Nemmeno un giorno

Page 1

ANTONIO FERRARA - GUIDO SGARDOLI

N E MMEN O UN

ASCAB

O

C

AS

ILI

IT

GI ORNO TOR


Nemmeno un giorno di Antonio Ferrara e Guido Sgardoli

© 2017 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Grafica di copertina PEPE nymi Foto © Carolyne Fox / arcangel-images.com Prima edizione © 2014 Editrice Il Castoro Srl ISBN: 978-88-6966-255-3


ANTONIO FERRARA - GUIDO SGARDOLI

NEM M E NO UN GI ORNO



16:21 (Brano musicale: Aqualung, Jethro Tull, 1971)

Partito! Mi sembra impossibile. L’ho fatto, l’ho fatto davvero. Ho preso l’auto e sono andato, sono uscito dal garage, dal vialetto, dal cancello, dalla via, e adesso sto guidando. Ho il cuore sotto i denti che batte come un tamburo impazzito. Io che guido una macchina. E che macchina! Un’Audi tremila! Nessuno, nessuno ci crederebbe. Perfino io faccio fatica a crederci. Forse sto solo sognando. Mi do un pizzicotto. Ahi! Non è un sogno! Rimetto la mano sul volante prima di combinare guai. «tra cinquanta metri, girare a destra.» Madonna! Il navigatore mi ha fatto prendere un colpo! «tra cinquanta metri, girare a destra.» 1


Ok, giro. Sta’ tranquillo che giro. «tra poco, girare a destra.» Ho capito, ho capito. Ha una voce maschile, quasi uguale a quella di Sergio. Non è che è proprio Sergio nascosto qui dietro o nel bagagliaio che mi fa uno scherzo? «adesso, girare a destra.» Ecco, giro a destra. Ancora un po’ e sono fuori città. Guidare non è difficile. Almeno per me. Io guido i kart e questo mi aiuta. Difficile è stare calmi, tranquilli. Difficile è badare al navigatore e a tutte le cose che ci sono sulla strada, la strada vera, quella con i segnali, i semafori, le strisce. La gente. E ancora non basta. Per quello che mi sono messo in testa di fare io, c’è che non si deve attirare l’attenzione. È una parola. Vai piano, mi dico mentre seguo il traffico, e non rischiare che ti fermino. Continuo a ripetermelo a ogni metro. Non fare che ti fermino, non insospettire nessuno, se no ti freghi da te. Vai piano ma non troppo. Stai tranquillo. Respira. Respiro, ma intanto sudo. Sudo come una fontana. E se faccio un incidente? Se uno stronzo mi tampona o mi taglia la strada? Perché hai poco da dire stai attento, non fare che ti fermino, bada alla strada, vai

2


piano e tutte quelle menate, che se mi vengono addosso sono fregato lo stesso. Ieri sul giornale c’era un incidente. Lamiere accartocciate e un corpo coperto da un telo bianco. Spuntava un piede, dal telo. Era senza una scarpa e la scarpa stava dieci metri più in là. Mi ha fatto impressione. Stai tranquillo, respira. Se ti prende il panico sei fregato, fottuto, finito. Devo smetterla di pensare agli incidenti se no non ne vengo fuori. «alla rotonda, prendere la seconda uscita.» Seconda uscita, ricevuto. Credo che tutta questa cosa di andarmene di casa sia iniziata in pista, durante uno dei miei ultimi allenamenti, l’estate scorsa. Faccio karting da un paio d’anni. Non so perché mi è venuta questa idea, questa passione. Come nascono le passioni? Che ne so, magari uno comincia a dare i calci a una palla, da piccolo, e poi sogna di fare il calciatore; un altro piglia la chitarra del fratello e strimpella qualcosa e poi finisce a comporre canzoni; un altro ancora disegna o scrive racconti. A me piacevano i modellini delle macchine, quelle da corsa. Così ho chiesto a Sergio e lui mi ha detto va bene. Una settimana dopo ero col sedere su un kart Intrepid 60 motore Iame che sfrecciavo sulla pista di

