Meglio Nat che niente

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© dirty sugar

Tim Federle, nato a San Francisco e cresciuto a Pittsburgh, ha iniziato a fare audizioni a New York da teenager, prendendo poi parte a ben cinque musical di Broadway. Meglio Nat che niente è il suo romanzo d’esordio ed è ispirato alle sue esperienze personali e al backstage delle sue audizioni, nonché all’amato protagonista del musical Billy Elliot. Meglio Nat che niente si è aggiudicato il titolo di “Notable Book” del «New York Times Book Review» e di “Miglior Libro dell’Anno” di «Publishers Weekly» e «Slate».

€ 15,50 ISBN 978-88-8033-970-0

9 788880 339700

www.castoro-on-line.it

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uando scappa di casa nel cuore della notte, diretto a New York, il tredicenne Nat Foster sa di non avere niente da perdere. Nel piccolo paese in cui è cresciuto nessuno approva la sua passione per il canto: a scuola tutti lo prendono in giro e a casa i genitori hanno occhi soltanto per il fratello maggiore Anthony, campione nello sport. L’unica a capire il talento di Nat è Libby, la sua migliore amica, e proprio lei lo spinge a partire all’avventura: stanno per cominciare le audizioni per E.T. - Il Musical, e chi più di Nat meriterebbe di avere una parte nello spettacolo? Al provino però la concorrenza è davvero agguerrita e non mancano gli imprevisti, tra cui l’arrivo dell’eccentrica zia Heidi. Ma Nat non si arrende, è deciso a lottare fino all’ultimo per conquistare il suo posto… nello straordinario pianeta del musical!

Quanto sei disposto a rischiare per realizzare i tuoi sogni? Design sovraccoperta Laurent Linn Illustrazioni: sfondo – Scott M. Fischer ragazzo – Andrea Parisi



Questo libro è dedicato a te.

Tim Federle Meglio Nat che niente Traduzione di Laura Liucci © 2015 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Pubblicato per la prima volta con il titolo Better Nate than Ever da Simon & Schuster Books for Young Readers un marchio di Simon & Schuster, Inc. Copyright © 2013 Tim Federle Design del libro Laurent Linn ISBN 978-88-8033-970-0




Qualche antefatto

Preferirei non partire dagli antefatti. In questo momento non ne ho davvero il tempo: devo rivedere il mio piano di fuga, rubare la carta d’identità falsa di mio fratello (a proposito, ha mentito: non è mica così alto) e capire quali siano i migliori snack proteici per affrontare una notte di viaggio verso la città più pericolosa della Terra. Quindi niente antefatti, non ancora. Insomma… usate la fantasia. Per esempio, se ometto di dirvi che sono alto un metro e quarantadue, sentitevi pure liberi di immaginarmi con una decina di centimetri in più. E se non vi parlo neanche di tutti gli altri ragazzi della mia classe, che superano l’uno e sessanta, e di James Madison (sì, si chiama come il quarto presidente degli Stati Uniti) che è alto un metro e settantacinque e non deve nemmeno tosare il prato per guadagnarsi la paghetta, ecco: fate pure finta che anch’io sia così alto. Un metro e settantacinque, con grandi mani da campione di basket, una ragazza (che va al liceo!) e un viso perfetto, senza brufoli. Fate finta che io sia così, come James Madison. 1


Lo sono, in effetti, ma all’opposto, anzi, un po’ peggio. In ogni caso, nonostante la nostra pazzesca differenza di statura, io e lui abbiamo lo stesso peso. Me lo disse una volta l’infermiera della scuola. «C’era qui James Madison appena prima di te», mi raccontò con un gran sorriso stampato in faccia, nemmeno stesse per regalarmi un cucciolo, «e avete lo stesso peso!». È questo l’unico attributo fisico rispetto al quale non sono sotto la media: il peso. Ah, comunque lo sapevo già che James Madison era stato dall’infermiera prima di me quel giorno: l’avevo incrociato sulla porta e lui, dopo essersi leccato dalle labbra i granelli di Ritalin, aveva fatto il gesto di saltarmi addosso, giusto per farmi urlare un po’. Avevo urlato un po’. Per fortuna avevo preso una nota niente male, riuscendo a trasformare quel grido in una melodia. Ero entrato nell’ambulatorio canticchiando una canzone. La vita non è sempre stata facile: la mia prima parola è stata “mamma” e le successive “gli altri bambini mi prendono in giro”. Ma se sono arrivato in terza media sano e salvo (insomma, più o meno) è perché faccio finta che la mia esistenza abbia una colonna sonora. Trovato! Ecco un antefatto per voi: ho sempre cantato. Non che vi siano testimonianze. I miei genitori non sono stati così bravi a documentare la mia infanzia; hanno dedicato tutte le riprese a mio fratello Anthony, senza tralasciare eventi epocali come le sue prime sette pupù. Così, quando con la mia nascita ho turbato la sua tranquilla e brillante 2


