Parole fuori

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Parole fuori © 2018 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it In copertina: Immagine © Charles Knox Photo Inc. Grafica di copertina PEPE nymi Prima edizione © 2013 Editrice Il Castoro Srl ISBN 978-88-6966-376-5


PAROLE FUORI



Indice

DESIDERIO - Pierdomenico Baccalario

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VERGOGNA - Paola Zannoner

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TIMIDEZZA - Silvana Gandolfi

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DOLORE - Sara Colaone

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AMORE - Beatrice Masini

93

DISPERAZIONE - Lodovica Cima

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PAURA - Guido Sgardoli

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GIOIA - Alessandro Baronciani

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CORAGGIO - Antonio Ferrara

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COLPA - Luisa Mattia

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GELOSIA - Fabrizio Silei

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ODIO - Antonella Ossorio

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DESIDERIO Pierdomenico Baccalario



A

l matrimonio di Cieco ci sembrava di morire. La voce del prete ronzava tra le navate con la stessa tonalità nasale degli annunci degli altoparlanti della stazione. «Adesso basta...», decise Massimo. «Io me ne vado.» E se ne andò. Simone e io ci scambiammo un’occhiata. Lui abbandonò la sua posizione dietro alla colonna a righe e seguì Massimo fuori. «Dite che Cieco si offenderà?», domandai, non appena li raggiunsi. Simone ci offrì due sigarette. Io non fumavo. Massimo non ne aveva voglia. Guardammo un’ultima volta il nostro amico fermo all’altare. Eravamo tornati apposta per lui. Ma a tutto c’era un limite. E il prete l’aveva abbondantemente superato. «Lei l’avete riconosciuta?», domandò Simone. Io no. Massimo neppure. Mancavamo da lì da vent’anni, certo, ma avevamo la sensazione che una così l’avremmo notata anche da bambina. «È la figlia del bancarellaio dei libri», disse Simone. «Il baffone?» «Ma dai.» «Me l’ha raccontato Cieco.» Ci allentammo i nodi delle cravatte, indecisi se credergli oppure no. Restammo in silenzio a guardare il mare. Sembrava che non ci fossimo mai mossi di lì. Il lungomare era esattamente come lo ricordavo, come se si fosse animato da una vecchia cartolina. C’erano le stesse casette color pastello, 9


Baccalario le stesse persiane verdi e le facciate mangiate dalla salsedine. C’era il vicolino tortuoso che sbucava nella piazzetta della pescheria, il negozio di sandali e il bar Milano. «Mi ha detto Cieco che vivi all’estero», disse Simone. «Da un paio di anni», risposi. «E tu?» «Sono un avvocato.» «Io progetto satelliti», disse Massimo, poi mi guardò. «E scrivi ancora?» Sorrisi. «Cose da matti», borbottò. Ci incamminammo, le mani nelle tasche e la giacca aperta. Era marzo, ma faceva già caldo. La gelateria era ancora una gelateria, ma aveva cambiato nome ed era chiusa. Avevamo trascorso lì fuori centinaia di ore a inzaccherare di crema i Lupo Solitario e i romanzi usati della bancarella dei libri a metà prezzo. Il nostro tavolino era quello all’angolo con la piazzetta. Sempre quello. Era il nostro paese. Le nostre vacanze del mare. Arrivavamo da tre regioni diverse. Massimo da Milano, con sua mamma. Suo padre compariva il sabato pomeriggio e se ne andava la domenica, non appena finivano le partite, per evitare la coda. Simone era di Torino, ed era il nipote dei conti Ferrante, quelli che possedevano la casa più bella del paese, in cima alle scalette romane, proprio sul pizzo del molo. «L’hanno venduta», ci confessò, mentre imboccavamo la passeggiata mare. «Saranno dieci anni, ormai.» Ci eravamo conosciuti ai bagni StellaFerma quando di anni ne avevamo cinque, ed eravamo cresciuti insieme, estate dopo estate. Per il resto dell’anno le nostre famiglie non si erano 10


