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The Prey di Andrew Fukuda Traduzione di Simona Brogli Š 2013 Editrice Il Castoro Srl viale Abruzzi 72, 20131 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Titolo originale The Prey Andrew Fukuda Š 2012 ISBN 978-88-8033-767-6


ANDREW FUKUDA

THE PREY Traduzione di Simona Brogli


Per Obaachan


1

P

ensavamo di esserci finalmente liberati di Loro, ma ci sbagliavamo. Quella stessa notte, ci attaccano. Sentiamo il branco dei cacciatori appena qualche istante prima che raggiunga la sponda del fiume: grida roche si scagliano nel cielo notturno, stridule e taglienti come schegge di vetro frantumate sotto i piedi. Il cavallo, le narici allargate e gli occhi rovesciati, alza il muso di scatto. I muscoli fusi in un unico fascio, parte al galoppo con le orecchie appiattite all’indietro, gli occhi come due folli lune bianche che splendono nella buia immensità in cui si addentra. Afferriamo tutti le nostre borse e fuggiamo verso la barca ormeggiata su gambe vacillanti. Le cime di ancoraggio sono tese e le nostre dita tremanti non riescono a scioglierle. Ben tenta di soffocare i suoi stessi singhiozzi, Epap è già in piedi sulla barca, la testa inclinata in direzione dei suoni prodotti dall’avvicinamento dei cacciatori. Ha ciocche di capelli sollevate come braccia che si arrendono, scompigliate da un sonno nel quale non sarebbe mai dovuto cadere. Sissy taglia le cime. Dalla lama si levano scintille mentre i suoi colpi si fanno più rapidi, più incalzanti ogni secondo che passa. Si ferma all’improvviso, il coltello in aria. Ha lo sguardo fisso in lontananza. Li vede, dieci puntini d’argento che si precipitano verso di noi lungo un prato distante prima di scomparire 5


dietro il rialzo di una collina più vicina. Sento i peli del collo irrigidirsi come stalattiti di ghiaccio che si spezzano nel vento. Riappaiono, dieci perline di mercurio che valicano la cima della collina con inflessibile determinazione. Puntini d’argento, perline di mercurio, termini strani, vano tentativo, da parte mia, di tramutare il terrificante in innocuo, in accessorio di gioielleria. Ma quelle sono creature. Sono cacciatori. Che vengono ad affondare le zanne nella mia carne, a farmi a pezzi, a divorarmi e saccheggiare i miei organi. Afferro i più piccoli, li spingo a bordo. Sissy sta menando fendenti all’ultima cima, sforzandosi di ignorare gli ululati che giungono stridenti fino a noi, viscidi e bagnati di saliva. Agguanto un palo, pronto a spingere nel momento stesso in cui Sissy avrà tagliato la cima. Appena in tempo, lei sega la fune e io spingo la barca nella corrente. Sissy balza a bordo. Il fiume ci avvolge, ci trascina via dalla riva. I cacciatori sono radunati sulla sponda, dieci grotteschi ammassi di carne liquefatta e capelli arruffati. Non ne riconosco nemmeno uno – nessuna traccia di Labbra Cremisi, Pancia Piatta, dello Smunto o del Direttore – ma la smania nei loro occhi mi è sin troppo familiare. È un impulso più potente del desiderio sessuale, è una brama divorante di straziare e bere carne e sangue di Eminide. Tre cacciatori si lanciano nel fiume che scorre veloce, nell’inutile sforzo di raggiungerci. Le loro teste ballonzolano nell’acqua una volta, due, poi sprofondano, inoffensive. I cacciatori rimasti ci seguono per ore lungo le rive. Cerchiamo di non guardarli, teniamo gli occhi fissi sul fiume e sulle tavole di legno del ponte. Ma non c’è modo di sfuggire alle loro urla, colme di una voglia non corrisposta, di una lamentosa disperazione. I quattro ragazzi della Cupola – Ben, David, Jacob ed Epap – si rannicchiano nella cabina per gran 6