3


Monticello. Da allora non ho più smesso. Quando corro dimentico ogni cosa, mi piace da pazzi. L’estate scorsa, il mio istruttore, Diego, un ex pilota di Formula 3000, mi dice: «Leon, avessi benzina all’infinito, non scenderesti mai dal kart!». Io faccio sì con la testa. Ha ragione lui, non scenderei mai, non smetterei mai. «Avessi benzina, gireresti intorno all’anello all’infinito. È così? Faresti il giro del mondo!» Così mi ha detto, il giro del mondo. È da quel momento che ho cominciato a pensare che un giorno avrei potuto prendere su e andarmene. Andarmene davvero. Non pensavo che l’avrei fatto tanto presto, ecco, ma le cose accadono proprio quando meno te le aspetti, accadono quando non ci pensi più, quando sei convinto che non fanno per te, quando dici: «Io? Figurati se io…». Stai tranquillo, respira. Quello era un vigile, accidenti a lui. Lo guardo nello specchietto retrovisore, che diventa piccolo, lontano. Non si è neanche girato a guardarmi, meno male. Se solo sapesse… La mia fortuna è che non dimostro gli anni che ho. Visto così, da fuori, potrei sembrare uno di diciassette, diciotto anni. E poi ho pensato anche a questo, mi sono portato un

4


cappello, un vecchio cappello di paglia che Sergio usa quando taglia l’erba in giardino, d’estate. Sono un po’ ridicolo, a guardarmi, ma fa niente: il cappello mi dà un’aria più adulta e mi copre la faccia, che non guasta. L’ho soprannominato il cappello da difesa. «per favore, proseguire diritto.» Ogni volta che questo apre bocca mi piglia un colpo, accidenti a lui. Accendo lo stereo, ora, così mi calmo. Lo stereo è in modalità shuffle. È una compilation di brani che Sergio ascolta quando guida. Roba vecchia, roba di quando lui era ragazzo. E mi viene da sorridere. Com’era Sergio da ragazzo? Non me lo immagino, proprio non ci riesco. Forse è nato già com’è, con la faccia da vecchio e i vestiti da vecchio e i modi stanchi, da vecchio. Forse è venuto fuori così. Sai che sorpresa? «tra duecento metri, girare a sinistra.»

5


17:38 (Brano musicale: Shoot to Thrill, AC/DC, 1980)

Si sta facendo buio e io non ho mai guidato col buio. La luce va giù di brutto, là in fondo, e come si accendono i fari, qui? Ah, ecco, no, questi sono gli abbaglianti. Ecco, adesso ci siamo, ci siamo. Calma. Be’, almeno ci vedo, adesso. Le macchine che vengono dalla parte opposta mi abbagliano, non è come guidare di giorno. Eh, no, no di certo. Questa non è la pista. E non è nemmeno il vialetto di casa. Lì era sempre giorno. Cioè, non è che fosse sempre giorno, è che Sergio mi faceva guidare di giorno. Facevo le manovre, parcheggiavo. Me lo lasciava fare perché giravo col kart, mica per altro. Però lo so che lo faceva storcendo un po’ la bocca, perché non era convinto del tutto e aveva paura che combinassi qualche casino. Chissà cosa sta pensando adesso. Chissà se se ne sono già accorti che 6


me ne sono andato. Quant’è passato? Un’ora. Forse no, forse non l’hanno ancora capito. Magari pensano che la macchina gliel’hanno soffiata. «al prossimo incrocio, proseguire diritto.» La strada è dritta, ora, dritta come un filo a piombo. Come un filo a piombo, lo diceva papà. Non Sergio, ma papà, quello naturale, biologico (così si dice). Padri biologici, neanche fossero uno di quei cibi vegetariani o vegani, e invece sono persone in carne e ossa e non ricordi, non foto sbiadite, non voci dimenticate. A volte mi sembra di essermela scordata, la faccia di papà, quella vera, quella che si muove, che sorride o si arrabbia, quella fissa al funerale di mamma, quella assente e minacciosa di quando tornava a casa dopo che aveva bevuto. Quella viva, non quella imbalsamata di una foto. Ecco, lo sapevo! Adesso sembro proprio un moccioso, perché quando penso a certe cose mi viene un nodo in gola che mi sembra di aver ingoiato un rospo tutto intero e mi si bagnano gli occhi, mi si riempiono di spilli, e io non voglio. Non voglio. «tra cento metri, girare a destra. attenzione, strada con pedaggio.» 7


