legami di sangue
Per tutti gli amici forniti di pelo, piume, pinne e squame che hanno reso più ricca la mia vita. — G.N.
Per Skipper e Jumpy, le rane che vennero in visita, la loro padrona Amelia, e suo fratello gemello, Orlando. — S.W.
Spirit Animals. Legami di sangue di Garth Nix & Sean Williams Traduzione di Simona Brogli Per il testo italiano © 2015 Editrice Il Castoro Srl viale Abruzzi 72, 20131 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it
Copyright © 2014 by Scholastic Inc. All rights reserved. Published by arrangement with Scholastic Inc. 557 Broadway, New York, NY 10012, USA. scholastic , spirit animals , and associated logos are trademarks and/or registered trademarks of Scholastic Inc. Illustrazione mappa di Michael Walton Design del libro di Charice Silverman ISBN 978-88-8033-966-3
legami di sangue
Garth Nix & Sean Williams
Traduzione di Simona Brogli
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Il Grande Labirinto di Bambù
I
l bambù si ergeva alto,
molto alto sopra Meilin, coprendo il sole e gettando ombre scure sui due stretti sentieri che si incontravano più in basso. La ragazza si fermò e gettò uno sguardo truce all’ennesimo bivio del Grande Labirinto di Bambù, all’ennesima scelta sulla direzione da prendere. Non voleva ammettere nemmeno con se stessa che da qualche parte, parecchi chilometri prima, si era sbagliata e ormai aveva completamente smarrito la strada. All’inizio, l’idea di raggiungere lo Zhong passando dal Labirinto le era sembrata ottima. La foresta di bambù era stata piantata apposta per fungere da difesa nei punti in cui non arrivava la Muraglia, e solo i funzionari di rango più elevato e un gruppo scelto di messaggeri conoscevano il percorso tra chilometri e chilometri di fusti alti quindici metri. Naturalmente anche il padre di Meilin, il Generale Teng, era a conoscenza di quel segreto, e molto tempo prima aveva rivelato alla figlia come attraversare la foresta entrando da nord.
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«Le prime dieci volte bisogna prendere a sinistra», aveva continuato a mormorare tra sé Meilin. «Poi si va sempre a destra per altre dieci volte, poi a sinistra, destra, sinistra, sinistra, sinistra, sinistra, destra, destra, destra.» Pur avendo seguito le istruzioni alla lettera, però, non era arrivata dall’altra parte del Labirinto. Peggio ancora, aveva contato sul fatto di riuscire a compiere il tragitto in giornata, come avrebbe dovuto essere. La borraccia di pelle che aveva riempito a un ruscello prima di entrare nella foresta e due gallette di riso sarebbero state provviste più che sufficienti. E invece quella era la mattina del terzo giorno. La borraccia era vuota e le gallette di riso un lontano ricordo. Ritrovarsi così dopo una lunga settimana di viaggio in barca e in carovana attraverso tutta l’Eura, spesso acquattata in casse polverose e stive infestate dai ratti, aggiungeva alla fame e alla sete di Meilin lo sconforto dell’insuccesso. La remota speranza che suo padre fosse ancora vivo, e che lei potesse sopravvivere abbastanza a lungo da trovarlo, era l’unica cosa che le impediva di arrendersi. Colpì rabbiosamente il bambù più vicino con una bastonata tanto violenta da spezzarne il fusto, spesso almeno dieci centimetri. La pianta cadde in mezzo alle altre, ma ce n’erano così tante che avrebbe anche potuto non essere mai stata lì. Tutto intorno, solo bambù giganteschi, lo stretto sentiero e il sole alto nel cielo. Per la prima volta, Meilin pensò che avrebbe potuto morirci sul serio, in quel Labirinto. La figlia del Generale Teng che moriva di sete in una foresta di bambù! Intollerabile! Un prurito all’avambraccio la distolse dalle sue riflessioni. Si tirò su la manica e guardò il tatuaggio di un panda sonnacchioso. Nel Grande Labirinto, aveva mantenuto inattivo
