sole sul vetro, ma quella faccia è così bianca che per un attimo sono quasi certo si tratti di una plafoniera. Ma no, quelli sono due occhi e un naso… Il gatto soffia di nuovo, mentre continua a fissare la finestra. Poi il pelo si abbassa, le orecchie tornano in avanti e lui abbandona la posizione acquattata, riprendendo a concentrarsi su di me. Mi volto di nuovo verso la finestra e vedo ancora una volta la tenda gonfiarsi. Nessuna faccia, nessuno sguardo. Solo la stoffa dietro al vetro. «Non credo che io e te diventeremo amici», dico rivolto al gatto, o forse alla faccia dietro alla finestra. A ogni modo, il felino sgattaiola via verso l’aiuola sull’altro lato della strada, e io batto la ritirata nella mia nuova casa per capire quali potrebbero essere i lucchetti più facili da forzare. * * * Mi sveglio, e per un attimo non ricordo dove mi trovo, una delle conseguenze del trasloco che mi piacciono meno. La

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stanza non ha ancora il mio odore; a Charleston, sapeva di un misto di carne salata e profumo per ambienti alla vaniglia. Qui, ha lo stesso odore della biblioteca principale di Coeur d’Alene, legno vecchio e un po’ di muffa. Le mie lenzuola sono inzuppate di sudore, e pesco una maglietta pulita da uno scatolone aperto prima di arrendermi alla veglia per il resto della nottata. Non riuscirò mai a scrollarmi di dosso quell’incubo; non ci riesco mai. Mi trovavo di nuovo nel negozio di alimentari, seduto nel carrello della spesa, con i piedi a penzoloni sopra il pavimento. Ero immerso nel freddo e nell’oscurità, e le mensole dei cibi in scatola torreggiavano sopra di me. Avevo paura che cadessero e mi schiacciassero. Come al solito, volevo uscire dal carrello, per cercare aiuto o scoprire dove mi trovavo. Ma, come al solito, avevo troppa paura per muovermi. È strano: nel sogno sono bloccato, mentre nel mondo reale darei qualunque cosa perché la mia famiglia, una volta tanto, si fermasse nello stesso posto. Poi mi ricordo che il luogo più spaventoso dove mi portano i sogni è un negozio di alimentari e decido che, con tutta probabilità, non dovrei sforzarmi di trovarci chissà quale significato. Trascino i lucchetti fino al davanzale profondo che affaccia sulla strada. Si tratta del punto più fresco della mia nuova stanza, una piccola panca incastrata nel muro che crea il posto perfetto per sedersi a osservare il resto di Via degli Amici. Se punto lo sguardo nella giusta direzione riesco a scorgere persino l’autostrada. Per il momento, però, tutto ciò che vedo è la casa sull’altro lato della strada, il che non è un problema perché so di essere l’unica persona sveglia alle…

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Giro l’orologio che tengo sulla scrivania. «Le tre e un quarto.» Mi premo la mano sugli occhi e la porto a coppa davanti alla fronte, massaggiandomi le tempie. Sarà una lunga giornata. Recupero gli attrezzi e mi metto al lavoro sul lucchetto che mi ha creato più difficoltà. Con la torcia cerco di guardare il più a fondo possibile dentro la serratura, ma si tratta di una classica serratura a doppia mappa e riesco a vedere solo fino a un certo punto. Fino a questo momento ho usato il tensore per tenere ferma la molla di bloccaggio, ma il grimaldello a mezzo diamante è troppo rigido per addentrarsi di molto oltre quegli angoli. «Grimaldello sferico», dico sottovoce, mentre rimesto nella borsa per gli utensili di pelle consunta, acquistata poco fuori Charleston da un certo ragazzino che sembrava un po’ troppo ansioso di liberarsene. «Eccoti qui», dico al bastoncino in lega di titanio con la punta circolare. Comincio a far passare il grimaldello nella serratura e vado oltre il primo angolo, poi un altro, finché il chiavistello non comincia a sollevarsi. «Ci siamo quasi», esclamo, mentre la familiare eccitazione che accompagna la vittoria sul lucchetto si fa strada dentro di me. Forse non sarà una giornata così storta, dopotutto. Poi, un urlo squarcia il silenzio della notte. Lascio cadere a terra il groviglio di lucchetti e il tonfo riecheggia per la casa, ma sono concentrato su altro. Sto tendendo l’orecchio per sentire gli ultimi echi del grido che

