Per Karen, per tutto e per sempre. E per Mark, che ora è su per le montagne.
Dan Gemeinhart Questa è la vera verità Traduzione di Anna Carbone © 2016 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Pubblicato per la prima volta nel 2015 con il titolo The Honest Truth Copyright © 2014 Dan Gemeinhart. All rights reserved. Published by arrangement with Scholastic Inc., 557 Broadway, New York, NY 10012, USA. ISBN: 978-88-6966-061-0
Traduzione di Anna Carbone
Capitolo 1 Chilometri
da
percorrere :
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L
a montagna mi chiamava. Dovevo andare. Dovevo farlo. E non avevo bisogno di nessuno che mi accompagnasse. Strinsi gli spallacci dello zaino e con un piede aprii la zanzariera davanti alla porta. «Vieni, Beau!», urlai, e la mia voce non tremò neppure un po’. Era forte. Come me. Beau uscì a razzo, la sua coda mi frustò le gambe. In veranda cominciò a danzare sulle zampe anteriori, sorridendomi felice con gli occhi di colore diverso e la lingua penzoloni. Mi chinai e gli diedi una grattatina dietro le orecchie, nel modo che piaceva a lui, nel modo che conoscevo solo io. «Sei sempre pronto per una passeggiata, non è vero, bello?» Sbuffò un sì ansante. «Be’, quella di oggi sarà diversa», gli dissi, poi presi i manici del borsone e mi rialzai. Guardai le montagne coperte 1
di bianco in lontananza, verso l’orizzonte. «La passeggiata più lunga di tutte. È questa la verità.» Mi sbattei la porta alle spalle e non mi voltai a guardare neppure una volta. Non mi preoccupai della chiave. Probabilmente non sarei mai tornato indietro. Beau mi rimase incollato alla gamba per tutti i dieci minuti che impiegammo a raggiungere la stazione. La macchina fotografica che portavo appesa al collo mi ballonzolava sulla pancia. Quando vidi profilarsi la stazione davanti a me, mi nascosi dietro un angolo e mi acquattai in un vicolo. Avevo il fiato grosso per la tensione. «D’accordo, Beau, adesso facciamo come abbiamo provato.» Aprii la zip del borsone e l’allargai. Era quasi vuoto. Ci infilai la mano e diedi dei colpetti dentro. «Avanti, Beau, vieni.» Beau entrò nel borsone, girò su se stesso un paio di volte, poi si accucciò. Sollevò il muso e mi guardò. «Bravo cane, sì, sei proprio un bravissimo cane», bisbigliai. Cercò di dimenare la coda dentro il borsone. Pescai un biscotto dalla tasca e lui me lo spazzolò dalla mano in un solo, rumoroso boccone. Richiusi la zip fin quasi in fondo. Beau scomparve al buio. Mi rialzai e il suo peso mi tirò giù la spalla. Serrai la presa. «Meno male che non sei un San Bernardo», bisbigliai al borsone, quindi svoltai l’angolo e andai allo sportello. L’uomo dietro il vetro alzò gli occhi dalla rivista che stava leggendo. Raddrizzai il mio cappellino da baseball di un bel rosso vivo e mi schiarii la gola. «Mi servono due biglietti», dissi. «Autobus o treno?» 2
«Autobus. Per Spokane.» «Viaggi solo?» La parola solo risuonò come una campana rotta. Mi bagnai le labbra. «Papà è andato al bagno. Mi ha lasciato i soldi per i biglietti.» L’uomo annuì con uno sbadiglio. La gente è pigra. Era su questo che facevo affidamento. «D’accordo. Allora, un adulto e un ragazzo, da Wenatchee a Spokane. Fanno quarantaquattro dollari.» Presi i soldi dalla tasca della mia giacca blu e glieli porsi. «Il tuo autobus parte da laggiù fra dieci minuti.» Presi i biglietti e andai nella direzione che mi aveva indicato. Vicino alla banchina un paio di autobus avevano il motore acceso. Uno aveva davanti il cartello Spokane, com’era scritto sui miei biglietti. Mi voltai a guardare. L’uomo allo sportello aveva di nuovo gli occhi sulla rivista. Passai davanti all’autobus e svoltai l’angolo dell’edificio. Diretto ai binari della ferrovia. Trovai la pensilina che avevo visto mentre preparavo il mio piano. Quella con il bidone della spazzatura incatenato dietro, quasi invisibile. Ci feci il giro intorno a testa china, diedi una rapida occhiata per accertarmi che nessuno mi guardasse, poi mi sfilai la giacca e la buttai nell’immondizia. Subito dopo fu la volta del cappellino rosso e dei due biglietti dell’autobus. Tirai fuori dallo zaino il berretto di lana verde e me lo infilai. Quando mi voltai per andarmene, sentii il rigonfiamento nella tasca. Con un gran sospiro tremante, tirai fuori l’orologio. Era un’antiquata cipolla da tasca in argento con il 3