E no che non la piglio l’autostrada, navigatore del cavolo, non la piglio, perché non sono un fesso io. Lui mi ci fa arrivare con l’autostrada, la via più breve, ma io sto sulla provinciale, la provinciale, sì, che dà meno nell’occhio. E pazienza se mi becco tutti i paesi e i semafori, uno dopo l’altro. Così mi sento più tranquillo, più libero di svicolare, di infrattarmi, di nascondermi, insomma, se ce ne fosse il bisogno. Mi sembra di essere in quel film, Il fuggitivo, dove c’era quel tizio accusato ingiustamente di qualcosa che fuggiva, fuggiva per tutto il film. Una cosa da mettere un’ansia… Io sono un po’ come quel fuggitivo e fuggo, fuggo per tutto il mio, di film. Ma in autostrada non ci entro. Meno male che prima di andarmene mi sono stampato la mappa di Google che ho qui sul sedile accanto, in bella vista, così mi arrangio anche senza navigatore. Le luci nelle case si sono accese tutte e vedo la gente muoversi attraverso le finestre. Se Sergio stasera tarda guadagno un bel po’ di tempo, perché Anna non ci va in garage a vedere se c’è l’Audi o non c’è. Lei starà preparando la cena, probabilmente. Anna non è male e cucina bene. È una donna un po’ grassa e buona e la prima volta che l’ho vista mi ha abbracciato, come se ci conoscessimo da un sacco di

8


tempo. Sergio invece mi ha dato la mano. Come un vecchio. Anna non è male, no. Cucina bene, è affettuosa e ha sempre un buon odore. Ma non è mia madre. Nello specchietto vedo uno che si avvicina, adesso, uno che mi sta incollato dietro, che lampeggia, ma non è la polizia, no, non credo, non ha la luce azzurra sopra. È uno con una Panda grigia che mi sta addosso e non mi molla, poi mette la freccia e mi sorpassa, mi sorpassa con la Panda, figuriamoci, ma io lo lascio fare. Con questa macchina posso darti paglia quando voglio, bello, ma me ne sto buono buono sulla destra, vai, passa pure, passate tutti, passate, che tanto non ho fretta, io. Lo stereo attacca il secondo pezzo e parte una musica di quelle toste, con una chitarra che gira gira e corre, e una batteria che picchia che ti viene voglia di pestare sull’acceleratore e andare come il vento, ma non lo faccio, no, sto attento, io, non sono mica scemo. Vado avanti facile, adesso. La guidi con un dito, l’Audi, è una bellezza, e il cambio automatico fa il resto. Il cambio automatico mi piace perché col piede libero ci batti il tempo come vuoi, invece di pensare alla frizione. Ma di colpo nel grigio della strada sbuca un cane

9


che esce da dietro un cassonetto, mi passa davanti e per poco non lo stendo. Freno a fondo, allora, freno e le gomme fischiano, e inchiodo a venti centimetri dal cane, e quello stupido si ferma a guardarmi da sotto i fari e non si muove. Che caspita ti credi di fare? Vuoi morire? È così? Volevi morire, forse? Stupido. Quel fesso di cane mi guarda e non si muove, ha la coda tra le gambe e non si muove. È tutto scuro, come fatto di ombre o di fumo. «se possibile, invertire il senso di marcia.» Faccio un salto sul sedile. «Ma vai a quel paese!», dico mentre metto il navigatore in modalità mute. «Così la smetti di rompere!» Intanto il cane si è accorto che dietro il parabrezza c’è qualcuno, alza la coda e comincia a sventolarla che sembra un elicottero. È contento, il cane, è contento perché l’ha scampata bella. Sì, sì, goditela, stupido di un quadrupede, che sei ancora vivo, almeno per oggi. Niente teli e niente scarpe buttate a dieci metri per te. E devi ringraziare l’abs. L’abs è una gran cosa e te lo ritrovi, quando serve. E un po’ è anche merito mio, che ho i riflessi da pilota di Gran Premio. Metto le quattro frecce e scendo, facendo attenzione, scendo a guardare ’sto cane com’è da vicino, e

10


mentre scendo lui invece salta in macchina e si piazza sul sedile accanto al mio, il furbetto, con quelle zampe belle sporche proprio sulla mappa di Google. E sul mio cappello di paglia da difesa, accidenti a lui!