carriera di studente e atleta modello di appena tre anni, le videocamere erano già puntate in tutto e per tutto su ogni suo sprint, affondo, tuffo o colpo. Sono termini sportivi. Così mi hanno spiegato. Dunque, dicevamo che ho sempre cantato. Anche se non ne esistono prove. Nessuna inquadratura in alta definizione del piccolo Nat Foster che sgambetta attorno all’albero di Natale intonando Santa Baby con una voce da soprano squillante e cristallina. Ovviamente posso solo immaginare come fosse la mia voce: nessuno l’ha mai registrata. Comunque sto divagando – mi avete distratto – e c’è ancora molto da fare. «Non per farti pressione, ma se ce la fai, sarai per sempre il mio eroe.» Lei è Libby, la mia migliore amica fin da quando io ricordi (due anni e tre mesi, per la precisione; ma odio quando i racconti vengono intralciati dalla matematica). Stanotte Libby è qui nel mio cortile, illuminata solo dalla luna. Anche se, in realtà, potrebbero essere le luci dei vicini, con i sensori di movimento. «Bau! Bau!» Questo invece è il loro cane. Sì, sono decisamente le luci dei vicini. «Libby, se non ce la faccio e non riesco a tornare a casa entro domani sera, sono morto. Del tipo che i miei non mi permetteranno mai più di lasciare la Pennsylvania occidentale.» Sto abbracciando il mio zaino, in cui ho stipato tre paia di mutande, una bottiglia d’acqua (i cantanti devono sempre essere idratati), un deodorante (nel caso mi servisse du3


rante il viaggio; per il momento sto bene, ma ho letto su internet che il corpo degli adolescenti può iniziare a puzzare in qualsiasi momento) e cinquanta dollari. Cinquanta dollari dovrebbero bastare almeno fino a Harrisburg, e una volta lì potrò usare la carta di credito di mamma per prelevare un po’ di contanti. Ah, sì. Ho preso in prestito la carta di credito di mamma. Diciamo che le sto facendo da baby-sitter. Il piano è questo: prelevare i soldi a Harrisburg sarà meno sospetto che nella nostra cittadina (motto non ufficiale: “settanta chilometri da Pittsburgh, mille da ogni divertimento”). Quando le arriverà l’estratto conto della banca, mamma non penserà mai che sia stato io; Harrisburg è la capitale della Pennsylvania, e deve per forza pullulare di criminali come ogni grande città. «Dico sul serio, Lib. Se qualcosa va storto, i miei genitori non mi permetteranno più di andare da nessuna parte. Mai più.» «È una fortuna che non te lo abbiano mai permesso, Nat. Così, se ti rinchiuderanno per sempre in casa, non saprai quello che ti perdi.» Sì, certo. A meno che io non resti bloccato a New York, senza un tetto sopra la testa, nel bel mezzo di una tormenta di neve di metà ottobre. E a meno che alla fine, tornato a casa dopo il viaggio, io non abbia in realtà capito che cosa mi perdo, perché ho mangiato uno dei famosi pretzel di strada di New York. Voglio dire: vendono i pretzel per strada! È come se lì tutto fosse possibile. Vendono anche speranze, in 4


strada? Si possono comprare abbracci, sogni e vitamine per diventare più alti? E gli hot dog? Scommetto di sì. Feather gironzola intorno ai miei piedi nell’erba, lamentandosi: sono sicuro che deve fare pipì. È così ben addestrato (ci ha pensato mio fratello, che nella nostra cittadina non è solo la star dello sport, ma anche “il ragazzo che sussurra ai cani” – oltre che il maggior donatore di vecchi numeri di Men’s Health alla biblioteca e il più valoroso bagnino volontario) che “ci va” solo quando glielo ordiniamo. Per un momento mi piace credere che Feather abbia intuito la mia partenza imminente. Che si stia lamentando solo perché è spaventato. Spaventato quanto me. «Vai, bello.» Ma deve davvero solo fare pipì. Qualcosa si muove tra gli alberi dietro casa. Libby si rannicchia per nascondersi e i suoi jeans si arricciano sulle ginocchia. Abbiamo fisici identici io e lei, con le dovute – e ovvie – differenze. «Siamo d’accordo sull’alibi?», dico. «Sì, tutto chiaro. Io farò da baby-sitter al cane mentre Anthony andrà a vincere un’altra gara, domani. E se dovesse chiamare qualcuno a casa, risponderò io e cercherò di far passare la mia voce per la tua.» Libby cerca di essere gentile: abbiamo già la stessa voce. Quando ordino la pizza al telefono, chiudono sempre la conversazione dicendo: «Ci vorrà mezz’ora, signora». «Ripassiamo cosa fare se qualcuno cerca di rapirti», dice Libby. «Vomito.» 5


