Isola delle balene

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MICHAEL MORPURGO

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A Mark, Linda, Geoffrey e Stewart.

I miei ringraziamenti vanno a Marion e Keith Bennet e a Leonard Jenkins di Bryher, e anche a Roy Cooper di Tresco, per il loro aiuto nella scrittura di questo libro. – Michael Morpurgo

L’isola delle balene di Michael Morpurgo Traduzione di Silvia Cavenaghi © 2017 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Grafica di copertina PEPE nymi Illustrazione di copertina di Veronica Malatesta Prima edizione © 2008 Editrice Il Castoro Srl Titolo originale: Why the Whales Came Pubblicato per la prima volta da Egmont UK Limited, 239 Kensington High Street, London W86SA Per il testo © 1985 Michael Morpurgo Tutti i diritti riservati. I diritti morali spettano all’autore dell’opera. Pubblicato in accordo con Egmont UK Limited. ISBN 978-88-6966-199-0


michael morpurgo

L’ISOLA DELLE BALENE TRADUZIONE DI SILVIA CAVENAGHI


Sono cresciuta a Bryher, una delle Isole Scilly. Le trovate su qualsiasi carta geografica, sono delle isolette che lo stivale dell’Inghilterra ha sparpagliato con un calcio nell’Oceano Atlantico. Tutto è successo quando avevo circa dieci anni. Era l’aprile del 1914. Gracie Jenkins, 1985




1. Z.W.

«S

tai lontana dal Migratore, Gracie.» Papà mi aveva messo in guardia tante volte. «Stagli bene alla larga, mi hai sentito?» E noi, io e Daniel, non ci saremmo mai avvicinati a lui, se i cigni non ci avessero cacciati via dal laghetto sotto la Collina degli Alberi, dove andavamo sempre a giocare con le nostre barchette a vela. Io e Daniel avevamo costruito insieme un’intera flotta di barche. Ne avevamo quattordici, erano azzurre, con una bellissima striscia bianca lungo la fiancata. Ricordo bene quando le abbiamo portate giù al laghetto con la carriola di papà. Era primavera, faceva caldo. C’era la brezza dol­ ce e costante di cui avevamo bisogno per una perfetta na­ vigazione. Le abbiamo messe in acqua una ad una e poi siamo corsi fino alla sponda più lontana ad aspettare che arrivassero. Mentre aspettavamo, una coppia di cigni era arrivata in volo volteggiando e poi era atterrata in mezzo al laghetto, alzando una scia di grandi onde. Due delle nostre barche si sono rovesciate e alcune sono tornate a riva dopo 1


un bel po’, ma siamo stati costretti a entrare nell’acqua per recuperare le altre. Abbiamo provato a urlare ai cigni, a lanciargli contro dei pezzi di legno, ma niente li spaventa­ va abbastanza da farli scappare. Continuavano a ignorarci, semplicemente, e se ne andavano tranquilli in giro per il laghetto, lisciandosi le piume. Alla fine siamo stati noi a dovercene andare, ammucchiando le barche nella carriola e tornando a casa per la merenda, sconfitti e scoraggiati. Per qualche giorno abbiamo provato a occupare di nuovo il nostro stagno, ma sembrava che i cigni stessero sempre in guardia, ci venivano incontro minacciosi. Non c’era il minimo dubbio sul fatto che non ci volevano lì e che non erano pronti a dividere il laghetto con noi. Ci è toccato arrenderci e abbiamo deciso di portare le nostre barche alla vicina Baia dei Sassi Piatti, ma appena arrivati abbiamo capito che era troppo ventosa; persino nei giorni più calmi le barche scuffiavano o tornavano a riva appena le mettevamo in acqua. E un giorno la barca più veloce della flotta, che si chiamava Cormorano, è sta­ ta spinta al largo prima che potessimo farci niente. L’ulti­ ma cosa che abbiamo visto è stata la punta della sua vela gialla mentre spariva dentro a un’onda. È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Da quel momento non abbiamo più giocato con le barche nella Baia dei Sassi Piatti. Siamo stati costretti a cercare un altro posto. 2


