PAOLA ZANNONER
è fra le autrici più amate dai ragazzi. Ha pubblicato numerosi libri con le maggiori case editrici italiane, fra cui A piedi nudi, a cuore aperto e Voglio fare la scrittrice. Con Il Castoro ha pubblicato Io, la danza, le amiche e papà e Zorro nella neve, e ha contribuito alla raccolta di racconti Parole Fuori.
PAOLA ZANNONER
Leo è una promessa del calcio: ama questo sport e sa di essere bravo. È l’orgoglio del padre, gli osservatori lo tengono d’occhio, il salto verso una grande squadra è dietro l’angolo. Ma un brutto incidente in moto spezza i suoi sogni per sempre. Non potrà più camminare, né correre, né giocare a pallone. Leo non riesce ad accettare la sua nuova condizione: si isola dalla famiglia, dagli amici, da tutti. L’unica che riesce a far breccia nel muro che il ragazzo ha costruito intorno a sé è Viola, una compagna di scuola, campionessa di corsa a ostacoli. Viola, con la sua fame di vita e di velocità, riesce a scuotere Leo nel profondo trascinandolo insieme a lei verso il traguardo più importante: costruirsi una nuova strada, con nuovi sogni e nuove certezze.
€ 14,50 ISBN 978-88-6966-246-1
www.castoro-on-line.it
Grafica: PEPE nymi
a Tommaso, che mi insegna sempre un bel po’ di cose a Santiago Calatrava che costruisce i luoghi del futuro
Paola Zannoner La linea del traguardo Š 2017 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Prima edizione: Mondadori, 2003 ISBN 978-88-6966-246-1
Ammaina la tua vanità, dice l’esilio, non sei che un granello di sabbia nel deserto. Iosif Brodskij, Dall’esilio
If the sky can crack, there must be someway back to love and only love (U2, Electrical Storm)
parte prima
gare
sei e quaranta
Ormai Leo si sveglia poco prima che la suoneria si metta in funzione, alle sei e quaranta. La mano afferra il cellulare e il pollice sfiora il tasto di accensione. Lo schermo s’illumina sulle sei e trentanove e lui è già seduto sul letto, getta via il piumone fendendo l’aria fredda con il braccio. Prova un brivido, si alza di scatto e al buio si dirige in bagno, dove la luce sembra esplodere dallo specchio come una supernova. Si infila in fretta la tuta e le scarpe da corsa. La casa è immersa nel silenzio come fosse notte fonda. I genitori dormono ancora, quaranta minuti prima che la loro sveglia attacchi a suonare: chissà perché, non si sono mai abituati ad alzarsi a quell’ora, la suoneria li scuote dal sonno come un amo che li peschi negli abissi marini. E come pesci si dibattono lamentosi nel letto, annaspando per trovare l’interruttore della luce e gorgogliando qualche frase: «È ora», «Su, alzati». Leo è già fuori da un pezzo, e sta terminando il suo allenamento mattutino, di corsa per le strade, verso i giardinetti, e poi lungo il fiume. Poche automobili, pochissima gente, 3
e una penombra che non è notte, ma il primissimo sentore del giorno, il mattino che si presenta bluastro di sogni. E spesso il buio si dissipa su banchi di nuvole scure, la fronte aggrottata del giorno che non ha voglia di mostrarsi. Ma lui, Leo, non ha tempo di chiedersi se la giornata sarà bella o brutta, non fa caso al freddo pungente di certe albe ghiacciate, non presta attenzione alle anatre che si svegliano starnazzando tra le canne del fiume. Leo sente l’aria fredda nel naso che diventa calda nei polmoni per evaporare in nuvolette dalla bocca, vede terra da calpestare, chilometro dopo chilometro, per il suo programma di allenamento giornaliero. Dà un’occhiata all’orologio per controllare il ritmo del passo, immagina la proiezione diagrammatica del suo percorso da casa al fiume al ponte, e ritorno. Sente la maglietta inzupparsi di sudore, anche con il freddo più intenso, sente le orecchie bollenti, gli occhi un po’ umidi per il vento, la bocca impastata di saliva. Infine la prima luce che lo abbaglia è quella della cucina con quell’odore che gli rotola addosso di caffè e latte e marmellata, pane abbrustolito. Sono le sette e mezzo, è l’ora di prepararsi per andare a scuola. È seduto al secondo banco della terza fila. Non proprio in fondo, ma abbastanza lontano dalla cattedra. Negli ultimi banchi si è presi di mira, esposti più che nei primi. Meglio stare rintanati nel folto delle teste in un luogo neutro, al centro dell’aula; qui ci si può nascondere dietro le schiene dei compagni e avere le spalle coperte dagli esiliati del fondo della classe. Qui si può stravaccarsi con comodo, estraniarsi e seguire un pensiero nebuloso, impreciso, un 4