parte della notte. Sissy e io restiamo a poppa, a guidare la barca con i lunghi pali, tenendola ben lontana dalla riva. Con l’avvicinarsi dell’alba, il cielo nuvoloso si fa a poco a poco più chiaro. Invece di indebolirsi di fronte al sorgere del sole incombente e all’inevitabilità della morte, i cacciatori rimasti non fanno che urlare più forte, in un parossismo di furore. Il sole sorge adagio e brilla fioco da dietro le nuvole nere. Una fiamma filtrata, diffusa. E i cacciatori muoiono di una morte lenta, interminabile, orrenda. Ci vuole almeno un’ora prima che l’ultimo grido ribollente si spenga in un gorgoglio, e a quel punto di loro non rimane più niente che abbia una forma, o una voce, o un odore. Sissy parla per la prima volta dopo ore. «Credevo che ci fossimo spinti abbastanza lontano. Credevo che avessimo visto l’ultimo di Loro.» È solo mattina, e la sua voce è già esausta. «C’è stato il sole», dico. «Fino alla tempesta di ieri.» La pioggia e le nuvole avevano reso il giorno buio quanto la notte e permesso ai cacciatori di mettersi in marcia ore prima del crepuscolo e raggiungerci. Sissy sporge la mascella. «Allora sarà meglio che oggi non piova», dice, poi entra in cabina a controllare i ragazzi. Il fiume fluisce con una spinta incessante. Fisso lo sguardo avanti finché non lo vedo svanire nel buio, in lontananza. Non so cosa ci aspetti, e quell’incertezza mi intontisce di paura. Una goccia di pioggia mi cade sulla fronte, poi un’altra, e un’altra, e di lì a poco l’acqua mi riga il collo e la pelle d’oca delle braccia come un reticolo di vene sporgenti. Alzo gli occhi. Le nubi cupe e gonfie si spostano, poi si squarciano. La pioggia scende a dirotto, a nastri scuri e obliqui. Il cielo è nero come uno stormo di corvi a mezzanotte. La caccia è appena cominciata. La caccia non finirà mai. 7


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Sediamo nella cabina, stretti l’uno all’altro, cercando di ripararci dalla pioggia. I nostri vestiti inzuppati si incollano ai corpi esili e agli stomaci incavati come cuoio screziato. Di tanto in tanto, qualcuno – spinto dall’irrazionalità della fame – apre la borsa delle provviste e la trova (ancora una volta) vuota. Le bacche e la carne di coniglio che avevamo arrostito sono state divorate da tempo. Con quella pioggia fitta, la corrente del fiume acquista velocità. Facciamo turni più brevi per governare la barca, le nostre forze si esauriscono in fretta, ormai. Nel primo pomeriggio, Sissy e io lavoriamo insieme. Due ore dopo, siamo sfiniti. Crolliamo nella cabina, rimpiazzati da Epap e Jacob. Sono esausto, ma non riesco a dormire. Raffiche di vento attraversano il fiume, increspandone la superficie già maculata dalla pioggia battente. Mi strofino la faccia, nel tentativo di riscaldarmi le guance. Dall’altra parte della cabina, Sissy è raggomitolata su un fianco, la testa appoggiata sulle mani giunte. Rilassato nel sonno, il suo viso è morbido, i contorni modellati. «Non hai fatto che fissarmi, negli ultimi minuti», bisbiglia, gli occhi ancora chiusi. Sobbalzo. Le sue labbra si incurvano verso l’alto in un debole sorriso. «La prossima volta, svegliami 8


e basta. Potresti trapassare dei muri d’acciaio, con lo sguardo che hai.» Mi gratto i polsi. Apre gli occhi lentamente, si mette seduta. I folti capelli castani le ricadono sul viso, in disordine come la coperta che ora stende con dolcezza su Ben che russa al suo fianco. Sbadiglia, tende le braccia alte sopra la testa, inarcando la schiena. Si alza e mi viene vicino, aggirando una scorta di legnetti che abbiamo portato a bordo, poi si lascia cadere accanto a me. «La corrente è forte», dico. «Forse troppo forte. Sono preoccupato.» «No, è un bene, invece. Significa più strada tra noi e Loro.» Sono passati solo alcuni giorni da quando siamo scappati dall’Istituto di Eminidologia. Siamo stati inseguiti da una folla inferocita, affamata del nostro sangue e della nostra carne. Dalle centinaia di esseri che si sono riversati fuori dall’Istituto, invitati al banchetto spinti dalla brama di sangue. Contro un’orda simile, noi sei non avevamo praticamente nessuna possibilità di sopravvivere. La nostra unica, debole speranza era riposta esclusivamente nel diario dello Scienziato, un oscuro quaderno che suggeriva una fuga in barca lungo questo fiume. Il fiume l’abbiamo trovato, per fortuna. E per un miracolo ancora più grande abbiamo trovato anche la barca. Ma la ragione per cui lo Scienziato ci abbia condotti su queste acque, quella ancora non l’abbiamo trovata. «Significa anche meno distanza tra noi e lui», aggiunge, come se leggesse nei miei pensieri. Mi osserva con un’espressione sicura che racchiude dolcezza e saggezza. Distolgo lo sguardo. Ieri, quando mi sono imbattuto nel ritratto di mio padre fatto da Epap, ho rivisto quel viso per la prima volta dopo anni: gli occhi infossati, la linea della mascella forte e ben di9


