A Steve Malk E a Jennifer Lopez
Quando gli alieni trovarono casa di Adam Rex © 2015 Editrice Il Castoro viale Abruzzi 72, 20131 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Traduzione di Laura Bortoluzzi Pubblicato per la prima volta nel 2007 da Disney • Hyperion Books, una divisione di Disney Book Group con il titolo The True Meaning of Smekday copyright © 2007 Adam Rex ISBN 978-88-8033-922-9
Adam Rex
Quando
gli alieni trovarono
a s a c
Traduzione di Laura Bortoluzzi
COMPITO: Scrivete un tema intitolato IL VERO SIGNIFICATO DELLO SMEKDAY. Che cos’è la festa dello Smekday? Com’è cambiata da quando gli alieni sono partiti? Per spiegare il vostro punto di vista, raccontate come avete vissuto l’invasione aliena. Potete fare dei disegni o inserire delle fotografie. Tutti i temi verranno mandati al Comitato Nazionale della Capsula del Tempo a Washington. Il Comitato sceglierà il tema migliore e lo seppellirà insieme alla Capsula, che verrà dissotterrata fra cento anni. Il tema deve essere lungo almeno cinque pagine.
Gratuity Tucci Scuola media Daniel Landry 3ª media
IL VERO SIGNIFICATO DELLO SMEKDAY
Era il Giorno del Trasferimento. Va scritto in maiuscolo? Prima non l’avrei mai scritto in maiuscolo, ma adesso il Giorno del Trasferimento è festa nazionale e bla bla bla, quindi direi di sì. In maiuscolo. Dicevamo. Era il Giorno del Trasferimento e nessuno capiva più niente. Ricordate? Era il caos: gente che correva di qua e di là carica di album fotografici e cimeli di famiglia, che trasportava cibo e acqua, ma anche cani e bambini perché si era dimenticata che cani e bambini potevano trasportarsi da soli. Una follia. Ricordo una signora con uno specchio; quando l’ho vista ho pensato: perché portarsi dietro uno specchio? Poi l’ho guardata correre per la strada con lo specchio fra le mani, le braccia tese come per scacciare dei vampiri. C’era un uomo che sembrava un cameriere col vassoio, solo che il vassoio era una scacchiera, e lui urlava in continuazione “Qualcuno ha 7
visto un alfiere nero?”, cercando con lo sguardo tutt’attorno. Ricordo Hal Apocalisse all’angolo della lavanderia automatica. Hal era un predicatore di strada del quartiere che lavorava al ristorante di pesce accanto a casa nostra. Portava un cartellone a spalla con su scritti alcuni versetti della Bibbia e sbraitava ai passanti cose del tipo “La fine è vicina” e “Assaggi di frutti di mare a $5.99”. Adesso il cartellone diceva solo “VE L’AVEVO DETTO”, e la sua sembrava più ansia che rabbia. «Avevo ragione io», mi ha detto quando gli sono passata accanto. «Sul pesce o sull’apocalisse?», gli ho chiesto. Si è messo a camminarmi a fianco. «Su entrambe. Varrà pure qualcosa, no? Che avevo ragione?» «Non lo so.» «Non credevo sarebbero stati gli alieni», ha borbottato. «Pensavo sarebbero stati angeli con spade di fuoco. Una cosa del genere. Ehi! Forse in realtà sono angeli! Ci sono delle descrizioni molto bizzarre nella Bibbia. Nel Libro della Rivelazione c’è un angelo con tre teste e le ruote.» «Secondo me sono alieni e basta, Hal», ho detto io. «Mi spiace.» Hal Apocalisse si è fermato, io invece sono andata avanti. Dopo qualche secondo mi ha chiamato. «Ehi! Ragazzina! Ti serve una mano per trasportare roba? Dov’è la tua bella mammina?» «Sto giusto andando da lei!», ho gridato. Non mi sono voltata. «È da un po’ che non la vedo!» «Tutto ok! Ora vado da lei!», gli ho detto. Era una bugia. Ero da sola perché la mamma era già stata richiamata sulle astronavi attraverso il neo che aveva sul collo. Ero sola con la 8
mia gatta, e a dirla tutta non è che fossimo proprio amicone io e lei. Per un po’ l’avevo portata in braccio, ma si dimenava come un pesce in una busta di plastica, così l’ho messa a terra. Quando camminavo mi veniva dietro, sobbalzando ogni volta che qualcuno ci passava accanto di corsa o suonava il clacson, cioè sempre. Faceva passo passo, salto, passo passo, salto, come se ballasse la conga. Alla fine mi sono guardata indietro, poi tutto intorno e non l’ho più vista. «Bene», ho detto. «Ciao ciao, Pig.» Fine della storia. La mia gatta si chiama Pig. Mi sa che avrei dovuto dirlo prima. 9
