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Eliot Schrefer è giornalista e scrittore, autore di molti libri, sia per adulti sia per ragazzi. Quando non si trova in Congo impegnato con i bonobo, vive a New York. Con In pericolo e il successivo Threat-
ened è stato finalista al National Book Award.
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Per quanto cercassi di non farlo, mi ero già affezionata a lui. Gli accarezzai la pancia e per qualche istante il piccolo socchiuse gli occhi. Il respiro rallentò come se si stesse addormentando, ma poi l’autista prese una buca e il bonobo ebbe un sussulto. Improvvisamente in preda al panico, si rimise seduto, guardandosi intorno spaventato. «Sssh», bisbigliai. «Puoi rilassarti. Adesso nessuno ti farà male.» Sapevo già che era una promessa pericolosa.
Anche quest’anno Sophie passerà i mesi estivi con sua madre, nel rifugio per bonobo che la donna ha fondato vicino a Kinshasa, e non ne ha nessuna voglia. Poi Otto, un cucciolo di bonobo, entra con prepotenza nella sua vita, e per la prima volta nella vita Sophie si sente responsabile di un’altra creatura. Ma la pace e la felicità non durano a lungo per Sophie e Otto. Quando nel paese scoppia una rivoluzione armata, il rifugio viene attaccato dai ribelli e i due sono costretti a scappare nella giungla, senza essere preparati a farlo. Intrappolati in un conflitto feroce, Sophie e Otto devono lottare con le unghie e con i denti ogni giorno per trovare un posto sicuro dove dormire, per riuscire a mangiare, per poter sopravvivere. Con In pericolo, Eliot Schrefer ci conduce in un viaggio mozzafiato alla scoperta di ciò che siamo disposti a fare per sopravvivere, dei sacrifici che siamo capaci di fare per aiutare gli altri e dell’intricata geografia che ci unisce tutti, uomini e animali.
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€ 15,50 ISBN 978-88-6966-016-0
9 788869 660160
www.castoro-on-line.it
Design copertina: www.mavrodesign.com Innagine bonobo: © Martin Harvey
Eliot Schrefer In pericolo Traduzione di Anna Carbone Š 2015 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Pubblicato per la prima volta con il titolo Endangered Copyright Š 2012 Eliot Schrefer. All rights reserved. Published by arrangement with Scholastic Inc., 557 Broadway, New York, NY 10012, USA ISBN 978-88-6966-016-0
Eliot Schrefer
Traduzione di Anna Carbone
Per Kinsuke.
Nota: Nel presente volume, con il nome “Congoâ€? mi riferisco alla Repubblica Democratica del Congo (lo stato precedentemente noto come Zaire) e non alla confinante Repubblica del Congo, conosciuta anche come Congo-Brazzaville, Congo Francese o piĂš semplicemente Congo.
Kinshasa, capitale del Congo. Il cemento può marcire. Diventa verde, poi nero e alla fine si sbriciola. Forse lo sanno solo in Congo. È una di quelle cose che un tempo non notavo. Da piccola vivevo qui, ed era un paese dove il verde regnava tutto l’anno e gli uccelli dipingevano i cieli tersi dei loro colori. Poi, a otto anni, sono partita per andare a vivere in America con mio padre; da allora, tornare per passare l’estate con mia madre significava calarsi nel mezzo di un nulla opprimente e pericoloso. La fontana nel centro di Kinshasa, che una volta mi era sembrata incantevole, adesso ricordava una scodella di brodo, tutta crivellata di fori di proiettile. Chiedevo in giro, ma nessuno sapeva dirmi chi li avesse fatti. Se guardavo più da vicino, quelle butterature si sovrapponevano. La Repubblica Democratica del Congo: il paese in cui anche i buchi di proiettile hanno buchi di proiettile. Kinshasa ha dieci milioni di abitanti, ma solo due strade asfaltate e neanche un semaforo, perciò le vie sono troppo affollate per potersi spostare velocemente. L’autista era appena partito da casa per portarmi sul posto di lavoro di mia madre quando ci ritrovammo bloccati nel traffico, a procedere a passo d’uomo davanti a una barricata. I posti di blocco della po1
