Sorelle Vampiro. Un’amica da mordere di Franziska Gehm © 2012 Editrice Il Castoro Srl viale Abruzzi 72, 20131 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Traduzione di Alessandra Valtieri Progetto grafico e illustrazione di copertina: Iacopo Bruno/theWorldofDOT Titolo originale: Die Vampirschwestern - Eine Freundin zum Anbeißen © 2008 Loewe Verlag GmbH, Bindlach
Finito di stampare nel mese di aprile 2012 presso NIIAG - Arvato Print Italy
Capitolo 1
un trasloco infernale
T
utto ebbe inizio un venerdì di fine estate. Era una giornata calda e soleggiata, gli uccelli cinguettavano fra le villette a schiera alla periferia della città, un uomo in canottiera bianca lavava la sua auto, una donna sbirciava fuori dalla finestra rosicchiandosi le unghie, mentre un cane randagio alzava la zampa contro il palo di un cartello stradale e faceva la pipì. Era un gradevole, sonnacchioso, normalissimo venerdì di fine estate finché... … un grosso camion grigio imboccò Via dei Tigli. Abbordò la curva a tutta velocità, i pneumatici fischiarono e il tubo di scappamento tossì due enormi nubi nerastre, quasi che il motore si fosse strozzato con una gran boccata di fumo. L’uomo in canottiera abbassò lo straccio che teneva in mano. La donna alla finestra si morse il dito e il cane, voltandosi di scatto verso il camion, disegnò sul marciapiede un perfetto semicerchio di pipì. Sulla fiancata del camion, appena leggibile sotto una patina di polvere e schizzi di fango, c’era la scritta: Transport de mobila. Il camion si fermò davanti alla villetta al civico 23, in fondo alla via, esalando un ultimo sbuffo di fumo grigio. La por5
un’amica da mordere tiera del passeggero si spalancò e un uomo alto e magro scese dalla cabina. Completamente vestito di nero, nonostante il sole cocente, indossava un ampio mantello di lana con il bavero rivolto all’insù. I capelli corvini, pettinati all’indietro, ricadevano sulle spalle con onde morbide e ribelli. Le movenze erano eleganti e decise, come quelle di un direttore d’orchestra mentre dirige i suoi musicisti. Ma ciò che più colpiva in lui erano i baffi: due maestose virgole color liquirizia, così grandi e lunghe da nascondere completamente gli angoli della bocca e arrivare fin quasi a sfiorare il mento. L’uomo con i baffi di liquirizia era Mihai Tepes. Mihai Tepes, era un uomo speciale. Anzi, a voler proprio essere pignoli, Mihai Tepes non era neppure un uomo. Mihai Tepes era un vampiro. Aveva 2676 anni ed era nato a Bistrien, un piccolo villaggio della Transilvania, secondogenito di un’illustre famiglia di vampiri. La Transilvania è una splendida regione nel cuore della Romania, con montagne imponenti, fiumi impetuosi e boschi lussureggianti. Mihai Tepes amava la sua terra più di ogni altra cosa. Ciò nonostante, un giorno, l’abbandonò. Lo fece per amore di una donna, come molto spesso accade. Ecco come andò: un pomeriggio di sedici anni prima, Mihai se ne andava a zonzo per i boschi della sua Transilvania. Era una giornata tiepida, nonostante il sole fosse coperto dalle nuvole. Mihai era alla ricerca di uno spuntino per merenda. Qualche bruco o uno scoiattolo o magari un capriolo. Poi, all’improvviso, lungo il sentiero ombreggiato, vide venirgli incontro una graziosa escursionista dalle guance rosa 6
un trasloco infernale come due pesche. E subito l’appetito si trasformò in una fame incontrollabile. Senza far rumore scivolò dietro di lei, le circondò le esili spalle con le mani e la morse con passione sul collo. Accecato dalla fame, a Mihai era sfuggito un dettaglio di non poco conto: la graziosa escursionista portava un collare ortopedico. Un paio di giorni prima, infatti, la ragazza aveva avuto un incidente durante una passeggiata sui Carpazi. Sfortuna per Mihai, ma non per la fanciulla. Lei gridò, ma solo per lo spavento. I lunghi canini di Mihai si erano conficcati nel collare. Il vampiro si liberò a fatica e guardò confuso la sua vittima. Ma che razza di donna era, una che per poco non ti strappa via due denti? Poi vide i suoi grandi occhi blu come la notte e – splat! – il cervello gli andò in pappa. Fu amore al primo morso. Per Elvira, così si chiamava la giovane turista, non fu affatto diverso. Seguirono quel primo incontro baci