Questa sono io

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Questa sono io di Lodovica Cima e Annalisa Strada

Š 2014 Editrice Il Castoro Srl viale Abruzzi 72, 20131 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it

ISBN: 978-88-8033-822-2


Lodovica Cima - Annalisa Strada

QUESTA SONO IO



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E Vincenzo dov’è?

Viola saliva al rallentatore le scale di marmo lucido. Si concentrava per mettere un piede davanti all’altro, come se si stesse avvicinando alla cattedra per l’ennesima interrogazione della giornata. Sulla soglia si fermò per un istante perché aveva notato qualcosa: il silenzio. Quella casa era maledettamente silenziosa, come se dentro non ci fosse vita. Inserì le chiavi nella serratura di ottone della porta e girò, sempre al rallentatore. Perfino la serratura era silenziosa. E lucidissima. Si infilò nello spiraglio appena aperto, facendo passare a fatica lo zaino che teneva appeso alla spalla per una sola bretella. Finalmente sentì un rumore. Non un rumore vero e proprio, ma almeno un suono: un leggero brusio che arrivava dalla cucina. Tese l’orecchio e riconobbe la voce della nonna che stava parlando al telefono. Sembrava una conversazione senza fretta. Strano, alla nonna non piaceva dilungarsi al telefono. Era una donna pratica, a volte sbrigativa, di molti fatti e di poche parole. Per non farsi sentire, Viola avanzò in punta di piedi sul

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pavimento di graniglia che sembrava ancora nuovo, anche se doveva essere vecchio quanto la casa e cioè avere almeno un centinaio di anni. La vide con le spalle esili e un po’ più curve del solito, appoggiata al lavello. Stava pelando le patate e teneva il ricevitore tra l’orecchio e la spalla. “La nonna non perde tempo a parlare e basta…”, considerò Viola, poi però la vide bloccarsi nel movimento e scandire delle parole più chiare: «Non mi sembra giusto». La sua voce era insolitamente decisa. «Così non va bene… non sta mai con voi.» Seguì una scarica di “no-no-no” e alla fine un “ciao” asciutto. Clic. Viola aveva percepito subito che nell’aria aleggiava un’energia negativa e, istintivamente, arretrò fino all’entrata. La nonna non si era ancora accorta di lei. Si girò nel momento in cui la ragazza faceva sbattere la porta d’ingresso e buttava malamente lo zaino di scuola sul pavimento. «Ciao cara, bentornata. Avrai fame... Com’è andato il compito di storia?» «Benino, almeno credo.» Viola abbozzò un sorriso. «Ho confrontato le risposte con quelle di Arianna e, tutto sommato, direi che me la sono cavata.» «Be’, se lo dice Arianna, stiamo tranquille», scherzò la nonna. «Vieni qui adesso: ti ho fatto le lasagne.» Viola fece tutto quello che ci si aspettava da lei: mangiò apprezzando il pranzo, sparecchiò, diede una pulita al tavolo e preparò il caffè che, di solito, beveva in salotto insieme alla nonna. Ma quel giorno niente era come al

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solito: quella telefonata, le parole sussurrate e quell’aria tesa si erano parcheggiate dentro di lei. Erano ingombranti, quasi come un fastidio fisico: si sentiva all’erta senza sapere perché. Appena ne ebbe l’occasione si ritirò in camera, sfoderò il pretesto di un compito noiosissimo di algebra e riuscì a sottrarsi allo sguardo della nonna. Si lasciò cadere sul letto perfettamente rifatto, chiuse gli occhi e scalciò le scarpe di tela, che caddero sul tappeto con un rumore attutito e quasi rassicurante. Provò a svuotare la testa, ma non ci riuscì. Provò a prendere le idee a una a una e a incasellarle in uno schema chiaro, qualcosa di ordinato e comprensibile come una tavola pitagorica. Niente da fare. Cercò con la mano il telefonino che teneva in tasca. Doveva chiamare Arianna. Si sforzò di riaprire gli occhi e fissò il display, allungò il dito sul tasto della chiamata rapida, ma poi si ricordò che Arianna non avrebbe risposto: aveva detto che sarebbe andata con suo padre fuori città a comprare una nuova mensola per la sua stanza. Lasciò cadere la mano sul petto, con un sospiro di frustrazione. Arianna era la sua migliore amica, oltre che la sua compagna di banco e la più brava della classe. Eccellere a scuola per lei non era una fatica. Quella mattina le aveva raccontato della mensola per filo e per segno, neanche ne andasse della sua stessa vita: Arianna, la perfezionista, doveva avere una camera sempre