segnata, le labbra sottili, l’aria glaciale che, persino in un disegno, allude a una sensibilità e a una malinconia più profonde. Ora penso ai segreti che devono aver conservato quegli occhi, ai propositi mai rivelati da quelle labbra. L’ultimo giorno, mio padre si era precipitato in casa nostra tutto sudato, pallido come un cadavere. Gli avevo visto i segni gemelli sul collo. Si era spinto fino a quel punto per simulare la sua mutazione. Quando era corso fuori, poco prima del sorgere del sole, avevo pensato che corresse incontro alla morte per salvarmi. E invece correva incontro alla sua libertà e al mio massacro. Raccolgo due rametti dal mucchio e comincio a strofinarli l’uno contro l’altro come se stessi affilando dei coltelli. «Credi che abbia lasciato questa barca per voi, non è vero?», dico. «Che abbia pianificato questa fuga così complessa per voi. Ti interessa la mia modesta opinione? La barca non era destinata a voi. Era destinata a lui, e a lui solo. Era il suo mezzo di fuga. Solo che non è stato abbastanza in gamba da trovarla. O forse l’ha costruita lui stesso, ma lo hanno trovato prima che riuscisse a scappare.» Lei fissa i bastoncini, poi me. «Ti sbagli. Lo Scienziato ci prometteva continuamente che un giorno ci avrebbe fatto uscire dalla Cupola. Parlava di un luogo meraviglioso in cui non esistevano pericoli né paure, in cui avremmo trovato salvezza e calore e un’infinità di altri umani. La terra dove scorrono latte e miele, dove abbondano frutti e sole. È così che la chiamava. O Terra Promessa. E ogni volta che parlava di fuga, ne parlava come della nostra fuga.» «Una grossa promessa.» Stringe le labbra. «Infatti. Ma era quello che ci serviva. Devi capire... Tutti noi siamo nati nella Cupola. E pensavamo davvero che avremmo finito per morirci, dopo una vita lunga 10


e difficile in cattività. Era un’esistenza miserabile. Lo Scienziato... be’, lui è sbucato dal nulla. E con quell’unica promessa, ha cambiato le nostre prospettive, le nostre vite. Ci ha dato speranza. I ragazzi – soprattutto Jacob – si sono trasformati. La speranza fa questo effetto.» Sorride. «Non sappiamo nemmeno che aspetto o che sapore abbiano, il latte e il miele.» «Riponete molta fiducia nella promessa di un solo uomo.» Mi guarda. «Tu non lo conosci come lo conosciamo noi.» Per poco non sobbalzo, tanto mi feriscono le sue parole. Ma riesco a controllarmi. Una vita di addestramento ti rende maestro nel nascondere le emozioni. «Non vorresti trovarlo?», chiede lei. «Non hai la minima curiosità di scoprire dove potrebbe essere andato?» I bastoncini nelle mie mani smettono di muoversi. La verità è che ho pensato quasi solamente a questo. La luce lunare riflessa dal fiume le disegna dei puntini sul viso. «Dimmi, Gene», sussurra, guardandomi negli occhi. Esito, le parole Tu non lo conosci come lo conosciamo noi che ancora mi risuonano nelle orecchie. Se solo sapesse cosa potrei dirle. Che l’uomo che loro conoscono come lo Scienziato è lo stesso uomo che io chiamavo padre. Che ho vissuto con lui, giocato con lui, conversato con lui, esplorato la città con lui, ascoltato storie raccontate da lui. Io so che, quando dormiva, la durezza dei suoi lineamenti scompariva svelando il volto di un ragazzino, che il suo russare era sempre sommesso, l’ampio torace si alzava e si abbassava, si alzava e si abbassava, le mani giacevano molli lungo i fianchi. So che i miei anni insieme a lui sono stati più dei loro, e più intensi. Che sono stato amato da lui dell’amore di un padre, e che quel legame è più importante di qualsiasi altro. Ma invece di parlare, sfrego più forte i bastoncini l’uno contro l’altro. 11