appassionati, promesse d’amore eterno, passeggiate al chiaro di luna e liti per i turni di pulizia. Per farla breve, tre anni dopo Elvira e Mihai erano marito e moglie e un anno più tardi nacquero due gemelle: Silvania e Dakaria. «Elvira, Silvania, Daka! Sono arrivati i mobili!», annunciò il signor Tepes. La voce riecheggiò nel silenzio del piccolo borgo, potente come una tuba. Il conducente del camion, nel frattempo, era sceso a fumarsi una sigaretta. In Via dei Tigli 23 si aprì una porta. Una giovane donna dai lineamenti delicati, con una cascata di riccioli rossi e un abito blu notte che s’intonava perfettamente al colore dei suoi occhi, raggiunse con piccoli passi svelti il camion parcheggiato davanti a casa. Era Elvira Tepes. «Mihai! Siete già arrivati!» 7
un’amica da mordere Dietro di lei spuntò una ragazzina pallidissima in pantaloncini corti neri, calze a rete nere e anfibi neri con stringhe viola. Sulla punta del naso poggiava un paio di grossi occhiali da aviatore. I capelli corti e neri come la pece se ne stavano dritti sul capo e sembravano una colonia di ricci di mare. Era Dakaria Tepes, che, non trovando il suo nome particolarmente carino, si faceva chiamare Daka. «Già?!», mormorò sbadigliando. «Tutto è relativo. E per mamma è sempre tutto positivamente relativo», disse un’altra ragazzina altrettanto pallida affacciandosi sulla soglia dietro Daka. Era Silvania che, a differenza della sorella, adorava il proprio nome e non sopportava diminutivi o storpiamenti di nessun genere. Indossava una gonna rosso scuro lunga fino alle ginocchia con un ricamo di perline nere sull’orlo e un paio di ballerine ai piedi. In testa portava uno stravagante copricapo a tesa larga, neanche fosse una gran dama dell’aristocrazia inglese pronta per un pomeriggio alle corse dei cavalli. Completava il tutto una stola di seta a fiori rossi e neri poggiata sulle spalle. Era appena più bassa e appena più robusta della sorella. E più grande di ben sette minuti. Elvira, Daka e Silvania Tepes avevano lasciato Bistrien quella mattina stessa, poco dopo l’alba. Erano arrivate in auto all’aeroporto e preso un volo diretto per Bindburg. Mihai Tepes era volato in Germania la notte prima, da solo. Daka lo avrebbe accompagnato volentieri ma non era ancora pronta ad affrontare un viaggio tanto lungo. Per Mihai, invece, i 1490 chilometri che dividevano la sua vecchia patria dalla nuova erano poco più che una passeggiata. (In gioventù, 1244 8
un trasloco infernale anni prima, Mihai aveva partecipato a numerose maratone sui 4200 chilometri. Insieme al fratello Vlad aveva fatto il giro del mondo nonstop. E ancora oggi, a 2676 anni suonati, se la cavava più che egregiamente.) Il camionista, invece, per poter arrivare in tempo all’appuntamento con il signor Tepes, era dovuto partire dalla Transilvania diversi giorni prima. Ma a uno svincolo particolarmente complicato si era perso. Per fortuna l’incrocio distava solo pochi chilometri dal luogo convenuto e il signor Tepes, che lo aveva visto dall’alto, era sceso in suo aiuto, gli aveva indicato l’uscita giusta, e in meno di due ore avevano raggiunto insieme Via dei Tigli. «Allora, che ne dite? Vogliamo cominciare?» Il signor Tepes si sfregò le mani mentre il camionista, con la sigaretta accesa ancora in bocca, andò ad aprire il portello del camion. «Le mie piante!», gridò la signora Tepes. «Il mio acquario!», gridò Daka. «Il mio violoncello!», gridò Silvania. Durante il lungo viaggio su strade dissestate e sentieri tutti curve e buche, all’interno del camion era successo il finimondo. Con uno strattone deciso, Daka sfilò via una cassa piena di libri. Fu come scatenare una slavina che travolse tutto con un fracasso infernale. «Schlotz zoppo!», gridò. Troppo tardi. In fondo al camion un grosso vaso di fiori rotolò giù da una cassa, rimbalzò, schizzò in avanti come un proiettile e atterrò con un FLOPP! in mezzo al cappello di Silvania. Un cactus ruzzolò dritto verso Elvira Tepes, che alzò svelta due lembi del vestito e raccolse al volo la pianta spinosa. 9
