The trap web

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Per Jim e Mike

The Trap di Andrew Fukuda Traduzione di Simona Brogli La citazione in esergo è tratta da: John Milton, Il Paradiso perduto, Milano, Bompiani, 2009, traduzione di Roberto Piumini © 2014 Editrice Il Castoro Srl viale Abruzzi 72, 20131 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Titolo originale The Trap © Andrew Fukuda 2013 ISBN 978-88-8033-818-5


ANDREW FUKUDA

THE TRAP Traduzione di Simona Brogli



Nel lungo tempo, poi, questi tormenti Possono diventarci naturali, E i fuochi che ci mordono, leggeri Come ora gravi... John Milton, Il Paradiso perduto



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I

l treno arriva in pieno giorno. Il sole, alto nel cielo, brucia il deserto del suo biancore accecante. Solo il nero filamento disegnato dall’ombra del convoglio in movimento macchia questa landa riarsa. Il treno rallenta, la fila dei vagoni che sferraglia come farebbero gli anelli metallici di una catena trascinata. Nessuno dei passeggeri – e sono tanti e sono inquieti e sono in piedi, con la schiena rigida e gli occhi pieni di paura – emette un suono. Un puntolino nero volteggia nel cielo azzurro. È un falco, che fissa incuriosito l’ombra increspata del treno sotto di lui. L’animale stride per la sorpresa quando quella sottile linea nera sprofonda all’improvviso in un’apertura del terreno. Come un serpente che scompare rapido in un buco. Svanito, quasi non fosse mai stato lì. A una quindicina di chilometri di distanza, oltre una serie di basse colline, c’è un gigantesco edificio circolare il cui diametro misura quanto parecchi isolati cittadini. Se ne sta lì, in un silenzio di tomba, circondato quasi completamente da uno stretto bastione. Un obelisco alto e snello si erge al centro dell’edificio. La punta, dotata di finestre, scintilla sotto il sole con il luccichio di una candela accesa. A parte quello, l’obeli7


sco ha lo stesso colore del deserto, come l’intero edificio. Sopra, dentro o intorno al complesso non si muove nulla. Non a quest’ora del giorno. Il falco osserva la costruzione con sguardo gelido e impassibile. Poi, con uno stridio repentino, batte le ali e si allontana.

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P

iombiamo nella galleria. L’entrata si spalanca come una bocca malevola che ci inghiotte con avidità. In un batter d’occhio, il nostro mondo fatto di bianco abbagliante e cieli cobalto viene cancellato da un nero assoluto. Un vento caldo, umido e vischioso come una lingua, si avventa su di noi attraverso le sbarre dei vagoni, aggredisce con le sue folate i nostri vestiti, i capelli, le mani serrate, i corpi accovacciati e tremanti. Sotto di noi, scintille schizzano dalle ruote urlanti del treno in frenata. Siamo tutti catapultati in avanti sul fondo di rete metallica. La paura si leva a ondate ronzanti dai nostri corpi ammassati. Una mano, piccola e appiccicosa per il terrore, stringe la mia. «Non il Palazzo, non il Palazzo, non...», mormora. È una delle ragazze più giovani. Ieri, dopo che Sissy e io ci siamo ripresi dalla trasformazione (sconfitta la febbre infernale, ristabilito il fisico dilaniato), abbiamo detto alle ragazze quale sospettavamo che fosse in realtà la nostra destinazione. Non la Civiltà, quel luogo idilliaco di cui avevano sentito parlare dagli Anziani della Missione, la città in cui milioni di umani affollavano le strade e riempivano stadi, teatri, parchi, ristoranti, caffè, scuole e luna-park. 9


