Andrew Fukuda
THE HUNT Traduzione di Simona Brogli
Per Ching-Lee
Una volta eravamo di più. Ne sono certo. Non abbastanza da riempire uno stadio, forse neppure un cinema, ma sicuramente più di quanti siamo oggi. La verità è che non credo rimanga nessuno. A parte me. Succede, quando sei una prelibatezza. Quando ti vogliono a tutti i costi. Finisce che ti estingui. Undici anni fa ne scoprirono uno nella mia scuola. Era una bambina al primo giorno d’asilo. La sbranarono quasi subito. Cosa credeva? Forse l’improvvisa (perché è sempre improvvisa) solitudine di casa l’aveva spinta a scuola con l’idea distorta di trovarvi compagnia. L’insegnante disse che era l’ora del pisolino, e la bimbetta rimase lì da sola, aggrappata al suo orsacchiotto, mentre i compagni con un balzo erano già a testa in giù sul soffitto. A quel punto per lei era finita. Finita. Tanto valeva sfilarsi le zanne fasulle e consegnarsi direttamente all’inevitabile banchetto. I suoi compagni la fissarono dall’alto con gli occhi sgranati: Ehilà, cos’abbiamo qui? Lei cominciò a piangere a calde lacrime, mi dicono. L’insegnante fu la prima a raggiungerla. È dopo l’asilo, quando non c’è più obbligo di sonnellini, è allora che ti fai vedere a scuola. Anche se puoi sempre essere colto di sorpresa. Una volta, il mio allenatore di nuoto era così inferocito per l’apatica prestazione della squadra in una gara tra istituti che ci obbligò tutti a schiacciare un pisolino nello spogliatoio. Voleva solo chiarirci il punto, naturalmente, ma quel punto per poco non mi fece fuori. Tra l’altro, il nuoto è perfetto, ma non praticate altri sport se potete evitarlo. Perché il sudore è un indizio rivelatore. Il sudore viene quando ci surriscaldiamo: coliamo acqua come un bambino quando sbava. 5
Disgustoso, lo so. Tutti gli Altri rimangono freschi, puliti e asciutti. Io? Io sembro un rubinetto che perde. Perciò scordatevi la corsa campestre, il tennis, persino i tornei di scacchi. Il nuoto va benissimo, invece, perché nasconde il sudore. Questa è solo una delle regole. Ce ne sono molte altre, e mio padre me le ha inculcate fin dalla nascita. Mai sorridere o ridere o ridacchiare, mai piangere o farsi venire le lacrime agli occhi. Mantenere sempre un’espressione distaccata, quasi stoica, perché le uniche emozioni che affiorano sui volti della Gente sono la fame di Eminidi e la sete di sesso, e ovviamente io non devo avere nulla a che fare con nessuna delle due. Mai dimenticare di spalmarsi burro in abbondanza su tutto il corpo quando ci si avventura fuori durante il giorno. Perché, in un mondo così, è difficile spiegare una scottatura, o anche una semplice abbronzatura. Le regole sono tantissime, abbastanza per riempirci un quaderno. Non che mi sia mai venuta voglia di scriverle. Farsi beccare con un “regolamento” sarebbe incriminante quanto scottarsi al sole. E poi mio padre mi ricordava le regole ogni giorno. Mentre il sole tramontava sulla nostra colazione, me ne ripeteva alcune. Tipo: non farti degli amici; non addormentarti senza volere in classe (le lezioni noiose e i lunghi tragitti in bus costituivano un grosso pericolo); non schiarirti la voce; non strafare agli esami, anche se sono un insulto per la tua intelligenza; non permettere alla tua bellezza di avere la meglio; per quanto le ragazze possano volersi gettare tra le tue braccia, non cedere mai a quella tentazione. Perché devi sempre ricordare che la tua avvenenza è una disgrazia, non una benedizione. Non dimenticarlo mai. E, nell’enunciare tutto questo, dava una rapida occhiata alle mie unghie, per accertarsi che non fossero rotte o scheggiate. Ormai le regole hanno messo radici 6
così profonde dentro di me da aver assunto l’inevitabilità delle leggi di natura. Non sono mai stato tentato di infrangerle. Salvo una. Quando cominciai a prendere lo scuolabus a cavalli, mio padre mi vietò di voltarmi a salutarlo. Perché la Gente non lo fa mai. Quella fu una regola molto dura per me, all’inizio. Nelle prime notti di scuola, quando salivo sul bus, mi servivano tutte le mie energie per rimanere immobile, senza girarmi indietro e agitare la mano in segno di saluto. Era come un riflesso, una tosse incontrollabile. In più, allora ero solo un bambino, il che rendeva tutto doppiamente difficile. Infransi quella regola solo una volta, sette anni fa. Fu la notte in cui mio padre entrò in casa barcollando, i vestiti in disordine come se avesse partecipato a una rissa, il collo perforato. Si era distratto, aveva avuto un attimo di disattenzione, e ora sul suo collo spiccavano due solchi netti. Il sudore gli scorreva sul viso, macchiandogli la camicia. Si capiva che lo sapeva già. L’espressione disperata dei suoi occhi, il panico che montava dalle sue braccia mentre mi afferrava stretto. «Ora sei solo, figlio mio», disse attraverso le mascelle serrate, gli spasmi che cominciavano a guizzargli in tutto il petto. Qualche minuto dopo, scosso dai brividi, con il viso ormai terribilmente freddo al tatto, si alzò in piedi. Corse fuori, nella luce dell’alba. Io chiusi a chiave la porta come mi aveva ordinato di fare e mi precipitai nella mia camera. Affondai la faccia nel cuscino e urlai, ancora e ancora. Sapevo cosa stava facendo in quel momento: correva il più lontano possibile da casa prima di trasformarsi e prima che i raggi del sole si tramutassero in cascate di acido che gli corrodevano i capelli, i muscoli, le ossa, i reni, i polmoni, il cuore. La notte seguente, quando lo scuolabus si fermò davanti a casa mia tra gli sbuffi di vapore esalati dalle narici larghe e 7
umide dei cavalli, infransi la regola. Non seppi trattenermi: mi voltai nel salire. Ma a quel punto non aveva importanza. Il vialetto era deserto nel buio sorgere della notte. Mio padre non era là. Non allora, non più. Mio padre aveva ragione. Quel giorno rimasi solo. Una volta eravamo in quattro, in famiglia, ma era tanto tempo fa. Poi restammo soltanto mio padre e io, e mi bastò. Sentii la mancanza di mia madre e mia sorella, ma ero troppo piccolo per aver sviluppato un reale attaccamento nei loro confronti. Sono forme vaghe nella mia memoria. A volte, però, anche adesso, sento la voce di una donna che canta e la cosa mi coglie sempre di sorpresa. La sento e penso: La mamma ha davvero una bella voce. Mio padre, invece. A lui mancarono terribilmente. Non lo vidi mai piangere, neppure dopo che fummo costretti a bruciare tutte le foto e i quaderni. Ma mi svegliavo nel cuore del giorno e lo trovavo a guardare fuori dalle serrande aperte della finestra, un raggio di sole che gli ricadeva sul viso gonfio e le larghe spalle sussultanti. Mio padre mi aveva preparato a essere solo. Sapeva che prima o poi quel giorno sarebbe arrivato, anche se penso che nel profondo credesse che sarebbe stato lui, l’ultimo, non io. Ha passato anni a instillarmi le regole perché le conoscessi meglio di me stesso. Persino ora, quando al crepuscolo mi preparo per la scuola eseguendo quel complesso procedimento che comporta lavarmi, limarmi le unghie, radermi le braccia e le gambe (e ultimamente anche alcuni peli sul petto), spalmarmi di unguento (per mascherare l’odore) e lucidare le mie zanne false, sento la sua voce nella testa che ripete le regole. Come oggi. Proprio mentre mi sto infilando i calzini, sento la sua voce. I soliti avvertimenti: Non andare a dormire da altri; non canticchiare e non fischiettare. Ma poi sento quella regola 8
che enunciava forse una volta o due l’anno. Così di rado che magari non era nemmeno una regola ma qualcos’altro, tipo una norma di vita. Non dimenticare mai chi sei. Non ho mai saputo perché mio padre dicesse una cosa del genere. Perché è un po’ come dire che non bisogna dimenticare che l’acqua è bagnata, il sole è splendente, la neve è fredda. È superfluo. Non ho alcuna possibilità di dimenticare chi sono. Me lo ricordo in ogni istante di ogni giorno. Tutte le volte che mi rado le gambe o trattengo uno starnuto o soffoco una risata o fingo di sobbalzare davanti a un’isolata lama di luce, mi ricordo chi sono. Un essere fasullo.