Desiderio mai scambiate nemmeno un colpo di telefono (anche perché si diceva che i Ferrante si rifiutassero categoricamente di volerne uno), ma a giugno, come seguendo un richiamo, mamma, zii e nonne si mettevano in macchina più o meno lo stesso giorno, e una volta arrivati noi partivamo per la spiaggia, alla ricerca gli uni degli altri. Era come se l’intero anno scolastico non ci avesse mai separato. «Che ti è successo? Hai una maglietta che fa schifo», era il massimo della gentilezza che ci eravamo mai scambiati. Cieco l’avevamo conosciuto qualche anno più tardi. Era uno del paese. Per quello che ne sapevamo noi, viveva sul molo. Scendeva alla spiaggia direttamente dagli scogli. Non aveva un suo ombrellone. Né mamme, zii, parenti. Non aveva nemmeno un asciugamano. Era comparso un giorno che c’erano i cavalloni e il bagnino ci aveva ordinato di non avvicinarci al mare. Noi tre ci eravamo piazzati sulle sdraio della prima fila (perché ogni anno la prima fila era sempre più vicina al mare, dato che quelli dei bagni cercavano di farcene stare qualcuna di più), e sfidavamo da lì le onde più lunghe. Cieco era sceso dagli scogli e ci aveva detto: «Si fa così». E poi si era gettato dentro un’onda colossale, che l’aveva abbandonato dieci metri più in là, esangue, ma felice. Diventammo amici rischiando la vita con le onde. Cieco sapeva tutto del mare, e dei libri, di fantascienza cioè, e quando ti raccontava una storia di Robert Sheckley o di Jack Vance non si accorgeva di niente, nemmeno se gli passava davanti una ragazza nuda. Per questo lo avevamo chiamato Cieco. In realtà anche per un altro motivo. Anzi, per due. La Mirta, le cabine e quella maledetta partita di calcio. 11


Baccalario Le cabine furono una brutta sorpresa dell’ultima estate che passammo insieme. Erano azzurre, orribili, poggiate su un ponteggio di legno con le fessure troppo larghe. Ci si incastravano i tacchi delle signore e ci scomparivano le monetine ogni volta che ti cambiavi. Erano trentaquattro, addossate al crinale del molo e avevano ciascuna una piccola chiave e un anello rotondo. Per chiuderti dentro dovevi usare un gancetto, e se dimenticavi la chiave fuori a noi bastava un gesto per bloccare qualcuno dentro. Di solito ci chiudevamo la Chiara, una bambina che era cresciuta insieme a noi o, meglio, che era rimasta uguale insieme a noi. Rotondetta, con il naso all’insù e la guance piene, aveva il divieto assoluto di ridere troppo, perché diventava paonazza e rischiava di soffocare. Era guardata a vista da due nonne implacabili, che si distraevano unicamente se dovevano giocare a carte con l’Ingegnere, quando c’era. «Io ho preso la numero uno», ci disse, il giorno che scoprimmo le cabine. «E voi? E il vostro amico degli scogli non l’avete ancora incontrato, quest’anno?» «È morto», gli rispose Massimo, e la Chiara ci lasciò in pace a guardare le cabine. Solo che poi lo raccontò alle nonne, le nonne lo raccontarono a tutto lo stabilimento e la notizia fece il giro del paese, senza che nessuno, peraltro, sapesse qual era il vero nome di Cieco. La seconda sorpresa di quell’estate fu ancora più folgorante, e avvenne più o meno dopo una settimana che noi ci eravamo ambientati con la nuova disposizione della spiaggia. Eravamo distesi sulla boa degli StellaFerma, a venti metri dalla riva. Di boe ce ne era una per ogni stabilimento, tenute da lunghe cime che si annodavano alla seggiola del bagnino, e tutte di colore diverso. La boa potevi solo conquistarla. O, al 12