«Hai il peso del mondo sulle spalle, Gene», dice Sissy in tono calmo. Incrocio le gambe senza aprire bocca. «I segreti», bisbiglia, «ti divoreranno dentro». Si alza e va a raggiungere gli altri. Più tardi, nel corso della giornata, la pioggia smette di scendere. La luce del sole filtra da uno squarcio tra le nuvole e i ragazzi lanciano grida di giubilo. Jacob dichiara che adesso è tutto perfetto: adesso hanno sole e velocità. «Beccatevi questa, cacciatori!», urla, sfacciato. L’ilarità degli altri Eminidi lo incoraggia. «Beccatevi questa! Mangiate la mia polvere!» Le loro risate si levano alte nel cielo azzurrognolo. Ma io non condivido quella gioia. Perché ogni centimetro che guadagniamo sui cacciatori è un altro centimetro che allarga la voragine tra me e Ashley June. In questi ultimi giorni è venuta da me senza preavviso, manifestandosi negli oggetti più disparati: la forma delle nuvole, il profilo sempre più vicino delle montagne a est. Per ogni secondo che passa, per ogni increspatura lasciata dalla nostra scia, sento il cappio stringersi intorno al suo collo. Il senso di colpa mi divora. È rimasta sola nell’Istituto di Eminidologia dopo essersi sacrificata per me. Resiste e mi aspetta, aspetta un aiuto che non sono riuscito a darle. Ormai deve aver capito che non tornerò. Che l’ho abbandonata. I ragazzi gridano parole avvolte in un’euforia luminosa, splendente. Urlano, inneggiando allo Scienziato, alla Terra Promessa. Il suono di una corsa sulle assi. È Ben. «Vieni con noi sul ponte, Gene!», esclama, i lineamenti illuminati da un sorriso. «Fa molto più caldo al sole che in cabina.» 12


Gli dico che devo stare lontano dal sole. «Dai, su», insiste, tirandomi per le braccia. Ma io mi divincolo di scatto. «Non posso. Io non sono abituato al sole. La mia pelle brucia già adesso. Non sono scuro come voi Em...» E riesco a fermarmi appena in tempo. Sul suo viso si disegna la delusione. Poi scivola via, nel bagliore del sole, lasciandomi solo nell’ombra fredda della cabina umida. Nell’ora successiva, colonne di luce squarciano le nubi. Il paesaggio si apre, i colori fradici che si mescolano nel terreno. Il verde rigoglioso dei prati, la sfumatura azzurro scuro del fiume. Per tutto il pomeriggio, sento le loro voci filtrare dalle fessure nelle pareti della cabina. Persino nella vicinanza imposta dalla barca, sembrano lontani migliaia di chilometri da me. Il sole rovescia i suoi raggi, e la loro luce velata è come sale sulle ferite aperte della mia coscienza. *** Tardo pomeriggio. Come cani che si crogiolano al sole, sono tutti stravaccati sul ponte a intridersi di luce e calore, sonnecchiando. Hanno esaurito le energie, i loro stomaci incavati brontolano anche nel sonno. È di nuovo il mio turno a poppa. Assaporo il rumore dell’acqua che sciaborda sotto le assi di legno, un rumore ritmico e sordo che è stranamente confortante. Il dondolio della barca mi induce sonnolenza. Epap è sveglio. Se ne sta chino, scarabocchiando qualcosa, completamente immerso in un disegno. La curiosità ha la meglio e mi avvicino piano, inosservato. Sta abbozzando un ritratto di Sissy. Nel disegno, è in piedi su una roccia sull’orlo di una cascata, un braccio sollevato e lo 13


sguardo fisso in avanti, e il suo braccio è snello quanto l’orizzonte è lontano. La cascata scintilla quasi fosse impreziosita da migliaia di rubini e diamanti. Lei indossa un lungo abito di seta senza maniche, il seno più pieno e la vita più sottile rispetto alla realtà. L’immagine ritrae qualcuno in piedi dietro di lei. Ci metto un attimo prima di capire chi dovrebbe essere. Epap, in maglietta vogatore, le braccia che si increspano sotto fasci di muscoli, gli addominali ben marcati che riflettono la luce della luna. Ha una mano su un fianco di Sissy, l’altra molto più giù, posata sulla sua coscia destra in un gesto di tenerezza sovreccitata. Sissy ha il braccio allungato all’indietro e con la mano gli stringe appassionatamente la nuca, le dita che si intrecciano a ciocche dei suoi capelli ondulati. «Però, hai una bella immaginazione», commento. «Co...!», esclama lui, chiudendo di botto l’album di schizzi. «Brutto ficcanaso!» «Cosa succede?», mormora Sissy, battendo le palpebre pesanti di sonno. «Sta’ calmo», dico. «Quando avrai finito i tuoi... ehm... disegni, ti dispiacerebbe aiutarmi a governare la barca? La corrente è piuttosto forte, adesso.» Vado a prua e inclino il palo che fa da timone finché la barca non si raddrizza pian piano. Dall’interno della cabina, sento Epap sbraitare per qualcosa. Dopo qualche minuto, è David, non Epap, che esce a darmi una mano. Muove solo le labbra, ma esclama Wow! quando vede il fiume. «Stiamo andando davvero veloci.» Afferra l’altro palo. A poppa, Epap sta parlando con Sissy, le braccia allargate per mantenere l’equilibrio. Lei gli risponde scuotendo la testa e indicando il cielo attraversato da colonne di sole ma ancora coperto di nuvole. Epap le si fa più vicino, le mani che si agita14