La spiaggia di fronte a Tresco sulla costa sottovento sa­ rebbe stata perfetta, l’acqua era più calma che in qualsiasi altro punto dell’isola, ma c’era sempre troppo movimen­ to. Era il centro dell’isola. Le barche da pesca entravano e uscivano in continuazione, lasciandosi dietro delle grosse onde che sommergevano le nostre barchette; e spesso c’e­ rano altri bambini che pescavano dal molo o sguazzavano nell’acqua bassa. Poi c’erano i fratelli e le sorelle di Daniel che sembravano stare sempre su quella spiaggia a riparare le reti e le nasse per le aragoste o a dipingere le barche. Tra tutti, quello che volevamo evitare di più era Tim, il fratello maggiore di Daniel, che faceva sempre il bullo con noi; e lui c’era sempre. L’unica volta che avevamo provato a giocare lì con le barche, era arrivato con i suoi amici e aveva bombardato di sassate la nostra flotta. Era­ no riusciti a rompere due alberi ma, per fortuna, nessuna delle barche era affondata. In ogni caso, non volevamo ri­ schiare ancora. Do­vevamo trovare un posto se­greto, dove non venisse nes­suno e l’acqua fosse abbastanza calma per poter giocare con le barche. Ci rimaneva solo un posto in cui andare – la Baia delle Paludi. La Baia delle Paludi era un luogo proibito, come quasi tutta la costa occidentale di Bryher. In quella direzione, noi bambini non potevamo spingerci oltre il laghetto sot­ to la Collina degli Alberi e la Baia dei Sassi Piatti, poco 3


lontano. Non chiedevamo mai perché, non dovevamo e basta. Sapevamo tutti che la costa occidentale dell’isola era pericolosa, troppo pericolosa per i bambini, qualsiasi tempo facesse. Mamma e papà me lo ricordavano conti­ nuamente, e avevano tutte le ragioni per farlo. A Capo del Marinaio e alla Baia del Diavolo c’erano delle scoglie­ re nere alte decine di metri, a picco sul mare agitato. Là, anche nei giorni più calmi, le onde potevano afferrarti e portarti al largo. C’ero stata abbastanza spesso, ma sem­ pre con papà. Ci andavamo a fare legna da ardere, racco­ glievamo i tronchi trasportati dalla corrente sulle spiagge rocciose e li tra­scinavamo via dalla riva per poter dire che erano nostri; oppure ci mettevamo a raccogliere le alghe, le am­mucchiavamo sul carretto per usarle come concime per i fiori o per i campi di patate. Io non andavo mai da sola su quel lato dell’isola, nessuno di noi ci andava. C’era anche un altro motivo più grave per cui ai bam­ bini veniva detto di stare lontano dalla Baia delle Paludi, da Punta del Naso a Picco e dalla costa occidentale, e cioè perché quello era il lato dell’isola più frequentato dal Migratore di Bryher. Era il solo a vivere in quella zona. La sua casa era rivolta verso la costa occidentale, una capan­ na lunga e bassa con il tetto di paglia sulla Collina Fiorita, proprio sopra la Baia delle Paludi. Nessuno si avvicinava mai a lui e nessuno gli parlava. Come tutti gli altri bambi­ 4


ni dell’isola, io e Daniel avevamo imparato fin da piccoli che bisognava evitare il Migratore. Qualcuno diceva che era pazzo. Qualcuno diceva che era il diavolo in persona, che si nutriva di cani e gatti e che lanciava incantesimi e maledizioni se ti avvicinavi troppo. Quel poco che avevo visto del Migratore era bastato a convincermi che tutte le storie sentite sul suo conto erano vere. Era una specie di gufo, una creatura del buio, dell’al­ ba e dell’imbrunire. Lo si vedeva raramente all’aperto di giorno, qualche volta sulla sua barca a remi o seduto sul suo carretto; e anche nelle estati più calde portava sempre sulle spalle una mantella nera e in testa un cappellaccio nero e appuntito. Da lontano lo sentivi parlare da solo, a­veva un tono strano e inquietante, sempre uguale. Forse non parlava da solo, ma con la gabbianella che stava sem­ pre sulla sua spalla o con l’asino nero che tirava il carretto, o con il grande cane lanoso con il muso quasi grigio che si muoveva a lunghi passi accanto a lui. Il Migratore andava dappertutto a piedi nudi, persino in inverno, e cammi­ nando barcollava, un passo più corto dell’altro. Ovunque andasse era circondato da uno stormo di gabbiani urlanti che volteggiavano svolazzando sopra di lui, sempre vigili, quasi che lo stessero proteggendo. Lui parlava raramente con qualcuno, anzi nemmeno guardava le persone. Fino ad allora non ci era mai successo di andare da soli 5