Desiderio limite, aspettare. Non era espressamente vietato andare a quella degli altri, ma era fortemente sconsigliato. Se la conquistavi e non c’erano altre persone, potevi sdraiartici sopra. Altrimenti dovevi stare seduto, e potevi comunque galleggiare in mezzo al mare, guardando da una prospettiva diversa le file di ombrelloni, le case del borgo e il campanile della chiesa dove Cieco, ora, si stava sposando. Sulla boa, alleggeriti dalla terraferma, si potevano intavolare discussioni sul significato dell’universo, se era più rivoluzionario Darwin o l’Uomo Ragno e che cosa fare se avessimo mai incontrato Sigourney Weaver. Quel giorno in particolare, però, stavamo cercando di eleggere il migliore dei quattro racconti di Stagioni diverse, un’antologia di storie di quel genio di Stephen King. «È Stand by Me, vi dico!», insisteva Simone. «Con loro tre che camminano lungo tutta la ferrovia... e quando arriva il treno! Cieco! Non c’è discussione!» «Culo di Lardo», sentenziò Massimo. Ed era un modo per dargli il suo appoggio, dato che quella era una delle altre scene memorabili di quel racconto. Io la pensavo come loro, ma Cieco si limitava a scuotere la testa, con aria di sufficienza, fermamente convinto che il racconto migliore fosse quello della fuga dal carcere di Andy Dufresne: Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank. «Il finale...», ripeteva. «La perfezione di quel racconto è nelle ultime righe.» E fu a quel punto che gli si strozzò la voce in gola. Strabuzzò gli occhi e ci indicò la fila azzurra delle cabine. Davanti all’ultima c’erano due ragazze in piedi, di schiena, con i jeans tagliati appena sotto il sedere. Una era bionda, con i capelli 13


Baccalario ricci e lunghissimi. L’altra era mora, con i capelli dritti e ancora più lunghi. Sembravano uscite direttamente da un fumetto americano. «Non può essere la Mirta», mormorò Cieco. «La Mirta è bionda», disse Simone. «Quella di fianco, idiota», disse Massimo. «No che non può essere» commentai io. E invece era proprio lei. Solo che non era la stessa Mirta dell’estate prima. Era diventata qualcosa di completamente diverso. Era diventata alta oltre ogni ragionevole immaginazione, magra oltre ogni ragionevole magrezza e aveva messo su le curve più rotonde che si potessero immaginare. Anche a venti metri di distanza dalla riva, e altrettanti dalle cabine. «Io non so come hai fatto a vederla, Cieco», disse Simone. «Io invece non so come hai fatto tu a non vederla», disse Cieco. La prova che la ragazza bionda era la nostra amica Mirta fu quando Chiara le corse incontro, la abbracciò e poi strinse la mano anche all’altra ragazza. Avremmo presto scoperto che si chiamava Beatrice, era cugina di Mirta ed era una campionessa nazionale di pallavolo. Ma per il momento rimanemmo terrorizzati sulla boa, domandandoci che cosa fosse meglio fare a quel punto. Mirta e la campionessa di pallavolo ottennero la cabina numero tre. E una delle prime cose che fecero, dopo averci salutati, fu assicurarsi che né io, né Massimo o Simone avessimo la quattro o la due. La quattro era degli Olivieri. La due dei Fabro. Quasi seicento anni in cinque. «Meglio così!», rise Mirta. «Altrimenti non oso immaginare che scherzi potevate farci.» 14


Desiderio «Nemmeno io», disse Cieco. Era anche l’unico di noi che riuscisse a guardarle negli occhi. Io puntavo lo sguardo tutt’intorno. Simone fingeva di cercare vetrini colorati tra i ciottoli. Massimo sembrava sempre sul punto di scappare per andare a giocare a pallone sulla pista di pattinaggio. Le due cugine se ne entrarono in cabina, si cambiarono in un secondo e ne uscirono con una coppia di bikini rossi gemelli. Era onestamente troppo. «Io vado a giocare a calcio», disse Massimo. «Vengo anch’io!», disse Simone. «Aspettatemi!», disse Cieco. Rimasi solo io. Mirta mi si avvicinò quel tanto che bastava a tramortirmi. «Ma si può sapere che vi prende?» «È per via di Cieco», le risposi. «È morto suo fratello.» E poi andò come tutte le altre volte: Mirta lo disse al bagnino, che lo raccontò a tutta la spiaggia, e poi al paese, anche se, naturalmente, tutti sapevano benissimo che Cieco era figlio unico. La nuova Mirta era incontrollabile. E una continua fonte di imbarazzo. Per noi era del tutto impossibile vivere senza guardarle il bikini e per lei era diventato difficile parlarci senza sentirsi radiografata. A volte ci veniva il dubbio che non fosse realmente lei, ma una specie di sorella gemella che fino a quel momento aveva vissuto su Marte. Cieco diceva che una volta aveva letto un racconto così scritto da Fredric Brown. Ma che Mirta fosse Mirta era evidente da altri piccoli dettagli: si muoveva con la stessa incapacità di schivare gli ostacoli di sempre, faceva cadere le cose che aveva in mano esattamente come le 15