lizia non erano poi così comuni, ma non erano neppure tanto insoliti. A Kinshasa c’erano poliziotti veri, ma molti erano tizi qualsiasi che indossavano uniformi rubate e andavano a caccia di bustarelle. Era impossibile distinguerli, e comunque il modo di trattare con loro non era molto diverso: mostrare il documento attraverso il parabrezza. Non fermare la macchina. Non abbassare il finestrino. Non seguirli se cercavano di portarti da qualche parte. Un uomo si accostava a ogni macchina che rallentava. Inizialmente pensai che fosse un semplice mendicante, ma poi vidi che trascinava per le braccia una creaturina. Mi arrampicai sul cambio e poi sul sedile davanti per vedere meglio. Era un cucciolo di scimmia. Ogni volta che quello si avvicinava a una macchina, lo strattonava verso l’alto: allora l’animale spalancava la bocca in un gran sorriso e dimenava le zampe nel tentativo di toccare terra. L’uomo era zoppo da una gamba, però si muoveva con agilità, facendo perno sul moncone rognoso e tenendosi un po’ storto. Alle sue spalle scorsi una bicicletta arrugginita con una gabbia di legno legata sul retro; probabilmente la usava per trasportare la scimmia. Quella mattina avevo già visto un mucchio di animali soffrire. Pappagalli grigi in gabbie a lato della strada così pigiati che quelli morti stavano dritti come quelli vivi; un cane storpio che ululava in un mercato affollato, con sciami di mosche che gli ronzavano intorno all’osso esposto della zampa; uno spacciatore con gattini mezzi morti legati alla cintura. Avevo imparato a restare indifferente davanti a spettacoli come quello, perché a Kinshasa non puoi fare più di qualche chilometro senza vedere una persona che muore a lato della strada, e tutto sommato un uomo in fin di vita è più importante di un animale in fin di vita. Però mia madre dice sempre che il modo di trattare gli animali va di pari passo con quello di trattare le 2
persone, perciò a fermare uomini come quello, mercanti di «carne da foresta» in cerca di un affare, ci aveva dedicato la vita, tanto che quando il lavoro di mio padre in Congo si era concluso e lui era stato costretto a rientrare negli Stati Uniti, lei era rimasta e avevano divorziato. La nostra vita insieme come famiglia era finita allora. Il cucciolo di scimmia sembrava divertirsi un mondo, con quel sorriso che andava da un orecchio all’altro. Ma quando guardai meglio, notai piaghe e chiazze prive di peli. Dovevano averlo tenuto legato con una corda che gli penzolava ancora intorno alla vita e si trascinava per terra. «Clément, quello è un bonobo», dissi stupidamente. «Sì, lo vedo», confermò lui, spostando nervoso lo sguardo tra me e l’uomo. «E allora ferma la macchina!», esclamai. Era il mio modo per dare sfogo alla mia irritazione, causata dal fatto di essere bloccata in quella macchina, di essere bloccata in quel paese. «Te, Sophie, non posso farlo», ribatté. «Questo è proprio il genere di cose contro cui combatte mia madre. Lei ti chiederebbe di fermarti, e tu lavori per lei, perciò devi fare come ti dico», insistetti agitandogli contro una mano. «No, Sophie», rispose Clément. «Tua madre vorrebbe che ne parlassi con lei e che fosse il Ministero dell’Ambiente a occuparsene. Non sua figlia.» «Be’, allora sono io a insistere.» In tutta risposta, Clément bloccò le portiere. Fu una mossa perfettamente inutile, però, dal momento che quella anteriore non era provvista della sicurezza antibambino. L’auto avanzava appena per via del traffico provocato dal posto di blocco, perciò non feci altro che aprire lo sportello, saltare giù e correre dal mercante. L’uomo sollevò il cucciolo e 3