Ma il Palazzo. Dove regna il Governante. Dove, si dice, gli unici umani sono quelli imprigionati nei sotterranei come bestiame nei recinti. E il destino di ciascuno di loro è in balia del vorace e capriccioso appetito del Governante. Per qualche istante, il treno scivola ancora in avanti lungo la galleria prima di fermarsi con un sobbalzo. Nessuno si muove, quasi bastasse un movimento a innescare la prossima serie di eventi indesiderati. «State tutti fermi», bisbiglia Sissy accanto a me. «State molto, molto fermi.» Nei tre giorni e nelle tre notti che abbiamo trascorso su quel treno sferragliante, esposti al vento e al sole, il movimento è stato una compagnia costante. Questa immobilità e questo buio, invece, capovolgono il nostro mondo troppo in fretta e troppo drasticamente. Dallo sportello del vagone risuona un forte scatto metallico. E, per la prima volta da giorni, le porte cominciano a scorrere. Le ragazze più vicine si ritraggono urlando dal varco. Balzo in avanti e afferro una delle sbarre. Mi piego all’indietro, affondando i calcagni, e tento di fermare l’apertura. Avverto al mio fianco la presenza di qualcun altro che contrasta il movimento dello sportello. È Sissy. Per giorni interi abbiamo cercato inutilmente di forzarlo. Ma adesso, in questa galleria buia che può preannunciare una cosa soltanto, tentiamo di chiuderlo. Anche stavolta, però, i nostri sforzi sono vani. Mentre sbuffiamo, i piedi che raspano in cerca di un appiglio, lo sportello si apre e scatta a fine corsa. Nell’oscurità, sento scatti simili riecheggiare per tutta la lunghezza del treno. Ormai le porte di ogni vagone sono aperte e bloccate. Un’ondata di freddo ci travolge. Nessuno azzarda un movimento. 10


«E adesso?» chiede nel buio una voce tremante. «Nessuno si muova!», urla Sissy, a voce abbastanza alta da farsi sentire fino in fondo al treno. «Restate tutti dove siete!» Sento ciocche dei suoi capelli sfiorarmi il braccio. Sta girando la testa da una parte all’altra, cercando di vedere qualcosa, qualsiasi cosa. Ma non vediamo niente. Potremmo benissimo essere sospesi su un abisso nero. Ed ecco perché Sissy ci ha avvertiti di non scendere. Potremmo scivolare lungo un pendio scosceso o anche precipitare in un dirupo. D’un tratto, dalla motrice esplode un forte sibilo che ci fa sobbalzare tutti. Un odore pungente di vapore misto a fumo si diffonde nella galleria, penetrando tra le sbarre come cenere fradicia. Poi cala il silenzio. Ci stringiamo ancor di più gli uni agli altri, in previsione del suono che nessuno di noi vorrebbe sentire. «David», dice Sissy. «Getta fuori una delle lattine di cibo.» Lui ubbidisce. Nell’oscurità, sentiamo la lattina atterrare con un tintinnio metallico su una superficie di qualche genere. Rimbalza due volte, rotola e si ferma. «Restate tutti sul treno!», grida Sissy. «Gene e io andiamo in avanscoperta.» Poi si lascia cadere dall’apertura sul fondo scuro della galleria. La seguo. Il terreno è ghiaioso, scricchiola sotto i nostri piedi. La mia vista si sta abituando al buio e, quando mi giro a guardare il treno, riesco a scorgere le ragazze. Il bianco dei loro occhi brilla leggermente, nella speranza di una parola di rassicurazione. Che non abbiamo. «Vedi qualcosa?», sussurra Epap. «Sissy?» «Aspetta.» Ma lui non la ascolta. Si lascia cadere fuori dal vagone, facendo rumore sulla ghiaia quando tocca terra. Si avvicina a 11


noi con le braccia tese in avanti. «C’è solo una cosa da fare, Sissy. Tornare da dove siamo venuti. Seguiamo i binari a ritroso e usciamo di qui, tutti insieme.» Ma Sissy scuote la testa. «L’accesso alla galleria deve essersi chiuso dietro di noi. Altrimenti entrerebbe luce e saremmo in grado di vederci meglio.» Ha ragione. Alle nostre spalle non si indovina nemmeno un lontano puntino di luce. Epap parla, e la sua voce è carica di paura. «Fa lo stesso. Dobbiamo cominciare a muoverci. Da un momento all’altro, i Tenebridi potrebbero...» All’improvviso, sopra le nostre teste risuona un forte rumore metallico. Sussultiamo tutti. Alcune ragazze si lasciano sfuggire un grido. E a quel punto appare la luce.

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