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il suo spirito animale, Jhi, per paura che la rallentasse. Ma ormai quella era l’ultima delle preoccupazioni di Meilin. «Forza, allora!», ordinò. «Esci e renditi utile. Potresti sempre farmi uscire di qui mangiandoti i bambù!» Ci fu un lampo di luce, seguito da un movimento improvviso. Un peso peloso le schiacciò il fianco quando Jhi apparve e si appoggiò a lei, spingendola contro le piante più vicine e facendole oscillare. «Ehi, attenta!», protestò Meilin. Sentì qualcosa sfiorarle il viso. Pensando fosse un insetto, fece per scacciarlo, ma altri qualcosa le piovvero sulla mano. Sollevò lo sguardo e notò delicati fiori bianchi che cadevano dalla sommità delle piante, simili a minuscoli fiocchi di neve. Bambù fioriti. Meilin non ne aveva mai visti. Sapeva che fiorivano una volta ogni cinquanta o sessant’anni, o addirittura ogni cento, e poi morivano. Tutti, da un giorno all’altro. «Il Labirinto sta morendo», bisbigliò, fissando le cime verdi. Ogni ciuffo che vedeva era in fiore. Nel giro di una settimana o due, i bambù si sarebbero seccati per poi spezzarsi e cadere. Ma prima avrebbero cosparso di corolle il fondo della foresta, invitando orde di ratti e altri animali a un banchetto che si teneva una volta per secolo. Senza più Labirinto, una parte ancora più vasta dello Zhong sarebbe rimasta completamente priva di protezione. La sua povera patria era già stata invasa dai Conquistatori attraverso la Muraglia, e presto avrebbe perduto anche le difese minori. Forse persino quella fioritura era stata provocata dal Divoratore, in qualche modo. Jhi si sedette di peso e tese una grossa zampa per trascinarsi accanto Meilin.
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«Non posso sedermi!», protestò la ragazza. «Devo trovare una via di uscita!» Scostò bruscamente la zampa del panda e mosse alcuni passi lungo il sentiero di sinistra. Poi esitò, si girò e fece lo stesso col sentiero di destra. Jhi mandò una specie di sbuffo dal naso. «Stai ridendo?», chiese Meilin. «È una cosa seria, questa! Mi sono persa. Non ho più cibo né acqua. Potrei morire qui!» Jhi diede alcuni colpetti sul terreno vicino a lei. Era un gesto molto umano, e a Meilin ricordò suo padre, quando voleva che gli sedesse accanto per ricevere qualche saggio consiglio. Cos’avrebbe dato per vederlo in quel momento... «Non ho tempo per sedermi!», la rintuzzò con voce stridula. «Muoviti!» Non contava poi molto il sentiero da prendere, pensò Meilin. Si era persa. L’importante, adesso, era la velocità. Doveva uscire dal Labirinto prima di morire di fame e di sete. Partì di corsa, a lunghe falcate, certa che stavolta avrebbe trovato un varco nel fitto dei bambù, che il sentiero l’avrebbe condotta a una radura, che si sarebbe ritrovata nei campi aperti dello Zhong. Jhi sbuffò di nuovo dietro di lei, ma Meilin la ignorò. Ancora una volta, il suo spirito animale stava dimostrando tutta la propria inutilità. Se solo avesse avuto Essix! Il falco avrebbe potuto volare in alto e trovare l’uscita del Labirinto. «Eppure un panda dovrebbe essere utile, in una foresta di bambù!», borbottò Meilin. Corse per un’altra cinquantina di metri e raggiunse un’altra intersezione. Poteva andare a destra, a sinistra o dritto. I sentieri sembravano tutti uguali: lunghi, stretti percorsi tra grandi ciuffi di bambù.