un’amica da mordere «La mia Aylostera blossfeldi!», gridò. Contemporaneamente il signor Tepes si esibì nella doppia presa di un ferro da stiro e di uno spazzolone. E con il ferro da stiro respinse una pallina da tennis, che altrimenti lo avrebbe colpito dritto in faccia. Daka rimase a guardare a bocca aperta e con gli occhi fuori dalle orbite la forza distruttiva della slavina che aveva involontariamente provocato. Poi, per fortuna, la slavina si placò. Tutti rimasero in silenzio, con il fiato sospeso. Fu allora che il vocabolario di 2500 pagine cadde dalla cassa che Daka aveva sfilato. E le atterrò con precisione chirurgica sul piede. BUM! «Ahiaaa!», strillò Daka. Uno dopo l’altro, Silvania, Mihai ed Elvira Tepes sputarono prontamente per tre volte sul piede della ragazzina. Era un vecchio rimedio transilvano contro il dolore. Ogni tanto, funzionava. Passato lo shock iniziale, i Tepes ripresero a scaricare le loro cose. Ma questa volta con molta, molta più cautela. L’uomo con la canottiera bianca, la donna con le unghie mangiucchiate e il cane pezzato guardarono sbalorditi i bauli chiodati, le casse e il divano rosso sangue che venivano portati dentro la casa al numero 23. Ancora più sbalorditi guardarono sparire oltre la porta d’ingresso una serie di tende nere, un imponente lampadario a corona e un organo antico di legno intarsiato. Quando poi a chiudere il bizzarro corteo sfilarono uno dopo l’altro un enorme congelatore, cinquanta tavolette bianche del water e un sarcofago nero tirato a lucido, poco ci mancò che non gli schizzassero gli occhi dal10
un trasloco infernale le orbite. All’uomo in canottiera bianca cadde lo straccio di mano, la donna si dimenticò di mangiarsi le unghie e il cane deviò sulla zampa anteriore destra le ultime gocce di pipì. Al numero civico 21, nella villetta confinante con quella dei Tepes, una tenda si scostò impercettibilmente e un naso paonazzo bruciato dal sole tradì il viso curioso di uno spettatore. Ma i Tepes erano troppo indaffarati per prestargli attenzione. Al numero 24, nella casa di fronte, un bimbetto di quattro anni si fiondò di corsa alla staccionata. «Vasca!», gridò, indicando il sarcofago. Elvira Tepes sorrise e lo salutò agitando una tavoletta. Il piccolo aggrottò la fronte. Poi, di corsa come era arrivato, sparì di nuovo dietro casa. «Che delizioso vicino!», commentò la signora Tepes. Accennò un saluto anche all’uomo con la canottiera bianca e alla donna con le unghie mangiucchiate, che si voltarono di scatto e tornarono con finta premura alle loro occupazioni. Il cane piegò il capo e continuò a osservare incuriosito la strana compagnia alle prese con il trasloco. Un’ora più tardi il camion era vuoto e la villetta a schiera dei Tepes piena zeppa di mobili, casse di legno e scatole di cartone. Transport de mobila si congedò da Via dei Tigli con tre grosse nuvole di fumo nero. Il cane pezzato gli abbaiò dietro. «Non è incantevole? Non è meraviglioso? Non è stupendo?» La signora Tepes danzò dall’ingresso alla cucina e sfiorò con la punta delle dita il suo nuovissimo, splendente, piano di cottura. «Guardate qui!», disse a Daka e a Silvania, che stavano rovistando tra gli scatoloni nell’ingresso alla ricerca 11
un’amica da mordere delle loro cose. «È tutto nuovo di zecca. E funziona tutto! Ed è tutto meravigliosamente pulito!» La signora Tepes attraversò leggiadra l’ingresso, entrò in salotto e… «AAAHHH!» – lanciò un urlo agghiacciante. Daka e Silvania si precipitarono a vedere cosa fosse successo. Il signor Tepes, in mezzo alla stanza con un grosso sacco di plastica marrone in mano, era intento a spargere manciate di terra nerastra sul tappeto color crema. «Ma cosa stai facendo?» Il volto della signora Tepes era bianco come uno straccio. Il signor Tepes la guardò e alzò le spalle. «Cosa vuoi che stia facendo? Spargo un po’ di terra di casa, no?» Daka soffocò una risatina, Silvania alzò gli occhi al cielo, la signora Tepes sospirò. «Mihai, per favore», disse poi la signora Tepes. «Ne avevamo già parlato ed eravamo tutti d’accordo: niente terra di casa, niente sarcofagi, niente zecche da corsa e niente conserve di sangue nella nuova casa». Dopo di che, indicò risoluta la scala della cantina. «Non dirai sul serio, vero? Mi stai... mi stai mandando in cantina?!» «Qui non siamo a Bistrien, dove tutti si fanno un caffettino corretto con uno schizzo di sangue e si alzano appena cala il sole. Qui non puoi andartene in giro a svolazzare per il quartiere. E neppure voi», disse la signora Tepes rivolta a Daka e a Silvania. «A me, non era neppure passato per l’anticamera del cervello», disse Silvania toccandosi i lobi delle orecchie. Il signor Tepes drizzò la schiena. «Io discendo dalla più 12