La cosa strana di scrivere a qualcuno che vive nel futuro è che non sai fino a che punto devi spiegarti. Ai giorni vostri si tengono ancora in casa gli animali domestici? Ce li avete ancora i gatti? Non vi sto chiedendo se i gatti esistono – adesso ne abbiamo così tanti che non sappiamo cosa farcene. Ma io non sto scrivendo per la gente di adesso. Cioè, se qualcuno oltre alla mia prof leggerà queste parole, sarà perché ho vinto il concorso e questo tema è stato sepolto nella capsula del tempo con le fotografie e i giornali, ed è stato dissotterrato dopo cento anni, e adesso lo state leggendo, magari su una sedia con cinque gambe mentre fate uno spuntino a base di pianeta arrosto o che so io. È probabile che sappiate già tutto dell’epoca in cui sono vissuta, ma poi penso a quanto poco ne so io del 1913, quindi forse mi conviene chiarire due o tre cosette. Questa storia comincia nel giugno del 2013, circa sei mesi dopo l’arrivo degli alieni chiamati Boov. Cioè sempre sei mesi dopo che gli alieni hanno preso il potere, e circa una settimana dopo che hanno deciso che l’intera razza umana sarebbe stata più felice se tutti si fossero trasferiti in un piccolo Stato fuori mano dove stare lontano dai guai. Io ho sempre vissuto in Pennsylvania. La Pennsylvania si trova sulla costa orientale degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti sono quel grosso Paese dove tutti indossano strane magliette e mangiano troppo. Da quando la mamma è partita ho vissuto da sola. Non volevo che lo sapesse nessuno. Ho imparato a guidare la macchina per brevi tragitti inchiodando lattine di mais alle scarpe della domenica per riuscire ad arrivare ai pedali. All’inizio ho fatto un sacco di errori, e a te che camminavi sul marciapiede fra la Quarantanovesima Strada e Pine Road, il 3 marzo 2013 dopo il tramonto, chiunque tu sia, ti devo delle scuse. 10
Alla fine però sono diventata davvero brava. Brava tipo da Formula 1. Così, mentre quasi tutti si presentavano ai razzi boov per farsi trasferire in Florida, io ho pensato di andarci in macchina da sola, senza l’aiuto di nessuno. Avevo scaricato le indicazioni da internet, cosa non più facile come un tempo, perché i Boov avevano cominciato a oscurare la rete. La strada però sembrava semplice. Secondo il sito ci sarebbero voluti tre giorni, ma la gran parte dei guidatori non era in gamba come me, e non si rimpinzavano di dolci e coca-cola per guidare senza fermarsi mai. Mi sono fatta largo tra frotte di persone, superando una donna che teneva un bambino dentro una zuppiera, e poi un uomo con in mano degli scatoloni mezzo sfasciati che disperdevano figurine di baseball per strada, e alla fine sono arrivata ai campi da tennis, dove avevo lasciato la macchina. Era una piccola tre porte, delle dimensioni e del colore di un frigo e veloce poco più del doppio. Però non consumava tanta benzina, e io di soldi non ne avevo molti. Avevo prosciugato il nostro conto in banca, e c’era meno di quanto mi aspettassi nel gruzzolo delle emergenze che la mamma aveva nascosto sul fondo di un cassetto della biancheria, dentro una confezione di collant con l’etichetta RAGNI MORTI. Come se io non avessi sempre saputo che erano lì. E come se potessi non avere la curiosità di vedere dei ragni morti. Figuriamoci. Ho buttato la borsa della macchina fotografica e gli zaini sul sedile posteriore e all’improvviso ho sentito un peso sullo stomaco per la desolazione della scena. Ovunque mi girassi, c’era gente nel panico. Ho visto un uomo con indosso dei guanti da forno che portava un arrosto in un tegame, porca 11
vacca, chiedo scusa per il linguaggio. Non so chi o cosa stessi cercando – di certo non la gatta. Ma l’ho chiamata lo stesso. «Pig!», ho urlato. «PIIIIIIIIIIG!» Urlare “Pig” per strada di solito attira l’attenzione, ma quel giorno nessuno ci ha fatto caso. In realtà, al mio terzo “Pig” un ragazzo ha chinato la testa come per ripararsi, ma non so bene perché. Forse si aspettava che piovessero maiali? Ma dicevamo, proprio mentre mi stavo girando per salire in macchina, una gattona grigia ha attraversato la strada come una scheggia ed è saltata sul cruscotto. Poi si è girata porgendomi la guancia per una grattatina. «Oh», ho detto. «Ok. Facciamo che puoi venire. Ma i tuoi bisogni li devi fare quando ci fermiamo.» Pig ha fatto le fusa. In quel momento pensavo che sarebbe stato bello avere un po’ di compagnia, dato che non mi aspettavo di vedere nessuno per un paio di giorni. Pensavo di trovare le autostrade deserte, sapete, visto che quasi tutti usavano i razzi. Avevo ragione, ma anche torto.