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Meilin si fermò e guardò indietro. Jhi la stava seguendo, lenta ma risoluta. Sotto gli occhi della ragazza, il panda tese una zampa e tirò verso il basso il fusto di un bambù, piegandolo fino a spezzarlo. Le canne più alte crollarono sul sentiero alle spalle di Meilin e la inondarono un’altra volta di fiori. Jhi si avvicinò con tutta calma e cominciò a mangiare, ficcandosi in bocca enormi manciate di foglie, steli e boccioli. Meilin avvertì la propria fame, un dolore all’altezza della cintura che era difficile ignorare. Le sarebbe venuta l’acquolina in bocca, ma non aveva più saliva. Il secondo giorno aveva provato a mangiare il bambù, ma le aveva dato dei crampi allo stomaco che l’avevano solo fatta sentire più affamata. Era troppo secco, senza quei germogli verdi e teneri che sarebbero stati più facili da digerire. «Deve pur esserci un modo per uscire», sussurrò. Rivolse uno sguardo febbrile ai tre sentieri. Non c’era proprio nessuna differenza tra l’uno e l’altro. L’ultima volta era andata a destra. Ora sarebbe andata a sinistra. A sinistra e poi a destra al prossimo incrocio, e così via. A zigzag. Avrebbe funzionato. In quel modo sarebbe arrivata da qualche parte. «Andiamo, su», disse a Jhi. Stavolta Meilin non si mise a correre. Non ne aveva più la forza. Ma camminò rapida, ignorando lo fame straziante e la gola ruvida, la calura e l’umidità. «Riuscirò a uscire di qui», mormorava. «Riuscirò a raggiungere lo Zhong. Riuscirò ad affrontare il Divoratore e i nostri nemici.» Ma una voce nella sua testa, al contrario, continuava a bisbigliare parole senza speranza. Sto per morire. Mi sono persa e sto per morire.
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Un messaggio dal mare
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di prua dell’Orgoglio di Tellun, la nave più veloce della flotta dei Mantelli Verdi. Gli spruzzi lo inzuppavano quasi di continuo mentre l’imbarcazione si apriva a forza un varco tra i marosi, ma almeno poteva starsene solo con la sua infelicità. Bagnarsi gli sembrava solo una piccola e giusta punizione per ciò che aveva fatto. Cedere il talismano di Rumfuss, il Cinghiale di Ferro, al nemico... anche se gli pareva ancora di non avere avuto altra scelta, di averlo dovuto fare per salvare la sua famiglia... Conor si sentiva pieno di vergogna e disperazione. Si chiese – e non per la prima volta – se ci fosse stato una specie di errore cosmico. Lui era destinato a essere un semplice pastore, no? Non avrebbe dovuto essere un Mantello Verde, e non avrebbe dovuto avere una Grande Bestia come spirito animale. Non era proprio tagliato per la parte dell’eroe, e l’Erdas aveva bisogno di eroi veri per procurarsi i talismani delle Grandi Bestie e sconfiggere il Divoratore. Denti aguzzi gli sfiorarono delicatamente la nuca. Li conosceva, quei denti. Era Briggan, venuto a prenderlo onor si rannicchiò nel pozzetto
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per il colletto e a tirarlo fuori dal suo nascondiglio come un cucciolo vagabondo. «Arrivo, arrivo», disse con un sospiro. Il lupo lo lasciò andare e indietreggiò lungo il ponte. «Cosa c’è?» Briggan fece dietrofront e si diresse verso la scaletta che scendeva dal castello di prua al ponte principale, gli unghioni ticchettanti sul legno. In cima alla scala, si girò a guardare Conor, puntandogli addosso i penetranti occhi blu. Il ragazzo guardò oltre il lupo. Tarik, Rollan e Abeke erano in piedi l’uno di fronte all’altro appena dietro l’albero maestro, disposti in un semicerchio in cui risaltavano due spazi vuoti. O almeno risaltavano ai suoi occhi. Uno era il posto riservato a lui, e immaginò che Briggan fosse venuto a cercarlo per trascinarlo lì. L’altro era per Meilin. Meilin, che non se ne sarebbe mai andata da sola nello Zhong se Conor non avesse rovinato tutto arrendendosi al Conte di Trunswick... Rimase un attimo a