11


18:15 (Brano musicale: Let’s Spend the Night Together, The Rolling Stones, 1967)

Ce l’avevo un cane. Si chiamava Roll. Non era di una razza particolare. Era un cane, un cane e basta, come ce ne sono tanti. Era marrone, ecco, e aveva una macchia bianca sulla testa, tra le orecchie. Roll era forte. Spezzava gli ossi con i denti e lo stack che sentivi ti faceva venire la pelle d’oca. Quello avrebbe potuto staccarti una gamba con un morso, se avesse voluto. Mica come questo stupido cane nero qui. Questo non farebbe male a una mosca, si vede. Roll, quando papà tornava dalla fabbrica, lo sentiva prima che comparisse dalla strada. Alzava le orecchie e correva alla porta e abbaiava, ma non come faceva agli estranei, e io sapevo che arrivava papà. Certe volte abbaiava in modo diverso e ringhiava, come se davvero dietro la porta ci fosse un estraneo. Invece era sempre papà, solo che era un 12


papà diverso e Roll se ne accorgeva, perché sembra di no ma i cani si accorgono di un mucchio di cose anche se noi pensiamo che siano solo degli animali. Quelle erano le volte in cui papà si fermava al bar dopo il lavoro. Tornava che era già buio e aveva un odore che ti dava la nausea. Quel papà lì non mi piaceva, anche se era sempre il mio papà. Mamma gli diceva: «Togliti la tuta che è sporca e stenditi a letto», e io lo sapevo che diceva così per allontanarlo da noi, da me e da mia sorella, perché quando lui diventava l’altro papà alzava le mani e ci batteva anche senza ragione. Quando invece non beveva, mamma lo abbracciava e gli raccontava cos’aveva preparato per cena. E insomma, anche se le cose non andavano sempre bene, a me piaceva stare con loro. Mio padre, quello vero, che mi guardava, alto appoggiato al muro. Mio padre si chiama Jan. Il cane nero mi richiama alla realtà con un verso che sembra quello di un gatto che miagola. Stupido cane. Va bene, ho capito. Sono sempre a bordo strada, con le quattro frecce in azione. Hai ragione, cane, meglio sbrigarsi prima che qualcuno venga a chiedere cosa succede e concluda troppo presto il mio gioco, la mia fuga. Così riparto col passeggero a bordo, cosa devo fare? Quello mi guarda con una faccia da cane che dice vai,

13


no, cosa aspetti? Vai, su, che un bel giretto me lo faccio volentieri, che è tanto che non faccio un bel giretto. E poi sono tutto infreddolito e mi sa che qui dentro si sta bene. Vai, che aspetti? Alzo il riscaldamento, un po’ per il cane, un po’ perché i vetri si sono appannati tutti e io non ci vedo un fico secco, e fuori è sempre più buio. Non so se è solo una mia impressione, ma adesso mi sembra di guidare proprio bene, sciolto, come se portassi l’Audi da anni. E questa musica mi fa la strada facile, e con la musica mi sento forte. Magari pure Sergio ascolta la musica per sentirsi forte mentre guida. È che di immaginarmelo ragazzo proprio non mi riesce. Una volta mi ha fatto vedere un album di fotografie. Ci sono delle foto di lui da piccolo, molto piccolo, tipo in carrozzina e al mare. Poi basta. Fine. Come se avessero rotto la macchina, o se avessero smesso di fargliele, le foto, e lui all’improvviso si è ritrovato grande com’è, adulto. Vecchio. Che poi non è vecchio ma, non so com’è, io lo vedo vecchio. È il modo di fare e di parlare, forse. Però questa musica non è una musica da vecchi. Anche lui è un uomo buono, ma per quanto cerchi di essere buono e comprensivo e paziente e simpatico e disponibile e moderno e affettuoso, non è mio padre e

14


io non sono sicuro che questa cosa lui e Anna riescano a capirla davvero. Ehi, ma questo è il centro commerciale, quello dove sono venuto un sacco di volte. Ecco dove stava! Mi piacerebbe fermarmi. Io che vengo al centro commerciale da solo, con la macchina! Ma chi se lo immaginerebbe? Parcheggiare, far scattare la serratura e andare a fare shopping, come i grandi. Poi risalire in auto con i pacchi e partire. Cose da grandi. Cose da fare senza chiedere il permesso. Quella volta che dopo la scuola sono andato a farmi un trancio di pizza per i cavoli miei, che tragedia che è venuta fuori. «Come ti è saltato in mente di andartene in giro senza nemmeno avvertirci?», aveva detto Sergio. E nonostante non urlasse e non desse di matto, si vedeva che era arrabbiato nero, che se avesse potuto avrebbe bestemmiato o tirato qualcosa contro il muro. Perché aveva le mani che gli tremavano, come la voce, ed era tutto rosso in faccia. «Volevo la pizza», avevo risposto io. Ero in Italia solo da pochi mesi. «Hai undici anni. Sei ancora un bambino. I bambini non prendono e vanno a mangiarsi la pizza per conto loro dopo la scuola. Lo capisci questo?» Io non lo capivo. Non capivo perché dovevo chie-