puntino lontanissimo eppure così assillante da risucchiare la visione all’interno, in un vuoto perfetto. Una gomitata lo riporta al presente, come una scossa elettrica. La professoressa lo sta puntando oltre i cespugli delle teste, il mento alzato per scorgerlo e metterlo a fuoco. «Leo, di cosa stiamo parlando?» «Di…» Un’occhiata di sbieco al compagno che gli ha lanciato la gomitata di salvataggio. La mano a ventaglio sulla bocca, quello pronuncia una parola incomprensibile che Leo ripete: «Para… dia». «Prego?» L’insegnante assume un’espressione beffarda. La bocca del compagno scandisce “pa-ra-di-gma”. La professoressa volta gli occhi verso di lui, sbotta un: «Grazie per il tuo intervento, Daniele. Molto tempestivo». Il ragazzo si accascia sul banco, come colpito da un proiettile. «Paradigma, Leo, paradigma. Riguardo che cosa?» «Non stavo seguendo, professoressa.» Ora l’insegnante può riabbassare il mento e sorridere, soddisfatta, mentre accomuna l’intera classe alla sua caccia al distratto: «Ce n’eravamo accorti». Subito, un’occhiata incoraggiante verso gli altri: «Qualcuno vuole spiegare a Leo cos’è un paradigma?». Il silenzio imbarazzato dura qualche istante, in cui Leo si sente spalleggiato, forse difeso dai compagni. Non che ci sia tutta questa complicità tra loro, anzi. La maggior parte della classe potrebbe essere arrivata questa mattina stessa, per la conoscenza che ne ha: è buffo come si possa stare ogni giorno tutti insieme in un luogo chiuso, abbastanza 5
piccolo, e ignorarsi. A dir la verità, alcuni di quei tizi neppure li riconoscerebbe per strada, e una volta in effetti gli è capitato di essere chiamato da qualcuno, in un supermercato: era un ragazzo magro e piccoletto, chiuso in un giubbotto enorme, che lo aveva chiamato per cognome e gli aveva fatto un cenno con la mano. Lì per lì aveva pensato che fosse qualcuno della squadra dei più piccoli, e gli aveva indirizzato un cenno col capo. Ma la mattina dopo se l’era visto davanti, in classe: dopo cinque mesi insieme, lo vedeva per la prima volta. «Viola?» La voce dell’insegnante lo scuote da quella breve illusione di essere difeso dalla classe. Sporgendosi oltre una testa, vede la mano alzata della ragazza che sta al primo banco. Viola. «Ne stava parlando a proposito del linguaggio.» La sua voce è priva di quella supponenza che hanno i primi della classe. Parla con leggerezza, come raccontasse quello che ha mangiato ieri sera. «È il rapporto che c’è tra le unità linguistiche.» «E cioè?», incalza la professoressa. «Cioè le variazioni di un’unità linguistica in rapporto con le altre dentro una frase. Per esempio i verbi o i casi.» Unità linguistica? Leo direbbe, forse, parola. I casi? Forse quelli disperati come lui, per cui dire che non ha voglia di studiare è una gran falsità perché non si tratta semplicemente di studio, è proprio tutto quello che riguarda la scuola, ci sta dentro e intorno che lo mette a disagio, l’edificio che somiglia a una caserma, le luci al neon, i banchi sporchi, la fauna che vi staziona a partire dai professori ve6