nella parte proibita dell’isola, né di avvicinarci alla capan­ na del Migratore. L’isola era lunga quasi due chilometri e la larghezza massima era di quasi un chilometro. Poteva­ mo vagare liberi per più di metà e ci era sempre bastato. Ma dovevamo trovare un posto per giocare con le nostre barche. Era la cosa più importante per noi, e la Baia del­ le Paludi era l’unico posto dove potevamo farlo. In ogni caso, io non volevo andarci. Per me era troppo vicino alla capanna del Migratore sulla Collina Fiorita. È stato Da­ niel a convincermi – lui ci sapeva fare con le parole, era sempre così. «Ascolta, Gracie, se saliamo da dietro la Collina di Samson non ci vedrà arrivare, se camminiamo piegati, vero?» «Penso di no», ho detto io. «Ma potrebbe, se guarda da quella parte.» «E se anche fosse?», continuò Daniel. «Possiamo scap­ pare, no? È un vecchio, Gracie, zia Mildred dice che è il più vecchio di tutta l’isola. E zoppica, mica riuscirà a correrci dietro e a prenderci?» «Forse no, ma…» «Certo che no. Non c’è niente di cui aver paura, Gracie. Così la Baia delle Paludi sarebbe tutta nostra, un bel mare calmo, e Tim non ci darebbe fastidio. Nessuno ci troverà mai.» 6


«E se il Migratore ci prende, Daniel? Ho sentito dire che basta che ci tocchi.» «Chi te l’ha detto?» «Tim. Ha detto che è contagiosa. Che per prenderla ba­ sta che il Migratore ci tocchi. Come il morbillo, ha detto, come la scarlattina; e l’ho sentito dire anche altre volte.» «Prendere cosa?», ha detto Daniel. «Cosa vuoi dire?» «Ma la pazzia. È contagiosa, o comunque Tim ha detto così. Davvero, se ti tocca diventi matto, proprio come lui.» «Sciocchezze», ha detto Daniel. «Non è vero. Tim cerca solo di farti paura. Non lo conosci ancora? Dice un sacco di bugie, lo sai. Davvero, Gracie, non diventi mica pazza o matta, te lo giuro. Non è vero, e anche se fosse, lui non verrà abbastanza vicino da toccarci. Dai, Gracie, la Baia delle Paludi è l’unico posto che ci rimane. Saremo pro­ prio dall’altro lato, lontano dalla sua capanna, in modo che se arriva lo vediamo e scappiamo. Va bene?» «Cosa direbbe papà?», ho chiesto debolmente. «Niente, se non lo sa. E non lo saprà, se non glielo dici. Non andrai a dirglielo, vero?» «Certo che no», ho detto io. «Be’, allora è tutto a posto, giusto? Ci andiamo doma­ ni?» «Va bene», ho detto. Ma continuavo a non essere sicura. 7


Il giorno dopo siamo andati alla Baia delle Paludi per giocare con le nostre due barche più veloci, Falco e Airone. Era una domenica, dopo la messa, lo so perché mi ricordo che quella mattina mi ero rannicchiata nel banco accanto alla mamma e avevo chiesto a Dio di proteggermi dai pote­ ri malefici del Migratore. Alle ultime parole del Padre No­ stro, «E liberaci dal male. Amen», avevo stretto gli occhi. Non avevo mai pregato così forte in tutta la mia vita. Quella mattina mentre strisciavamo su per la Collina di Samson in mezzo all’erica, ho provato a tornare indietro, ma Daniel non mi ha lasciato. Mi ha preso per mano, mi ha fatto il suo sorriso di traverso e ha detto che sarei stata bene perché c’era lui che pensava a me. Con Daniel e Dio dalla mia parte, ho pensato, il mio migliore amico in terra e il mio migliore amico in cielo, niente poteva anda­ re storto. Mentre stavo ancora cercando di convincermi, siamo arrivati in cima alla Collina di Samson e abbiamo visto sotto di noi la sabbia della Baia delle Paludi. Era deserta proprio come aveva detto Daniel. Vedeva­ mo il fumo salire dai due comignoli all’estremità della capanna del Migratore e le sue due capre marroni che brucavano nell’erica più in là, ma di lui non c’era traccia. Abbiamo giocato con Falco e Airone fino all’ora di pran­ zo. Il vento era quello giusto, soffiava dolcemente da est a ovest e le barche filavano sul mare fianco a fianco. Airone 8