no eccitate. Continuano a parlare fitto, ma il rombo del fiume mi impedisce di sentire le loro parole. Li raggiungo. «... fiume», le sta dicendo lui. «Di cosa parlate?», chiedo, avvicinandomi. Epap mi scocca un’occhiata piena di antipatia. «Di niente.» Mi giro verso Sissy. «E il fiume?» «Il fiume è bagnato!», sogghigna Epap. «Comincia un po’ a farti gli affari tuoi!» «State pensando di attraccare, vero?», dico a Sissy. «Per andare a caccia di cibo.» Sissy non risponde, fissa semplicemente il fiume, stringendo le mascelle. «Lasciate che ve lo dica», osservo. «È una mossa sbagliata. Un errore.» «Nessuno ha chiesto il tuo parere», ribatte Epap, mettendosi tra me e Sissy. «Scendere da questa barca è un grosso errore, Sissy» insisto, girando intorno a Epap. La sua schiena freme di irritazione. «Non abbiamo imparato niente da ieri notte? C’è...» «Quale parte di “fatti gli affari tuoi” non capisci?», ringhia Epap. «Anzi, va’ a preparare le cime. Dovremo ormeggiare questa barca quando approderemo. «Siete impazziti? Quelli vogliono sbranarci...» La testa di Epap si gira di colpo, gli occhi colmi di puro disprezzo. «Ma davvero! E l’hai capito tutto da solo?» «Ascoltatemi! Potrebbero essere ancora là fuori...» «No, non ci sono, non più» replica Epap. «Non sai proprio niente di loro? Mi sorprende che tu li conosca così poco, tenuto conto che ci hai vissuto in mezzo per tutta la vita. Sveglia! Il sole li brucia. E sveglia! Adesso c’è il sole.» «Non abbastanza. I cacciatori sono intelligenti, improvvi15


sano, dispongono di tecnologia, sono determinati. Li sottovalutate a vostro rischio e pericolo.» «Là fuori c’è solo roba da mangiare», ribatte strillando Epap. «Ci sono animali selvatici dappertutto, sembra quasi di poterli toccare! Devo avere già visto almeno tre cani delle praterie. E adesso, vedi di lasciare le decisioni a me e a Sissy.» «Epap...», inizia Sissy. Scuote la testa. «Non lo so. Forse è troppo pericoloso.» Un’espressione ferita gli attraversa il viso. «Ma... Sissy, non capisco. Un attimo fa eri d’accordo anche tu di andare a caccia di cibo.» Nel suo sguardo si leggono sconcerto e incredulità in parti uguali. «Lo sai quanta fame abbiamo. Pensa al povero Ben.» «Certo che ci penso. Ma cerchiamo di non perdere la testa, va bene?» «No, Sissy, hai appena detto che eri d’accordo con me. Che dovevamo attraccare e andare a caccia.» «Sto cercando di essere prudente...» «È per lui?», la interrompe Epap, puntandomi il dito contro. «Lui dice che non dovremmo ormeggiare, e tu sei subito d’accordo?» «Smettila.» «È per lui?» «Epap! Non dico di stare lontani da terra per sempre. Aspettiamo solo che il cielo schiarisca. Che il sole scotti davvero. E se dovremo aspettare fino a domani, allora aspetteremo. Un giorno di fame in più non ci ucciderà. Precipitarsi a terra troppo presto potrebbe farlo, invece.» Epap le dà la schiena, e dalle sue spalle strette sembrano levarsi fumi di rabbia. «Perché sei sempre così pronta a ingraziartelo? Non riesco a credere che tu stia dalla sua parte!» 16