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1 La lotteria degli Eminidi
Q
uest’anno ho compiuto diciassette anni, perciò non sono più obbligato a viaggiare sullo scuolabus. Adesso vado a piedi, e con piacere. I cavalli – colossali bestie dal mantello scuro, un tempo estremamente diffuse per la loro capacità di scovare la selvaggina ma oggi relegate al traino di carrozze e bus – sono in grado di sentire il mio odore insolito. Più di una volta hanno girato di scatto il naso nella mia direzione, identificandomi, le froge dilatate in una specie di umido urlo silenzioso. Preferisco di gran lunga la solitudine di una camminata sotto il cielo del crepuscolo che imbrunisce a poco a poco. Esco di casa presto, come ogni sera. Quando arrivo a varcare i cancelli della scuola, studenti e insegnanti stanno già riversandosi dentro a cavallo o in carrozza, sagome grigie nella fitta oscurità. È nuvoloso, stanotte, e particolarmente buio. “Buio” è il termine che usava mio padre per descrivere le ore notturne, quando tutto viene avvolto dalle tenebre. L’oscurità mi fa strizzare gli occhi, motivo per cui è tanto pericolosa. Gli Altri strizzano gli occhi solo quando mangiano qualcosa di aspro o sentono la puzza di qualcosa di putrefatto. Nessuno strizza gli occhi solo perché è buio: è un gesto che può tradirmi, quindi 10
non permetto che neppure una sola ruga mi increspi la fronte. A ogni lezione, siedo vicino alle lampade al mercurio che emanano un vaghissimo accenno di luce (in effetti, quasi tutti preferiscono il buio grigiastro all’oscurità totale). Questo riduce il rischio di un’involontaria strizzata d’occhi. In generale, la Gente odia sedersi vicino alle lampade – troppo bagliore – perciò io trovo sempre un posto. Io odio anche essere interrogato. Sono sopravvissuto mimetizzandomi, sviando l’attenzione. Essere interrogato punta i riflettori esclusivamente su di me. Come stamattina, quando mi ha chiamato l’insegnante di trigonometria. Lui ci interroga più di chiunque altro, ed ecco il motivo per cui lo detesto. In più, scrive a caratteri microscopici, e i suoi confusi scarabocchi sono quasi impossibili da scorgere in quella semioscurità. «Be’, H6? Cosa ne pensi?» H6 è la mia classificazione. Sono nella fila H, al posto 6, da cui la mia classificazione. Che varia a seconda di dove mi trovo. A educazione civica, per esempio, mi conoscono come D4. «Le dispiace se passo la mano?», dico. Mi fissa perplesso. «In effetti sì. È la seconda volta in una settimana che lo chiedi.» Guardo la lavagna. «Non so cosa rispondere.» Mi trattengo dal cercare di decifrare i numeri scritti là sopra, temendo che potrei strizzare gli occhi senza volere. Lui socchiude le palpebre. «No, no, questo non lo accetto. So che conosci la risposta. Prendi sempre i voti più alti agli esami. Puoi risolvere questa equazione anche nel sonno.» Adesso ci sono degli studenti che si voltano a guardarmi. Solo alcuni, ma abbastanza per rendermi nervoso. Tra loro, la persona che siede davanti a me, Ashley June. In realtà, a questa lezione la sua classificazione è G6, ma nella mia testa 11
l’ho sempre chiamata Ashley June. E così è rimasta dalla prima volta che l’ho vista, anni fa. Si gira e mi guarda con i suoi splendidi occhi verdi. Sembrano capire, come se alla fine ci fosse arrivata: al fatto che, alle sue spalle, ho spesso contemplato con desiderio la sua sontuosa chioma color rame (un colore magnifico, abbagliante!), ricordando nostalgico quella sensazione di seta tra le mani che avevo provato tante lune prima. Sostiene il mio sguardo, e la sorpresa le si accende negli occhi nel vedere che io non distolgo i miei come faccio da anni, ormai. Da quando ho percepito il suo interesse per me, da quando ho sentito nel cuore l’attrazione che mi spinge verso di lei. «H6?» L’insegnante comincia a picchiettare il gesso sulla lavagna. «Fa’ un tentativo, su.» Mi scruta. Sono uno degli studenti più in gamba della scuola, e lui lo sa. La verità è che potrei senza dubbio essere il migliore se volessi – ottengo buoni voti con una tale facilità che non devo neppure studiare –, ma tengo volontariamente un profilo più basso. Susciterei troppa attenzione, altrimenti. «Senti, proviamo a lavorarci insieme. Prima leggi solo la domanda.» A un tratto, la situazione si è fatta difficile. Ma niente per cui farsi prendere dal panico. Ancora. «Immagino che il mio cervello non sia del tutto sveglio.» «Leggi la domanda e basta. Tutto qui.» Ora la sua voce ha una sfumatura di durezza. Di colpo quel clima non mi piace per niente. L’insegnante sta cominciando a prenderla sul personale. Altri occhi si girano a scrutarmi. Nell’agitazione, faccio per schiarirmi la voce. Poi mi trattengo. Appena in tempo. La Gente non si schiarisce mai la voce. Inspiro, sforzandomi di rallentare il tempo. Lotto contro 12
l’impulso di asciugarmi il labbro superiore, dove sospetto si stiano formando piccole gocce di sudore. «Devo chiedertelo di nuovo?» Davanti a me, Ashley June mi fissa con maggiore attenzione. Per un attimo, mi chiedo se stia fissando il mio labbro superiore. Ci vede un tenue luccichio di sudore, forse? Ho saltato un pelo nel rasarmi? Poi lei alza un braccio, un lungo braccio pallido e affusolato come un collo di cigno che si solleva dall’acqua. «Penso di conoscere io la risposta», dice e si alza dal proprio posto. Toglie il gesso dalle mani dell’insegnante, colto alla sprovvista dal suo atteggiamento deciso. Di solito gli allievi non si avvicinano alla lavagna se non gli viene richiesto. Ma d’altra parte quella è Ashley June, che in pratica la passa liscia qualunque cosa faccia. Alza gli occhi sull’equazione, poi si mette a scrivere rapidamente e con ostentazione a grandi lettere e numeri. Qualche secondo e finisce, aggiungendo in fondo un segno di spunta e un “10+” di suo pugno. Spolverandosi le mani, torna a sedersi. Alcuni studenti cominciano a grattarsi i polsi, come l’insegnante. «Molto divertente», dice. «Mi piace.» Si gratta il polso più in fretta, apertamente, e altri studenti si uniscono a lui. Sento il rasp rasp rasp delle unghie che sfregano contro i polsi. Mi associo e mi gratto i polsi con le unghie lunghe, anche se lo detesto. Perché i miei polsi sono difettosi. Non prudono se qualcosa mi sembra divertente. Il mio istinto naturale è sorridere – che è quel gesto che faccio allargando la bocca e scoprendo i denti – e non grattarmi i polsi. Lì ho delle terminazioni nervose sensibili, non un punto che frizza. Dagli altoparlanti dell’impianto di comunicazione interno risuona improvviso un messaggio. Tutti smettono all’istante 13
di grattarsi e si siedono con la schiena ben eretta. La voce è metallica, di genere incerto, autoritaria. «Annuncio importante», esplode in uno stridio. «Tra appena tre ore, alle due di stanotte, il Governante farà una Dichiarazione alla nazione. È richiesta la presenza di tutti i cittadini. Pertanto, le lezioni che si tengono a quell’ora saranno annullate. Gli insegnanti, gli studenti e tutto il personale amministrativo si riuniranno nell’aula magna per assistere alla trasmissione in diretta del nostro beneamato Governante.» Fine. Dopo lo scampanellio di chiusura, nessuno parla. Siamo ammutoliti dalla notizia. Il Governante – che non si vede in pubblico da decenni – non compare quasi mai in televisione. Di solito lascia gli annunci di palazzo e quelli amministrativi ai quattro Ministri sotto di lui (Scienza, Educazione, Alimentazione, Legge) o ai quindici Direttori (Ingegneria Equina, Infrastrutture Cittadine, Eminidologia e via dicendo) che dipendono da loro. E l’importanza del fatto che lui stesso stia per fare una Dichiarazione non sfugge a nessuno. Si scatenano le supposizioni. Una Dichiarazione alla nazione è riservata alle occasioni più rare. Negli ultimi quindici anni, ha avuto luogo solo due volte. Una per annunciare il matrimonio del Governante. E l’altra, celeberrima, per indire la Caccia agli Eminidi. Benché l’ultima Caccia si sia svolta dieci anni fa, la Gente ne parla ancora. Il Palazzo sorprese la popolazione quando dichiarò di essere da tempo segretamente in possesso di otto Eminidi. Otto Eminidi vivi e colmi di sangue. Per risollevare il morale in un periodo di depressione economica, il Governante decise di liberarli in un’area deserta. Tenuti in cattività per anni, quegli esseri erano grassi e lenti, confusi e spaventati. Gettati in una regione selvaggia come agnelli al macello, 14