«Esatto.» Libby ha una teoria per tutto e una di queste è che, se vomiti sui criminali, loro se ne vanno. Lei guarda più televisione di me. «E se non riesco a vomitare? Se non ho mangiato niente?» Libby sorride, infila una mano nella borsa e mi allunga una scatola da ventiquattro ciambelle al cioccolato. Nessuno mi conosce bene come Libby. «Sei così buona con me», le dico. «Oh, Dio», adesso sto saltellando, «forse dovrei restare a casa. È una pazzia». «Non pensi che sarebbe più da pazzi restare qui? E vendere fiori per il resto della tua vita?» L’attività di famiglia è il negozio Fiori di Flora. Lo gestisce mamma, anche se non ci guadagna molto: che affari puoi fare con un negozio il cui prodotto principale appassisce al tramonto? «Ripetimi un attimo quale sarà la mia frase a effetto newyorkese?», le chiedo. «Era tipo… “Cavolo, la metro A fa tutte le stazioni oggi.” Giusto?» Libby produce una specie di lamento profondo e mi afferra per le spalle. «No, Nat. La chiave di tutto è dirla alla perfezione. “Accidenti, la metro A fa tutte le stazioni oggi. Che scocciatura”. È così. Ho fatto una ricerca su Google: “cose che infastidiscono i newyorkesi”. Devi fidarti di me.» Mi guarda e arriccia il naso, come fa sempre quando è nervosa o quando è certa che io stia per incasinare qualcosa. «Accidenti, la metro A fa tutte le stazioni oggi», ripeto come un robot diligente, «che scocciatura». Ce la posso fare. Le luci del vicino si spengono, e per un momento siamo solo io, Libby, Feather e un cielo di rurale oscurità, la frizzan6


te aria autunnale che mi annuncia l’avventura. O un mare di guai. Tipo un falò che si trasforma in un incendio, uno scherzo di Halloween che termina in tragedia, o un ragazzo che assomiglia a una ragazza che si fa ammazzare a New York. «Chiudi gli occhi», dice Libby. Quando lo faccio e lei non mi prende la mano per metterci dentro un regalino – un portafortuna a forma di zampa di coniglio una volta, i biglietti per il tour di Les Misérables un’altra – sento che sta per accadere qualcosa di nuovo. Appena riapro gli occhi e la vedo avvicinarsi a me come se fossi una ciambella al cioccolato, con la bocca aperta, gli occhi chiusi e le braccia tese, mio fratello entra nel piazzale laterale con il suo pick-up e gli abbaglianti al massimo. I sedicenni guidano sempre con i fari alti per compensare la loro insicurezza e l’inesperienza nel gestire un tostapane della morte da sette tonnellate. Per la prima volta in assoluto, Anthony mi ha salvato da qualcosa. «Che ci fate voi sgorbi qua fuori?», dice sbattendo la portiera, poi si rivolta il cappellino da baseball all’indietro e si arrotola le maniche come se stesse per sporcarsi le mani con chissà quale lavoro da duri. «Abbassa la voce, Anthony», gli dico, «i vicini staranno dormendo». «Ti prego, Nathan», risponde lui, girando attorno alla macchina e passandola in rassegna (come di rito) in cerca di ogni minimo graffio. «Non è a quest’ora che di solito canti a squarciagola il ritornello di Belli e Pupi?» 7


Avete mai provato ad amare i musical, con un fratello maggiore che in palestra può sollevare l’equivalente del vostro peso? Ve lo sconsiglio! Prima che iniziasse a vergognarsi di apparire in pubblico in compagnia del sottoscritto (più o meno quando Libby mi tinse i capelli di biondo), Anthony e io facevamo pagare settanta centesimi ai figli dei vicini per assistere al più eccezionale spettacolo mai andato in scena a Jankburg: lui che faceva i sollevamenti usando me come peso. “Si chiama Bulli e Pupe”, sto per rispondere, ma non lo faccio. Libby si allontana e guarda le stelle, probabilmente sconvolta dal fatto di essere stata interrotta mentre stava per baciarmi. Probabilmente sconvolta dal fatto che stesse per baciarmi, punto. «Siamo qui fuori perché stanotte dovrebbe esserci una pioggia di meteoriti», dice lei, mentendo a Anthony. Sono io l’unica persona alla quale non mente. «E io e il tuo fratellino non ci perdiamo mai un bello spettacolo.» Sto sudando così tanto che penso che per la prima volta potrei davvero aver bisogno del deodorante. Proprio qui, in cortile, vicino allo gnomo di terracotta e allo sbilenco ponte giapponese in miniatura che mamma ha fatto installare quando papà ha avuto un’altra. «Ascoltatemi bene», dice Anthony, e si avvicina, ma poi resta fermo ad almeno due metri e mezzo di distanza. Forse teme di essere contagiato dal pericoloso virus del musical. «Ecco, domani ho un incontro importante ad Aliquippa. E devo alzarmi praticamente all’alba. Quindi se volete stare 8