«Io non sto dalla parte di nessuno. Sto dalla parte della ragione. Di quello che è meglio per tutti noi.» «Di quello che è meglio per te! Vuoi che ti approvi, ecco perché stai dalla sua parte!» «Va bene, io ne ho abbastanza», dice Sissy, allontanandosi. Mentre è di spalle Epap le lancia un’occhiataccia. Sta ancora masticando rabbia. «Visto cos’hai fatto?», mi dice. «Credi di essere tanto furbo, vero? Credi di essere un duro. Guardatemi, io sono sopravvissuto per anni vivendo in mezzo a Loro. Guardate come mi pavoneggio. Sai, per me sei solo ridicolo.» Non abboccare alle sue provocazioni, vattene, mi dico. «Volevi essere uno di Loro?», dice ad alta voce. «Ti vergognavi di essere ciò che sei?» Mi fermo di botto. «Perché l’ho visto, come ci guardi. L’ho vista, la tua aria di superiorità», dice, le labbra contorte in un ringhio. «Ci guardi dall’alto in basso. Ti secca doverti mescolare a noi. In fondo in fondo, tu li ammiri, non è vero? In fondo in fondo, forse vorresti essere uno di Loro.» «Piantala, Epap», interviene Sissy. Si è girata di nuovo e ci osserva attentamente. «Tu non ne hai idea», dico a Epap con voce tesa. «Come, scusa?», chiede lui mentre sul suo viso si dipinge uno sciocco sogghigno. «Tu non hai idea di cosa siano, quegli esseri. Se l’avessi, non avresti mai detto una cosa così stupida.» «Non ne ho idea? Sul serio? Cioè, io non ne ho idea?», Mi fulmina con uno sguardo carico di scherno. «Sei tu quello che non ne ha idea. D’altra parte, perché dovresti? Hai passato tutta la vita gomito a gomito con Loro, andandoci d’amore e d’accordo. Non li hai mai visti fare a pezzi i tuoi genitori. Non 17


li hai mai visti strappare le braccia e le gambe di tuo fratello o di tua sorella davanti a te. Tu non li conosci come li conosciamo noi.» «Li conosco meglio di quanto credi», replico. La mia voce è bassa e calma, ma ha in sé una tempesta pronta a scatenarsi in una frazione di secondo. «Puoi starne certo. Voglio dire, cosa sapete veramente di Loro? Per voi sono stati poco più che bambinaie devote, vi hanno nutrito, vestito, preparato torte di compleanno...» Epap carica nella mia direzione, il dito puntato come un artiglio. «Perché tu...» Sissy gli abbassa il braccio. «Basta, Epap!» «Ecco che lo fai di nuovo!», urla lui. «Perché sei sempre così pronta a metterti dalla sua parte? Basta, Epap. Smettila, Epap. Cos’è lui per te? Perché... oh, lascia perdere!» Si libera il braccio con uno strattone. «Volete soffrire la fame insieme? Accomodatevi. Ma se ci ammaleremo, se moriremo di fame, sarà colpa vostra, non dimenticatelo.» «Finiscila coi toni melodrammatici, Epap.» Il petto di Sissy si alza e si abbassa con sforzo. Lui distoglie lo sguardo, non dice niente. Poi, all’improvviso, mi balza addosso, e il suo impeto mi coglie di sorpresa, facendoci schiantare entrambi sul ponte. Le tavole di legno risuonano a vuoto sotto l’urto dei nostri corpi. Sotto di me si propaga uno strano rumore sordo e profondo. Come se avessi scosso qualcosa che rotola libero sotto la barca. Imprecando, Epap si porta di scatto sopra di me, e io non posso fare altro che evitare i suoi colpi. A quel punto, Sissy me lo toglie di dosso a forza, il viso arrossato per la collera. «Abbiamo già abbastanza problemi da affrontare!», grida. «Dobbiamo pensare a combattere Loro, non a lottare tra noi!» 18


Epap si gira di scatto, fissa la sponda del fiume. Si passa una mano tra i capelli, il respiro affannoso. Ma io non faccio caso a lui. Tutta la mia attenzione è focalizzata sul ponte sotto di me. Batto con le nocche. Mi risponde lo stesso tonfo sordo e cavo di prima. Batto un metro più in là, e il colpo risuona con un timbro diverso. «Cosa c’è?», chiede David. Ora si girano tutti a guardarmi. Picchio sul ponte con tutta la forza che ho. E lo sento di nuovo, il rumore di uno spostamento. Di qualcosa che è nascosto sotto la barca, lontano da sguardi indesiderati. Capisco, e di colpo mi si forma un nodo alla gola. «Gene?», insiste Sissy. «Cosa succede?» La guardo inebetito. «Gene?» «Credo che ci sia qualcosa sotto la barca», dico. E adesso mi fissano tutti. «L’abbiamo avuto sotto il naso per tutto questo tempo.» Ben esamina il ponte, perplesso. «Dove? Io non vedo niente.» «Nell’unico posto in cui un cacciatore non avrebbe mai pensato – mai avuto il coraggio – di guardare», dico. «Sott’acqua.» Tuffarsi nel fiume è come infrangere la superficie di uno specchio. E altrettanto piacevole. Schegge di freddo squarciano e penetrano la mia pelle nuda. I polmoni si contraggono e rimpiccioliscono fino a diventare due biglie. Riemergo, respirando a fatica. La corrente è feroce. Anche se ho una fune legata intorno al petto, nel caso remoto – non poi tanto remoto, ora me ne rendo conto – che il fiume mi trascini via, la cosa mi rassicura ben poco. Afferro subito la fiancata della barca. Mi concedo qualche istante per abituarmi al freddo, poi mi immergo. 19