non ebbero alcuna possibilità. Venne dato loro un vantaggio di dodici ore. Dopodiché, un gruppo di fortunati, selezionati tramite una lotteria, ricevette il permesso di gettarsi all’inseguimento. La Caccia terminò nel giro di due ore. L’evento suscitò un picco di consensi nei confronti del Governante. Mentre vado in mensa per pranzo, sento brusii di eccitazione. Molti sperano nell’annuncio di un’altra Caccia agli Eminidi. Si parla di una nuova lotteria per i cittadini. Altri sono scettici: Gli Eminidi si sono estinti, no? Ma persino i dubbiosi sbavano di fronte a quella possibilità, il mento gocciolante di fili di saliva che colano fin sotto le camicie. Sono anni che nessuno sente il gusto di un Eminide, si ubriaca del suo sangue, banchetta con la sua carne. Pensare che il governo potrebbe essere in possesso di qualche Eminide, pensare che chiunque potrebbe tentare di vincere la lotteria della Caccia... manda in tilt tutta la scuola. Ricordo la Caccia di dieci anni fa. E ricordo che in seguito ho avuto paura di addormentarmi per mesi a causa degli incubi che mi invadevano la mente: scene atroci di una Caccia immaginata, fradicia di pioggia, violenta e piena di sangue. Grida agghiaccianti di paura e terrore, rumore di carne strappata e ossa frantumate che trapassavano la quiete notturna. Mi svegliavo urlando, inconsolabile nonostante le braccia di mio padre strette intorno a me in un forte abbraccio protettivo. Mi diceva che andava tutto bene, che era solo un sogno, che non era reale. Ma non sapeva che, anche mentre parlava, io continuavo a sentire le terribili urla di mia sorella e di mia madre che mi riecheggiavano nelle orecchie, uscendo dai miei incubi per riversarsi nel buio del mio mondo sin troppo reale. La mensa è affollata e chiassosa. Anche gli addetti alle cucine discutono della Dichiarazione mentre rovesciano mestoli di 15
cibo – carne sintetica – nei piatti. L’ora di pranzo è sempre stata un problema per me, perché non ho amici. Sono un solitario, e il motivo, almeno in parte, sta nel fatto che è più sicuro: minori interazioni, minori probabilità che mi scoprano. Ma è soprattutto la prospettiva che quei cosiddetti amici ti mangino vivo a stroncare ogni possibilità di fraternizzare. Chiamatemi schizzinoso, ma la morte incipiente per mano (o denti) di un amico che ti succhierebbe via il sangue senza un attimo di esitazione... ecco, questo ti scoraggia in partenza dallo stringere amicizie. Quindi mangio da solo per la maggior parte del tempo. Ma oggi, una volta pagato il mio pranzo alla cassa, non c’è quasi più posto. Poi, seduti insieme, scorgo F5 e F19 del corso di matematica, così li raggiungo. Sono deficienti tutti e due, F19 forse un tantino di più. Mentalmente li chiamo Idiota e Tardo. «Ragazzi», saluto. «Ciao», risponde Idiota, sollevando a malapena lo sguardo. «Parlano tutti della Dichiarazione», dico. «Sì», dice Tardo riempiendosi la bocca. Mangiamo in silenzio per un po’. Funziona così con Idiota e Tardo. Sono due smanettoni informatici, capaci di stare alzati fino a giorno fondo. Quando mangiamo insieme – forse una volta a settimana – capita che non diciamo una parola. È allora che mi sento più vicino a loro. «Ho notato una cosa», dice Tardo dopo un po’. Gli lancio un’occhiata. «E sarebbe?» «C’è qualcuno che ti punta parecchio.» Dà un altro morso alla carne, cruda e sanguinolenta. Gli sgocciola giù per il mento, ricadendo nel suo piatto. «Intendi il prof di matematica? Non dirlo a me: quel tipo in trigonometria non mi molla...» «No, io intendevo qualcun altro. Una ragazza.» 16
Stavolta sia io che Idiota alziamo gli occhi. «Sul serio?», chiede Idiota. Tardo annuisce. «È qualche minuto che ti guarda.» «Non me.» Prendo un altro sorso. «Starà fissando uno di voi due, probabilmente.» Idiota e Tardo si guardano. Idiota si gratta il polso alcune volte. «Bella, questa», commenta Tardo. «Ti tiene d’occhio già da un po’, giuro. E non solo oggi. Nelle ultime settimane, la vedo che ti osserva ogni volta che sei a pranzo.» «Sarà...», dico fingendo disinteresse. «No, senti, ti sta fissando proprio adesso. Dietro di te, al tavolo vicino alla finestra.» Idiota si gira su se stesso per guardare. Quando torna a voltarsi, si sta grattando furiosamente il polso. «Cosa c’è di così divertente?», chiedo prendendo un altro sorso e lottando contro la voglia di girarmi. Idiota si gratta con violenza ancora maggiore. «Dovresti dare un’occhiata. Non sta scherzando.» Mi giro adagio e guardo di nascosto. C’è un unico tavolo vicino alla finestra. E un gruppo di ragazze che ci mangia. Le Desiderabili. È così che sono conosciute. Quel tavolo rotondo è loro, e in base a una regola non scritta tutti sanno che quel tavolo va lasciato in pace. È il territorio delle Desiderabili, le ragazze più popolari, quelle con i fidanzati carini e i vestiti firmati. Ti accosti a quel tavolo solo se te lo permettono. Ho visto persino i loro ragazzi aspettare disciplinatamente da una parte di essere autorizzati ad avvicinarsi. Nessuna mi sta guardando. Spettegolano e confrontano i gioielli, indifferenti al mondo che ruota intorno al loro tavolo. Ma poi una di loro mi fissa a lungo, gli occhi che incontrano e sostengono i miei. È Ashley June. Mi osserva con lo stesso 17
sguardo malinconico e nostalgico che mi ha lanciato dozzine di volte nel corso degli ultimi anni. Distolgo gli occhi di scatto e torno a voltarmi. Idiota e Tardo si grattano i polsi come pazzi, adesso. Sento la fiamma di un rossore pericoloso che comincia a scaldarmi il viso, ma per fortuna sono troppo occupati a grattarsi per accorgersene. Domino la mia faccia con respiri lenti e profondi finché il calore non svanisce. «In effetti, non aveva già una cotta per te, quella ragazza?», osserva Idiota. «Sì, sì, giusto. Un paio d’anni fa.» «Ti sta ancora dietro, la fai ancora smaniare dopo tutto questo tempo», fa lo spiritoso Tardo, e stavolta i due cominciano a grattarsi reciprocamente i polsi senza riuscire a controllarsi. *** L’allenamento di nuoto del dopopranzo – sì, il mio allenatore è un fanatico – viene quasi annullato. Nessun componente della squadra riesce a concentrarsi. Lo spogliatoio ronza delle ultime voci a proposito della Dichiarazione. Prima di cambiarmi aspetto che il locale sia sgombro. Mi sto giusto sfilando i vestiti quando entra qualcuno. «Ehi», dice Pallone Gonfiato, il capitano della squadra, mentre si strappa gli abiti di dosso e si infila negli slip super-aderenti. Si lascia cadere a terra e si mette a fare flessioni, gonfiando i tricipiti e i muscoli del petto. Nell’armadietto ha un manubrio che aspetta di gonfiargli anche i bicipiti. Sua Muscolosità Pallone Gonfiato lo fa prima di ogni allenamento. Ha un fan club, là fuori, soprattutto nuove arrivate e studentesse al secondo anno della squadra femminile. L’ho visto lasciarsi toccare i pettorali da loro. Una volta ero io che le ragazze guardavano a bocca aper18
ta, e le più coraggiose si avvicinavano e cercavano di parlarmi durante l’allenamento finché non si accorgevano che preferivo stare solo. Fortunatamente, Pallone Gonfiato ha distolto gran parte della loro attenzione. Fa altre dieci flessioni in rapida successione. «Deve riguardare una Caccia agli Eminidi», dice interrompendosi a metà. «E stavolta sarebbe meglio che si scordassero di estrarre a sorte. Sarebbe meglio che scegliessero semplicemente il più forte tra noi. E quello», aggiunge finendo le sue flessioni, «sarei io». «Non c’è dubbio», commento. «I muscoli hanno sempre avuto maggiore importanza rispetto al cervello, nella Caccia. La sopravvivenza del più forte...» «E il vincitore prende tutto», conclude eseguendo altre dieci flessioni, le ultime tre su una mano sola. «La vita depurata fino alla sua più vera essenza. Mi piacerà. Perché la forza bruta vince sempre. L’ha sempre fatto e lo farà sempre.» Passa la mano sul bicipite con aria di approvazione ed esce. Solo allora mi spoglio del tutto e metto il costume. L’allenatore ci sta già sbraitando contro mentre saltiamo dentro e continua a rimproverarci per la poca concentrazione anche mentre maciniamo le nostre vasche. L’acqua, sempre troppo fredda per me anche in una giornata qualunque, oggi è ghiacciata. Se ne lamentano persino alcuni miei compagni, e loro non si lamentano quasi mai per la temperatura in piscina. L’acqua fredda ha su di me effetti che non ha su nessun altro. Tremo e mi viene una cosa che mio padre chiamava “pelle d’oca”. È uno dei molti particolari che mi rendono diverso dagli Altri. Perché, malgrado la nostra estrema affinità fisiologica, tra noi esistono differenze sostanziali enormi che si nascondono sotto quella fragile e illusoria patina di somiglianza. Oggi sono tutti più lenti. Distratti, senza dubbio. Io ho biso19
gno di più velocità, più fatica. Smettere di tremare richiede tutte le mie energie. Anche quando l’acqua ha la sua solita temperatura e tutti nuotano a pieno regime, a me servono venti minuti buoni per essere caldo a sufficienza. Oggi, sento il corpo che invece di scaldarsi si raffredda. Devo nuotare più veloce. Dopo un paio di vasche di riscaldamento, mentre riposiamo dove l’acqua è più bassa, per poco non sono vinto dall’improvviso impulso di battere i piedi e usare la bracciata proibita. Solo mio padre mi ha visto nuotare così. Anni fa. Durante una delle nostre escursioni diurne in una piscina della zona. Non so per quale motivo, infilai la testa sott’acqua. È il primo segnale dell’annegamento, quando anche il naso e le orecchie sprofondano. I bagnini sono addestrati a farvi attenzione: vedono mezza testa finire sotto e subito allungano la mano verso i fischietti e i salvagente. È per questo che l’acqua della piscina, anche dove è più alta, ci arriva solo alla vita. Agli Altri dà fastidio la profondità, li paralizza. Se i loro piedi non toccano il fondo senza che il mento vada sott’acqua, li coglie un attacco di panico che somiglia a un riflesso automatico. Si bloccano, affondano, annegano. Perciò, anche se il nuoto è considerato la specialità dei drogati di adrenalina, di quelli che amano flirtare con la morte, in realtà non è affatto così. Qui in piscina, basta alzarsi in piedi al primo segnale di difficoltà. L’acqua è così bassa che non copre nemmeno l’ombelico. Ma torniamo a quel giorno, a me che tuffo la testa sott’acqua. Non so cosa mi prese. Cacciai la testa sotto e feci quella cosa col respiro. Non so come descriverla se non dicendo che afferrai l’aria. La tenni nei polmoni dietro la bocca chiusa. E per qualche secondo mi sentii benissimo. Più di qualche secondo. Più tipo dieci. Dieci secondi con la testa sott’acqua, e non annegai. Non ebbi nemmeno paura. Aprii gli occhi, le braccia erano 20