svegli tutta la notte a giocare al teatro ululando alla luna come una coppia di attricette, è meglio se andate a dormire da Libby. Dico sul serio. Ho bisogno di riposare, Nat.» Perfetto. Tutto secondo i piani. «Cavolo, Anthony! Se questa partita è così importante, forse è una buona idea.» «Non è una partita, omo. È un incontro.» Anthony si avvia verso la porta a vetri scorrevole che anni fa ha distrutto mentre giocavamo a fare la lotta (lanciandomi attraverso la cucina e fuori sulla veranda fin contro il vetro, gesto per il quale è stato messo in punizione per la prima/ultima volta in tutta la sua impeccabile vita) e scompare all’interno, riemergendo poi un momento dopo. «E non fate niente di stupido stanotte. Sul serio, ragazzi. Mamma e papà mi ucciderebbero se dovessero andare all’obitorio a identificare i vostri corpi.» Questo fine settimana Anthony dovrebbe occuparsi di me, anche se non so quali genitori sani di mente lascerebbero il loro figlio tredicenne dall’animo sensibile con l’altro figlio sedicenne in fissa con le ragazze. Non che i miei genitori siano sani di mente. Sono soltanto al verde. Non possono permettersi una baby-sitter e non possono neanche permettersi il weekend speciale che papà ha regalato alla mamma, in onore dei loro senz’altro straordinari diciassette anni insieme. Penso che papà sia semplicemente troppo spilorcio per pagare un divorzio, così ha speso un sacco di soldi per un hotel extralusso, un posto con gli asciugamani di spugna e i cioccolatini della 9


buonanotte a forma di cuore. Un posto in cui i genitori come i miei vanno a rinnovare i loro voti, pensando che la vita potrà essere sempre così rilassata dalla notte di quest’anniversario in avanti. Fino a quando non torneranno a casa e scopriranno che il loro figlio minore è stato venduto come schiavo a New York. Che guastafeste! E ora, con Anthony e Feather in casa, e io e Libby qui fuori da soli, non mi resta che andare. «Ho paura, Libby», dico, scegliendo di far finta che il quasi-bacio non sia mai avvenuto. «Perché?», chiede Libby, ma lo vedo che anche lei ha paura per me. O forse vorrebbe avere la possibilità di partire con me, di essere la co-protagonista di questa fantasia che è stata lei ad accendere, iniziandomi al magico mondo delle commedie musicali. «Non c’è niente di cui aver paura, Nat. Sei piccolo e combattivo, e sai come tirarti fuori da ogni situazione che ti possa capitare.» Eppure, soltanto lo scorso weekend un moccioso di seconda più basso di me mi ha rinchiuso in un armadietto. «Okay, il taxi per la stazione dovrebbe arrivare tra tipo dieci minuti», dice Libby, accompagnandomi alla mia stessa staccionata. «Gli ho detto di fermarsi ai piedi della collinetta, in modo che Anthony non possa vederti.» Cosa farei senza Libby? Cosa farò? «E se faccio la figura dello stupido? Se dimentico le parole della canzone?» «Sono anni che fai la figura dello stupido, Nat», replica 10


Libby, «per lo meno stavolta hai la possibilità che ti paghino per farlo». «Se balbetto mentre dico il mio nome?» Balbetto sempre quando dico come mi chiamo: N-n-nat F-f-foster. Come se stessi confessando il crimine di essere al mondo. «Prendi un bel respiro e ti rilassi... come dovresti fare ora», mi dice Libby. «E se perdo la voce? E se…» «Nat, smettila.» Fa schioccare le dita. Davanti alla mia faccia. «Fatti una dormita sull’autobus, e alle nove sarai a destinazione. Chiedi a qualsiasi adulto che non sembri un assassino qual è la strada per i Ripley-Girier Studios; poi trova un bagno, datti una lavata al viso e prova a far scorrere l’acqua calda finché il vapore non avrà stirato le grinze della tua camicia. E vedrai che andrà tutto bene.» Libby mi squadra dalla testa ai piedi. «Hai le gocce per la tosse?» «Sì.» «La bottiglia d’acqua?» «Certo. Ovvio.» «Hai preso la foto in primo piano e il curriculum?» «Santo Il ballo dei vampiri!» (Invece di imprecare, noi gridiamo i titoli di leggendari flop di Broadway. Il ballo dei vampiri è un famigerato musical dei primi anni Duemila, con lo stesso attore di Il fantasma dell’opera come protagonista, ma questa volta nei panni di un succhia-sangue. C’è perfino una canzone che si intitola Aglio. Non sto scherzando). «Okay, okay, niente panico», dice Libby. Devo aver lasciato la foto e il curriculum a casa sua, dove ieri notte abbiamo 11