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Lo sapevate che ai gatti non piace andare in auto? Be’, non gli piace, o almeno non alla mia. Prima di partire, ho azzerato il contachilometri, così so che Pig ha passato i primi trentasei chilometri a soffiare guardando fuori dal lunotto posteriore. Era avvinghiata al poggiatesta del sedile passeggero come una decorazione di Halloween, la schiena arcuata e il pelo dritto. «Tranquilla!», gridavo scansando auto abbandonate sull’autostrada. «Sono una grande pilota!» Pig ha smesso di soffiare e ha cominciato a ringhiare, più o meno. Sapete come ringhiano i gatti. Come piccioni con la raucedine. «Avrei potuto lasciarti a casa, traditrice. Ti ci saresti potuta trasferire insieme ai tuoi cari Boov.» Non ho problemi a guardare un gatto e guidare in contemporanea, ma per qualche strana ragione la macchina è come saltata su un pezzo di copertone sull’asfalto, Pig ha cacciato un urlo, è schizzata via dal poggiatesta, ha fatto un paio di giri sul sedile posteriore, è balzata sulla leva del cambio, e alla fine si è appallottolata sotto il pedale del freno. «Oh oh», ho borbottato. Ho schiacciato piano il freno, cercando di farla andare via con le buone. Lei ha soffiato e ha tirato una zampata alla lattina di mais che avevo sotto la scarpa. Ho rimesso gli occhi sulla strada, ho schivato una moto abbandonata, e poi ho guardato di nuovo in basso. «Dai, Pig», le ho detto in tono rassicurante (sterzando per evitare un furgoncino). «Dai, esci… (cisterna di benzina)… ti do un croccantino!» (Macchina sportiva. Perché avevano abbandonato tutti l’auto?) «Mrrr?», ha detto Pig. 13
«Sì! Lo vuoi un croccantino? Un croccantino -ino -ino?», continuavo a canticchiare come un uccellino. Pig non si era mossa, ma davanti a me non avevo nessuno. Tenevo d’occhio solo un grosso autotreno sulla sinistra, in lontananza, ed è stato allora che ho visto qualcosa muoversi. Fluttuava nell’aria sopra il rimorchio, ballonzolando pigramente su e giù. Erano bolle: bolle di sapone, forse. Alcune erano grandi come palle da tennis, altre come palloni da basket, ed erano tutte attaccate e intrecciate fra loro, a formare una stella grande quando una lavatrice. Come questa:
Non si spostava con il vento, faceva solo dei movimenti impercettibili verso il basso e poi di nuovo verso l’alto, come se fosse legata con un filo invisibile al fumaiolo del grosso rimorchio. E mentre con lo sguardo scendevo giù dal fumaiolo, ho visto qualcos’altro. O qualcun altro, in piedi sulla strada. «C’è qualcuno o qualcosa», ho detto, rivolta più a me stessa che a Pig. L’uomo, o la donna, o qualunque cosa fosse, aveva 14
una squillante tuta arancione, facile da vedere, e forse una specie di casco di plastica, e ho pensato: tuta antiradiazioni? Poi siamo passate abbastanza vicino da vedere che era uno di loro. Un Boov. «Ok… ok», ho sussurrato, e mi sono spostata più a destra possibile senza urtare il guardrail. Il Boov ha visto che mi avvicinavo e ha girato quel suo strano corpo verso di me. I raggi del sole si riflettevano sul suo casco, ma penso che abbia alzato un braccio, il palmo in fuori in un gesto che a livello intergalattico deve essere noto come stop. Ma anche lì, era difficile a dirsi. Avevano delle braccia così corte. Non potevo frenare, ma potevo togliere il piede dall’acceleratore, così ho rallentato poco alla volta mentre passavo rasente alla corsia di emergenza sussurrando Ave Maria. Eravamo davvero vicine adesso, abbastanza da vedere quell’orribile ammasso di gambe sotto il corpo del Boov e il suo testone piatto dentro il casco. Ha rifatto il gesto di prima, con più decisione, e sì, voleva proprio dire stop. Io ho alzato la mano, ho sorriso e l’ho salutato, tenendo sempre gli occhi sulla strada. Non volevo guardarlo di nuovo. Così per poco non mi sono accorta che il Boov aveva abbassato di scatto l’altro braccio per poi rialzarlo con qualcosa in mano. Ho riconosciuto subito quell’affare che avevano fatto vedere in Tv, una di quelle orrende pistole che avevamo visto a bizzeffe quando cercavamo ancora di combattere. Pistole terribili che non emettevano né suoni, né luce. Te le puntavano addosso e metà del tuo corpo spariva, così. Be’, una cosa che potevo ancora fare era accelerare. Mi sono abbassata, ho schiacciato il pedale, e la macchina è partita a razzo, anche se non abbastanza veloce, strisciando contro il guardrail e sparando in aria scintille come fuochi d’artificio del quattro luglio. 15