pallide forme confuse davanti a me. Sentii mio padre urlare, il rumore degli schizzi d’acqua che veniva nella mia direzione. Gli dissi che stavo bene. Gli mostrai cosa fare. All’inizio non mi credette, continuò a chiedermi se era tutto a posto. Ma alla fine cambiò idea e ci provò di persona. Non gli piacque, neanche un po’. Quando tornammo a nuotare, feci la stessa cosa. E molto di più. Stavolta, sempre con la faccia sotto, allungai le braccia, le portai oltre la testa, una dopo l’altra. Spinsi sull’acqua, scalciai. Fu incredibile. Poi mi alzai in piedi, l’acqua mi era andata di traverso. La buttai fuori tossendo. Mio padre, preoccupato, sguazzò verso di me. Ma io ripartii, le braccia che si sollevavano e si distendevano forzando l’acqua sotto di me, le gambe e i piedi che battevano, mio padre abbandonato nella mia scia. Volavo. Ma quando tornai indietro, mio padre stava scuotendo la testa, per la rabbia e la paura. Non dovette dire niente (anche se in realtà lo fece, all’infinito): lo sapevo già. La chiamò “la bracciata proibita”. Non volle che nuotassi più a quel modo. E così non lo feci. Ma oggi nell’acqua sto gelando. Tutti quanti eseguono i movimenti e basta, chiacchierano addirittura, facce che sorridono a fior d’acqua mentre mani e piedi pagaiano sommersi come fanno le anatre negli stagni. Vorrei forzare le bracciate, il ritmo delle gambe, scaldarmi. E poi lo sento. Un brivido che mi increspa il corpo. Sollevo il braccio destro. È grottesco, la pelle cosparsa di minuscole protuberanze come quella di un pollo morto. Pagaio più forte, spingendo il corpo in avanti. Troppo velocemente. La mia testa sbatte contro i piedi del tipo che mi precede. Succede di nuovo, e lui mi guarda male. Rallento. Il freddo mi si infiltra nelle ossa. So cosa devo fare. Uscire 21
dall’acqua prima che il tremito diventi incontrollabile, fuggire nello spogliatoio. Ma quando alzo le braccia, la pelle d’oca – disgustosa come plastica millebolle – è lì, sotto gli occhi di tutti. Poi alla mia mascella succede qualcosa di strano. Comincia a sussultare, a vibrare, a farmi battere i denti. Mi sforzo di tenere ben chiusa la bocca. Una volta completata la vasca, la squadra si riposa prima del giro successivo. Siamo andati tutti troppo veloci e abbiamo dodici secondi di pausa. Saranno i dodici secondi più lunghi della mia vita. «Hanno dimenticato di accendere il riscaldamento», si lamenta qualcuno. «L’acqua è troppo fredda.» «Gli addetti alla manutenzione. Probabile che siano troppo impegnati a parlare della Dichiarazione.» L’acqua smette di sciabordare e ci si ferma all’altezza della vita. Io però rimango accovacciato, tenendo sotto il corpo. Mi passo le dita sulla pelle. Piccole protuberanze ovunque. Sollevo lo sguardo verso l’orologio. Altri dieci secondi. Altri dieci secondi per passare inosservato e sperare... «Cos’hai?», chiede Pallone Gonfiato fissandomi. «Sembri malato.» Il resto della squadra si gira. «N-n-niente», dico balbettando. Controllo la voce e in un abbaio ripeto: «Non ho niente». «Sei sicuro?», chiede di nuovo lui. Annuisco con la testa perché non mi fido della voce. I miei occhi guizzano all’orologio. Mancano nove secondi. È come se quell’orologio si fosse inceppato nell’Attak. «Coach!», strilla Pallone Gonfiato agitando il braccio destro. «Lui ha qualcosa che non va.» La testa dell’allenatore si gira di scatto, il corpo indietro di mezza battuta. Il suo vice sta già venendo verso di noi. 22
Alzo le mani, sollevandole fino ai polsi. «Sto bene», assicuro, ma la mia voce trema. «Sto benissimo, nuotiamo.» Una ragazza che ho davanti mi studia con attenzione. «Perché ha la voce che fa così? Che trema in quel modo?» La paura mi ghiaccia la spina dorsale. Sento una specie di liquido denso che invade pian piano il mio stomaco e lo fa rivoltare. Fa’ tutto il necessario per sopravvivere, direbbe mio padre, lisciandomi i capelli con una mano. Tutto il necessario. E in quell’istante, mentre gli allenatori vengono verso di me e i presenti mi fissano, trovo un modo per sopravvivere. Vomito dentro la piscina, un fiotto di brodaglia giallo-verdastra, piena di schiuma vischiosa e saliva attaccaticcia. Non è molta roba, e in gran parte galleggia sulla superficie come petrolio fuoriuscito. Alcuni bocconi scoloriti scivolano sul fondo. «Ma che schifo!», grida la ragazza con voce stridula allontanando il vomito tra gli schizzi del suo balzo all’indietro. Anche gli altri nuotatori si spostano, braccia e mani che schiaffeggiano l’acqua. La chiazza verde di vomito fluttua a casaccio, di nuovo nella mia direzione. «Esci subito dall’acqua!», urla l’allenatore. Ubbidisco. Sono quasi tutti troppo distratti dal vomito nella piscina per accorgersi del mio corpo. Che ha la pelle d’oca ovunque. Ed è scosso dai brividi. L’allenatore e il suo vice si stanno dirigendo verso di me. Sollevo il braccio, fingo di essere sul punto di rimettere ancora. Si fermano di colpo. Piegato in due, corro nello spogliatoio. Una volta dentro, simulo un rumore di conati mentre mi asciugo e mi infilo in fretta i vestiti. Non ho molto tempo prima che arrivino. Anche con gli abiti addosso, sto ancora tremando. Ora li sento avvicinarsi. Mi tuffo sul pavimento e comincio a fare flessioni. Qualsiasi cosa pur di scaldarmi. 23
Ma è inutile. Non riesco a smettere di tremare. E quando sento le prime voci penetrare caute nello spogliatoio, afferro la mia borsa e mi dirigo fuori. «Non mi sento bene», dico mentre passo davanti ai miei compagni. Il disgusto gli fa abbassare il viso, ma va bene. Ci sono abituato, a quell’espressione. È così che mi guardo allo specchio quando sono a casa da solo. Vivi così tanto tempo cercando di non essere una certa cosa che prima o poi quella cosa finisci per odiarla. Alla lezione di letteratura inglese subito prima della Dichiarazione, nessuno riesce a concentrarsi. Vogliamo solo parlare dell’evento, anche l’insegnante, che smette di far finta di insegnare. Io sto zitto, tentando di scongelarmi, con il freddo ancora piantato a fondo nelle ossa. La prof sostiene che la Dichiarazione riguarda un’altra Caccia. «Il Governante non si risposerà di certo», dice alzando furtiva lo sguardo verso l’orologio e contando i minuti che mancano alle due del mattino. Alla fine, all’una e quarantacinque, veniamo condotti nell’aula magna. Trabocca di eccitazione. Gli insegnanti si schierano lungo i lati, spostando il peso da un piede all’altro. Persino i bidelli si aggirano irrequieti sul fondo. Poi arrivano le due e lo schermo sopra il palcoscenico si ricopre del simbolo del nostro paese: due zanne bianche, che stanno per Verità e Giustizia. Per un attimo terribile, il proiettore scoppietta e l’immagine scompare. Un gemito attraversa le file di sedie. I tecnici si precipitano verso il macchinario – pesante e voluminoso come tutta la nostra attrezzatura audiovisiva – che è stato posizionato al centro dell’aula. Nel giro di un minuto, lo riparano e lo fanno funzionare di nuovo. Appena in tempo. Il Governante, seduto alla scrivania dello Studio Circolare, sta cominciando il suo discorso. Tiene le 24
mani giunte con le lunghe dita intrecciate, le unghie che brillano sotto i riflettori. «Miei cari cittadini», esordisce. «Quando nelle prime ore di questa sera vi è stata annunciata la mia dichiarazione, molti di voi...», fa una pausa a effetto, «...se non tutti, si sono incuriositi, a dire poco. I miei consiglieri mi hanno informato che in questo grande paese si è diffusa la preoccupazione, e che le congetture e persino un’ansia ingiustificata hanno messo in agitazione tanti di voi. Mi scuso per quanto è accaduto, non era mia intenzione. Perché non vengo a comunicarvi guerra o miseria, ma grandi nuove». Ogni spettatore presente nell’aula magna si piega in avanti. In tutto il paese, più di cinque milioni di cittadini si accalcano intorno ai televisori e ai maxi-schermi trattenendo il respiro. «Il mio annuncio, carissimi, è che quest’anno terremo di nuovo il più apprezzato degli eventi.» La lingua gli scivola fuori e gli bagna le labbra. «Per la prima volta, da dieci anni a questa parte, riavremo una Caccia agli Eminidi!» A quelle parole, tutti fanno scattare la testa avanti e indietro, da una parte all’altra, sbuffando rumorosamente dal naso. L’aula magna, satura di sussulti ritmici di teste e rumore di aria aspirata, vibra di eccitazione. «Ora, prima che io chiuda lasciando che sia il Direttore dell’Istituto di Eminidologia a fornirvi i particolari, permettetemi di dire che un evento come questo è emblematico della nostra identità. Riunisce in sé tutto ciò che rende straordinario il nostro popolo: carattere, integrità, perseveranza. Vinca il migliore!» Un rumoroso pestare di piedi riempie l’aula magna. Ci alziamo tutti insieme a lui, mettendoci la mano sulla gola mentre l’immagine sullo schermo svanisce. A quel punto, parla il Direttore dell’Istituto di Eminidologia. È un uomo asciutto e severo, dal contegno autoritario, vestito in modo elegante e formale. 25