messo a punto il piano per quest’avventura. «Potrebbe essere potenzialmente accattivante per Broadway», ragiona lei, «scoprire un ragazzo venuto dalla strada che non ha nemmeno una foto. E comunque, siamo onesti sul tuo curriculum: l’unico ruolo che hai interpretato è quello di un fungo in uno spettacolo sull’importanza di mangiare le verdure». Non ha tutti i torti. Anche se in realtà interpretavo il broccolo. Tra l’altro, non avendo un vero scatto degno di un book fotografico, Libby e io abbiamo preso la mia foto di terza media e l’abbiamo ingrandita, mettendo in risalto la mia pelle orribile, l’uso eccessivo di prodotti per capelli e quella cavolo di scucchia che dimentico sempre di avere. Chissà se capita la stessa cosa a quelli che nascono con otto dita o con delle strane voglie sulla pelle, chissà se dimenticano di essere un po’ diversi finché non si vedono in una foto. In realtà questo è uno dei motivi per cui non mi dispiace poi tanto che i miei non abbiano documentato la mia vita. Uno dei motivi per cui sono contento di aver lasciato quella foto da lei la notte scorsa. Il taxi accosta, e Libby mi allunga cinquanta dollari. «Libby!» «Prendili. Tuo padre sarà pure un dottore, ma mi sembra che i soldi se li tenga stretti.» In realtà, mio padre non è un dottore. È un tecnico addetto alla manutenzione al Centro Medico dell’Università di Pittsburgh (pulisce i bagni), ma ogni volta che i miei compagni sentono che lavora al Centro Medico, danno per certo che sia un dottore. Chi sono io per infrangere i loro sogni? 12


«Te li ridarò», le dico, «con gli interessi. Ti restituirò il favore». Libby controlla che non ci siano procioni o malati mentali a piede libero lungo la strada buia e paurosa dietro casa mia, e poi allunga una mano, l’indice puntato verso di me. Io faccio lo stesso, e quando le nostre dita si toccano ed entrambi sorridiamo, Libby continua: «Non dimenticare di telefonare, siamo intesi?». «Certo. Starò via solo un giorno. Domani sera a quest’ora sarò già tornato.» «Sarà meglio per te. I tuoi genitori e tuo fratello arriveranno nello stesso momento. Lui avrà un pick-up carico di trofei e loro saranno sul punto di uccidersi a vicenda. E c’è qualcosa di – come dire? – peculiare nel tornare a casa e rendersi conto che tuo figlio tredicenne non c’è. Anche se non ti notano nemmeno quando… be’, quando ci sei.» «Pensi di salire o cosa?», grida il tassista dal finestrino aperto. Guardo i miei vestiti. Magari scopro di indossare un costume da SuperBoy con cui posso evitare del tutto questa corsa in taxi. Magari riesco a volare fino a New York, invece di rischiare che mi scippino nel bagno della stazione degli autobus prima ancora di lasciare Pittsburgh. «In bocca al lupo», mi dice Libby. Abbracciandomi, mi dà un bacio veloce sulla guancia. «Scrivimi continuamente, e tieni questo…», e mi allunga un plico misterioso che tira fuori dalla borsa. «Prendilo e non aprirlo fin dopo l’audizione. Dopo che si saranno completamente innamorati di te.» 13


«Grazie, Libby. Lo farò.» Ma loro no. E sopra di noi una stella attraversa il cielo della notte – come una visiera di fuoco sulla testa di Libby –, lasciando una traccia luminosa che sembra disegnata con un dito. Qualcosa di umano e palpabile e raggiungibile. Magari lascerò anch’io una traccia simile a New York, in un posto dove qualcuno forse saprà capirmi davvero. Forse Libby non mentiva sulla pioggia di meteoriti; o magari riesce ad avvertire cose future che io non avverto. «Sali diretto sull’autobus dopo l’audizione», mi dice. «Non andare al Museo delle cere di Times Square, né niente del genere. Comprami una T-shirt con la scritta “I ♥ New York” e torna qui. Torna subito qui.» Chiudo lo sportello e abbasso il finestrino. Il taxi puzza di uomo morto, o di quello che puzzerebbe un uomo morto se mai ne odorassi uno. Cosa che sono sicuro accadrà durante questo viaggio, sempre che non diventi io stesso uno di loro. «Libby?» «Sì, Nat?» «Se mi succedesse qualcosa, sappi che sei sempre stata la mia Elphaba preferita.» Il taxi sfreccia via, e io mi aggrappo al mio zaino e chiudo gli occhi, pregando, in preda al panico, che tutto vada bene. E quando mi volto per salutare Libby, lei non c’è più – c’è solo quella scia nel cielo, ancora luminosa. Impressa a fuoco sull’Orsa Maggiore come una sfida.