Il Boov ha urlato qualcosa che non sono riuscita a sentire o a capire. Ho cercato di non farmi beccare, muovendomi avanti e indietro e alzando gli occhi appena in tempo per evitare un SUV. Ho guardato nello specchietto a destra e ho visto che era rimasto smembrato dal guardrail, così ho guardato nello specchietto retrovisore e mi sono accorta che era sparita gran parte del SUV, un pezzo enorme tranciato di netto come quando si raccoglie il gelato con un cucchiaio, così ho provato a guardare nello specchietto a sinistra, ma anche quello non c’era più. Mi sono voltata e ho visto il Boov sparire in lontananza. Non mi inseguiva. «Oh, cavolo, Pig», ho detto piano, e Pig è sgusciata via da sotto il freno come se niente fosse. Un minuto dopo ho accostato l’auto, mi sono fermata e mi sono girata a guardare. La pistola del Boov aveva disintegrato lo specchietto e c’era un buco nel finestrino posteriore sinistro, in corrispondenza del foro di entrata del raggio. Ho allungato il collo e ho visto che c’era un buco ancora più grosso nel lunotto in corrispondenza del foro di uscita. Entrambi i buchi non potevano essere più perfetti, come quando si taglia l’impasto con una formina per biscotti. «Li odio», ho detto. «Quanto li odio. Siamo state davvero fortunate, Pig.» Ma Pig non mi ascoltava. Era distesa sul sedile passeggero, addormentata. Perché il Boov ha sparato? Non capivo… io stavo solo andando in Florida, come volevano loro. Ma al chilometro settantasette ho capito perché non c’era nessun altro per strada. Non c’era la strada. 16
Stavamo svoltando una curva quando la macchina ha preso una buca. Sono volata in avanti e poi indietro, mentre la cintura di sicurezza si tendeva al massimo e una fitta di dolore mi risaliva il collo. Pig è rotolata giù dal sedile, è rimasta sveglia per un attimo sul pavimento dell’auto e poi si è riaddormentata lì dov’era. Scansando pezzi di asfalto, ho costeggiato quella che più che una buca sembrava una piscina vuota. Poi un’altra curva e la strada non c’era più. La mia macchinina è caduta da una sporgenza di asfalto in un cratere di terra e catrame, mentre io giravo il volante da una parte e dall’altra e schiacciavo la lattina di mais sul pedale del freno. Siamo scivolate giù attraversando arabeschi di metallo attorcigliato che un tempo erano stati un guardrail, poi siamo slittate lungo il terrapieno, ci siamo cappottate due volte e alla fine abbiamo inchiodato nel parcheggio di un supermercato. L’aria intorno all’auto era diventata arancione per la polvere. Mi sono attaccata al volante come a un salvagente. Pig era stesa pancia all’aria nell’incavo fra il parabrezza e il cruscotto. I nostri sguardi si sono incrociati e mi ha soffiato per qualche istante. Ecco svelato il mistero. Nessuno prendeva la macchina perché i Boov avevano distrutto le autostrade. Ovviamente. Stremata, ho slacciato la cintura e sono caduta giù dall’auto. Pig mi ha seguito, si è stirata e poi è scattata all’inseguimento di una cimice. Per poco non ho vomitato. Posso scriverlo in un tema? Che ho vomitato? Perché quando ho detto “per poco”, in realtà volevo dire “a ripetizione”. Mentre ero piegata mi sono accorta che avevamo forato una gomma. Non ero sicura di averne una di scorta, ma 17
tanto non sapevo come cambiarla. L’unica cosa che la mamma mi aveva insegnato sulla manutenzione delle auto era il numero di un carroattrezzi da chiamare nel caso in cui la macchina si fosse fermata. Be’, era un azzardo, ma ho pensato che tanto valeva provare a chiamare qualcuno. Con ogni probabilità non avrei ricevuto risposta, ma eravamo troppo lontane da casa per tornare indietro. Ho aperto il vano portaoggetti e ho recuperato il cellulare di emergenza che aveva solo sessanta minuti di chiamate e che NON ERA UN GIOCATTOLO. L’ho aperto, ho schiacciato il pulsante di accensione e con un crepitio improvviso è risuscitato. Strane voci borbottavano a intermittenza all’altro capo del telefono. «Ma se non ho ancora fatto il numero!», ho mormorato, e le voci si sono bloccate. «Pronto?», ho detto. Poi le voci sono riapparse, fra belati e scoppiettii, come se una pecora stesse camminando sulle bolle della plastica da imballaggio. Sono diventate sempre più acute, e agitate. Ho rischiacciato subito il tasto di accensione e ho richiuso il cellulare. Adesso, a vederlo nelle mie mani, sembrava un aggeggio disgustoso e alieno, così l’ho rimesso nel vano portaoggetti e ci ho appoggiato sopra il manuale di istruzioni dell’auto. Il manuale di istruzioni, ho pensato. Forse poteva spiegarmi come cambiare la ruota. No. Dopo. Può aspettare. Mi sono seduta. Il cielo era tornato limpido, e azzurro. In lontananza c’era una cittadina che non conoscevo. L’edificio più alto era una vecchia chiesa in pietra, con una porzione del campanile staccata di netto, come da un morso. Lì vicino c’erano dei pali del telefono rotti che penzolavano come marionette flaccide. Ero rimasta seduta abbastanza. 18