Per tenermi, incastro le dita tra le assi di legno del ponte. Le gambe, portate dalla corrente, mi trascinano in posizione parallela rispetto alla barca. Sembro una bandiera agitata dal vento. Il sole filtra tra un’asse e l’altra, sottili lamine di luce tagliano dall’alto le acque torbide. Il silenzio è inquietante, qua sotto, solo un lugubre, profondo ronzio interrotto da qualche sibilo di tanto in tanto. Lancio occhiate tutto intorno, cercando di trovare qualcosa, qualsiasi cosa, di insolito. Là. Una specie di cassetta che sporge proprio al centro dello scafo. Prudentemente, lascio che la corrente trasporti il mio corpo in avanti finché non arrivo a cingere la scatola con le braccia, lieto di avere un sostegno. Sotto c’è un chiavistello di metallo, coperto di ruggine. Non cede al mio primo strappo. Strattono più forte e il fondo della cassetta si apre di scatto. Ne esce una grande lastra di pietra, che mi colpisce alla nuca. Il dolore mi intontisce e mi disorienta. Tento di afferrarla alla cieca mentre scivola lungo il mio corpo. Ma è troppo tardi. La lastra mi scorre sulle gambe, rimbalza sullo stinco sinistro e scompare nel buio delle acque sottostanti. Con i polmoni che esplodono, mi rigiro fino a trovarmi accovacciato a testa in giù. Adesso o mai più. Ho una sola possibilità di lanciarmi a riprendere la lastra prima che scenda oltre il punto di recupero. Scalciando, mi spingo via dal fondo della barca. Il mio corpo sfreccia come un missile verso il basso, nell’oscurità e nel freddo. Una frazione di secondo prima che la fune legata intorno a me si tenda, la punta delle mie dita tocca la pietra. La afferro. Poi rimbalzo verso l’altro, come se fossi appeso a un elastico, e la forza dello strappo mi fa quasi saltar via la lastra dalle mani. La stringo contro il petto nudo, sentendo i solchi delle parole che vi sono incise. 20


Torno in superficie in uno spruzzo di bianco, il corpo ridotto a un’unica bocca gigantesca che ansima in cerca d’aria. Epap e David vedono la lastra e me la tolgono a forza dalle braccia stanche. Mi lasciano nell’acqua, aggrappato alla fiancata, a malapena in grado di tenermi. Quando mi isso a bordo, il corpo che ciondola, bagnato e pesante, sono tutti stretti intorno alla lastra. Con le teste chine l’una contro l’altra, stanno leggendo le parole scolpite nella pietra: RIMANETE SUL FIUME. Lo Scienziato Dalle bocche aperte trapela un coro di risatine, che diventano risate e poi si trasformano in una specie di latrato. Sorrisi, stupore, esaltazione. «Ve l’avevo detto! Ve l’avevo detto! Ve l’avevo detto!», urla Ben, rifilando pacche sulla schiena a tutti quanti. «L’aveva progettato fin dall’inizio!» Sissy è in piedi, le mani strette davanti alla bocca, le sopracciglia inarcate al massimo, gli occhi pieni di lacrime. «Lo sapevo che ci avrebbe aiutati!», grida Jacob. «La Terra Promessa! Ci sta guidando verso la Terra Promessa. Dove scorrono latte e miele, dove abbondano frutti e sole!» Il viso di Sissy si apre in un sorriso che sembra quasi emanare un calore fisico. I suoi occhi si chiudono per il sollievo. «Come sapevi che la lastra era sotto di noi, Gene?», chiede. Esito prima di parlare. Mio padre organizzava spesso delle cacce al tesoro quando ero piccolo, lasciandomi indizi in giro per la casa. Ricordo come mi agitavo quando non riuscivo a trovare le tracce che sapevo essere lì. Lui mi obbligava a rallen21