quadrante rotondo di vetro. Un regalo del nonno, che era morto. Mi morsi il labbro, con forza. Lo sentivo ticchettare nella mano. Tic. Tic. Tic. Era il tempo che scivolava via. Ecco una cosa che non capisco: perché uno dovrebbe avere voglia di portarsi dietro una cosa che gli ricorda che la sua vita sta finendo. Scagliai l’orologio per terra con tutte le mie forze. Sbatté sul cemento. Il vetro si incrinò ma non si ruppe. Strinsi i denti e lo calpestai, così forte che mi feci male al piede. Il vetro andò in frantumi e lo schiacciai di nuovo. Le lancette si piegarono. Lo calpestai ancora e ancora. Avevo il piede alzato per schiacciarlo un’altra volta quando sentii Beau uggiolare nel borsone. I miei polmoni boccheggiarono. Avevo il fiato corto e il respiro affrettato e cominciavo a sentire un po’ di nausea. Una lieve fitta di dolore cominciava a trafiggermi la testa. Beau uggiolò di nuovo. «Va tutto bene, Beau», ansimai, poi abbassai il piede. Mi chinai per prendere l’orologio e buttarlo nella spazzatura, ma mi fermai. Guardai il bidone, guardai i pezzi dell’orologio d’argento. Mi raddrizzai e sentii la macchina fotografica contro il corpo. Me la portai all’altezza degli occhi e scattai una foto dei rottami sparsi per terra. Poi lo spostai a calci dietro il bidone. Quando svoltai l’angolo, vidi il treno in attesa. Luccicava argenteo e rombava come un terremoto in bottiglia. Rovistai nella tasca della felpa grigia e trovai il biglietto del treno, quello che avevo comprato online la sera prima con la carta di credito che avevo preso di nascosto nella borsa della mamma. Il mio stomaco fece una capriola. 4
«Vai a Seattle?», mi chiese la signora prendendomi il biglietto. Annuii e feci per salire a bordo. Non volevo che si ricordasse di me. «Sei solo? Hai bisogno di aiuto con i bagagli?» Cercai di non sembrare sgarbato. «No», risposi senza guardarla, poi salii i gradini del treno con le gambe e le dita che bruciavano sotto il peso di Beau. La carrozza era quasi vuota e trovai posto in una fila libera sul fondo. Fuori dal grande finestrino c’era Wenatchee, la casa che stavo abbandonando. Il cielo si stava scurendo. I magazzini e gli edifici bassi attorno ai binari della ferrovia gettavano lunghe ombre. Le nuvole erano scure e pesanti. Era in arrivo un temporale, e con lui anche la notte. Da qualche parte, là fuori nel buio, c’era Jessie, la mia migliore amica. E la mamma e il papà. Le loro facce mi fluttuarono nella mente. Non avevano idea che me ne stessi andando. Non avevano idea di dove fossi diretto. Non sarebbero riusciti a trovarmi. Non avrebbero potuto aiutarmi. Sbattei con forza gli occhi e scossi la testa. «Non ho bisogno di loro», bisbigliai, socchiudendo gli occhi per vedere la città, le ombre. «Non ho bisogno di nessuno.» Era vero, forse, ma non mi piacque il modo in cui le parole mi erano uscite, più cattive che forti. Toccai il vetro freddo con le dita, guardando in lontananza verso la casa vuota cui sarebbero tornati i miei. «Mi dispiace», dissi a voce ancora più bassa. «Mi dispiace.» Tirai fuori dalla tasca esterna dello zaino un quaderno e una penna. Feci scorrere le pagine con i compiti e gli scarabocchi e arrivai al primo foglio bianco, poi riflettei per un 5
minuto. Frugai nella mia mente, per trovare le parole al momento. Si fece avanti un’idea, lenta e timida. Annuii. Contai un paio di volte sulle dita, articolando silenziosamente le parole con la bocca. Quindi le misi per iscritto. Fuori sentii il grido: In carrozza!. E poi il clangore metallico di una porta che si chiudeva. Abbassai gli occhi sulle parole che avevo messo su carta. Tre righe: Da solo parto per una strada nuova verso i monti. Feci scivolare la mano nel borsone posato sul sedile di fianco al mio e trovai la testa di Beau. Mi leccò le dita. Aveva la lingua umida e il fiato caldo. Era morbido. Era un amico. Lo grattai dietro le orecchie facendo del mio meglio per non mettermi a piangere. Cercai con tutte le mie forze di ricordarmi che non avevo paura. Che non ero terrorizzato. Lasciai ricadere la testa sullo schienale e cercai di non pensare ad altro che alle montagne. Nel giro di qualche ora la mamma sarebbe rientrata a casa. E un paio di ore dopo la polizia avrebbe cominciato a cercarmi.