15


dere il permesso a Sergio e Anna, a due che non erano i miei genitori e che fino a qualche mese prima non conoscevo neppure, non avevo mai visto in vita mia. Mica erano miei parenti. Mica erano amici dei miei genitori. Mica erano niente, per me. Chi li voleva quelli? Chi gli aveva chiesto niente? «Io no qui», gli avevo risposto, me lo ricordo, che fa un po’ ridere perché ancora non parlavo bene l’italiano e poco lo capivo, ma una cosa mi era chiara, brillante come il sole, che non avevo chiesto io di essere portato lì, che non avevo scelto io di essere adottato, che se avessi potuto sarei rimasto con mia sorella Ewa e con mio padre, quello buono e quello meno buono. «Io no qui», avevo ripetuto, a muso duro, con la precisa intenzione di ferirli, di fargli del male, di fargli capire che non me ne fregava niente di loro. Che piangessero pure, che si arrabbiassero, che mi picchiassero. Io ero sordo, ero insensibile, ero duro come una roccia, duro come i sassi del cortile della mia casa, quelli che tiravo addosso al treno che passava e ai cani randagi che davano fastidio a Roll. Allora Anna mi aveva abbracciato e avevo sentito che anche lei stava tremando, come me. Tremavamo tutti quel giorno, chi per una ragione chi per un’altra. E io avevo sentito di odiarli. Ero rimasto lì, immobi-

16


le, con le braccia lungo i fianchi, senza ricambiare la stretta, perché non volevo darle nessuna soddisfazione, anzi, avessi potuto, sarei uscito di nuovo, senza dire dove me ne andavo e per quanto me ne andavo. Magari per sempre. Freccia a destra. Entro nel parcheggio del centro commerciale, non riesco a resistere. Solo un attimo, voglio vedere, voglio fare finta di essere qualcosa che non sono. Rallento e controllo se c’è un posto libero. «se possibile, invertire il senso di marcia.» Ancora? Ma non l’avevo messo a nanna? Va be’, decido di spegnerlo del tutto, tanto me la cavo alla grande con la mappa. Una signora e una ragazza mi passano davanti con un carrello carico. Io mi fermo e le lascio passare. Una delle due mi guarda, la signora, e mi ringrazia con un cenno della testa; l’altra, la ragazza, manco si accorge che è in mezzo alla strada e continua a parlare fitto. Seguo il senso unico e giro intorno all’auto delle due. Stanno ancora parlando. Finché la ragazza sbuffa e sale in macchina infilandosi le cuffiette dell’iPod. Mi sa che sto rischiando troppo. E se dal centro commerciale uscisse qualcuno che conosce Sergio e Anna? O che mi riconosce? Sono stato proprio uno

17


stupido, sono stato. Accelero ed esco velocemente dal parcheggio. Occhio a non tamponare qualcuno, a non fregarti da te, mi dico, occhio. Eccomi di nuovo in strada, confuso con le ombre e il traffico della sera, uno come tanti, un’auto come tante, anonima. Che cretino. Quest’idea del centro commerciale, una vaccata colossale, una stronzata coi controfiocchi. E intanto il cane nero dorme. Non si è accorto del giretto panoramico all’interno del parcheggio e acciambellato sul sedile dorme tranquillo come se fosse a casa sua. Chissà da dove arriva. Sarà scappato pure lui? Non credo, no, è troppo zozzo, si vede che vive per strada, che non ha un padrone. Beato lui. Guardo il livello della benzina. Ne ho ancora, di benzina, non devo fermarmi, posso andare avanti ancora un po’ senza fermarmi, senza fermarmi. * «Ma ti rendi conto?», dice la donna, che è la madre della ragazza. «Di cosa?» «Dio Santo, centonovantacinque euro di spesa. Neanche bastasse per un mese!» «Sì, va be’. Comunque me lo dovevi dire che avremmo