Baccalario aveva sempre fatte cadere, e non c’era verso che si tuffasse di testa dalla boa. Solo che invece di scatenare le consuete prese in giro, il massimo che riusciva a ottenere da noi era uno sbigottito silenzio. Avremmo avuto meno problemi a parlare con Sigourney Weaver. Quando faceva la doccia era come entrare in chiesa la notte di Natale. E la sdraio in ultima fila di mia nonna, che fino a quell’anno era stata snobbata da tutti, divenne improvvisamente la più popolare del gruppo. «Oggi tocca a me!» «No, a me: è giovedì!» «Tu hai il calendario truccato, Simone.» «E tu non sei dei nostri bagni!» Avrei potuto chiedere ai miei amici una moneta a doccia: stavamo seduti in quattro sull’unica sdraio lasciata libera dalla nonna, gesticolando come se fossimo intenti a confabulare delle nostre solite cose, mentre tutto ciò che ci interessava erano due cubicoli di legno con un tubo e una catenella sopra. Mirta lo aveva capito benissimo che eravamo lì solo per guardarla, ma sapeva fingere indifferenza almeno quanto noi. La povera Chiara era stata abbandonata sul bagnasciuga, senza nessuna speranza di trovare qualcuno con cui giocare a racchettoni. La proverbiale gita in canotto fino al promontorio per fare i tuffi fu meno divertente del solito. Ci sembrava che non ci fosse spazio sufficiente per respirare, né per muoversi. I costumi di Mirta e Beatrice scintillavano di luce. Chiara non stava zitta un momento, e mentre Cieco e io eravamo ai remi, Simone e Massimo stavano cercando di far sembrare una cosa interessante il 16


Desiderio loro ultimo record al videogioco del bar Milano, dove bisognava sconfiggere la banda di balordi che ti avevano rapito la ragazza. «Voi lo fareste, se ci rapissero?», domandò Mirta, ingenua. Tutto ciò che stavamo facendo, fino a quel momento, era remare, parlare, tenere contratta la pancia per far sembrare di avere gli addominali e non perdere l’equilibrio sul bordo del canotto per non scivolare loro addosso. Non sapevamo cosa rispondere. Chiara disse qualcosa di stupido e Massimo la spinse in mare senza pensarci due volte, anche se dopo giurò di non averlo fatto apposta. Io persi il remo cercando di fare una manovra per recuperarla e Cieco si tuffò per soccorrerla. Beatrice disse: «Chi vuoi che salvino, questi qui? Non sanno nemmeno remare!». Non era vero, ma la cosa ci colpì sul vivo. Senza nemmeno dircelo, Cieco e io all’andata e Massimo e Simone al ritorno facemmo a gara a chi remava più forte. Non riuscimmo quasi a sollevare le braccia, nei due giorni successivi. Con il passare del tempo, Cieco si dimostrò il più sensibile del gruppo al fascino di Mirta, tanto da farne quasi una malattia. C’erano giornate in cui non scendeva nemmeno in spiaggia e altre in cui arrivava ridotto a uno straccio. All’epoca non avevamo la confidenza di farci domande personali, e davamo tutto per scontato, convinti che, se avesse avuto qualcosa di importante da raccontarci, Cieco ce l’avrebbe raccontato. Era piena estate, ma in certe giornate era come se una fastidiosa foschia ci facesse vedere le cose in modo offuscato. Le nostre solite partitelle a calcetto due contro due, scalzi, sotto il sole cocente, nella piazzetta del pattinaggio dove nessuno aveva mai pattinato perché c’era sempre qualcuno che ci giocava a 17