lo prese in braccio salutandomi in lingala, non nel francese in uso fra la gente istruita del Congo. «Mbote! Vuoi fare conoscenza con il mio amichetto qui, mundele?», mi chiese. «È così carino. Dove l’hai preso?», gli domandai in lingala. Con i miei genitori usavo l’inglese e il francese, ma parlavo ancora bene la lingua dei miei amici d’infanzia. L’uomo lasciò andare il bonobo, che si sedette stancamente per terra abbassando le braccia e rilassò i muscoli indolenziti con una smorfia. Mi inginocchiai e gli tesi le braccia. Il bonobo scoccò un’occhiata al padrone prima di raccogliere le energie per alzarsi e trotterellare da me. Mi si appoggiò agli stinchi per un attimo, poi allungò le braccia per farsi prendere. Lo sollevai senza fatica e mi strinse con arti fragili e lievi come una collana. Potevo contargli le costole sotto le dita, sentivo il cuore palpitare contro la mia gola. Mi premette le labbra alla guancia, immagino per avvicinarsi il più possibile alla mia pelle, e solo allora sentii le sue deboli grida; urlava da tanto tempo che non aveva più voce. «Ti piace?», mi chiese l’uomo. «Vuoi un compagno di giochi?» «Mia madre gestisce il rifugio per bonobo in cima alla strada», risposi. «Sono sicura che sarebbe felice di prendersi cura di lui.» Sulla faccia dell’uomo comparve un’espressione preoccupata. Mi sorrise nervoso. «Lui è mio amico. Non gli ho fatto del male. Guarda, gli piaci. Vuole stare con te. Vuole farti le trecce!» Sapeva come conquistare il cuore di una ragazza congolese. Cominciò a implorare. «Ti prego, la blanche, ho navigato sul fiume per sei settimane per portare qui questa scimmia. C’è stata una tempesta e ho perso tutto il resto della mia mer4
canzia. Se non compri il bonobo, la mia famiglia morirà di fame.» Guardando l’uomo, con quel piede storpio e la tunica lacera e sporca legata con fronde di palma intrecciate, non era difficile credere che davvero fosse a un passo dall’inedia. Intanto Clément aveva parcheggiato e risaliva la strada sbuffando per raggiungerci. Di sicuro aveva già chiamato mia madre. «Sophie», mi disse. «Dobbiamo andarcene. Non è così che si fa.» Non capiva. «Smettila di preoccuparti! Se finiremo nei guai, dirò alla mamma che è stata tutta una mia idea.» La scimmietta allungò le dita sotto il colletto per toccarmi direttamente la pelle. «Quanto vuoi?», chiesi all’uomo. «Il rifugio non compra bonobo», obiettò Clément frapponendosi tra noi. «Lui è mio», replicò l’uomo. «Non potete portarmelo via.» «Non si arriverà a questo», risposi. Volevo che Clément se ne andasse, stava rovinando tutto. Mi voltai per congedarlo, ma mi fermai. Il mio autista aveva gli occhi fissi sul posto di blocco. Dalla sua aria preoccupata capii che aveva deciso che quelli non erano poliziotti veri, ma quegli altri: ubriachi armati di pistole e assetati di mazzette. Già ci guardavano curiosi. In quella zona della capitale era rischioso anche solo stare fuori dalla macchina. Le rapine erano all’ordine del giorno, e se eri una ragazza poteva capitarti anche di peggio. Però io ero decisa a prendere quel bonobo per affidarlo a mia madre. «Cento dollari americani», disse l’uomo. «Cento dollari americani ed è tuo.» «Te!», sbottò Clément. «Non ti pagheremo per una cosa che non puoi vendere legalmente.» Il fatto era che io quei soldi li avevo, proprio lì, in tasca. Non avrei dovuto, ma li avevo. Erano i soldi per i taccuini. 5