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avrebbe dovuto svegliare l’intero vicinato. Invece lungo la strada non balena neanche una luce. Neanche una testa che faccia capolino dalle porte d’ingresso, per cercare di capire cosa stia succedendo. La voce era acuta e irregolare, e all’inizio sembrava quella di un bambino, ma in effetti non ne sono sicuro. Ho sentito delle capre piuttosto credibili emettere quel tipo di grida, e in effetti c’era quell’allevamento di lama che ho visto entrando in città… Sono rimasto tanto immobile da dimenticare di sbattere le palpebre, e mi lacrimano gli occhi finché non li strofino. Quando la vista si ristabilizza, mi ritrovo a osservare ancora una volta la finestra al secondo piano della casa dall’altra parte della strada. E, stavolta, sono certo di vedere una faccia che ricambia il mio sguardo. «Ancora tu», sussurro, e quasi mi aspetto di ricevere una risposta. Invece, la testa si avvicina alla finestra fino ad appoggiarsi al pannello. Due mani si stringono vicino al viso, a mo’ di binocolo, e io faccio lo stesso. Sto guardando un ragazzino che avrà più o meno la mia età. Potrebbe trattarsi del chiarore lunare o del contrasto contro il cielo notturno, ma i suoi capelli sembrano quasi bianchi, come se fosse stato colpito da un fulmine in un vecchio film di fantascienza. Restiamo lì, fermi, a osservarci per un lasso di tempo stranamente lungo, le mani a schermare il volto, e proprio quando comincio a non sentirmi a mio agio in questo braccio di ferro lui con una mano sbatte contro la finestra il foglio giallo di un taccuino, illuminato dal cono di luce di una torcia.

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Mi ha sentito parlare con il gatto. Tolgo la mano dalla finestra e mi allontano di qualche passo, in cerca della cordicella per chiudere la tenda. Ma prima ancora che io abbia il tempo di trovarla, il ragazzino lascia cadere il foglietto e fa ballare la sua torcia per attirare la mia attenzione. Quindi sbatte un altro messaggio contro la finestra. E poi sorride.

Abbasso lo sguardo sui miei attrezzi e sul groviglio di lucchetti, sentendomi allo scoperto, ma invece che essere in imbarazzo sono‌ sollevato.

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Rovisto in cerca di un pezzo di carta e del pennarello che abbiamo usato per etichettare gli scatoloni. Mi fermo a pensare per un attimo, poi sollevo la torcia per illuminare il mio messaggio.

Il ragazzino sorride e abbassa il capo, mostrandomi una chioma di capelli bianco acceso, poi solleva un nuovo foglietto.

Io annuisco e lui chiude la tenda, lasciandomi lÏ con la torcia in una mano e il pennarello nell’altra. Osservo la casa dal lato opposto della strada, sicuramente piÚ grande della nostra anche se non sono sicuro che la definirei piÚ carina. Dalla

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vernice scheggiata della veranda alle crepe del vialetto, fino alle grondaie fessurate in corrispondenza delle giunture, non c’è una cosa che non sembri aver bisogno di una riparazione. A uno sguardo più attento, noto una piccola porta sul lato della casa che ha tutta l’aria di condurre a un seminterrato, ma affermarlo con certezza è impossibile perché, sempre che si tratti di una porta, è ricoperta da così tante tavole di legno e chiodi storti da risultare impossibile da aprire. E se mai questo non fosse sufficiente, sui cardini tra le tavole di legno brillano dei lucchetti metallici, che sfidano chiunque a tentare di entrare. Ben più di un’esagerazione. Scuoto la testa e me ne torno a letto, dove riprendo a fissare il soffitto, l’eco delle parole di papà che mi vortica nel cervello. Raven Brooks sì che sarà la tua città. Può darsi. C’è il davanzale che assomiglia a una panchetta e il ragazzino dall’altro lato della strada che conosce la differenza tra un grimaldello a mezzo diamante e uno sferico. C’è un giornale a cui sono ancora tutti abbonati, e un’università dove c’è bisogno del cervello gigante da scienziata della mamma. Mi sono quasi riaddormentato quando mi ricordo che cosa, all’inizio, mi aveva spinto a guardare fuori dalla finestra. Scivolo in un sonno disturbato, con il ricordo di quell’urlo che sembrava non essere stato udito da nessuno all’infuori di me.

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foto di Kristyn Stroble

CARLY ANNE WEST è l’autrice dei romanzi per ragazzi The Murmurings e The Bargaining. Si è laureata in Inglese e Scrittura creativa al Mills College e vive nei pressi di Portland, Oregon, con il marito e due figli.

€ 12,50

ISBN 978-88-6966-386-4

www.castoro-on-line.it

L’esclusivo pre que l de l videogame di successo He l lo Neighbor !


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