stiti di tristezza e i custodi che sanno solo abbaiare lungo i corridoi, e poi i libri pesantissimi, e scritti con quelle parole che nella vita nessuno ma proprio nessuno usa, neppure il medico o l’avvocato. Alla fine, per definire tutto questo c’è un’unica unità linguistica: la noia. A cavalcioni della moto, Leo aspetta. La gran parte dei compagni si sono dileguati come al solito, irrompendo dal portone insieme ai ragazzi delle prime classi. Sono quelli che escono di scuola come fuggiaschi, dev’essere ancora il ricordo delle medie. Gli altri, quelli delle classi superiori, si attardano sul portone, chiacchierano, alcuni si dirigono al bar di fronte per bere qualcosa prima di andare a casa, come se fossero già adulti e uscissero dall’ufficio. Leo aspetta, un gomito appoggiato sul casco. Eccola, finalmente. Viola. Chissà perché sta uscendo tra gli ultimi, come se frequentasse già l’ultimo anno. È in compagnia di un’amica, che forse non è una compagna di classe, Leo non ricorda di averla vista, ma non ci giurerebbe. Stanno chiacchierando tra loro, allegre, quasi non si accorgono di lui, che le fissa come un falco. «Viola.» La ragazza volta lo sguardo, arrossisce appena mentre con una mano si sistema una ciocca di capelli dietro un’orecchia. «Ehi, ciao.» La guarda accigliato, sceglie un tono calmissimo di voce: «Potevi evitare». Lei arrossisce un po’ di più, abbassa gli occhi, e sorride imbarazzata. L’amica mette una mano sulla bocca per co7
prire una risata. Leo le scocca un’occhiata fulminante, ma quella non riesce a trattenersi, continua a ridere. «Be’, mi dispiace.» La voce di Viola sta tremando, non è paura o rabbia, è il sorriso che le fa vibrare le parole, un sorriso che Leo prende come una freccia intrisa d’ironia. «Mi dispiace un accidenti», sbotta lui, l’ira gli fa alzare il tono. «Sei una leccapiedi, mi fai schifo. La prossima volta cuciti la bocca.» Alza il braccio di scatto per sollevare il casco. Le due ragazze si ritraggono spaventate, forse pensano a un gesto violento, ma Leo si calca in testa con rabbia il casco, accende la moto, dà gas per balzare via. Come un cavaliere che impenna il suo destriero, via. Viola guarda l’amica, sconcertata: «Che parte! Quello lì mi odia». «Chi è?», fa l’altra, rimasta a osservare la nube azzurrina del gas che si disperde a mezz’aria. Viola alza le spalle: «Uno della mia classe». L’amica si volta e scoppia a ridere: «Che sfortuna ce l’abbia con te, è così bello». Viola si acciglia: «Bello? È stupido. E violento, hai visto? Sembrava volesse picchiarci, come se fosse colpa nostra se non sa nulla, se non studia. È un povero idiota». Il rossore è scomparso, le sale dallo stomaco una gran rabbia. Per quelle offese, perché non ha saputo rispondere, perché addirittura si è scusata, ha detto che le dispiaceva. Non le dispiace affatto che Leo abbia fatto una brutta figura in classe, e anzi prova un gran piacere di aver saputo rispondere e lui no. Cucirsi la bocca? Neppure per sogno, si cucia piuttosto la sua, quell’ignorante. 8
allenamento 1
«Più slancio!» L’urlo dal bordo della pista arriva come una frustata. Le gambe raccolgono l’ordine prima del cervello, il corpo si tende ad arco per il prossimo salto, la gamba destra che sfreccia in avanti, la sinistra che si allunga in alto, le braccia che si sollevano dal busto nel balzo, lo sguardo dritto avanti. L’ostacolo vibra, il piede sinistro lo tocca superandolo e lo fa cadere. L’allenatore batte le mani: «No, no! Più controllo!». Mentre conta mentalmente i passi sei, sette, otto, scuote la testa, l’espressione corrucciata: «Così non ce la fa. Non è a tempo». Ancora un ostacolo, poi deve cambiare ritmo, dare un’accelerata per lo scatto finale, ma il corpo sembra ormai esausto: l’ultimo ostacolo va in terra malamente e al traguardo, ci arriva senza fiato. Si piega in due, le mani appoggiate sulle ginocchia per riprendersi dallo sforzo. L’allenatore non si muove, le braccia conserte, la visiera del cappellino che gli copre lo sguardo, la bocca serrata. Non è stata una gran prova. 9