osservare i suoi compagni. Tarik, il loro maestro e la loro guida, in realtà era già un eroe, un Mantello Verde con tanta esperienza alle spalle. Al suo fianco, con il tipico sogghigno sulle labbra, c’era Rollan, l’impertinente ragazzo di città. Che non sembrava prestare grande attenzione a Tarik, a differenza di Abeke. Lei era sempre molto seria e amava fare le cose per bene, ma era stata più gentile degli altri nei confronti di Conor quando lui li aveva delusi. Forse era il fatto di essere una cacciatrice che le dava quella calma interiore. Abeke mostrava la stessa pazienza con le persone e con gli animali... «Ah, Conor! Vieni, unisciti a noi!», chiamò Tarik. «Vo-
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gliamo riprovare a scalare l’albero maestro con l’aiuto del talismano di Arax. Va’ tu per primo.» «Credevo toccasse ad Abeke andare per prima», obiettò Rollan, gettando a Conor uno sguardo di disprezzo neanche tanto velato. Il ragazzo trasalì. Una volta considerava Rollan un amico, ma ora non più. Non da quando Meilin se ne era andata... «Sì, tocca ad Abeke», disse Conor. «E comunque a saltare lei è più brava di me.» «È proprio per questo che ci esercitiamo», ribatté paziente Tarik. «Avrai bisogno di tutte le tue capacità quando andremo a cercare il prossimo talismano.» «Quale prossimo talismano?», chiese Abeke. «Non sappiamo nemmeno dove ce ne sia un altro.» «E anche ammesso che lo prendiamo», si inserì Rollan, «è molto probabile che Conor lo consegnerà ai Conquistatori!». «Adesso basta con questi discorsi!», sbottò Tarik. «Sono certo che avremo notizie di un’altra Grande Bestia, al nostro rientro a Greenhaven. Lenori ne avrà senz’altro trovata una.» «Mi dispiace tanto», disse Conor. Non sopportava il modo in cui Rollan evitava il suo sguardo. «Lo sai che è così... ma la mia famiglia...» «Voialtri e le vostre famiglie», brontolò Rollan. «Quasi quasi sono felice che la mia mi abbia scaricato così presto.» «Le persone che amiamo sono la nostra forza», intervenne Abeke, «ma anche la nostra debolezza. Quando ci sono in gioco le loro vite, è difficile capire cosa è giusto». Quell’ammissione parve stupire sia Rollan che Conor. «E gliela fai passare liscia così?» «Dico solo che dovremmo cercare di capire.» Abeke
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rivolse un’occhiataccia a entrambi. «Ogni vita sarà in pericolo finché i Conquistatori non verranno sconfitti. Ogni famiglia, compresa la mia.» Quello sì che era un rimprovero, e un rimprovero che Conor sentiva di meritare. Si morse un labbro, allungando una mano a cercare Briggan e il conforto del suo pelo folto. Ma non trovò altro che il vuoto. Il lupo se ne era andato. Forse solo per via di un’onda più grossa del solito, eppure Conor ebbe l’impressione che neppure il suo spirito animale volesse farsi vedere troppo vicino a lui. «Abeke ha ragione», disse Tarik. Il tono era tranquillo come sempre, ma molto più deciso. «Ed ecco perché esercitarsi è importante. Prendi il talismano. Vedi quanto sei veloce a raggiungere la coffa.» «Mi faccio aiutare da Uraza?», chiese Abeke. Il leopardo si trovava nello stato passivo, un tatuaggio sulla pelle della ragazza. Il grosso felino non aveva una grande passione per il mare. Tarik scosse la testa. «Non stavolta. Guarda cosa riesci a fare solo con il talismano.» Abeke annuì. Conor alzò gli occhi e si preoccupò per lei. La coffa era una piccola piattaforma distante appena tre metri dalla cima dell’imponente albero maestro, che ne misurava ventiquattro. La si raggiungeva arrampicandosi su per le griselle, reti di strette scale di corda che partivano dal ponte. Ma quello su cui si stavano esercitando già da un po’ era saltare direttamente fino al primo pennone, o traversa, che formava una croce con l’albero. Il pennone si trovava a nove metri di altezza dal ponte. E il salto era reso ancor più difficoltoso dai continui beccheggi e rollii della nave.