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in ordine. Una vera ossessione che Viola proprio non capiva. Girando gli occhi attorno, nella sua stanza, vide i libri ammonticchiati sulla scrivania e gli abiti sulla poltroncina, che la nonna aveva districato e ripiegato, ma che mantenevano un’aria abbandonata. Intanto, Arianna avrebbe passato il pomeriggio con suo padre. Che fortuna. Il padre di Viola non si faceva vedere da sette settimane e cinque giorni. Aveva segnato la data del loro ultimo incontro sul diario e ogni tanto contava i giorni, giusto per mantenere il senso del tempo e della sua profondità, che continuava ad avere in mente come una voragine buia. Le aveva concesso solo qualche telefonata sbrigativa, quasi furtiva, che era arrivata sempre di sera, dopo cena, quando i pensieri sono già alla mattina dopo e nient’altro. E non aveva mai capito se sua madre fosse con lui. Di sicuro non era con lei e la nonna. Quel giorno aveva fatto la strada di ritorno da scuola da sola, ed era pure incappata nel gruppo delle solite galline che le erano saltate di fronte all’improvviso. Cecilia, capogallina, aveva camminato davanti a lei strisciando i piedi e sollevando polvere. Viola era sicura che lo avesse fatto apposta per darle fastidio. Una vera carogna, Cecilia: tutta impegnata a non farne passare una liscia a nessuno. E poi aveva quel codazzo starnazzante, buono solo a ripetere quello che diceva lei. Una specie di montagna che si porta dietro l’eco. Una montagna che riscuoteva gran successo, però.

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Viola non andava bene per il club delle galline: troppo poco fashion, troppo poco allegra, troppo poco spiumazzata e spensierata. Insomma, del tutto inadeguata allo standard del pollaio. Ma, sotto sotto, a volte le sarebbe piaciuto assomigliare a Cecilia. Sempre perfetta e sicura, con l’aria di chi non si lascia scuotere da niente. E a trasformare la situazione in un chiodo nel cuore era il fatto che Cecilia aveva messo gli occhi su Michele. Già, proprio lui. Michele era uno che si faceva notare: con quella carnagione sempre levigata da una leggera abbronzatura, lo sguardo di un azzurro trasparente, il sorriso abbozzato che gli dava l’aria di giusta sufficienza e le mani sprofondate in tasca. A tutto questo, come se non bastasse, aggiungeva l’andatura elastica e composta di chi si allena a basket tre volte la settimana e riesce a trovare il tempo anche per stare con gli amici. Non c’era da stupirsi che le ragazze del pollaio gli sciamassero dietro. Anche Michele aveva un compagno che gli faceva eco: Francesco, un ragazzo tranquillo, con gli occhi profondi. Michele e Francesco stavano insieme praticamente sempre e Cecilia non perdeva l’occasione per incollarglisi alle calcagna e imbastire discorsi. Sembrava avesse spunti di conversazione a non finire. Per di più (inspiegabilmente, almeno alle orecchie di Viola) era la sola che riusciva a farsi rispondere da quei due qualcosa di più di tre monosillabi. Viola avrebbe regalato volentieri il suo preziosissimo zaino autografato dalle Daisy Sisters pur di riuscire anche una sola volta nella stessa impresa!

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Quel giorno però era successo qualcosa, un cambiamento impercettibile. Michele aveva raccolto la sua gomma passando tra i banchi e gliela aveva appoggiata delicatamente nel palmo della mano. Un contatto inaspettato. Poi si era subito voltato dalla parte di Cecilia, quasi a controllare che non l’avesse notato. O almeno così era sembrato a lei. Sdraiata sul letto, Viola ripensò a lungo a quel momento, ma proprio non si ricordava se Cecilia li stesse guardando. Solo l’indomani avrebbe scoperto se li aveva notati e quale punizione le sarebbe toccata per quel gesto che non era stata lei a cercare. Mentre aveva ancora negli occhi Michele, il silenzio del suo pomeriggio venne di nuovo interrotto da una telefonata, decisamente rumorosa. Questa volta la nonna era davvero arrabbiata. Viola si alzò di scatto dal letto e si avvicinò alla porta per sentire meglio. I suoi piedi nudi lasciarono una serie di impronte sulle mattonelle lustre del pavimento. «Siete due ipocriti! Non avrei un’altra maniera per descrivervi, cari miei! Così non può continuare: ma state sicuri che a una decisione dovete arrivare. I ragazzi crescono e non si recupera il tempo perduto…» Viola si mordicchiò il labbro, i pensieri che le facevano ressa nella testa. “Che strana frase. Forse stanno decidendo qualcosa di grosso. Forse è per questo che Vincenzo non si fa vedere.” Vincenzo era il nome di suo padre, che non aveva mai

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voluto farsi chiamare papà: un vezzo da genitore moderno. Viola si sforzava, ma non le era mai piaciuto chiamarlo per nome. Un papà deve essere un papà e basta. L’onda di energia negativa che aveva già percepito prima e che si era sforzata di ricacciare indietro la invase di nuovo, e si mise a camminare inquieta nella sua piccola stanza, guardando nel vuoto. Voleva togliersi quel pensiero dalla mente, ma non bastava mettersi a cantare una canzoncina come faceva da piccola, bisognava sforzarsi molto di più, concentrarsi su qualche altra cosa. Tornò a gingillarsi al ricordo di Michele che le ridava la gomma con quel tocco magico. Era sicura che avesse intenzionalmente trattenuto la mano nella sua. Non fu un appiglio cui riuscì a stare aggrappata a lungo. All’improvviso, tutti i suoi pensieri di scuola e i sogni si volatilizzarono lasciando solo un enorme senso di vuoto, come un presentimento che qualche cosa stesse per accadere a sua insaputa. C’entravano i suoi genitori, ne era certa, e doveva scoprire di che si trattava al più presto. Forse aveva rimandato troppo. Forse troppe domande le erano rimaste chiuse dentro. Decise che era tempo di agire.

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