«Forse c’è ancora un po’ di cibo nel super», ho detto in tono allegro, cercando Pig. Per voi della capsula del tempo, i supermercati erano quei posti dove si poteva comprare di tutto, dalle bibite alle ciambelle fino ai detersivi, con tanto di offerte speciali e promozioni di tutti i tipi. Chi vuole capire meglio come ha fatto la razza umana a essere conquistata con così tanta facilità deve studiare questi luoghi. Quasi tutto quello che c’era dentro conteneva zucchero, latticini o consigli per dimagrire. Dentro era buio, ma me lo aspettavo. Pig mi ha seguito fino alla porta, che si è aperta con uno scampanellio, ed è entrata insieme a me nel supermercato deserto. Gli scaffali erano quasi vuoti, probabilmente razziati, tranne per un po’ di pane raffermo e degli snack biologici allo yogurt che si chiamavano Barrette SuperNutrienti BruciaGrassi CorpoPerfetto con aggiunta di Calcio. C’erano anche una borsa e qualche scatoletta di cibo per gatti. Perfetto. Mi sono seduta sul freddo pavimento di linoleum e ho mangiato una delle barrette biologiche rosa, mentre Pig si è pappata una scatoletta di Antipasto Mare Fresco. «Mi sa che non riusciremo ad arrivare in Florida», ho detto. «Mao?» «Florida. Dove siamo dirette. Un grande Stato, pieno di arance.» Pig è ritornata al suo pasto, e io ho dato un altro morso a quella che cominciavo a pensare fosse solo una grossa gomma per cancellare. «Forse potremmo restare qui. Siamo abbastanza lontane dalla città. Magari i Boov non se ne accorgeranno nemmeno.» «Mao.» 19
«Perché no? Potremmo vivere in una casa abbandonata. O in un hotel. E la città probabilmente sarà piena di cibo in scatola.» «Mao mao?» «E va bene, visto che sei così intelligente, dammi una buona ragione per cui non dovrebbe funzionare.» «Mao.» «Oh, dici sempre la stessa cosa.» Pig ha fatto le fusa e si è accomodata per schiacciare un pisolino. Io mi sono appoggiata a una cassa automatica e ho chiuso gli occhi per ripararmi dal sole del tramonto. Non ricordo di essermi addormentata, ma fuori era buio quando ho sentito lo scampanellio della porta d’entrata e mi sono svegliata con una pagnotta sotto la testa. Mi è preso un colpo e mi sono rintanata di corsa sotto uno scaffale. Era troppo tardi quando mi sono ricordata di Pig, che non riuscivo a vedere da nessuna parte. Qualcosa si muoveva per il supermercato deserto, i suoi passi come un rullo di tamburi. Vattene via, vattene via, mi ripetevo nella testa, sicura che fosse un Boov. È passato accanto alla fila di scaffali dove ero io, e ho intravisto l’ammasso di minuscole zampe da elefante e la tuta di gomma azzurra. Un Boov. Con ogni probabilità mandato a stanarmi. Poi il rullo di tamburi si è interrotto. Una flebile voce nasale ha detto: «Oh. Ciao, micina». Pig. «Come che hai fatto a essere dentro il super?» Ho sentito Pig fare forte le fusa, la canaglia. Probabilmente si stava strusciando contro ognuna delle sue otto gambe. «Fattoti entrare… qualcuno, eh?» 20
Il cuore mi batteva all’impazzata. Come se Pig avesse potuto dire: «Sì, è stata Gratuity. Corsia numero cinque». «Forse che hai fame», le ha detto il Boov. «Vuoi che ti bevi con me un bicchiere di sciroppo per la tosse?» Il rullo di tamburi è ripreso. Si stavano muovendo. Ho allungato il collo fuori dallo scaffale in tempo per vederli oltrepassare una porta con su scritto RISERVATO AL PERSONALE. Sono sgusciata fuori e, senza pensarci, sono corsa fino alla porta d’entrata. L’ho aperta con uno spintone, facendola tintinnare, e ho pensato: oh, già. La campanella. Una rapida occhiata indietro e poi sono schizzata via. Mi sono fiondata alla macchina, ho recuperato la borsa e sono andata a nascondermi dietro una fila di siepi che circondava il parcheggio. Al riparo delle piante, ho sbirciato da un varco fra le foglie, giusto in tempo per vedere il Boov fare capolino dal super. Il Boov (era un maschio?) ha messo la testa fuori dalla porta, ha guardato a destra e a sinistra, scandagliando il parcheggio alla ricerca di quel babbeo che si era dimenticato della campanella attaccata alla porta. Poi ha avuto un sussulto quando ha visto la mia auto e si è girato sorridente verso Pig. La vedevo dietro la porta, le zampe anteriori sul vetro. «Ehilà», ha gridato il Boov. Ha alzato gli occhi verso l’autostrada distrutta e ha fischiato dal naso. Ho cercato di farmi più piccola possibile, ordinando al cuore di battere meno forte, e al sangue di non martellarmi nelle orecchie. Il Boov ha sgambettato sull’asfalto verso qualcosa di nuovo, qualcosa che prima non avevo notato. In un angolo del parcheggio c’era questa cosa stranissima, una specie di gigantesco rocchetto di filo con le corna. Era blu, plasticoso, e stava sospeso in aria, a circa quindici centimetri da terra. 21
«Voglio no farvi del male!», ha urlato di nuovo il Boov. «Se accettate il mio invito, ci sono biscotti per la dentizione e sciroppo per la tosse a sufficienza per tutti!»