tare, a fare respiri profondi, a contemplare la scena con calma. Diceva: Guardi ma non vedi. La risposta è proprio sotto il tuo naso. E quasi inevitabilmente, quando mi tranquillizzavo, trovavo l’indizio incastrato in una fessura del pavimento, infilato tra le pagine di un libro che avevo tenuto in mano per tutto il tempo, o nascosto nella mia stessa tasca. Ma a loro non racconto niente di tutto questo. «È stata fortuna e basta, immagino», rispondo. Comincio a tremare mentre folate di vento mi conficcano lame di ghiaccio nel corpo. Ho addosso solo la biancheria perché prima di tuffarmi mi sono spogliato. Uno degli Eminidi dice qualcosa cui segue un’esplosione collettiva di risate. Sissy si unisce a loro, battendo le mani. Sprizzano emozioni, letteralmente. Entro nella cabina, dove ho lasciato il mucchio dei miei vestiti. Mi tolgo gli slip, li strizzo con le mani e le braccia scosse dai brividi. Li sento ridere ancora, fragorosamente, con scoppi di risa che vanno e vengono. Non capisco perché debbano mostrare ciò che sentono in modo tanto evidente. Non possono limitarsi a provare emozioni senza manifestarle per forza? Forse la cattività ha arrestato la loro crescita, li ha resi incapaci di intuire le emozioni altrui a meno che non vengano esplicitate in un vomitevole tripudio di colori. Cominciano a ridacchiare, parlano, lo Scienziato qui, lo Scienziato là. Questa è la conferma che cercavano. Il segno che lo Scienziato non li ha mai abbandonati né traditi, anzi, li aspetta alla fine del viaggio. Aspetta loro. Non me. Suo figlio l’ha lasciato solo in un mondo di mostri. Ad arrangiarsi. Un ragazzino che piangeva fino a cadere addormentato e che ha bagnato il letto per mesi, dopo essere rimasto 22


solo. Per loro, invece, ha ideato un complesso piano di fuga costituito da un diario (che dovevano essere loro a trovare, è chiaro) e da una barca per giungere nella terra dove scorrono latte e miele, dove abbondano frutti e sole. Sento ancora un risolino, poi un altro ancora, risate che sono come pugnalate di scherno. Sto per dire loro di tacere quando mi accorgo che, in effetti, sono sprofondati in un silenzio così improvviso da risultare inquietante. Getto un’occhiata attraverso le fessure nella parete della cabina. Non riesco a vedere granché, solo David e Jacob che sollevano la lastra di pietra. Scivolo in fretta nei miei vestiti asciutti ed esco. Hanno messo diritta la lastra e si sono raccolti lì dietro. L’acqua che cola dalle lettere incise lungo la superficie di pietra sta formando una pozza sul ponte. Rileggo le parole. RIMANETE SUL FIUME. Lo Scienziato Ma gli Eminidi della Cupola non guardano il davanti della lastra, guardano il retro. I loro occhi, vedendo qualcosa che io non riesco a vedere, sono sbarrati per lo stupore mentre risalgono la lastra, ne oltrepassano il bordo e incontrano i miei. «Cosa c’è?», chiedo. Lentamente, girano la lastra su se stessa per permettermi di leggere. Cinque parole. Cinque parole che si imprimeranno nella mia mente in modo indelebile, come nella pietra in cui sono scolpite. NON LASCIATE CHE GENE MUOIA.

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Le prime parole di mio padre dopo anni, per me, su di me. Un sussurro dal passato che cresce sino a farsi brezza per poi esplodere in una raffica di vento. Una serie di scosse elettriche mi attraversa il corpo e sento lo scricchiolio del ghiaccio che si scioglie dentro le ossa. E anche se vengo invaso da un’ondata di luce, di forza e di speranza, riesco solo a crollare in ginocchio. Jacob e David, i primi a raggiungermi, mi tirano su. Sento le loro mani che mi battono sulla schiena, le voci alte ma non più irritanti, i corpi che premono contro il mio ma per qualche ragione non più sgraditi. Mi passano le braccia intorno alla schiena per sostenermi, la meraviglia dipinta in viso. Spuntano i sorrisi, e nei loro sguardi c’è come un caldo benvenuto. Con i pugni sulle labbra per l’emozione, Sissy tiene gli occhi chiusi. Quando li riapre per guardarmi, sono pieni di calore e tenerezza. «Lo sapevo», dice. «Non è un caso che tu sia qui, Gene. Era destino che fossi insieme a noi. Parte di noi.» Non rispondo, sento solo l’acqua che mi gocciola lungo il corpo. Si alza il vento e rabbrividisco. Lei mi cinge le spalle e mi abbraccia. Sono ancora bagnato, ma non le importa. «Niente più distanze tra noi», mi bisbiglia all’orecchio, così piano che quelle parole possono essere dirette solo a me, poi mi stringe ancora una volta prima che ci separiamo. Con il viso e il petto umidi, mi getta sulle spalle la coperta che Ben ha appena portato. La luce del sole inonda la barca, il fiume, la terra, tutti noi.

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