era poco più veloce – come sempre – e io mi preoccupavo so­lo del cordame di Falco che si era allentato. Mi ero già dimenticata del Migratore. Al momento di rientrare per il pranzo, abbiamo nascosto le barche tra le dune per evitare di portarle fino a casa e di doverle riportare dopo mangiato. Ma quando quel pome­ riggio siamo tornati nel punto in cui le avevamo lasciate, le nostre barche non c’erano più. All’inizio abbiamo pensato di esserci sbagliati, che forse ci eravamo dimenticati il luo­ go esatto in cui le avevamo lasciate; ma più cercavamo più eravamo sicuri che erano sparite e che qual­cuno doveva averle prese. Sapevo bene chi poteva essere. Ho fatto per tornare a casa, chiamando Daniel e scon­ giurandolo di venire con me. Stava in piedi in cima alle dune dandomi la schiena, le mani sui fianchi, con la ca­ micia che sventolava, quando improvvisamente ha grida­ to e si è lanciato giù per le dune, scomparendo. Io avevo la bocca secca per la paura e sentivo un terrore spaventoso allo stomaco. Ma poi la curiosità mi ha spinta a seguirlo, anche se lo vedevo correre lungo la spiaggia verso la Col­ lina Fiorita, in direzione della capanna del Migratore. Per tutto il tempo ho provato a chiamarlo per farlo tornare indietro, ma lui non mi ha ascoltata. Quando l’ho raggiunto, si stava accovacciando sulla sabbia proprio sotto la linea di conchiglie arancioni e 9


gialle lasciate dall’alta marea. Ai suoi piedi, nella sabbia bianca e soffice, c’erano tre barche. Le ho riconosciute immediatamente. Erano Falco, Airone e, accanto, Cor­ morano. Sotto c’erano due lettere scritte con le conchiglie arancioni: Z.W. Entrambi abbiamo alzato lo sguardo aspettandoci di vedere il Migratore, ma non c’era nessuno. Il fumo sa­ liva ancora dai comignoli della sua capanna. I gabbiani schierati sul tetto ci strillavano contro furiosi. Poi, dalle dune subito dietro di noi, abbiamo sentito un asino ra­ gliare improvvisamente e rumorosamente. Quello è stato troppo anche per Daniel. Abbiamo raccolto le barche e ci siamo messi a correre; non ci siamo fermati finché non abbiamo raggiunto la salvezza nel capanno per le barche di Daniel.

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2. L’ISOLA DEI FANTASMI

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uando ero piccola la cena era sempre pesce, pesce e patate; e quella sera c’era una triglia, un grosso pesce rosa che mi fissava con occhi vitrei dal vassoio. Non ne avevo voglia. Pensavo solo a quelle due lettere nella sabbia della Baia delle Paludi. In un modo o nell’altro dovevo riuscire a saperlo – dovevo essere sicura che era stato il Migratore. Mi sforzavo di mangiare il pesce, sapevo che altrimenti mamma e papà si sarebbero insospettiti, perché la triglia era il mio pesce preferito. Mangiavamo in silenzio, con­ centrati sul pesce, così ho avuto tutto il tempo di pensare al modo migliore per chiedere delle iniziali sulla sabbia senza mettere nessuno in allarme. «Ho visto il Migratore oggi», ho detto alla fine, nel mo­ do più indifferente possibile. «Spero che tu sia stata alla larga», ha detto papà, spingen­ do via il piatto. «Eri ancora con Daniel Pender? Sempre con lui, eh?» Era una supposizione facile. Daniel Pender e Gracie Jenkins formavano una coppia inseparabile. Lo era­ 11


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racie e Daniel sono amici del cuore. Vivono su un'isola e sono liberi di andare ovunque, ma non nella zona in cui vive il Migratore. Chi è questo personaggio solitario, sempre vestito con una mantella e un cappello nero, che i genitori considerano pericoloso? Insieme all’eccentrico vecchio, Gracie e Daniel cercano di fermare gli isolani, che partecipano in massa all’uccisione delle balene narvalo arenate sulla spiaggia. Dal genio di Michael Morpurgo, un romanzo per ragazzi che educa all’amore e al rispetto per il mondo e per la vita, senza pregiudizi e condizionamenti.

VINCITORE DEL PREMIO NAZIONALE “UN LIBRO PER L’AMBIENTE” MICHAEL MORPURGO è uno dei più grandi autori contemporanei per ragazzi. Ha scritto più di sessanta libri, molti dei quali sono stati vincitori o finalisti di premi letterari. Nato nel 1943 a St. Albans nell’Hertfordshire, la sua vita è sempre stata piena di bambini, come insegnante, padre e nonno e come fondatore, con sua moglie Clare, della “Fattoria per bambini di città”.

€ 8,90 ISBN 978-88-6966-199-0

www.castoro-on-line.it


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