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Teorie su tutto

A titolo informativo, adesso so perché negli Stati Uniti le stazioni degli autobus sono gestite da una società di nome Greyhound Bus Stations, e non è come pensate. Sì, è vero, i greyhound sono velocissimi e scattanti levrieri. Il loro nome significa qualcosa del tipo: “Ehi, sono un fantastico segugio (hound) grigio (grey)”. Così, in queste stazioni degli autobus ti allettano con la promessa di un cagnone dolce e agile, disegnato come il personaggio di un fumetto, quando in realtà non c’è niente di canino in un autobus Greyhound: solo un sacco di grey. Perché qui tutto, ma proprio tutto, è di varie tonalità di grigio. I capelli dei senzatetto, perfino di quelli giovani: grigi. L’illuminazione: grigia. Gli hot dog: grigi (ma piuttosto buoni, a dire il vero). Tutto è del colore della morte, di una giornata nebbiosa che annuncia un’altra insufficienza nella verifica di Storia. Qualsiasi cosa ha il colore di un fiore appassito nel negozio di mia madre. Oddio, mi ucciderebbe se sapesse che sono qui. «E quant’è un biglietto di andata e ritorno per New 15


York?», chiedo allo sportello. Sono in punta di piedi, cercando di sembrare un ragazzo un po’ bassino, e non un bambino alieno con un deficit della crescita. «Andata e ritorno», mi dice il tipo con l’aria mezzo addormentata – o forse morta – e l’espressione grigia, «sono cento dollari». «Cento dollari?», ripeto io, perdendo l’equilibrio e facendo cadere a terra un mucchio di volantini degli autobus. «Sì, cento dollari. O cinquantacinque solo andata. Ma tua madre o tuo padre non devono pagare in contanti. Accettiamo le carte di credito.» «È buffo che abbia accennato a mia madre, signore», dico ad alta voce. «Immaginavo che l’avrebbe fatto, che potesse essere la prima cosa che avrebbe detto quando un tipo piccoletto come me… che sembra piccolo come me… arriva al suo sportello per comprare un biglietto dell’autobus: uno sportello che sta gestendo in maniera impeccabile.» Lo sto perdendo. Lo sto perdendo. «È veramente comico, lo devo ammettere, ma tornando a mia madre: è andata in bagno. E sono sicuro che sarà di ritorno tra un momento, ma sta avendo qualche piccolo problema di stomaco e mi ha chiesto se potevo occuparmi io del mio biglietto, da solo, prima che tornasse. Perché potrebbe metterci un po’.» Libby e io abbiamo provato questo discorso varie volte. Forse troppe. «Sa com’è con i disturbi di stomaco, signore», dico, cimentandomi in una battuta fuori copione. «Servono quindici anni per poter comprare da solo un 16


biglietto», mi dice l’uomo, alzando lo sguardo verso la Tv con il telegiornale locale. Qualcuno è stato pugnalato a tre isolati da qui, e la notizia mi è stranamente di conforto: forse New York sarà più sicura di Pittsburgh. Tiro fuori la carta d’identità di Anthony dal portafogli e la faccio scivolare sul banco. Se quest’uomo guarda anche solo di sfuggita la foto, il primo piano di un modello di fama internazionale, un fratello che potrebbe diventare tutto ciò che vuole (anche se mente sull’altezza: non è uno e settantasette!), sono morto. Grazie al cielo il servizio sull’accoltellamento locale è così dinamico, con un sacco di effetti grafici e testimoni oculari, e una donna che sta piangendo con in mano una mazza da baseball, per un grande momento di televisione, che l’uomo è completamente rapito; e senza staccare gli occhi dal televisore, prende la carta di credito di mia madre e fa per strisciarla, quando lo blocco. «Aspetti!», gli dico, riprendendo la carta. «Devo pagare in contanti.» Proprio quello che mi serve: un estratto conto della carta di credito recapitato a mia madre, con su scritto ACQUISTO ILLEGALE DI UN BIGLIETTO DELL’AUTOBUS PER NEW YORK CITY A OPERA DI SUO FIGLIO MINORENNE. Fortunatamente, l’ho fermato in tempo. Fortunatamente, Libby e io eravamo pronti a questa evenienza. Abbiamo passato in rassegna ogni minimo dettaglio di 17