Anni fa, al mio primo arrivo negli Stati Uniti, ero l’unica ragazza africana di tutta la scuola. Avevo attirato un bel po’ di sguardi, con le mie ciabattine di plastica e gli strambi capelli con cui non avevo ancora fatto pace. Quando papà era venuto a prendermi a scuola, alla fine del primo giorno, tra le lacrime gli avevo detto che doveva assolutamente spiegarmi che cosa fosse un centro commerciale e portarmici dritto filato. C’era solo una cosa positiva che mi ero sentita dire in quei primi giorni americani, e che mi avevano ripetuto spesso: i miei taccuini erano troppo belli. A quanto pareva, l’anno prima fra i bambini si era scatenata una specie di corsa all’acquisto di articoli di cancelleria, con una gara a chi si procurava le penne e i quaderni più insoliti. Io avevo tirato fuori i miei nuovissimi taccuini congolesi formato foglio protocollo, con la rozza rilegatura e i grandi elefanti verdi riprodotti sulla copertina. Li avevo regalati tutti, accontentandomi di vecchi e comuni quaderni a spirale, e le cinque bambine a cui li avevo offerti erano diventate le mie migliori amiche. Ogni volta che partivo per passare le vacanze estive con mia madre, le compagne americane mi chiedevano: «E così te ne torni in Congo; com’è la vita là?». E io rispondevo: «Povera». E poi passavamo alla questione più importante delle prenotazioni dei taccuini. Un mucchio di taccuini. Anche ora che avevamo quattordici anni e non più otto. Per questo avevo quei soldi. La mano libera corse alla tasca. «No, Sophie», mi disse Clément, che non mi perdeva d’occhio. «Tua madre te lo proibirebbe.» «Ma se è proprio per lei che lo faccio!», ribattei. «Per lei salvare i bonobo è la cosa più importante!» Il bonobo era febbricitante, sentivo la sua pelle bruciare contro la mia. E continuava a emettere le terribili grida semimute. 6
Da un momento all’altro quegli uomini armati potevano intervenire. «No», disse Clément all’uomo. «Riprenditi il bonobo.» Con una certa riluttanza, il mercante tese le braccia. Sentii le deboli zampe avvolte intorno alla mia pancia irrigidirsi e tremare. L’avevo visto tante volte nel rifugio di mia madre: giovani bonobo che passano anni attaccati alla mamma. Senza quell’affetto costante, muoiono. Il piccolo era stato settimane con quell’uomo, ma già preferiva me. Che cosa diceva questo del modo in cui l’aveva trattato? Probabilmente era rimasto sempre chiuso in gabbia, senza niente di caldo da toccare. Se gli avessi permesso di riprenderselo, ci sarebbe tornato, in quella gabbia. Sorreggendo lo scheletrico sedere del bonobo con una mano, estrassi i contanti dalla tasca e li porsi al trafficante. Era meno di quanto avesse chiesto, ma accettò la spessa mazzetta di banconote senza contare e arretrò verso la bici. «Te, papa», gli urlò dietro Clément. «Non lo compriamo questo bonobo! Torna indietro!» Affondai la faccia nel collo del cucciolo e sentii il ritmo fragile e ardente delle pulsazioni. Conclusa la transazione, il mercante montò in bici e se ne andò. Clément mi riportò di corsa in macchina e si rifiutò di rivolgermi la parola per tutta la strada fino al rifugio. Stavo seduta sul sedile posteriore, con il bonobo in grembo. La scimmietta mi stava aggrappata con le gambe e teneva le braccia lungo il corpo; il mercante doveva averle fatto male facendola penzolare per tutta la mattina. Non ero un’esperta di bonobo, ma quello era il più brutto che avessi mai visto. Era quasi del tutto spelacchiato e pieno di croste, la pancia rugosa e sporgente, coperta solo di una leg7
gera lanugine grigia. Sui fianchi, dove la corda stretta sfregava la pelle, si era formata una vescica piena di pus. Da una mano mancava completamente il mignolo, e il dito vicino era solo uno stizzoso moncone arrossato. «Gli mancano delle dita», dissi a Clément. Non ruppe il silenzio. «Perché gli mancano delle dita?», insistetti. Sollevai delicatamente la mano del bonobo, ma lui la ritrasse, voltando la testa per guardare in silenzio fuori dal finestrino, girandosi la corda fra le dita. Lasciami in pace. Non c’era altro che volessi fare se non restare a guardarlo. Non