Mani poggiate sui reni, fiato corto, una smorfia sul viso, si avvicina lentamente all’uomo: «Ho perso la concentrazione», si giustifica. «Me ne sono accorto», borbotta lui sciogliendo le braccia. Solleva il cronometro e legge il tempo. Poi alza lo sguardo, e l’espressione è comprensiva: «Qualcosa non va?». «No, Sirio. È che… ho parecchio da studiare. Domani ho una verifica di matematica, credo sarà dura.» «Non devi prendertela così a cuore. In matematica vai bene, no?» L’espressione è incerta mentre dice: «Abbastanza». L’allenatore scuote la testa, sorridendo: «Abbastanza… Non è mai abbastanza, vero? Vuoi il massimo». Lei annuisce. Sirio le batte una mano sulla spalla: «Anche domenica dovrai dare il massimo: questa volta una medaglia non te la toglie nessuno». Lei sputa per terra, poco convinta: «C’è gente forte, domenica». Sirio le scocca un’occhiata ironica: «Abbastanza». «Non prendermi in giro! È una gara nazionale!» «E allora? Credi che perderei il mio tempo con te se non fossi all’altezza? Va’ a cambiarti, ti voglio qui domani alla stessa ora per l’allenamento.» Forse il tono è un po’ brusco, perciò, appena volta le spalle per andare nello spogliatoio, Sirio la richiama: «Viola!». Lei si volta, scosta un ciuffo che le è caduto sul viso, lo mette dietro l’orecchio, in attesa. Sirio le fa l’occhiolino: «In bocca al lupo per matematica». «Crepi», sorride lei. 10
Sua madre non c’è. Il fumo ristagna nell’aria, il portacenere è colmo di mozziconi di sigaretta. Viola trattiene il fiato mentre va ad aprire la finestra. La ventata fredda spazza via l’odore di chiuso, mentre lei getta nella spazzatura i segni della presenza di Patricia, sua madre: sigarette e un paio di lattine di birra abbandonate sul pavimento, sotto il divano dove ha passato il pomeriggio davanti al televisore. Da bambina conosceva tutte le trasmissioni perché fin dal mattino presto la casa si riempiva dei rumori della televisione. Ma allora alle otto uscivano tutti di casa, papà al lavoro, mamma l’accompagnava a scuola e poi andava un paio d’ore a dare una mano a suo padre con la contabilità dell’officina. All’una, entrando in casa, il primo gesto materno era di premere il tasto sul telecomando, ignorando tutto quello che passava per lo schermo, notiziari e pubblicità. Patricia aspettava solo la trasmissione delle due, una serie televisiva che si era prolungata per anni, quotidianamente, una pillola di mezz’ora al giorno. Poi si alzava, riordinava, caricava la lavatrice, spariva in camera per sistemare i cassetti o gli armadi: allora la casa era sempre in ordine e sua madre aveva sempre qualcosa da fare, mentre lei finiva i compiti. Allora c’era anche il tempo per uscire insieme, passare dalla tintoria, andare al supermercato o in un grande magazzino, o al compleanno di un’amica o al corso di ginnastica ritmica o a trovare la nonna. C’erano giornate piene per tutte e due, a tal punto che spesso arrivavano a casa poco prima di papà, appena in tempo per preparare la cena. Allora c’era ancora papà che chiedeva dov’erano state, 11
e scherzava con Viola: «Sta’ attenta alla mamma, che non la porti via qualcuno». Nessuno aveva mai portato via la mamma. Era stato papà a farsi portare via. Un giorno di sei mesi fa, papà se n’era andato con un’altra. Forse all’inizio mamma pensava di riportare papà a casa. All’inizio sembrava andasse tutto bene, c’era nonna che veniva a trovarle, c’erano gli amici di mamma e papà, e Patricia continuava a mettere in ordine e cucinare, accompagnarla a scuola e a ginnastica, e usciva anche la sera, qualche volta. Ma poi tutto era precipitato. Viola non ricordava esattamente quando Patricia aveva ricominciato a fumare, forse durante l’estate, quando erano rimaste in città perché non avevano abbastanza soldi per partire. Gli amici erano spariti, uno dopo l’altro. Nonna non se la sentiva di venire, perché ogni volta lei e mamma litigavano con rabbia. Quanto a papà, l’aveva portata in montagna per quindici giorni, le aveva spiegato che cos’era successo, si era innamorato di un’altra donna e le aveva detto che sono cose che succedono, che quando sarebbe stata grande avrebbe capito. «Io sono già grande, papà», aveva detto Viola. «Ho quattordici anni.» «Allora mi capisci?», aveva sorriso complice. «No, per niente.» Lui aveva continuato a spiegarle, per convincerla delle sue ragioni, ma Viola non ascoltava più. Pensava a sua madre, alla sua sofferenza, a come le aveva detto sconvolta: «Papà ci ha lasciate. Se n’è andato con una ragazza». A co12