questo viaggio ieri, quando si è presentata a casa mia dopo la scuola. La scena era questa: stavo facendo finta di rastrellare le foglie del giardino sul retro, mentre in realtà ero nel bel mezzo di Singin’ in the Rain, tipico espediente per evitare i lavori di casa (stava piovendo a dirotto). Libby è arrivata di corsa, ansimando, per darmi subito la notizia dell’audizione. Le notizie da prima pagina mi arrivano sempre da Libby: a casa mia abbiamo ancora un modem con connessione remota, quindi il monitoraggio di Facebook lo faccio da casa sua. Era una notizia davvero grossa. «Jordan Rylance, quel fortunato babbeo che frequenta la Scuola di Arti Sceniche, ha annunciato una gita molto speciale a New York», ha detto Libby, sorridendo come una che ha vinto alla lotteria, «per partecipare all’audizione per un musical su E.T. dal titolo E.T. - Il Musical». (A quel punto mi sono aggrappato alla coda di Feather per mantenere l’equilibrio.) «Stanno cercando un ragazzino per la parte di Elliott. E questo fine settimana a Manhattan ci sarà un’audizione aperta a tutti.» Poi si è acquattata e si è coperta la faccia, sapendo come reagisco di solito a notizie di tale portata galattica. Sapendo che avrei lanciato qualsiasi cosa in mio possesso – monete, vecchi braccialetti dell’amicizia, il rastrello – a sei metri da me in ogni direzione, come l’esplosione di una supernova. Sapendo che questa era la mia unica occasione per scappare da Jankburg, Pennsylvania. E adesso, dopo aver quasi usato la carta di credito di mia madre a soli venti minuti dall’inizio dell’avventura, mi do18


mando dove ho trovato il sangue freddo per pensare di riuscire davvero ad andarmene. Mi allontano dal banco e pesco nella mia busta di plastica piena di soldi, ma quando torno per pagare, l’uomo semiaddormentato è stato sostituito da una donna dal viso incastonato nella stessa non-espressione del suo collega, ma con molto più trucco. «Posso aiutarti?» Sta mangiando delle patatine che, per inciso, hanno un’aria deliziosa. «Oh, il gentiluomo di poco fa mi stava aiutando, ed era tutto pronto affinché la transazione andasse a buon fine.» Calmati, Nat. «Ma, ehm… immagino possa farlo anche lei, e... immaginavo che sarebbe stata la prima cosa che avrebbe detto quando un tipo piccoletto come me – che sembra piccolo come me – arriva al suo sportello per comprare un biglietto dell’autobus, uno sportello che sta gestendo in maniera impeccabile. È veramente comico, lo devo ammettere, ma tornando a mia madre: è andata in bagno.» Sta’ zitto, Nat. Sta’ zitto, Nat. «E sono sicuro che sarà di ritorno tra un momento, ma sta avendo qualche piccolo problema di stomaco e mi ha chiesto se potevo occuparmi io del mio biglietto, da solo, prima che tornasse. Perché potrebbe metterci un po’.» La donna continua a mangiare le patatine. «Okay», replica senza chiedermi né la carta d’identità né altro, e mi vende un biglietto. Un biglietto per i miei sogni. Che al giorno d’oggi costa cinquantacinque dollari, tasse incluse. 19


E adesso sto guardando fuori dal finestrino un mondo conosciuto che si avvicina e poi scorre via, colori che vanno dal grigio (Pittsburgh) al rosso e blu brillanti (un incidente d’auto), fino al marrone (da qualche parte, una mezz’ora fuori città). Libby mi ha suggerito un’ottima tecnica che finora sembra funzionare alla grande: accartoccia una manciata di fazzoletti di carta, mettili sul sedile accanto al tuo e nessuno si siederà vicino a te nei lunghi viaggi in autobus. Provateci una volta, ragazzi. Alla prima sosta, dopo soli sessanta chilometri, un uomo mi segue giù dall’autobus fino in bagno, e si mette di fianco a me all’orinatoio. Per un momento mi chiedo quale sia il modo migliore per riuscire a vomitargli addosso quando cercherà di uccidermi. Dopotutto, ho lo stomaco vuoto. Quando ho finito, mi giro senza guardarlo e corro al lavandino, per poi decidere che forse è meglio avere le mani un po’ sporche, piuttosto che ammazzare il tempo mentre lui ammazza me. Mentre corro verso l’uscita, mi dice: «Ti è caduto questo». Mi giro e vedo che sta agitando il plico di Libby, dev’essermi scivolato dallo zaino. E lui dev’essere un newyorkese che sta tornando a casa. Nessuno mi aiuta mai in niente a Jankburg. A quel punto esercito il mio sorriso. Dal momento in cui lasciamo l’area di sosta fino all’arrivo ad Harrisburg, capitale della Pennsylvania e covo di criminali, continuo a esercitarmi a sorridere, alla faccia della paura. Potrebbe succedere di tutto a quest’audizione: potrei 20