Baccalario pallone (solo che gli altri Fernando il vigile li mandava via, mentre a noi, che avevamo uno del posto, al massimo ci diceva di giocare ancora solo per cinque minuti), quelle partitelle non avevano più la naturalezza di sempre. Apparentemente non era cambiato nulla: le porte erano sempre il lampione e il palchetto del teatrino delle marionette e, poiché non erano grandi uguali, ai cinque si cambiava sempre campo, ma dopo un’ora che eravamo lì a tirare cannonate, capitava che ci scoprissimo annoiati, e finissimo la partita a metà. Ci eravamo sempre seduti orgogliosamente da soli ai tavolini del bar della spiaggia, e se Mirta, Chiara, o le Elene (ce ne erano almeno tre, in quei bagni) ci chiedevano di sederci con noi, le mandavamo via con un grugnito. Ora, invece, lasciavamo libere sempre almeno cinque sedie, e libere rimanevano. La verità era che, senza le ragazze, Massimo non aveva più voglia di tirare le solite cannonate a calcio, Simone abbandonava i suoi record ai videogiochi del bar, Cieco leggeva meno fantascienza, e io, ai tavolini, non sapevo bene di cosa parlare. Tutto mi sembrò peggiorare il giorno in cui Simone ci avvertì che nella cabina tre avevano appena messo uno specchio alto così. «Occupa tutto il fondo», sentenziò, lapidario. E Cieco fu l’unico che sorrise. Le passeggiate serali erano diventate un tormento. La nostra secolare routine era di incontrarci alle nove alle scalette, e una volta che c’eravamo tutti, o al limite mancava qualche Elena, metterci in marcia in direzione del minigolf in fondo al paese. Una volta ogni quindici giorni ci fermavamo a giocare. Una volta a settimana ci fermavamo al cinema all’aperto. 18


Desiderio Altrimenti tornavamo sui nostri passi e andavamo a prendere una coca al bar Milano. Ma tutte le sante serate ci fermavamo alla bancarella dei libri a metà prezzo, quella del signore con i baffoni che, a quanto pareva, era appena diventato suocero di Cieco. Fino a quell’anno il signore con i baffoni era stato il nostro punto di riferimento, quanto di più vicino ci fosse a un emissario del Dio della Fantascienza. Ma una sera che stavamo per fermarci lì, Beatrice era uscita con un lapidario: «Che roba da sfigati». E Mirta aveva risposto: «Sì, è davvero una roba da sfigati». E tutti noi ci eravamo dati un gran daffare a oltrepassare la bancarella dei libri a metà prezzo senza altre esitazioni, pregando che il signore con i baffoni non ci salutasse, o ci chiedesse se c’era piaciuto l’ultimo romanzo di Philip K. Dick. Cammina avanti e cammina indietro, nel giro di pochi giorni tutti sembravano sapere che con quei quattro sfigati della StellaFerma c’erano due ragazze fuori dal comune. E non riuscivano a farsene una ragione. Noi per primi. Intercettavamo occhiate e ci mettevamo in posa, ma sapevamo che sarebbero bastate un paio di domande per far crollare l’intera impalcatura: Mirta e Beatrice NON erano le nostre ragazze. Erano solo due nostre amiche. E anche qualche tempo prima della famigerata partita a calcio che avrebbe segnato per sempre la fine del nostro gruppo, c’erano ragazzetti delle altre spiagge che ci ronzavano un po’ troppo intorno, si fermavano a giocare a minigolf proprio quando ci fermavamo noi, o sceglievano di andare al cinema all’aperto nella stessa sera in cui ci andavamo noi, bisbigliavano tutto il tempo e ci tiravano i pop-corn.

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