me ogni tanto sbottava: «Si è dimenticato pure di avere una figlia!». A come si alzava la mattina con la faccia gonfia e gli occhi rossi. Quando era tornata a casa dalla montagna, aveva trovato disordine e sporcizia. Sua madre non aveva più la forza per tenere la casa, dimenticava di fare la spesa, passava il tempo fumando una sigaretta dietro l’altra, lo sguardo perso davanti al televisore che rimaneva sempre acceso, fino a notte fonda. È capitato tante volte che Patricia si sia addormentata davanti allo schermo, e al mattino presto, prima di andare a scuola, Viola l’abbia trovata raggomitolata sul divano, il corpo illuminato dai colori di un cartone animato. «Mamma, reagisci!» «Non metterti anche tu a dirmi cosa fare», piagnucolava lei. «Sono solo un po’ stanca, mi passerà.» «Devi uscire.» «Per andare dove?» L’espressione era spaurita. «A fare due passi o da un’amica, dal parrucchiere!» «Dal parrucchiere!», ripeteva Patricia ridacchiando e alzando le spalle: «Per quel che serve…». Aveva smesso di dirle cosa fare: era inutile, come parlare al muro. Se sua madre voleva affondare nel fango, si accomodasse pure. Prima o poi si sarebbe accorta che stava affogando – in quella melma avrebbe pur toccato il fondo – e allora sarebbe risalita. Viola aspetta che Patricia risalga, che tutto questo incubo passi. Aspetta che da quello spettro con i capelli spenti e le unghie rosicchiate torni la donna truccata, capelli mo13
gano e unghie rosse, che era sua mamma. Intanto fa la spesa, prepara da mangiare, va a scuola, paga le bollette che Patricia si è dimenticata di pagare. Ha smesso di andare a ginnastica ritmica, non sono quei passetti che le serviranno nella vita. Ci vuole ben altro, ci vogliono lunghe falcate, e salti sufficientemente alti per superare ogni ostacolo, uno dopo l’altro, con la massima precisione e velocità . E Viola vuole vincere.
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allenamento 2
Le mani affondate nelle tasche dei pantaloni di lurex, il collo sprofondato nel colletto della giacca a vento, l’allenatore si schiarisce la gola, segno che sta per dire qualcosa di molto serio. Ha riunito la squadra davanti a sé, appena terminato l’allenamento, prima che scenda negli spogliatoi. I ragazzi sono lievemente nervosi, si chiedono che cos’avrà da dire Manlio, con quell’aria seria, e visto che sono nervosi non fanno che ridacchiare e darsi pacche o spinte, finché il gracchiare li mette a tacere. Il mister vuole silenzio assoluto, si sa. Così lo chiamano, il mister, come fanno i calciatori professionisti in televisione. Del resto, loro formano una vera giovanile, da lì potrebbe uscire qualche campione, è già capitato, e comunque la società possiede una squadra di serie B, mica noccioline. «Che faccia scura, secondo me il mister caccia via qualcuno, oggi», mormora uno nell’orecchio di un compagno. «Oh, ma stai zitto! Se non sente un silenzio di tomba non parla, lo sai.» Ecco, silenzio perfetto. I ragazzi sono immobili, in pie15
PAOLA ZANNONER
è fra le autrici più amate dai ragazzi. Ha pubblicato numerosi libri con le maggiori case editrici italiane, fra cui A piedi nudi, a cuore aperto e Voglio fare la scrittrice. Con Il Castoro ha pubblicato Io, la danza, le amiche e papà e Zorro nella neve, e ha contribuito alla raccolta di racconti Parole Fuori.
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Leo è una promessa del calcio: ama questo sport e sa di essere bravo. È l’orgoglio del padre, gli osservatori lo tengono d’occhio, il salto verso una grande squadra è dietro l’angolo. Ma un brutto incidente in moto spezza i suoi sogni per sempre. Non potrà più camminare, né correre, né giocare a pallone. Leo non riesce ad accettare la sua nuova condizione: si isola dalla famiglia, dagli amici, da tutti. L’unica che riesce a far breccia nel muro che il ragazzo ha costruito intorno a sé è Viola, una compagna di scuola, campionessa di corsa a ostacoli. Viola, con la sua fame di vita e di velocità, riesce a scuotere Leo nel profondo trascinandolo insieme a lei verso il traguardo più importante: costruirsi una nuova strada, con nuovi sogni e nuove certezze.
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