dimenticare le parole; potrei balbettare il mio nome. Ma se mantengo intatto il mio sorriso, se riesco a dimostrare di essere un impiegato ideale, uno che non crea mai problemi, magari mi prenderanno anche solo per lo spirito di squadra che porterei. Dodici minuti a esercitarmi a sorridere, e ho i crampi alla mandibola. La scucchia non è progettata per i test, né per gli straordinari. Per tirarmi su, mangio due ciambelle. Una donna di fronte a me sta ascoltando qualcosa a tutto volume in cuffia, musica di tendenza che Anthony conoscerà di certo e che di solito mi darebbe fastidio, ma stanotte è una distrazione che mi sottrae alla mia mente terrorizzata e insicura. Fa su e giù con la testa a ritmo di musica, agitando i capelli che ricadono oltre il suo sedile fino alle mie ginocchia. Chissà se i newyorkesi hanno tutti così tanti capelli. Magari no. È più probabile che si radano la testa o che abbiano scoperto qualche altra moda assolutamente intimidatoria ed eccitante. E se dovessi farmi un tatuaggio temporaneo per poter entrare nell’isola di Manhattan, a New York? E se invece mi timbrassero la mano come in quel locale per minorenni dove va Anthony il fine settimana, e poi l’inchiostro risaltasse scurissimo sulla mia cadaverica mano grigiastra tipica degli abitanti di Jankburg? Mia madre capirebbe subito che cos’è: il marchio di un fuggitivo. Di un bambino cattivo che se l’è svignata. Mi ucciderebbe. Lo farebbe, dico sul serio. «Non provare a scappare di 21


casa o a fare altre sciocchezze del genere! Se ti fai ammazzare, ti ammazzo.Âť Citazione recente. Okay, non avrei voluto farlo, ma dedicatemi due minuti per una piccola deviazione. Ăˆ arrivato il momento di conoscere mia madre.

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Una rapida e apprezzabile conversazione con mia madre, una settimana fa

Tenevo entrambi i cani al guinzaglio (Feather, ovviamente, e l’orribile scalda-ginocchia di mia madre, Tippy), e stavamo per oltrepassare la porta d’ingresso quando mamma è comparsa di fianco a me stretta nel suo giaccone blu. Ohoh. «Ti accompagno fino all’angolo», mi ha detto, «poi puoi portarli da solo giù, dopo la casa dei Kruehler». Spesso, quando porto a spasso Feather (da solo), fingo di essere Don Chisciotte con il suo fedele servitore, e insieme scendiamo verso il ruscello dietro la casa dei Kruehler mentre canto The Impossible Dream con tutto il fiato che ho in corpo. Non ci crederete, ma ho visto alcuni lucertoloni fermarsi a guardare. Non eravamo nemmeno usciti dal cortile, la settimana scorsa, quando mamma ha sputato il rospo: «Papà mi porta fuori questo weekend». «Sul serio?», ho detto io, inciampando su Tippy (è il diminutivo di Tiffany, chissà perché). Il cane ha guaito come un rubinetto intasato.

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© dirty sugar

Tim Federle, nato a San Francisco e cresciuto a Pittsburgh, ha iniziato a fare audizioni a New York da teenager, prendendo poi parte a ben cinque musical di Broadway. Meglio Nat che niente è il suo romanzo d’esordio ed è ispirato alle sue esperienze personali e al backstage delle sue audizioni, nonché all’amato protagonista del musical Billy Elliot. Meglio Nat che niente si è aggiudicato il titolo di “Notable Book” del «New York Times Book Review» e di “Miglior Libro dell’Anno” di «Publishers Weekly» e «Slate».

€ 15,50 ISBN 978-88-8033-970-0

9 788880 339700

www.castoro-on-line.it

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uando scappa di casa nel cuore della notte, diretto a New York, il tredicenne Nat Foster sa di non avere niente da perdere. Nel piccolo paese in cui è cresciuto nessuno approva la sua passione per il canto: a scuola tutti lo prendono in giro e a casa i genitori hanno occhi soltanto per il fratello maggiore Anthony, campione nello sport. L’unica a capire il talento di Nat è Libby, la sua migliore amica, e proprio lei lo spinge a partire all’avventura: stanno per cominciare le audizioni per E.T. - Il Musical, e chi più di Nat meriterebbe di avere una parte nello spettacolo? Al provino però la concorrenza è davvero agguerrita e non mancano gli imprevisti, tra cui l’arrivo dell’eccentrica zia Heidi. Ma Nat non si arrende, è deciso a lottare fino all’ultimo per conquistare il suo posto… nello straordinario pianeta del musical!

Quanto sei disposto a rischiare per realizzare i tuoi sogni? Design sovraccoperta Laurent Linn Illustrazioni: sfondo – Scott M. Fischer ragazzo – Andrea Parisi


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