18


perso due ore qui dentro. Mi avevi detto dieci minuti. Col cavolo dieci minuti!» «Silvia…» «No, col cavolo. Domani ho verifica. Dopo dimmi che se non va bene è colpa mia che non studio. Peccato che quando devo studiare mi costringi a venire a fare la spesa.» «Avevi bisogno di un paio di scarpe nuove.» «Quelle che ho vanno benissimo.» «Non vanno benissimo, hanno i buchi.» «Appunto, vanno benissimo. E poi ci abbiamo messo tre secondi a prendere le scarpe, perché tanto le hai scelte tu anche se me le devo mettere io, e il resto del tempo l’abbiamo passato in quello stupido supermercato.» «Silvia…» «Che visto che eravamo qui potevamo anche fermarci un secondo in profumeria, no? Barbara si è fatta regalare un profumo che è la fine del mondo. Credo si chiami…» «Hai visto quell’Audi?» «Eh?...» «C’era un ragazzo alla guida.» «E allora? I ragazzi guidano, non lo sai? Invece, ti stavo dicendo che c’è questo profumo che mi piacerebbe avere come regalo del compleanno, so che mancano due mesi abbondanti, quasi tre, però, intanto…»

19


«Quanti anni ha il ragazzo degli Antonioli?» «Chi, quello adottato?» «Proprio lui, sì.» «Perché, scusa?» «No, è che mi sembrava che…» «Comunque, scusa se te lo dico, ma è uno sfigato tremendo. A parte che non parla con nessuno, poi, no, ma l’hai visto? È di una bruttezza sconvolgente…» «Silvia…» «Che c’è? Sei tu che mi hai chiesto di quello. Si taglia i capelli a spazzola che peggio di così non potrebbe stare e ha sempre un muso lungo da qua a là.» «Ma quanti anni ha?» «E che ne so? È piccolo. Mi pare che stia ancora alle medie.» «Ha parlato la donna matura.» «Be’, se permetti a sedici anni non mi sporco con quelli delle medie.» «Scusa tanto!» «Ma poi che te ne frega di quello sfigato?» «Smettila di chiamarlo così.» «Così come?» «Lo sai come.» «Sfigato? Dai, scherzo! Insomma, perché ti è venuto in mente proprio lui?»

20


«Mi pareva che la macchina che ci ha fatto passare fosse quella dell’Antonioli.» «E tu che ne sai?» «Mi sembrava la loro. Ma c’era un ragazzo alla guida. Non può essere il figlio.» «Sì, te lo vedi uno delle medie che guida una macchina?» «No, infatti. Quello era solo uno con la patente presa di fresco. Di quelli che poi finisce che fanno qualche incidente…» «A proposito di patente, Lucrezia si è fatta il patentino.» «Non ricominciare, a te il patentino non serve.» «Perché?» «Perché, tanto per dirne una, non hai nessun motorino da guidare.» «Papà ha detto che ci avreste pensato, per la promozione!» «L’ha detto papà. A me l’hai chiesto?» «Dai mamma!» «Sali in macchina.» «Uffa!» «Uffa un corno!»

21


L

eon ha il fuoco sotto i piedi. Non può restare in Italia, in quella città, con quella famiglia che non è la sua: Leon è stato adottato, e anche se i nuovi genitori sono brave persone, ha bisogno di tornare a casa, di ritrovare il suo passato. È minorenne ma sa guidare. La macchina del padre adottivo è lì che lo aspetta. Basta girare la chiave e via. Leon parte. Tra musica, rabbia, paure e nuovi incontri, il suo viaggio sarà diverso da come si aspettava. E lo costringerà a chiedersi chi e cosa è davvero importante.

UNA MACCHINA POTENTE. LA STRADA. LA NOTTE. C’È UN RAGAZZO ALLA GUIDA. PER UNO DI QUEI VIAGGI CHE CAMBIANO LA VITA PER SEMPRE. ANTONIO FERRARA è autore, illustratore e formatore esperto e appassio-

nato. Tiene laboratori di scrittura creativa per tutte le età. Premio Andersen 2012 con il romanzo Ero cattivo, con Il Castoro ha pubblicato Il segreto di Ciro, oltre ad aver contribuito alle raccolte di racconti Parole fuori e La prima volta che.

GUIDO SGARDOLI è autore di numerosi titoli di successo per bambini, ragaz-

zi e adolescenti. Fra i suoi romanzi, Eligio S. - I giorni della Ruota e Frozen Boy. Premio Andersen 2009, per Il Castoro ha contribuito alla raccolta di racconti Parole fuori.

€ 8,90 ISBN 978-88-6966-255-3

www.castoro-on-line.it


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.