un trasloco infernale antica stirpe di vampiri del mondo e un vampiro ha bisogno della sua terra e di un sarcofago.» «Lo so bene. Ma se qui qualcuno vede che abbiamo un sarcofago in salotto e un mare di terra sparsa sul tappeto, come minimo finiamo tutti quanti al commissariato e poi dritti al manicomio.» «E allora? Dov’è il problema? Tanto come entriamo, usciamo!» «Mihai, per favore! In questo modo non metti in pericolo solo te stesso, ma anche le tue figlie. Come se non lo sapessi che un tempo non erano solo i vampiri a cacciare gli uomini, ma soprattutto gli uomini a cacciare i vampiri.» «Oh, se è per questo, ci sono ancora oggi vampiri che danno la caccia agli uomini», fece Mihai Tepes schioccando la lingua. «Certo. E infatti, ci sono ancora uomini che cacciano i vampiri. Fidati di me. È meglio che i nostri vicini non scoprano chi siamo veramente. Non vogliamo che nessuno si spaventi inutilmente, giusto?» «Si, però...» «La cantina è bella spaziosa», disse la signora Tepes. Daka e Silvania si scambiarono una rapida occhiata d’intesa, mentre le argomentazioni dei loro genitori rimbalzavano dall’uno all’altro come una pallina da ping pong. Daka accennò con il capo al piano di sopra. Era meglio cambiare aria. Al piano superiore c’erano quattro stanze. La camera matrimoniale, un piccolo bagno, la stanza di Daka e la stanza di 13
un’amica da mordere Silvania. Silvania aveva scelto la stanza più piccola, con vista sulle villette. Dalla stanza di Daka, invece, la vista si perdeva sui campi e sul bosco. Non appena Silvania varcò la soglia della sua stanza, poco ci mancò che le cadesse il violoncello di mano. «MAMMAAA!» Daka fece capolino sulla soglia. «Schlotz zoppo!» La stanza della sorella era piena zeppa di tavolette del water. «Cosa succede?» La signora Tepes e il signor Tepes corsero su per le scale. «QUESTO, succede!», disse Silvania indicando gli spazzolini con il dito che le tremava. La signora Tepes si grattò leggermente dietro l’orecchio. «Ah, sì. Me n’ero completamente dimenticata. Pensate: le ho trovate a Bistrien. Erano in offerta.» «Ma se ne avevi già cinquanta!», disse Daka. «Dimmi quante. Dimmi quante ne hai comprate.» La voce di Silvania era serissima e lo sguardo torvo. La signora Tepes alzò le spalle. «Da cento pezzi in su ti facevano uno sconto favoloso.» «Vuoi dire che ora abbiamo centocinquanta tavolette in casa?» Silvania guardò incredula la madre. «A essere precisi duecentocinquanta», ridacchiò Elvira Tepes. Silvania, invece, sospirò. Nei dodici anni della sua vita da mezzo vampiro non aveva mai incontrato un essere umano (e meno che mai un vampiro) così tenacemente aggrappato a un sogno come lo era sua madre. La signora Tepes era un’ar14
un trasloco infernale tista. Da anni sognava di aprire un atelier di tavolette del water per clienti raffinati e con uno spiccato gusto estetico. Pezzi unici, naturalmente. In Transilvania, dove la maggior parte degli abitanti, come del resto tutti i loro parenti vampiri, amavano espletare nella natura i piccoli e i grandi bisogni fisiologici, l’avventura imprenditoriale era stata – ahimè – un flop. Ma qui a Bindburg, era diverso; per questo era determinata a tentare di nuovo. Che bisogno c’era, però, di scaricare le tavolette nella sua stanza? Silvania sapeva che cosa significava: stessa camera per lei e la sorella. «Domani mattina vado subito in centro a cercare un negozio da affittare», promise Elvira Tepes a cena. «Perché non mi accompagnate? Sarà divertente.» Era un tentativo di tirare su di morale. Ma l’umore restava in cantina. Come anche Mihai Tepes, che era stato spedito laggiù alla fine di una lunghissima discussione insieme al suo sarcofago, il suo sacco di terra di Transilvania e l’organo. In salotto, risultato di un sudatissimo compromesso, era rimasta una cassettina contenente due dita di terra scurissima, del tutto identica alla lettiera di un gatto.
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