Quest’anno avremo un gruppo di cacciatori che comprenderà da un minimo di cinque a un massimo di dieci elementi, ci dice. «È una democrazia quella in cui viviamo, una democrazia nella quale ogni individuo conta, ogni individuo è importante. Di conseguenza, ogni cittadino che abbia più di quindici anni e meno di sessantacinque riceverà una serie di quattro cifre attribuita in modo casuale. Esattamente tra ventiquattr’ore, i numeri della serie verranno sorteggiati e annunciati in diretta televisiva. Da cinque a dieci di voi avranno la serie vincente.» Le teste tornano a scattare, le colonne vertebrali scrocchiano. Tra i cinque e i dieci cittadini! «I vincitori della lotteria saranno immediatamente portati all’Istituto Superiore di Eminidologia Avanzata per una sessione di addestramento della durata di quattro notti. Poi inizierà la Caccia.» L’aula magna esplode in sibili e ringhi. Il Direttore prosegue. «Le regole della Caccia sono semplici: agli Eminidi verranno concesse dodici ore di vantaggio nelle pianure desertiche, dopodiché i cacciatori avranno via libera. L’obiettivo? Scovare gli Eminidi, mangiarne più di qualunque altro cacciatore.» Il Direttore fissa l’obiettivo della telecamera. «Ma stiamo mettendo il carro davanti ai buoi, vero? Prima dovete essere tra i pochi, fortunati vincitori della lotteria. Buona fortuna a tutti.» Altro battere di piedi, zittito dal sollevarsi della sua mano. «Ancora una cosa», dice. «Vi ho parlato degli Eminidi?» Fa una pausa, tutti si chinano in avanti. «Quasi tutti erano troppo giovani per la Caccia precedente. In effetti, a quell’epoca erano solo bambini. Sarebbe stato crudele, barbaro, e, be’, semplicemente scorretto avere come prede dei bambini.» Nei suoi occhi compare un luccichio spietato. «Ma da allora, li 26
abbiamo allevati nel più controllato degli ambienti. Per garantire non solo che ci forniranno carne succulenta e sangue sostanzioso, ma anche che saranno più... abili dell’ultima volta. E stanotte finalmente, mentre parliamo, hanno raggiunto la giusta stagionatura per l’attività sportiva e il consumo.» Altro sbavare e grattare di polsi. «Bravi cittadini», continua il Direttore, «chi ha tempo non aspetti tempo. Tra un minuto, la maggior parte di voi riceverà i suoi numeri della lotteria sul posto di lavoro. Madri che siete a casa, i vostri numeri verranno inviati via mail al vostro account ufficiale. E per coloro che si trovano a scuola e all’università, i vostri numeri vi attendono al banco o alla cattedra. Buona fortuna a tutti». La sua immagine si dissolve. Di solito ci accompagnano fuori in maniera ordinata. Ma oggi è il caos mentre l’intero corpo studentesco – massa scivolosa e sfuggente – erompe dall’aula. Gli insegnanti, normalmente allineati di lato per dirigere il traffico, sono i primi a uscire e si affrettano verso la sala professori. Una volta in classe, tutti si collegano eccitati al sistema, le unghie lunghe che tamburellano sullo schermo di vetro che hanno sul banco. Metto in scena un capolavoro di falsità, sbavando e scuotendo la testa. In cima alla posta in arrivo, a grandi lettere maiuscole color porpora, c’è la mail della lotteria: Oggetto: i
tuoi numeri della lotteria per la caccia agli eminidi. Sono questi: 3 16 72 87. Non potrebbe importarmene di meno. È un mitragliare generale di numeri. Nel giro di un minuto, ci accorgiamo che il primo numero della serie va da 1 a 9, 27
mentre tre vanno da 0 a 99. Alla lavagna viene riportato un inutile calcolo sul primo numero: Primo numero della serie
Numero di studenti con quel numero
1 2 3 4 5 6 7 8 9
3 4 1 5 3 2 4 3 2
Subito nascono teorie assurde. Per chissà quale motivo, si suppone che il 4 – il numero più diffuso nella nostra classe – avrà le maggiori possibilità di essere scelto come primo numero. E si archivia rapidamente il 3 – con una sola occorrenza (il sottoscritto) – non riconoscendogli alcuna possibilità. A me va benissimo. È buio quando arrivo a casa, il cielo venato da un tocco di grigio. Tra un’ora, il primo sole farà capolino dalle montagne che si trovano a est, molto lontano da qui. Suonerà una sirena, e chiunque sia fuori avrà solo cinque minuti per trovare riparo prima che i raggi solari diventino mortali. Ma è raro che qualcuno sia fuori, a quel punto. Il terrore del sole garantisce che le strade siano deserte e le serrande ben chiuse quando suona la sirena. Mentre infilo le chiavi nella serratura, a un tratto avverto qualcosa di sbagliato. Un profumo, forse? Non so dirlo con precisione. Scruto il vialetto e le strade. A parte alcune carroz28
ze a cavalli che si affrettano verso casa, in giro non c’è nessuno. Annuso l’aria, chiedendomi se non l’ho immaginato. Qualcuno è appena stato qui. Qualche istante prima che arrivassi io. Vivo da solo. Qui non ho mai invitato nessuno. Oltre a me, nessuno si è mai fermato davanti alla porta d’ingresso. Fino a oggi. Con cautela, giro intorno alla casa cercando tracce di intrusione. Sembra tutto a posto. Il gruzzolo lasciato da mio padre e nascosto tra le assi del pavimento, benché si vada riducendo a poco a poco, è intatto. Chiudo la porta d’ingresso e tendo l’orecchio nel buio. Dentro non c’è nessuno. Chiunque sia stato qui fuori, non è mai entrato. Solo a questo punto accendo le candele. Ed esplodono i colori. È il momento della giornata che preferisco. Quando mi sento come un carcerato che muove i primi passi nel mondo libero o come un tuffatore che risale dalle profondità di un mare immaginario e ricomincia a respirare. È il momento in cui, dopo le interminabili ore nero-grigiastre della notte, rivedo finalmente i colori. Nella luce tremolante della candela, tornano irruenti in vita e inondano la stanza di pozzanghere di arcobaleni disciolti. Metto la cena nel microonde. Devo cuocerla venti volte, perché il timer arriva solo a quindici secondi. Bollente, appena carbonizzata, è così che la preferisco, altro che quel tiepido rancio molliccio che sono costretto a mangiare fuori. Mi tolgo le zanne e me le infilo in tasca. Poi do un morso all’hamburger, gustandomi il calore che aggredisce i denti, assaporando la sensazione solida di carne croccante e bruciacchiata. Chiudo gli occhi per il piacere. E mi sento sporco, mi vergogno. 29
Dopo la doccia – che è quella cosa che si fa quando ci si strofina tutto il corpo con litri di disinfettante per le mani e poi ci si versa sopra dell’acqua per togliere l’odore – mi sdraio sul divano, la testa sostenuta da felpe piegate. C’è un’unica candela accesa che proietta ombre palpitanti sul soffitto. Sopra di me penzolano delle maniglie per dormire, messe lì tre anni fa solo per poterle mostrare a un improbabile visitatore. La radio è accesa, il volume basso. «Molti esperti ipotizzano che il numero degli Eminidi utilizzati oscillerà tra i tre e i cinque soggetti», dice il commentatore. «Ma dal momento che il Direttore ha mantenuto il riserbo su questo punto, in realtà non c’è modo di saperlo.» Il programma continua con alcuni interventi da parte degli ascoltatori, tra cui una donna bisbetica secondo la quale l’intero evento è truccato: andrà a finire che il “vincitore” sarà un tizio pieno di soldi con amicizie in alto loco. La sua telefonata viene interrotta di colpo. Altre chiamate riguardano il numero degli Eminidi di questa Caccia. Solo una cosa è sicura, cioè che dovranno essere almeno due, perché il Direttore – in una registrazione audio riproposta all’infinito – ha usato il plurale: Eminidi. Ascolto qualche altro intervento, poi mi alzo e spengo la radio. Nel silenzio che segue, sento il leggero tamburellare della pioggia sulle serrande. Ogni tanto mio padre mi portava fuori durante il giorno. A parte le volte in cui mi accompagnava a nuotare, io detestavo uscire. Anche con gli occhiali da sole, la luminosità mi appariva insopportabile. Il sole ardente era un occhio impassibile che versava luce come acido da una provetta, trasformando la città in un lampo interminabile. Era tutto immobile, là fuori. Mi portava negli stadi vuoti e nei centri commerciali deserti. Non c’era niente di chiuso, perché la luce del sole costituiva la migliore garanzia. Avevamo l’intero Core Park a disposi30
zione per far volare aquiloni o la piscina pubblica libera per nuotare. Mi diceva che quella capacità di resistere alla luce del sole era un punto di forza, ci rendeva straordinariamente superiori. Noi possiamo sopportare ciò che li uccide. Ma per me era solo qualcosa che ci rendeva diversi, non più forti. Avrei voluto essere come tutti gli altri, avvilupparmi nel bozzolo di quella cupola buia che era casa. L’oscurità mi confortava. Mio padre si rattristò nel sentirlo, ma non disse niente. A poco a poco, smettemmo di uscire. Salvo quando ci coglieva un certo atroce bisogno. Proprio come adesso. Apro la porta. Non piove più. Mi avventuro fuori. La città dorme profondamente nei suoi gusci di tenebre ben sprangati. Prendo “a prestito” un cavallo da un giardino vicino e percorro le strade vuote sotto un cielo nuvoloso. Oggi esco perché ogni due o tre settimane mi prende quel desiderio. Quando mio padre era vivo, ci spingevamo fuori insieme. Provavamo la stessa vergogna, perché non parlavamo mai, non ci guardavamo nemmeno negli occhi. Andavamo lontano, oltre i confini della città, fino ai Territori Sterminati dal Margine Incerto. È un nome troppo lungo, e quasi tutti la chiamano semplicemente Vastità. Una distesa infinita di pianure desertiche. Nessuno sa fin dove arrivi o cosa ci sia dall’altra parte. Siccome abito all’estrema periferia, lontano dagli alti palazzi di uffici del quartiere finanziario e ancor più lontano dal centro della metropoli, dove gli imponenti grattacieli governativi ingombrano il paesaggio, non ci metto molto a lasciarmi la città ampiamente alle spalle. La sua linea di demarcazione è vaga: non c’è nessun muro che indichi l’inizio della Vastità. Compare sen31