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In caso di caduta, Conor sperava che Abeke avrebbe tentato di puntare verso il mare. Meglio precipitare in acqua che schiantarsi sul ponte... a meno di non atterrare su una delle balene dal dorso roccioso che trainavano la nave, naturalmente. «Concentrati», le disse Tarik. «Pensa a sfruttare il potere del talismano. Mira al punto esatto che vuoi raggiungere e sta’ pronta ad aggrappartici quando ci arrivi.» La ragazza fece un po’ di allungamento per i muscoli delle spalle, poi per quelli dei polpacci. Uraza era straordinariamente agile, in grado di cambiare direzione anche a mezz’aria. Come se la sarebbe cavata Abeke senza di lei, Conor proprio non lo sapeva. «Vai!», ordinò Tarik mentre la nave si adagiava sul fianco di un’onda. Abeke spiccò un balzo. L’incredibile potere dell’Ariete di Granito la proiettò verso l’alto a una velocità da paura. Saliva in verticale, come una freccia scoccata alla perfezione... e Conor si rese conto che andava troppo veloce, troppo in alto. Sarebbe volata ben oltre il primo pennone. Anzi, avrebbe sorpassato la sommità dell’albero, mancando le cime, i pennoni, tutto, e alla fine sarebbe caduta a capofitto dall’altra parte! Il ragazzo ansimò mentre Abeke raccoglieva le ginocchia ed eseguiva una capriola in aria nel disperato tentativo di ridurre la sua velocità. Poi, proprio mentre superava l’estremità dell’albero, la Nilohana si distese tutta, allungò un braccio e afferrò la fune sottile che era lì, la drizza utilizzata per issare la bandiera dei Mantelli Verdi, guardiani dell’Erdas. Per un attimo Conor credette che si sarebbe spezzata e avrebbe visto Abeke sfrecciare dritta verso una morte certa.
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Ma la fune resse. Abeke piroettò bruscamente intorno all’albero e andò a sbattere con gli stinchi contro un pennone. La sua mano scivolò per un metro lungo la fune prima che la ragazza riuscisse a stringere la presa e tornasse a roteare in senso opposto. Lo stesso pennone di legno per poco non le spaccò la testa. Lo evitò solo grazie a una capriola sgraziata ma efficace e a un buon calcio con entrambi i piedi. Alla fine rallentò quanto bastava per scendere fino alla coffa. Una volta lì, si voltò a guardare il ponte, venti metri più in basso. Salutò con la mano, e Conor ricambiò sollevato il saluto. «Talismano potente, quello», commentò Rollan. «Riconosce le doti naturali di Abeke», replicò Tarik, rivolgendole un cenno di approvazione. «Immagino di sì», disse Rollan. «Difficile capire a cosa servirà un lupo lassù, eh, Conor?» Ma prima che Conor riuscisse a stabilire se quella era una battuta oppure no, Rollan alzò lo sguardo. Essix, che aveva preso l’abitudine di appollaiarsi su uno dei sostegni dell’albero maestro, si alzò in volo all’improvviso con un lungo stridio in calando. «Ha visto qualcosa?», chiese Conor. L’altro indicò in lontananza sulla sinistra, sopra il mare azzurro sfumato di bianco, verso la curva dell’orizzonte. «Là. Un uccello, credo.» Guardò anche Tarik, riparandosi gli occhi con la mano. «Io non vedo niente.» «Sì, è un piccolo uccello bianco e nero che vola basso», proseguì Rollan. «Sembra quasi che saltelli sulle onde e venga proprio a cercare noi. Essix non può avere fame, vero? Le ho dato da mangiare stamattina!»