Con un salto, il Boov (maschio, femmina o altro, chi se ne importa) è salito con tutto il suo corpo tozzo in cima al grande rocchetto, attaccandosi ai bordi con le gambette da elefante. Le minuscole braccia da rana hanno afferrato le corna e, guizza di qui, ruota di là, l’affare blu di plastica si è alzato di trenta centimetri da terra, risalendo la collinetta di pietra ed erbacce fino all’autostrada. «Ehilà!», gridava mentre si allontanava fluttuando nell’aria. «C’è no da temere! I Boov mangiano no la gente!» Il buffo scooterino del Boov è sparito oltre la collinetta e io sono schizzata verso il supermercato... Perché? Per prendere Pig? Mi sa che preferiva stare con il Boov. Ma lei era tutto 22
ciò che avevo, e la macchina era fuori uso con una gomma a terra, e il mio unico pensiero era sparire in quella piccola città sperando che il Boov non si incaponisse a cercarmi. «È ora di andare, Pig», ho detto entrando come un razzo nel super, lo stomaco che tintinnava come una campanella esagitata. Pig ha tentato di sgusciare fuori dalla porta, per andare dietro all’alieno, immagino, ma io l’ho presa in braccio. «Stupida gatta.» Ho messo tutto il cibo per gatti e le barrette biologiche nello zaino e sono corsa alla macchina. Un ultimo controllo per essere certa di avere tutto, e poi via. Arrivata alla portiera lato passeggero mi sono ricordata del cellulare – dovevo prenderlo? – ed è stato allora che mi è venuta un’idea folle. Pig si dimenava fra le mie braccia. «Wrooowr’ftt», ha detto. Ho riso. «Tranquilla. Non andiamo da nessuna parte. Torniamo nel supermercato e aspettiamo che ritorni il tuo amico.» Pig ha soffiato sommessamente fra sé e sé. Lasciate che vi spieghi cosa penso che sia successo dopo. Secondo me il Boov ha sorvolato la vecchia autostrada per un po’, trallallà, pensando io di certo spero di trovare Gratuity, o chiunque è, io mangiola o consegnola alle autorità o spediscola in Florida con un raggio, poi ha frugato intorno al super e magari nella mia macchina, e ha pensato ah ah, la mia immaginazione ha stato, niente ragazzine o altro ci sono qui, sono proprio stupido, beee-beee, bolle schiacciate, beee-beee, bolle schiacciate. Poi il Boov ha parcheggiato il rocchetto con le corna ed è rientrato nel super e si è chiesto dove fosse Pig, e quando la porta ha smesso di scampanellare, ha sentito qualcosa. Così 23
ha pensato: cosa che ha stato? Ed è andato a dare un’occhiata. E mentre si avvicinava al reparto surgelati, può darsi che abbia riconosciuto le voci di altri Boov, anche se era parecchio stupido. E ha visto lo sportello di un congelatore aperto che prima era chiuso, ha sbirciato dentro e ha emesso un belato. Forse in quel momento si è accorto che i ripiani del congelatore erano a terra accanto al mio cellulare, ma non ha avuto importanza, perché proprio in quell’istante ho tirato un calcio al suo sedere alieno e l’ho chiuso dentro bloccando lo sportello con un manico di scopa. Il Boov si è messo a saltellare e si è voltato verso di me. Ero contenta perché aveva un’espressione stupita, o spaventata, e ha schiacciato il faccione contro il vetro per vedere meglio chi lo aveva messo in trappola. Ho festeggiato con una piccola danza della vittoria. «Perché hai fattolo?», ha detto. Credo che abbia detto così. Era difficile sentire le sue parole attraverso il vetro. All’improvviso mi sono chiesta se dopo un po’ gli sarebbe finita l’aria. Quel pensiero mi ha messo a disagio e ho dovuto ricordare a me stessa in che situazione mi trovavo. «Bene», ho sussurrato. «Spero che non gli finisca l’aria.» Mi sarebbe piaciuto che si congelasse lì dentro, ma era saltata la corrente. «Cosa?», ha detto il Boov con un fil di voce. «Cosa che hai detto tu?» I suoi occhi saettavano da una parte all’altra come pesciolini. Le sue dita da rana brancicavano sul vetro. «Ho detto che ben vi sta! Avete rubato mia mamma e adesso io rubo uno di voi!» «Cosa?» «Avete rubato mia mamma!» 24