za che te ne accorgi. Case isolate si arrendono ad aziende avicole in rovina, che a loro volta soccombono a baracche cadenti da tempo abbandonate. Alla fine, non resta altro che quella distesa di terra deserta. La Vastità. Non c’è niente, là. Non un posto in cui fuggire. Solo i più spietati degli elementi: aridità, desolazione e morte. Là non c’è scampo per noi, diceva mio padre, nessun rifugio, nessuna speranza, nessuna possibilità di sopravvivere. Non andare mai laggiù pensando di trovarvi salvezza. Non sto a perdere tempo e mi dirigo a nord. A circa un’ora da qui, nel bel mezzo della Vastità, c’è una montagnola solitaria ricoperta di un morbido tappeto verde, una bizzarria isolata scoperta anni fa dai miei genitori. E ciò che mi serve si trova tra quel verde. Nel momento stesso in cui i miei piedi toccano l’erba soffice, sto già scattando in direzione di una radura circondata da alberi. Allungo la mano verso un frutto rosso sospeso a un ramo. Lo stacco, chiudo gli occhi e affondo i denti nella buccia. Il frutto mi scricchiola in bocca, dolce e succoso, le mie mascelle vanno su e giù, su e giù. Quando mio padre e io mangiavamo frutta, lo facevamo dandoci le spalle. Ci vergognavamo, anche mentre masticavamo, boccone dopo boccone, il succo che ci colava lungo il mento, incapaci di smettere. Dopo il quarto, mi costringo a rallentare. Scelgo tra i diversi tipi di frutti e getto in una borsa quelli che ho raccolto. Mi fermo un attimo, guardando il cielo. Molto sopra la mia testa, un grande uccello plana nell’aria, le ali curiosamente rettangolari. Mi volteggia intorno, ed è strano ma la sua forma rimane immutata, poi si dirige a est, scomparendo in lontananza. Colgo qualche altro frutto, poi mi incammino verso il nostro posto preferito, un grande albero le cui foglie si allargano alte e rigogliose. Mio padre e io ci sedevamo sempre sotto quest’albero a sgranocchiare frutta con la schiena appoggiata 32
al tronco, la città che la grande distanza rendeva più scura, piatta. Come una pozzanghera sporca. Anni fa, abbiamo esplorato quella coltre verde in cerca di tracce lasciate da altri come noi. Torsoli raggrinziti di frutti buttati via, per esempio, erba schiacciata, rami spezzati. Ma non abbiamo quasi mai trovato niente. Quelli della nostra specie erano molto attenti a non lasciare segni rivelatori. Malgrado tutto, però, di tanto in tanto scoprivo la traccia inevitabile e più chiara: una minor quantità di frutti sugli alberi. Significava che anche altri erano stati lì, a raccogliere e mangiare. Ma io non li ho mai visti. Una volta, tra un boccone e l’altro, chiesi a mio padre: «Perché non vediamo mai altri Eminidi, qui?». Lui smise di masticare e voltò in parte la testa verso di me. «Non usare quella parola.» «Quale parola? Eminide? Cosa c’è di male a...» «Non usare quella parola», ripeté lui in tono duro. «Non voglio sentirti pronunciare mai più quella parola.» Ero piccolo, mi venne da piangere. Lui si girò del tutto verso di me, i grandi occhi che mi divoravano da capo a piedi. Piegai la testa all’indietro per impedire alle lacrime di uscire. Lui distolse lo sguardo solo dopo che le mie lacrime si furono asciugate. Rimase a fissare l’orizzonte finché non gli sbollì l’arrabbiatura. «Umano», disse alla fine in tono più morbido. «Quando siamo soli, usa questa parola, d’accordo?» «D’accordo», risposi. E dopo un momento gli chiesi: «Perché non vediamo altri umani?». Non replicò. Ma ricordo ancora il rumore che facevano i suoi denti staccando grossi pezzi di mela, crepitii fragorosi che gli esplodevano in bocca mentre sedevamo sotto un albero piegato dai frutti maturi. 33
E adesso, anni dopo, ci sono ancora più frutti appesi agli alberi, una sovrabbondanza di colori in mezzo al verde lussureggiante. Triste, perché quei colori indicano morte ed estinzione. Ed è così che mangio, ora, solo nell’ombra della macchia, un solitario puntino grigio tra schizzi di rosso e arancione e giallo e viola. Giunge il crepuscolo, la notte della lotteria. In ogni casa, giovani e vecchi sono svegli, in preda all’eccitazione. Quando suona il corno della sera, serrande e inferriate si alzano, porte e finestre si spalancano. Arrivano tutti in anticipo al lavoro e a scuola, stasera, per spettegolare e picchiettare impazienti sugli schermi dei computer che hanno davanti. A scuola, non c’è neppure un tentativo di normalità. Durante la seconda ora, la prof non richiama all’ordine la classe ma semplicemente la ignora mentre batte sui tasti del suo computer. A metà lezione, l’interfono passa un annuncio rivolto a tutta la cittadinanza: visto il drastico calo della produttività, la comunicazione dei numeri della lotteria è stata anticipata di qualche ora. A dire il vero, sarà trasmessa in diretta tra pochi minuti. «Tenete i vostri numeri sotto il naso», conclude scherzosa l’annunciatrice, come se tutti quanti non li avessero già imparati a memoria. Nell’aula esplode subito il delirio. Gli studenti si precipitano ai loro posti, gli occhi incollati ai computer. «Siete già pronti per la lotteria?», chiede qualche istante dopo il conduttore del notiziario, che nell’eccitazione del momento ha perduto la sua compostezza. «Io ho i miei numeri proprio qui», dice sollevando un foglio di carta. «Questa potrebbe davvero essere la mia notte, me lo sento da quando mi sono svegliato.» «Come ogni abitante di questa grande città, senza dubbio», interviene la conduttrice che lo affianca, una donna magra dai capelli corvini. «Siamo tutti emozionatissimi. Ma adesso 34
passiamo la linea all’Istituto di Eminidologia, dove i numeri stanno per essere estratti.» Si ferma, il dito che si solleva verso l’auricolare. «Ci informano ora di una sorpresa. È una bomba, gente, perciò mettetevi seduti.» Nell’aula, le teste scattano all’indietro e poi si protendono in avanti. Nessuno dice una parola. «Invece di affidare al Direttore l’estrazione dei numeri, il Palazzo ha deciso che l’operazione sarà eseguita da un prigioniero Eminide.» Qualcuno sbuffa rumorosamente, parecchi studenti saltano sui loro banchi. «Avete sentito bene, signori», prosegue la conduttrice, e adesso la sua voce è più umida, con una leggera pronuncia blesa. «Abbiamo un collegamento in diretta...» Si ferma di nuovo. «Mi dicono che proviene da un luogo segreto all’interno dell’Istituto di Eminidologia. Portiamoci subito lì.» Di colpo, all’inquadratura dello studio televisivo si sostituisce quella di un’enorme arena spoglia e coperta. Niente finestre, niente porte. Al centro dell’arena è stata piazzata una sedia vuota. Vicino alla sedia ci sono un grosso sacco di canapa e una ciotola di vetro. Ma nessuno guarda il sacco o la sedia o la ciotola di vetro. Gli occhi di tutti noi sono puntati sull’immagine confusa di un Eminide maschio accucciato in un angolo. È anziano e magro, ma il suo ventre adiposo sporge sproporzionato rispetto alla struttura esile del suo corpo. Ha braccia e gambe ricoperte di peli, la cui vista suscita un generale schioccar di labbra in tutta la classe. La telecamera stringe e poi allarga sull’Eminide. Ma è evidente che funziona da sola, senza nessuno che la manovri. Se ci fosse stato qualcuno nell’arena, l’Eminide sarebbe stato sbranato nel giro di pochi secondi. Gli ultimissimi modelli di teleca35
mera – che pesano la relativa bellezza di due tonnellate – sono in grado di ampliare e ridurre automaticamente le inquadrature, un progresso tecnologico inimmaginabile solo dieci anni fa. Adesso la telecamera stringe, cogliendo l’incertezza dell’Eminide mentre solleva lo sguardo e fissa qualcosa fuori campo. Poi, come se avesse ricevuto un ordine, si alza e cammina fino alla sedia. C’è indecisione in ogni suo passo, cautela. Il suo viso gronda di emozioni evidenti. Un allievo scuote la testa con violenza e la sua bava volteggia verso l’esterno, cadendo in parte su di me. Dalla bocca ci cola saliva che si raccoglie in piccole pozze sui banchi e sul pavimento. Le teste sono mezze reclinate di lato e all’indietro, i corpi tesi. Siamo tutti in estasi ed estremamente vigili. I conduttori del notiziario si sono zittiti. L’Eminide raggiunge la sedia, prende posto. Di nuovo, gli occhi strabuzzati, guarda fuori campo per avere istruzioni. Poi infila una mano nel sacco di canapa e ne estrae una pallina. Che ha un numero stampato sopra: 3. Tiene la pallina sollevata verso la telecamera per un attimo, poi la mette nella ciotola di vetro. Ci vuole un momento prima che ci rendiamo conto di quanto è appena successo. I conduttori televisivi rompono il silenzio, con voci umide e dense di saliva. «Abbiamo il primo numero, gente, abbiamo il primo numero. È il tre!» Gemiti tutto intorno, pugni che accartocciano fogli di carta. In fondo all’aula, l’insegnante mormora un’imprecazione. Fisso il mio foglietto: 3, 16, 72, 87. Con calma, cancello il numero 3. Solo alcuni dei miei compagni sono ancora in corsa. È facile individuarli. Hanno gli occhi scintillanti per la trepidazione e la bava che cola dalle zanne scoperte. Tutti gli altri cedono, i muscoli si allentano, le bocche e i menti vengono asciugati. Si accasciano sulle loro sedie. 36