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«È un uccello delle tempeste», disse Tarik. «Un messaggero, come i colombi dell’Eura. Mandato da Olvan o da Lenori, immagino.» Un tonfo sordo alle loro spalle li fece voltare. Abeke era lì, un ginocchio piegato sotto di sé e una mano sul ponte. «Sono scesa lungo l’albero e ho fatto il salto dal pennone più basso!», esclamò, entusiasta. «Sapevo che ci sarei riuscita. Il talismano ha rallentato la mia caduta e sono venuta giù come una piuma portata dal vento. Adesso a chi tocca?» «Credo che faremo una pausa», disse Tarik. «Abbiamo un messaggio.» «Una volta ho sentito una canzone che parlava di questi uccelli», osservò Rollan in tono guardingo. «Non portano sfortuna o tempeste?» Conor, che aveva continuato a sforzarsi di vedere qualcosa, riuscì finalmente a scorgere un uccellino che si sollevava dal mare. Sembrava quasi rimbalzato da un’onda. Si fermò sul parapetto, poi svolazzò fino alla mano di Tarik. Essix passò sopra la testa del Mantello Verde e atterrò sulla spalla di Rollan, incrociando i fieri occhi ambrati con quelli neri e sfuggenti dell’uccello delle tempeste. Tarik rimosse con cautela una minuscola capsula di bronzo dalla zampa del piccolo volatile, poi lo sollevò. Con un cinguettio stridente, l’uccellino volò di nuovo verso il mare aperto. «Quell’affarino contiene un messaggio?», si incuriosì Conor. «Sembra troppo piccolo.» Tarik annuì e svitò l’involucro. All’interno c’era un rotolo grande come l’unghia del suo mignolo. Lo tirò fuori e lo distese, rivelandone la lunghezza sorprendente.
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«Carta velina», spiegò. «Dice qualcosa di Meilin?», chiese Conor. Sperava tanto che stesse bene. Li avevano spediti in missione esplorativa da una settimana, in teoria perché imparassero l’arte della navigazione, ma soprattutto per distrarli dal pensiero della ragazza scomparsa. Non aveva funzionato. Se solo avessero ricevuto buone notizie, saputo che era al sicuro nello Zhong coi Mantelli Verdi locali, o che stava tornando sana e salva da loro già in quel momento... «In parte», rispose Tarik. «Il messaggio è di Olvan. “Nessuna notizia di Meilin. Informazione sicura sulla posizione di Dinesh. Nuovi ordini. Andate nel Kho Kensit. Incontrerete un messaggero alla Locanda della Luna Splendente, fuori dalla porta orientale di Xin Kao Dai. Ma attenzione. La città è occupata dal nemico. Buona fortuna.”» «Dov’è che dobbiamo andare, adesso?», chiese Rollan. «Pensavo che stessimo tornando a Greenhaven, o almeno che fossimo diretti in un posto caldo.» «Il Kho Kensit è una regione isolata dello Zhong», disse Tarik. Lumeo, il suo spirito animale, imitò l’espressione accigliata del proprio compagno, il musetto di lontra tutto pieno di rughe. «Xin Kao Dai è il porto più vicino.» «Ma non possiamo entrare in un porto nemico come se niente fosse», obiettò Conor. «Ci serve un esercito!» «È un porto trafficato, con viaggiatori che vengono da ogni parte», precisò Tarik. «Se ci travestiamo e ci facciamo portare a terra di notte su una delle scialuppe della nave...» «Io sono bravo con i travestimenti», intervenne Rollan. «C’è una cassa piena di vestiti nella cabina del primo uffi-