incrociava i miei occhi. Aveva lo sguardo perso nel vuoto. Premetti la fronte contro il vetro e osservai quello che anche lui guardava scorrere al nostro fianco: le strade senza vita di quel quartiere agiato, con le guardie che dormicchiavano contro i cancelli; i braccianti agricoli che si affollavano davanti alle bacheche con le offerte di lavoro; i mucchi di rifiuti passati in rassegna dai bambini di strada; i polli col collo tirato gettati nei fossi; i ragazzini che spingevano un camion finché il motore non ingranava. La differenza con l’ordinata scena americana che avevo lasciato due giorni prima non poteva essere più stridente. Al bonobo non dovevano avere dato da mangiare, oppure lo aveva rifiutato: era troppo magro. In quel momento non perdeva niente, ma di recente doveva avere avuto una brutta dissenteria: i peli sulle zampe erano incrostati e puzzavano. Il fiato che usciva dalle labbra screpolate era asciutto e rovente. Al mondo non gli rimaneva nessuno a parte me, e ci conoscevamo solo da qualche minuto. Per quanto ne sapevo, potevano restargli solo poche ore di vita. Non c’era da stupirsi che cercasse di escludere tutto il resto. E allora?, pensai cercando di soffocare il tremito nel mio 8
cuore. È un animale. Ma non ci credevo davvero. Per quanto cercassi di evitarlo, mi ero già affezionata a lui. Gli accarezzai la pancia e per qualche istante il piccolo socchiuse gli occhi. Il respiro rallentò come se si stesse addormentando, ma poi Clément prese una buca e il bonobo ebbe un sussulto. Improvvisamente in preda al panico, si rimise seduto, guardandosi intorno spaventato. «Sssh», bisbigliai. «Puoi rilassarti. Adesso nessuno ti farà male.» Sapevo già che era una promessa pericolosa.
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Eliot Schrefer è giornalista e scrittore, autore di molti libri, sia per adulti sia per ragazzi. Quando non si trova in Congo impegnato con i bonobo, vive a New York. Con In pericolo e il successivo Threat-
ened è stato finalista al National Book Award.
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Per quanto cercassi di non farlo, mi ero già affezionata a lui. Gli accarezzai la pancia e per qualche istante il piccolo socchiuse gli occhi. Il respiro rallentò come se si stesse addormentando, ma poi l’autista prese una buca e il bonobo ebbe un sussulto. Improvvisamente in preda al panico, si rimise seduto, guardandosi intorno spaventato. «Sssh», bisbigliai. «Puoi rilassarti. Adesso nessuno ti farà male.» Sapevo già che era una promessa pericolosa.
Anche quest’anno Sophie passerà i mesi estivi con sua madre, nel rifugio per bonobo che la donna ha fondato vicino a Kinshasa, e non ne ha nessuna voglia. Poi Otto, un cucciolo di bonobo, entra con prepotenza nella sua vita, e per la prima volta nella vita Sophie si sente responsabile di un’altra creatura. Ma la pace e la felicità non durano a lungo per Sophie e Otto. Quando nel paese scoppia una rivoluzione armata, il rifugio viene attaccato dai ribelli e i due sono costretti a scappare nella giungla, senza essere preparati a farlo. Intrappolati in un conflitto feroce, Sophie e Otto devono lottare con le unghie e con i denti ogni giorno per trovare un posto sicuro dove dormire, per riuscire a mangiare, per poter sopravvivere. Con In pericolo, Eliot Schrefer ci conduce in un viaggio mozzafiato alla scoperta di ciò che siamo disposti a fare per sopravvivere, dei sacrifici che siamo capaci di fare per aiutare gli altri e dell’intricata geografia che ci unisce tutti, uomini e animali.
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€ 15,50 ISBN 978-88-6966-016-0
9 788869 660160
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Design copertina: www.mavrodesign.com Innagine bonobo: © Martin Harvey