L’Eminide allunga nervosamente la mano per estrarre un altro numero. 16. Altri gemiti. Prendo la penna e cancello il 16 con le dita un po’ tremanti. Devo stringere meglio la penna, controllare le dita. A quanto mi è dato capire, quell’ultimo numero ha eliminato i concorrenti rimasti della mia classe. Eccetto me. Nessuno si è ancora accorto che sono sempre in lizza. Butto fuori altra saliva, me la lascio colare lungo il mento. Sibilo un po’, reclino la testa all’indietro. Gli Altri si voltano di scatto nella mia direzione. Ben presto una folla si raccoglie intorno al mio banco. L’Eminide estrae il numero successivo. 72. C’è un attimo di silenzio stupefatto. Poi le teste cominciano a ballare, le nocche a scrocchiare. Il mio prossimo numero – 87 – viene salmodiato come un mantra. Qualcuno corre fuori, informa l’aula vicina. Sento sedie che strisciano sul pavimento e pochi istanti dopo entrano tutti in volata, accalcandosi intorno a me. La bava mi si spiaccica addosso dall’alto: alcuni stanno appesi al soffitto a testa in giù, fissando il mio schermo. La notizia si sparge rapidamente per i corridoi. Il mio cuore, simile a un ratto claustrofobico in gabbia, è ormai fuori controllo. La paura mi attanaglia. Ma per adesso nessuno mi guarda perché sono tutti concentrati sullo schermo. L’Eminide ha qualcosa che non va. Adesso scuote la testa da una parte all’altra, quasi con violenza, gli occhi sbarrati per la paura. Dimostrazione estrema e irrefrenabile di un’emozione. Un frutto cade improvvisamente da un’apertura del soffitto. Un frutto rosso che l’Eminide si precipita a prendere e divora in pochi secondi. «Che schifo», dice qualcuno. 37
«Lo so, riesco appena a guardare.» L’Eminide fa alcuni passi verso il sacco ed è sul punto di estrarre l’ultimo numero quando ha un’esitazione. Lascia cadere il sacco e si rintana nell’angolo opposto, accucciandosi con le mani sopra le orecchie e gli occhi ben chiusi. Per un attimo, solleva la testa e guarda fuori campo. Poi i suoi occhi si sgranano per la paura e la sua testa è presa da un tremito violento. La blocca tra le ginocchia. «Non vuole estrarre l’ultimo numero», bisbiglia uno studente. «Ve l’ho detto», commenta l’insegnante, «questi Eminidi sono più furbi di quello che sembrano. Per qualche motivo, questo sa che quei numeri sono per la Caccia». Lo schermo si oscura. L’inquadratura successiva è dello studio televisivo. I conduttori sono colti di sorpresa. «Pare che abbiamo qualche problema tecnico», dice l’uomo, asciugandosi in fretta il mento. «Torneremo in onda tra qualche istante.» Ma ci vuole più di qualche istante. Il filmato dell’Eminide che estrae i primi tre numeri viene trasmesso e ritrasmesso all’infinito. A scuola si è saputo di me e nuovi studenti affollano l’aula. Poi una notizia ulteriore: c’è un altro allievo della scuola ancora in corsa. Mentre vomito più saliva lungo il mento e muovo la testa a scatti, faccio mentalmente un calcolo approssimativo. Le probabilità che io abbia l’ultimo numero vincente sono una su novantasette. Appena più dell’uno percento. Una possibilità talmente ridotta da essere confortante, mi dico. «Guardate!», esclama qualcuno indicando lo schermo del mio computer. La trasmissione è passata dallo studio televisivo a una location esterna. L’Eminide maschio è scomparso. Al suo posto c’è una Eminide femmina, giovane. È seduta su una sedia, all’aperto, un sacco di canapa e una ciotola di vetro per terra 38
accanto a lei. L’immagine ha un che di liscio e lucido, come se tra l’Eminide e la telecamera ci fosse una parete di vetro. Alle spalle dell’Eminide, montagne lontane si stendono sotto le poche stelle che punteggiano il cielo notturno. A differenza del maschio, la femmina non guarda nervosa fuori campo, ma dritto in macchina. Con una compostezza nello sguardo, una padronanza di sé che pare bizzarra, in un prigioniero Eminide. Alcuni ragazzi salgono barcollando sui banchi. Si sa che una Eminide femmina è il bocconcino più prelibato dei due sessi. La sua carne è più polposa, più grassa in certe parti. E una femmina adolescente – come sembra essere questa – è la più succulenta in assoluto, ha un sapore incomparabile. Prima che il sibilare e lo sbavare si scatenino di nuovo, l’Eminide ha già infilato la mano nel sacco. Ne toglie con calma una pallina, la tende col braccio disteso verso la telecamera. Ma io sto guardando i suoi occhi, che sembrano puntati su di me come se mi vedessero nell’obiettivo. Non ho bisogno di vedere la pallina per sapere che l’Eminide ha estratto il numero 87. Dalla bocca dei miei compagni esce un sibilo esplosivo e compatto, seguito da schiocchi entusiastici di labbra. Iniziano le congratulazioni: orecchie che si strofinano su e giù contro le mie, padiglione contro padiglione. Un minuto dopo, tra un abbraccio di orecchie e l’altro, abbasso gli occhi verso lo schermo. Incredibilmente, l’Eminide tiene ancora la pallina sollevata davanti alla telecamera, un’espressione di tranquilla sfida stampata sul viso. L’immagine comincia a svanire. Ma giusto un attimo prima che scompaia, vedo gli occhi dell’Eminide inumidirsi, la testa piegarsi in avanti, la frangia di capelli ricadere sulla fronte. La sua aria di sfida sembra perdersi in un’improvvisa tristezza che la opprime. Non ci mettono molto ad arrivare. Persino mentre i miei 39
compagni si stanno ancora congratulando con me, sento i loro stivali invadenti risuonare lungo il corridoio. Quando aprono la porta, ogni studente e studentessa è al suo posto, sull’attenti, e i quattro entrano nell’aula. Sono tutti vestiti in modo impeccabile, con completi di seta dalle linee semplici e rigorose. «F3?», chiede il capo da dietro la cattedra dell’insegnante. La sua voce, come il suo completo, è di seta, pretenziosa, ma con un’indiscutibile intonazione autoritaria. Alzo la mano. Quattro paia di occhi ruotano e si fissano su di me. Non sono occhi ostili, solo efficienti. «Congratulazioni, hai la combinazione vincente della lotteria», mormora il capo. «Vieni subito con noi, F3. Sarai portato direttamente all’Istituto di Eminidologia. La carrozza ti sta aspettando davanti alla scuola. Vieni subito.» «Grazie», dico. «Mi sento il ragazzo più fortunato del mondo. Però devo prendere alcune cose da casa, dei vestiti.» E il rasoio e la pietra pomice e il tagliaunghie e il dentifricio per le zanne... «No. Gli indumenti ti saranno forniti all’Istituto. Vieni subito.» *** Non sono mai stato su una carrozza così lunga, e tantomeno su una che avesse degli stalloni come tiro. Gli stalloni, di un nero liscio e lucente, si confondono perfettamente con la notte. Si girano verso di me mentre mi avvicino alla carrozza, mi fiutano. Salgo in fretta. Studenti e insegnanti si riversano fuori dalla scuola, dall’ala est e dall’ala ovest, avvicinandosi di corsa per guardare a bocca aperta. Ma si mantengono tutti a rispettosa distanza, silenziosi e immobili. 40
Con i finestrini oscurati, è inquietante quanto l’interno della carrozza sia buio. Trattengo l’impulso di allungare le braccia o spalancare gli occhi. La testa china, faccio scivolare lentamente il corpo in avanti finché le mie ginocchia non urtano un morbido sedile di pelle. Sento il rumore di altri corpi che mi seguono dentro, avverto l’infossarsi del sedile sotto il loro peso. «È la tua prima volta in una carrozza di questo tipo?», chiede una voce vicino a me. «Sì.» Nessuno dice niente. Poi un’altra voce: «Aspettiamo che arrivi l’altro vincitore?». «Un altro studente?», chiedo. Un’esitazione. «Sì. Non dovrebbe volerci molto, ormai.» Guardo fuori dal finestrino oscurato, cercando di non rivelare che non vedo un accidente, qui dentro. «Alcuni documenti da firmare», dice un’altra voce ancora. Un debole fruscio di carte, l’inconfondibile scatto della molla di un portablocco. «Tieni.» Gli occhi ancora puntati verso l’esterno, descrivo un ampio arco col braccio fino a colpire il blocco. «Oops, sono un tale maldestro, a volte.» «Per favore, firma qui, qui e qui. Dove ci sono le X.» Abbasso lo sguardo. Non vedo niente. «Proprio dove ci sono le X», interviene ancora un’altra voce. «Non possiamo aspettare solo un attimo? Sono un po’ preso dal momento...» «Subito, per favore.» C’è fermezza in quella voce. Avverto occhi che si girano a guardarmi. Ma proprio allora, la portiera della carrozza si apre. «L’altro vincitore della lotteria», sussurra qualcuno. Da fuori, una fioca luce grigia si riversa all’interno. Non c’è un momento 41