«Miananna?» «MIA… MAMMA!» Il Boov ci ha pensato su per un secondo, così mi è parso, e poi i suoi occhi si sono illuminati. «Ahhh. Mia mamma!», ha detto felice e festante. «Cosa che c’entra lei ora?» Ho cacciato un urlo tirando calci al vetro. «Aha.» Il Boov ha annuito come se avessi detto qualcosa di importante. «Ah. Quindi… posso venire nel fuori adesso?» «No!», ho strillato. «Non puoi venire nel fuori. Non ci verrai mai più!» A questa risposta, il Boov mi è sembrato sinceramente sorpreso ed è andato nel panico. «Allora… allora… devo di sparare con la mia pistola!» Ho fatto un salto indietro, mani in alto. Nella concitazione del momento, non ci avevo pensato. I miei occhi sono partiti fulminei alla ricerca dei suoi fianchi, ammesso che ci fossero. Ho aggrottato la fronte. «Non ce l’hai nemmeno la pistola.» «Sì, SÌ!», ha gridato lui, facendo furiosamente segno di sì con la testa, come per darmi stranamente ragione. «NO PISTOLA! Quindi dovrò… dovrò…» Un fremito gli ha attraversato tutto il corpo. «… SPARARE RAGGI LASER DA ORBITE DEI MIEI OCCHI!» Sono caduta su una fila di ripiani. Questa non l’avevo mai sentita. «Sparare raggi laser?» «SPARARE RAGGI LASER!» «Sai farlo veramente?» 25
Il Boov ha avuto un attimo di esitazione. Un tremolio gli ha scosso gli occhi. Dopo qualche secondo ha risposto: «Sì». L’ho guardato di sottecchi. «E va bene, se tu spari con il laser, io non avrò altra scelta che… FARTI ESPLODERE LA TESTA!» «Voi umani potete no far esp…» «Sì che possiamo! Possiamo farlo anche noi! È solo che non lo facciamo spesso. È considerato un gesto di maleducazione.» Il Boov ci ha pensato su un attimo. «Allora… serveci una… tregua. Tu no esplodi teste e io no LASEROCCHI DEVASTANTI.» «Ok», ho accettato. «Tregua.» «Tregua.» Abbiamo passato qualche minuto nella quiete più assoluta del supermercato. «Allooora… posso venire nel fuori e…» «No!» Il Boov ha indicato un punto oltre la mia testa, picchiettando il polpastrello sul vetro. «Io possoti riparare l’auto. Ho vistola che è rotta.» Ho incrociato le braccia. «Che ne sa un Boov di come si ripara un’auto?» «Io sono Funzionario Capo Manutenzione. Io posso riparare tutto! Sicurissimamente posso riparare auto umane primitive», ha detto sbuffando. Non mi è piaciuta quella frecciatina a proposito della mia macchina, ma di certo aveva bisogno di riparazioni. «Come faccio a sapere che lo farai? Magari chiamerai i tuoi amici e mi trascinerete in Florida.» Il Boov ha corrugato quella che forse era la sua fronte. «Tu 26
vuoi no andare in Florida? È lì che il tuo popolo deve stare. Tutti gli umani decidono di andare in Florida.» «Questa poi! Mi sembra che noi non possiamo decidere un bel niente!», ho detto. «Ma sì!», ha ribattuto il Boov. «Florida!» Fra un sospiro e l’altro mi sono messa a camminare avanti e indietro per la corsia. Quando mi sono voltata verso il congelatore ho visto che il Boov aveva raccolto da terra il mio cellulare. «Potrei parlare con loro», ha detto, serio. «Potrei chiamarli adesso adesso.» Era vero. Poteva farlo. Ho tolto il manico di scopa e ho aperto lo sportello. Il Boov si è gettato in avanti e io mi sono subito pentita di quello che avevo fatto, solo che poi mi sono resa conto che non mi stava attaccando. Deve essere stato un tentativo di abbraccio, perché non mi viene in mente una parola migliore per definirlo. «Visto?», ha detto. «Boov e umani possono essere amici. Dicolo sempre io!» Gli ho dato una pacca sulla spalla, poco convinta. Sembrerà folle, lo so, ma tutt’a un tratto mi sono ritrovata a cercare viveri in città mentre il Boov mi aggiustava la macchina. A questo punto mi sembra inutile specificare che Pig era rimasta con lui. Sono andata in cinque negozi abbandonati e ho trovato cracker, frappè dietetici, acqua, pane duro che più duro non si può, merendine al miele, concentrato di pomodoro, pasta, un secchiello di una cosa chiamata VASCA! con cucchiaio incorporato, e barrette di Cioccovaniglia, che andavano contro la mia regola di non mangiare prodotti dai nomi assur27