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Capitolo 1 /2 1
Voce che trema Come foglia d’autunno. Non vuol cadere. «Jessie, tesoro, Mark è lì da te? È con te?» Jessica Rodriguez scosse la testa all’altro capo del telefono. «Oh, no. Non lo vedo da quando è finita la scuola. Perché, che succede?» «Ecco, non è niente, ne sono sicura», rispose la mamma di Mark sforzandosi di ridere. Una risata che finì quasi in un singhiozzo. «Solo, mi ha stupito non trovarlo a casa, tutto qui. Ed era così buio...». La sua voce si spense. «E manca anche Beau. Se si fa vedere, fammi sapere, d’accordo?» Mark non si fece vedere. Di solito la polizia non si precipita in casa di qualcuno se il figlio è scomparso solo da un paio d’ore. Ma quando la mamma raccontò loro di Mark, della sua storia, cominciarono a presta-
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re ascolto con un po’ più di attenzione. Quando seppero quello che avevano detto i medici, ascoltarono con molta attenzione. E quando trovarono il biglietto che aveva lasciato, l’attenzione diventò massima. E così, poco dopo le sette due macchine della polizia entrarono sgommando nel parcheggio della stazione degli autobus, vicino ai binari della ferrovia. Non avevano un vero motivo per pensare che fosse andato lì, a parte il fatto che sembrava che fosse scappato di casa e che i soli due modi che un ragazzino ha per scappare da Wenatchee sono l’autobus o il treno. Uno dei poliziotti saltò giù dall’auto e corse verso l’autobus in attesa, una vettura diretta a sud, in Oregon. Scrutò i corpi sui sedili in cerca di un ragazzino non accompagnato. Un ragazzino smunto, dal colorito pallido. Con un cappellino. Non ne vide nessuno. L’altro poliziotto corse allo sportello della stazione degli autobus e bussò al vetro. Dietro c’era un uomo dall’aria annoiata che leggeva una rivista. Quando vide che a bussare era un poliziotto sembrò un po’ meno annoiato. L’agente gli fece alcune domande, rapide e secche. L’uomo si bagnò le labbra, si grattò il mento, diede qualche risposta. Il poliziotto annuì e tornò alla macchina, dove fu raggiunto dal collega di ritorno dall’autobus. Aprì lo sportello e prese il microfono della radio. «Lo hanno visto.» «È su un bus per Spokane.» «Berretto rosso.»
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Capitolo 2 Chilometri
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cesi dal treno intorno alle nove. A Seattle, da solo, con tutta una notte intera da trascorrere al buio. Pioveva. Quando fui fuori della stazione, posai il borsone e aprii la zip. Beau uscì balzellando, con le zampe che ticchettavano sul marciapiede bagnato. Tutto il suo corpo si dimenava. «Ci aspetta una notte lunga, Beauchamp.» Gli diedi una grattatina dietro le orecchie e una pacca sulle costole. «Il nostro autobus non partirà prima di domattina. Abbiamo un mucchio di tempo da far passare.» Mi misi lo zaino in spalla. Beau corricchiava qua e là, fiutando gli strani odori di città e facendo la pipì un po’ dappertutto. Poi ci incamminammo. La città era buia. Non erano tutte luci scintillanti, palazzi illuminati, macchine e gente in giro come avevo immaginato. La stazione ferroviaria di Seattle si trovava nel mezzo di un quartiere di magazzini vuoti ed edifici abbandonati. I lampioni erano quasi tutti rotti. Le uniche persone che vidi 9