da perdere. Abbasso in fretta gli occhi, intravedo appena le X, scarabocchio il mio nome. La carrozza si inclina per il peso che si aggiunge. Poi, prima che riesca a vedere chi è entrato, la portiera si richiude e l’interno piomba di nuovo nell’oscurità. Una caviglia inciampa nel mio stinco. «Guarda dove metti le gambe, se non ti dispiace!», esclama una voce in tono tagliente. È la voce di una ragazza, e la conosco piuttosto bene. Guardo fuori dal finestrino senza nemmeno cercare di incrociare i suoi occhi. «Voi due vi conoscete?», chiede una voce. Decido che la mossa più sicura è scrollare le spalle e grattarmi il polso. Una cosa ambigua che può essere interpretata in una quantità di modi. Rumore di polsi grattati in risposta. Per ora sono salvo. «Per favore, firma questi documenti. Qui, qui e qui.» C’è un attimo di silenzio. Poi la ragazza parla, in tono quasi di comando. «I miei amici sono là fuori. Tutta la scuola è la fuori. Questo è il momento più bello della mia vita. Potreste abbassare questi finestrini in modo che mi vedano? Sarebbe un bene per la scuola, per la comunità, unirsi a noi in questo meraviglioso istante.» Per un bel po’ non c’è risposta. Poi il finestrino si abbassa e la luce grigia di fuori si propaga lentamente all’interno. Seduta di fronte a me c’è Ashley June. Viaggiamo al buio e in silenzio, i funzionari hanno abbandonato le chiacchiere inutili. Gli stalloni si fermano al semaforo rosso, sospendendo temporaneamente il click-clock dei loro zoccoli. Il baccano attutito della folla che c’è fuori filtra all’interno: scattare di ossa, digrignare di denti, scrocchiare di 42
giunture e caviglie. Lungo le strade ci sono centinaia, se non migliaia, di Sconosciuti che assistono al nostro passaggio. Ashley June è silenziosa ma emozionata. Lo capisco. Gli schiocchi del suo collo esplodono nel buio davanti a me. Aggiungo qualche schiocco di mio, facendo scrocchiare le nocche una volta o due. Questa non è la prima volta che Ashley June e io ci ritroviamo al buio, a distanza ravvicinata. Fu un anno o due fa, prima che io diventassi il recluso che sono oggi e proprio mentre Ashley June cominciava la sua fulminea ascesa tra le fila del club delle Desiderabili. Pioveva, quella notte, e la classe era rinchiusa nella palestra della scuola. Il nostro insegnante di ginnastica non si faceva vedere, e nessuno si era preso il disturbo di informare la segreteria. Chissà perché – queste cose accadono in un loro modo tutto particolare – si cominciò a fare il gioco della bottiglia. L’intera classe, tutti e venti che eravamo. Ci dividemmo in due cerchi, maschi da una parte e femmine dall’altra. Avevo già sulle labbra le parole Questa roba è patetica, io vi saluto, quando a un tratto gli altri fecero girare la bottiglia e misero in moto gli eventi. Roteò velocissima, una sagoma indistinta, poi rallentò sin quasi a fermarsi davanti al ragazzo seduto di fronte a me. Di lì, proseguì lenta nel suo movimento, come ci fosse della colla a frenarla, fino a quando la bocca della bottiglia, simile a quella spalancata di un pesce rosso morente, non si arrestò. Puntata dritta verso di me, esattamente al centro, nessun dubbio in proposito. «Bello schifo», commentò in tono amaro il ragazzo accanto a me. «Mi è arrivata così vicino.» E fu come se una scossa elettrica attraversasse il cerchio delle ragazze. Cominciarono a bisbigliare, le teste accostate, lanciandomi sguardi provocanti ed eccitati. In un baleno, una 43
ragazza si chinò in avanti e fece girare la bottiglia. Che all’inizio roteò vorticosa per poi spezzarsi in una forma sfocata dal piroettare più lento. Quando arrivò a trascinarsi nel giro finale, con alcune ragazze che si appoggiavano all’indietro deluse perché la bottiglia le aveva superate, e proprio mentre stava oltrepassando Ashley June, lei si piegò in avanti e la fermò col piede, puntata verso di lei. «Wow», disse, «ma tu guarda». E siccome si trattava di Ashley June, gliela fecero passare liscia. Un attimo dopo, Ashley June e io eravamo nell’armadio. In piedi, a pochi centimetri l’uno dall’altra, nella stretta prigione delle pareti. Il profumo di pino era forte, là dentro, il buio completo. Nessuno dei due si muoveva. Sentivo gli altri parlare fuori dallo sportello, le loro voci lontane chilometri. Mi fissai i piedi, respirando dal naso con lentezza e regolarità. Pensai di parlarle, visto che quella era un’occasione perfetta – la sola – per esprimere ciò che soffocavo da anni dentro di me. Ashley June, mi piaci da tanto tempo. Dalla prima volta che ti ho vista. Sei l’unica da cui mi sia mai sentito attratto, l’unica cui penso ogni giorno. «Ci diamo una mossa?», chiese lei nell’oscurità, la voce bisbigliante e sorprendentemente bassa. La mia occasione, effimera, era sfumata. Ci muovemmo goffi nello spazio ristretto per sfilarci le maniche. Io afferrai la cerniera, diedi uno strattone, la sentii cedere. Dopo esserci tolti le maniche, avemmo un’esitazione. Era il momento. Aspettava che mi muovessi per primo? Poi lo scricchiolio del suo collo, un schioccare d’ossa chiaramente udibile. Un gorgoglio basso nella sua gola, poi un ringhio, vicinissimo, il sibilo che bagnò i le pareti, il soffitto e il fondo dell’armadio scuro che mi rinchiudeva. Lasciai che la mia mente si svuotasse di ogni ricordo, una 44
rimozione, subito sostituita dall’impulso primordiale creato nella mia immaginazione. Aprii la bocca e ne uscì un ringhio, lanciato con una ferocia e un’urgenza così realistiche da cogliermi di sorpresa. Le mie braccia volarono verso di lei e i nostri avambracci si scontrarono, le unghie già pronte a squarciare la pelle. Per un attimo, in testa mi suonò un campanello d’allarme: se fosse stato versato del sangue, il suo trasporto avrebbe presto – nel giro di un microsecondo – cambiato direzione, e me la sarei ritrovata attaccata al collo, le zanne affondate nella pelle con la rapidità di un rasoio, e gli Altri sarebbero entrati qualche attimo dopo per tuffarsi in un’orgia di sangue. Ma, tutto preso dal momento, non mi fermai, non ci fermammo, e cominciammo ad allontanare brutalmente braccia che tornavano a minacciarci, a spingere via gomiti e spalle, a contenderci la posizione. Sbattemmo contro le pareti invisibili che ci imprigionavano da ogni lato e risuonavano dei tonfi sordi dei nostri gomiti e delle nostre ginocchia. La battei sul tempo. Prima che riuscisse a riacquistare l’equilibrio, spinsi il mio gomito nell’incavo della sua ascella. Come avevo letto nei libri, visto al cinema. La possedevo. Il suo corpo si irrigidì, in attesa, quando il mio gomito si bloccò nella sua ascella. E subito dopo perse ogni rigidità e si fece morbido e arrendevole. Ruotai il gomito in lunghi cerchi sensuali, e il suo corpo si mosse seguendone il ritmo. La saliva si sparse nella sua bocca, penetrando e avvolgendo i suoi denti scoperti. A quel punto mi concentrai al massimo per salvare le apparenze, per accertarmi che i ringhi mi uscissero col giusto tono febbrile, che il mio corpo oscillasse con passione e frenesia sufficienti. Dopo, Ashley June e io ci chinammo a raccogliere le nostre maniche. Nel buio, le nostre braccia si urtarono e, per un attimo indimenticabile, le nostre mani si toccarono. La pelle delle 45
sue dita sfiorò il palmo aperto della mia mano. Trasalimmo entrambi, io per la sorpresa, Ashley June per il disgusto. Era silenziosa, forse stava cercando di ricomporsi. Ero sul punto di aprire lo sportello quando parlò. «Aspetta.» Mi fermai. «Cosa c’è?» «Possiamo... stare qui solo per un po’?» «D’accordo.» Trascorse un minuto. Al buio non la vedevo, non vedevo quello che faceva. «Sei...», iniziò. Aspettai che continuasse. Ma rimase a lungo senza dire niente. «Credi che piova ancora forte?», chiese alla fine. «Non lo so. Forse.» «Le previsioni hanno detto che pioverà tutta la notte.» «Davvero?» Tornò a farsi silenziosa, poi parlò di nuovo. «Tu vieni a scuola sempre a piedi, vero?» Esitai. «Sì.» «Hai preso l’ombrello, stasera?» «Certo.» «Stasera sono venuta a piedi anch’io», disse e sapevamo tutti e due che era una bugia. «Però ho dimenticato l’ombrello a casa.» Non replicai. «Ti dispiacerebbe accompagnarmi a casa?», sussurrò. «Odio bagnarmi.» Le dissi che non mi dispiaceva. «Troviamoci davanti ai cancelli principali dopo la scuola, va bene?», suggerì. «Va bene.» 46
A quel punto aprì lo sportello dell’armadio. Non ci guardammo mentre raggiungevamo il gruppo. I ragazzi continuavano a guardarmi con aria d’attesa, perciò diedi loro quello che volevano: muovendo solo le labbra, esclamai «Wow!», e scoprii le zanne. Loro si grattarono i polsi. Più tardi quella notte, dopo l’ultima campana e il riversarsi fuori degli studenti, rimasi seduto al mio banco. Restai lì anche quando il baccano dei corridoi si spense, anche quando gli ultimi studenti e insegnanti abbandonarono la scuola, e il clipclop degli zoccoli si smorzò in lontananza. Fuori, la pioggia che cadeva formava colonne dense che schizzavano contro la finestra. Solo dopo la sirena dell’alba, parecchie ore più tardi, mi alzai e me ne andai. I cancelli principali erano deserti quando li attraversai, come sapevo sarebbero stati. Faceva freddo a quell’ora, la pioggia che ancora cadeva a dirotto quasi tentando di riempire il vuoto delle strade. Non usai l’ombrello. Lasciai che la pioggia mi inzuppasse i vestiti, filtrasse attraverso la stoffa fino a raggiungere il mio corpo, così che il suo freddo umido arrivasse a lambirmi il petto, pungermi la pelle, anestetizzarmi il cuore.
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