di. Il Boov mi aveva elencato alcune cose che gli piacevano, quindi ho preso anche un cestino di mentine, amido di mais, lievito, dadi, filo interdentale al mentolo e risme di carta. «Ehi, Boov!», ho urlato quando sono tornata. Era sotto l’auto, intento a picchiare a destra e a manca. La macchina, sarà il caso di dirlo, adesso aveva altre tre antenne. I buchi nei finestrini erano misteriosamente scomparsi. C’erano tubi e manichette che collegavano certe parti dell’auto ad altre parti dell’auto, e un paio di cose che potrei definire solo come pinne. Sembravano ricavate da pezzi di metallo che il Boov aveva recuperato dal supermercato. Su una di queste si vedeva l’immagine di una bibita e la parola Succosa. C’era una cassetta degli attrezzi aperta, e gli attrezzi, tutti strani, erano sparsi ovunque. «Mi sembra che tu stia facendo un gran macello per una semplice gomma bucata», ho osservato. Il Boov ha tirato fuori la testa. «Gomma bucata?» Gli ho risposto con uno sguardo stralunato e poi ho fatto il giro dell’auto per andare dall’altra parte. La gomma era ancora a terra. «La macchina, adesso dovrebbe volare gran meglio!», ha esclamato lui entusiasta. «Volare?», ho replicato. «Volare meglio? Prima non volava per niente!» «Mmh», ha detto il Boov, guardando in basso. «Allora è per questo che le ruote sono tanto sporche.» «Probabile.» «Allooora, giravano?» «Sì», ho risposto bruscamente. «Giravano. Per terra.» 28
Il Boov ci ha pensato su per qualche lungo secondo. «Ma… come che facevano a girare con la gomma bucata?» Ho lasciato cadere il cestino e mi sono seduta per terra. «Non importa», ho detto.
«Bene», ha risposto il Boov. «Adesso volerà da urlo. Ho usato pezzi del mio veicolo.» Mi ha lasciato di stucco quando ha detto “da urlo”. Era slang. Un’espressione che non mi aspettavo di sentirgli usare. E non era più nemmeno comune. Non la usava più nessuno. Nessuno tranne mia mamma, e tranne me, a volte. Credo che mi abbia fatto venire in mente la mamma e che mi abbia fatto arrabbiare. «Mangiati il tuo filo interdentale, Boov», gli ho detto, lanciandogli il cestino. Lui non ha fatto una piega e ha obbedito, succhiando metri e metri di filo come fossero spaghetti. 29
«Tu dicilo no bene», ha detto alla fine. «Dire cosa?» «“Boov”. Se dicilo così, suona troppo corto. Devilo strascicare, così come un lungo respiro. “Bo-o-ov”.»
Dopo un attimo, ho mandato giù la rabbia e ho deciso di fare un tentativo. «Boov.» «No. Bo-o-ov.» «Bo-o-o-o-ov.» «Adesso sembri una pecora», mi ha detto il Boov con sguardo severo. «E va bene. Allora dimmi come ti chiami. Ti chiamerò per nome.» 30
«Ah, no», ha risposto il Boov. «Le ragazzine umane per dirlo bene il mio nome dovrebbero avere due teste. Ma per nome umano ho scelto “J.Lo”.» Ho trattenuto una risata. «J.Lo? Come la cantante? Il tuo nome sulla Terra è J.Lo?» «Ah ah», mi ha corretto J.Lo. «No “Terra”. “Smekland”.» «Come sarebbe a dire “Smekland”?» «È così come abbiamo chiamato questo pianeta. Smekland. Per dare omaggio al nostro glorioso capo, il Capitano Smek.» «Un attimo», ho detto scuotendo la testa. «Aspetta un attimo. Non potete mica cambiare nome al pianeta.» «Chi i posti scopre, i posti li chiama.» «Ma si chiama Terra. Si è sempre chiamata Terra.» J.Lo mi ha rivolto un sorriso altezzoso. Lo avrei preso a calci. «Voi umani vivete troppo nel passato. Noi abbiamo atterrato su Smekland tanto tempo fa.» «Siete atterrati lo scorso Natale!» «Ah ah. No “Natale”. “Smekday”.» «Smekday?» «Smekday.» *** Ed ecco come ho saputo il vero significato dello Smekday. Me l’ha detto questo Boov di nome J.Lo. Ai Boov non piaceva che celebrassimo le nostre feste, così le hanno sostituite con delle nuove. Il nuovo nome del Natale deriva da quello del Capitano Smek, il loro capo, che aveva scoperto un Nuovo Mondo per i Boov, ossia la Terra. Cioè, Smekland. O insomma, quello che è. Fine. 31