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ciale. Devono per forza esserci dei mantelli che non siano verdi, e altre cose che possiamo usare. Ehi, perché non ci vestiamo da menestrelli? Loro sembrano sempre andare e venire senza problemi.» «Non abbiamo strumenti musicali», fece notare Tarik. «E comunque non sapremmo suonarli.» «Cosa ne dite di fare gli animatori del teatro d’ombre, invece?», suggerì Conor. «Una compagnia è passata da Trunswick, una volta. Dobbiamo solo procurarci un telo grande – potremmo prendere in prestito una vela – ritagliare qualche sagoma e trovare una grossa lanterna. La compagnia che ho visto ha messo su uno spettacolo con tutti i tipi di pecore, sapete: Pancianera Amayana, Pelona Bianca Eurana...» «Pupazzi di pecore!», esclamò Rollan, come se non avesse mai sentito niente di più ridicolo. «Con le balene a pieno ritmo, avremo comunque una giornata per farci venire in mente qualcosa», rifletté Tarik. «Informo il capitano del cambiamento di rotta e chiedo anche a lui. Potrebbe avere un’idea cui noi non abbiamo pensato.» Abeke stava rileggendo il messaggio. «Dinesh è l’elefante, giusto?», chiese, indicando il testo minuscolo. «Cioè, l’Elefante. La Grande Bestia.» «Sì», rispose Tarik. «Custode dell’Elefante di Ardesia. Il talismano che dobbiamo prendere.» Abeke guardò Conor. «E dopo averlo preso ce lo teniamo, d’accordo?», disse Rollan. Conor annuì con aria infelice. «Naturale che ce lo teniamo», tagliò corto Tarik. «Ma
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intanto riprendete l’esercitazione, adesso che il mare è relativamente calmo. A chi tocca?» «Vai tu», disse d’impulso Conor, rivolto a Rollan. «Io... io ho un po’ di mal di mare. Devo andare a sdraiarmi.» Si girò e si allontanò, malfermo sulle gambe, quasi inciampando su Briggan prima di trascinarsi lungo il parapetto fino al corridoio di poppa e poi scendere nelle cabine. Paziente, il lupo lo seguì. In realtà, Conor non aveva il mal di mare. Si vergognava e basta. Come poteva esercitarsi quando era evidente che Rollan non si fidava di lui? Tarik e Abeke ci provavano, lo capiva, ma Rollan no. Tutte le volte che diceva qualcosa, l’altro era velocissimo a rimetterlo al suo posto. In che modo poteva essere d’aiuto con il nuovo talismano di un’altra Grande Bestia se Rollan non gli permetteva di dimenticare che con il Cinghiale di Ferro era andato tutto a rotoli? E alla sua infelicità ora si aggiungeva il pensiero di intrufolarsi in territorio occupato, quattro gatti contro tutta la potenza dei Conquistatori. Conor non era un vigliacco, ma l’idea di cosa sarebbe successo se li avessero presi lo spaventava a morte. Non si preoccupava solo per se stesso, ma anche per Briggan, e per quelli che era arrivato a considerare amici, a prescindere da ciò che pensavano di lui. Avrebbero dovuto dare tutti il loro contributo. Non ci sarebbe stato spazio per gli errori. «Farò quello che va fatto», sussurrò a Briggan, tirandoselo vicino mentre si infilava nella sua angusta cuccetta. «Dimostrerò loro che posso essere un vero Mantello Verde!»
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Nell’Erdas, il raro legame con gli Spiriti Animali crea un equilibrio fra il mondo animale e quello umano. Conor, Abeke, Meilin e Rollan possiedono questo dono, e anche le grandi responsabilità che da esso derivano.
Libro 3
legami di sangue
Ma i Conquistatori stanno cercando di distruggere quell’equilibrio, mettendo a ferro e fuoco intere città e Paesi, compreso lo Zhong, la terra di Meilin. Stanca di aspettare e decisa a combattere per il suo popolo, Meilin è partita verso il territorio caduto in mani nemiche, sola con il suo spirito animale, il panda Jhi. I suoi amici non sono lontani. Ma non sono gli unici a essere sulle sue tracce. Il nemico è ovunque.
€ 12,00 ISBN 978-88-8033-966-3
9 788880 339663
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